LA TORRE DI BABELE

LA TORRE DI BABELE

 

 E’ passato sotto traccia, ma da noi avviene sempre più spesso, il discorso che il Papa ha fatto ai vescovi in occasione del Natale. Eppure quanto succede Oltretevere dovrebbe suscitare ben altro interesse perché è in atto un braccio di forza fra conservatori e innovatori, destinato ad influire, nei prossimi decenni, ben oltre la sfera religiosa, anche nella vita civile.

Bergoglio ha colto l’occasione per lanciare in plenaria un severo monito a quanti recaltricitano: le resistenze, ha scandito Bergoglio, sono di tre tipi. Ci sono quelle aperte che nascono spesso dalla buona volontà e dal dialogo sincero. Quelle nascoste dei cuori impauriti o impietriti , le parole vuote del “gattopardismo” spirituale. Ed infine le resistenze malevole, che germogliano in menti distorte e si presentano quando il demonio ispira intenzioni cattive, spesso “in veste di agnelli”, ha scandito: Questo ultimo tipo di resistenza si nasconde dietro le parole giustificatrici e, in tanti casi, accusatorie, rifugiandosi nelle tradizioni, nelle apparenze, nelle formalità, nel conosciuto, oppure nel voler portare tutto sul personale senza distinguere tra l’atto, l’attore e l’azione.

Un attacco duro e circostanziato, rivolto in particolare a quel gruppo di cardinali che hanno apertamente contestato le posizioni del Papa e che spingono senza troppi timori reverenziali perché egli riveda le sue posizioni.

Testa d’ariete dei contestatori è, ancora una volta, il cardinale americano Raimond Burke, uno dei quattro firmatari della richiesta di chiarimenti dottrinali sul documento papale Amoris Laetitia, inoltrata a Bergoglio a settembre.

Una vicenda scivolosa, apparentemente secondaria, che però si trascina tribolata, serpeggiando nel magma dell’opposizione al Pontefice. I quattro cardinali vedendo che il Papa ha scelto di ignorare la loro richiesta di spiegazioni, hanno affidato a Burke l’incarico di inviare una specie di ultimato. Burke intervistato da un sito  americano – Lifesitenews –  ha tracciato un limite temporale oltre il quale, a suo dire, è necessario ottenere risposte.

Si aspetterà fino “a dopo Natale, e qualche tempo dopo l’Epifania”.  Poi solleciterà un chiarimento, con un atto pubblico e ufficiale che potrà spingersi fino alla richiesta di correzione del Papa dei suoi errori dottrinali in materia di fede. Un atto di aperta ostilità, inquadrabile, grosso modo, in uno scontro conservatori-progressisti.

Ricordiamo che i quattro cardinali – Raymond L. Burke, Walter Brandmuller, Carlo Caffarra, Joachim Meisner – avevano formalmente espresso a Francesco cinque “Dubia” (dubbi), che riguardano sia la discussa questione della comunione ai divorziati risposati, sia soprattutto il valore delle norme morali riguardanti la concezione della vita cristiana sui quali si intravedono errori nell’impalcatura della dottrina cattolica.

 L’atto formale di correzione di un Papa è qualcosa di rarissimo nella vita della Chiesa. Pare abbia avuto un solo precedente nel 14esimo secolo, sotto il pontificato di Giovanni XXII, quando questo Papa fu pubblicamente sfidato dai cardinali, dai re, dai vescovi e dai teologi a smentire che le anime dei giusti fossero ammesse alla visione beatifica dopo la morte, invece che insegnare che questa visione è rimandata fino alla risurrezione generale della fine dei tempi.

Cardinale Raymond Burke, statunitense

 In punto di morte il pontefice ritrattò, affermando di essersi espresso esclusivamente come teologo privato, senza impegnare il magistero che comunque deteneva. Benedetto XII (1335-1342), eletto papa dopo la morte di Giovanni XXII, chiuse la questione con una definizione dogmatica.

 Ora si tratta di vedere se l’ultimatum del cardinale Burke è una dichiarazione fatta sopra le righe, oppure se ha veramente intenzione di portare avanti un iter che tecnicamente richiederebbe la totalità dei cardinali e, inevitabilmente, la messa sotto accusa del pontefice per la difesa della retta dottrina.

I quattro cardinali dovrebbero tenere ben presente una cosa che certo non ignorano: la ricchezza di voci, di orientamenti, di opere e testimonianze che arricchiscono la Chiesa devono poter conservare un fattore comune, un baricentro dogmatico che tutto riassuma e governi, pena la dissoluzione. La vera torre di Babele deve ancora venire?

 

 

LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI : COSA VEDEVA ARIOSTO

LE DONNE, I CAVALLIER, L’ARME, GLI AMORI : COSA VEDEVA ARIOSTO

 

Ultimi giorni, fino all’ 8 gennaio 2017 (prorogati fino al 29 gennaio), per fare una bella visita a Ferrara, dove nella prestigiosa sede di Palazzo dei Diamanti è in corso la mostra: Orlando furioso, 500 anni- cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi.

Particolare dell’arazzo dedicato alla battaglia di Roncisvalle, Victoria and Albert Museum Londra

Organizzata da Barbara Guidi per la Fondazione Ferrara Arte e patrocinata dal MIBACT, al di là del valore delle singole opere esposte, la mostra si distingue per la formula originale: riunire a 500 anni dalla pubblicazione del poema dell’Ariosto L’ Orlando Furioso dipinti, arazzi, libri, armi, strumenti musicali, oggetti preziosi, che circondavano il poeta e la corte estense nei giorni in cui il poema cavalleresco, che affascinò subito i contemporanei, in Italia e all’estero, prendeva forma.

Nel catalogo, curato da Giudo Bergamini e Adolfo Tura, si legge: “A partire dai temi salienti del poema, la ricerca condotta in occasione della mostra è stata indirizzata all’individuazione puntuale delle fonti iconografiche, note all’Ariosto o coerenti con la tradizione figurativa e lui familiare, che ne hanno ispirato la narrazione.”

Il poema e le gesta che vi si narrano, sono il perno attorno a quale la mostra si svolge, l’itinerario è ordinato per sezioni tematiche, in cui si alternano i temi delle battaglie, l’elegante vita cortese, il fascino per i viaggi, l’epica dei condottieri leggendari o realmente vissuti. In tutto un’ottantina di opere, alcune delle quali sono assoluti capolavori, che solo loro meritano una visita.

Andrea Mantegna, particolare de Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù, Louvre Parigi

A cominciare dalla copia più antica conservata dell’Orlando innamorato, romanzo del Boiardo pubblicato sempre a Ferrara 30 anni prima del 1516, accanto alla specchiera istoriata con l’emblema di Alfonso I d’Este. Proseguendo nella visita, protetto in una teca, potrete vedere il finissimo olifante in avorio del XI sec. che la leggenda vuole risuonasse durante l’epico scontro fra il paladino Orlando e un manipolo di saraceni. Vicino potrete ammirare, un disegno di Leonardo da Vinci proveniente dalla collezione reale d’Inghilterra, che rappresenta una battaglia con cavalli e elefanti, l’unica rimasta del grande maestro rinascimentale.

Andrea Mantegna, particolare, Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù, Louvre Parigi

La stessa battaglia di Roncisvalle è riprodotta in un bellissimo arazzo, datato 1475-1500 proveniente dal Victoria Albert Museum di Londa. Lo stato di perfetta conservazione ne permette l’analisi dei dettagli: dalla ricchezza delle armature, delle bardature e degli scudi, all’estremo verismo di gesti ed espressioni che restituiscono, superando la rigidità delle trame, il dinamismo e il vigore guerresco.

Seguono nella 4 e 5 sala tre capolavori: il ritratto di Leonello d’Este del Pisanello;  l’opera del Mantegna Minerva che scaccia i Vizi dal giardino della Virtù, proveniente dal Louvre; il ritratto di Tommaso Inghirami di Raffaello.

Andrea Della Robbia, su disegno di Andrea Verrocchio, Scipione l’Africano.

Nella sale successiva, degna di nota su tutte, è la terracotta invetriata della bottega di Andrea Della Robbia. Vi si raffigura di profilo, su disegno di Andrea Verrocchio, Scipione l’Africano. Eseguita nei primi anni del XVI sec. la terracotta è quanto di più perfetto ci possa essere per rappresentare l’ideale di bellezza rinascimentale.Il viso purissimo, insieme virile e delicato, contornato di un festone di foglie, rami intrecciati e frutti, l’elmo elaboratissimo, sormontato da un drago alato, da cui sporgono boccoli di cappelli, i ricchi paramenti che spiovono dalle spalle. Un capolavoro irripetibile.

Non potevano mancare opere ispirate direttamente al mondo dei maghi e degli incantesimi. L’atmosfera  favolistica che permea le pagine del poema ariostesco è rievocata dalle opere esposte nelle sale 7 e 8. 

Non dimentichiamo che i tempi dell’Ariosto sono quelli che seguono la scoperta dell’America e dei viaggi di Amerigo Vespucci. I resoconti di quei viaggi, che riferivano di terre misteriose e meravigliose, attiravano molta curiosità e sono stati certamente letti dall’Ariosto, la cui fantasia trovò così modo di alimentarsi.

Lettera autografa di Isabella d’Este nella quale si elogia l’Orlando Furioso lettogli da Ariosto

Il poema nella sua fase di gestazione fu letto dall’Ariosto alla corte estense. Ne fa fede la lettera esposta in mostra di Isabella d’Este nella quale la “suprema fra le donne” manifesta il piacere che la lettura le aveva procurata. Il poema fu finito di stampare nell’officina Mazzocchi di Ferrara il 22 aprile 1516. Ebbe subito una rapida diffusione e gradimento unanime. Nella mostra lo testimonia, fra le altre, una lettera di Niccolò Macchiavelli. L’Ariosto non smise mai di rielaborare il testo dell’Orlando, la cui terza e ultima versione è datata 1532, pochi mesi prima della sua morte. Il mondo intorno a lui è nel frattempo cambiato: pochi anni prima nel 1525 Francesco I viene sconfitto e inizia l’egemonia sulle corti padane degli spagnoli di Carlo V. Nelle terza versione, sottoposta a una intensa revisione linguistica, l’eco di queste vicende si fa sentire. Il nuovo corso delle arti figurative, detto Maniera, è ricordato nella mostra con lavori di Sebastiano del Piombo, e dalla copia di Leda e il cigno di Michelangelo Buonarroti, attribuita a Rosso Fiorentino.

La mostra si chiude con l’esposizione di una copia del Don Chisciotte del Cervantes, altro ammiratore del poema ariostesco, che con la sua opera rese omaggio al precursore riconoscendone la grandezza.

Immagine in evidenza: Giorgione,Ritratto di guerriero con scudiero, detto  “Gattamelata”

Il 500simo del poema è stato ricordato anche a Villa d’Este in Tivoli (RM) con la mostra I voli dell’ariosto di cui potete vedere qui sotto il filmato.

 

 

 

 

 

 

LE PERLE DI VETRO

LE PERLE DI VETRO

 

AUGURI ! BUON NATALE E FELICE 2017

 

Ai lettori quale migliore augurio per l’anno nuovo di una poesia. E’ di Herman Hesse ed è in chiusura del suo libro Il giuoco delle perle di vetro. Hesse è stato premio Nobel e l’autore del più famoso Siddhartha. Morì nel 1962 al termine di una vita lunga e travagliata. Dietro le orme di uno zio, profondo studioso dell’Oriente, fu attratto fin da ragazzo dai temi fantastici, pittoreschi, dal fascino dell’occulto e dell’esoterico. La poesia non solo riassume il libro, ma è la sintesi della sua concezione di vita e il testamento spirituale.

 

 

 

Quando la vita chiama, il cuore sia pronto a partire e a ricominciare,

per offrirsi sereno e valoroso ad altri, nuovi vincoli e legami.

Ogni inizio contiene una magia che ci protegge e a vivere ci aiuta.

Dobbiamo attraversare spazi e spazi senza fermare in alcuni di essi il passo.

Lo spirito universale non vuole legami, ma di grado in grado sollevarci.

Forse il momento stesso della morte ci farà andare incontro a nuovi spazi:della vita il richiamo non ha fine.

Su, cuore mio, congedati e guarisci!

Allarmi, lo Straniero è alle porte!

Allarmi, lo Straniero è alle porte!

 

Allarmi, lo Straniero è alle porte! Dopo l’insediamento del governo Gentiloni, un fremito scuote la Penisola: ci stanno comprando a pezzi, poco alla volta. Sono lustri che va avanti, è intollerabile, signora mia.

 

 

Il riccioluto e bocconiano (nel senso di laureato all’università Bocconi) Mario Seminerio, che nel suo profilo f.b. pudicamente nasconde l’età come le signore, è un economista puntuto, specializzato in finanza internazionale, collaboratore dell’Istituto Bruno Leoni. Giornalista pubblicista, è stato editorialista di Libero Mercato, collabora o ha collaborato con Liberal Quotidiano, Il Foglio, Il Fatto Quotidiano, Il Tempo, Linkiesta. Cura un suo blog che si chiama Phastidio (ch’ è tutto dire).

Fabrizio Rondolino sull’Unità fa un ritratto degli economisti ritagliato esplicitamente su misura per Seminerio:

“L’espressione del volto è sempre molto preoccupata, i sorrisi sono rigorosamente banditi, gli occhi sempre segnati da occhiaie profonde che testimoniano anni di studio matto e disperatissimo, il tono della voce è calmo quanto spietato, la parlantina sciolta e inarrestabile nello snocciolare miriadi di dati, percentuali e numeri che nessuno naturalmente è in grado di verificare ma che intontiscono l’interlocutore fino allo sfinimento. Il modulo retorico degli economisti da avanspettacolo è duplice e ben collaudato: da un lato, si affastellano previsioni fosche, apocalissi imminenti, spietate catastrofi; dall’altro, si indicano le soluzioni alternative, di cui l’economista di turno è il solo depositario. “Stiamo correndo verso il disastro – questo lo schema immutabile – ma se fate come dico io ci salveremo”.

La prosa di Mario Seminerio è asciutta e piacevole, esagerata quanto basta, ma circostanziata, e suggerisce riflessioni che aiutano a capire il nostro Paese.

 

Allarmi, lo Straniero è alle porte! Dopo l’insediamento del governo Gentiloni, un fremito scuote la Penisola: ci stanno comprando a pezzi, poco alla volta. Sono lustri che va avanti, è intollerabile, signora mia.

Ora è la volta di Mediaset, il “patrimonio del paese” di dalemiana memoria, sotto attacco di un pirata bretone che di fatto si è già mangiato Telecom Italia, la sciagurata “privatizzazione” dell’era Prodi passata per la merchant bank dalemiana (corsi e ricorsi) e molti cambi di mano sempre col denominatore comune del “bambole, non c’è una lira”.

Oltre ad innumerevoli altri esempi degli ultimi anni, come Parmalat. Eppure, non è difficile da capire: siamo un paese senza capitalisti né capitali. E da molti anni votato al declino.

Mediaset è un’azienda che rischia di essere troppo piccola per l’evoluzione tecnologica globale, che va verso l’integrazione sempre più spinta tra piattaforme e contenuti. Dopo decenni passati nel confortevole duopolio con la Rai, e dopo essere stata indebolita da Sky, che ha deragliato Mediaset Premium, si avvicina il tempo delle scelte. Quando non si ha la massa critica per reggere investimenti in nuove tecnologie, si possono tentare alleanze.

Che gli alleati, ad un certo momento, ipotizzino di prendersi tutto il piatto, fa parte degli eventi della vita. Ma il punto vero è un altro: il nostro è un paese in cui i capitalisti non hanno capitale, da sempre, e preferiscono intessere rapporti malati con la politica e le banche, in chiave protezionistica. Saltata la protezione delle banche, la politica è finita con le spalle al muro.

Quanti tra voi ricordano il modo in cui Fiat “prosperava”, in Italia? Giovanni Agnelli trattava coi governi di turno la protezione sul mercato domestico. Il suo implacabile mastino, quello che spingeva il governo italiano a battersi come un leone in Europa per frenare le importazioni di auto giapponesi, attraverso i contingentamenti, era Cesare Romiti.

I sindacati erano al fianco della casa reale di Villar Perosa, senza pensare che l’apertura del mercato avrebbe permesso di portare altri costruttori in Italia, come accaduto in altri paesi europei, dove notoriamente la schiavitù è regola di vita. Meglio allora le pratiche collusive sindacati-imprese-governo romano, che aprirsi alla competizione. Da lì discese l’iper-normazione socialista che caratterizza questo disgraziato paese, che da sempre opera febbrilmente per creare un ambiente tossico per lo sviluppo dell’impresa.

Un balzo ai giorni nostri, ed ecco l’eterno ritorno: Alitalia che non doveva andare ad Air France, “altrimenti i turisti esteri diretti in Italia verrebbero dirottati nella Valle della Loira“. Forse dovremmo dare il Cavalierato a Michael O’Leary di Ryanair: ha fatto più lui per favorire i flussi turistici internazionali in questo paese che ministeri ed improbabili “Enti per il turismo”, nati morti e la cui decomposizione procede serenamente. Come quella del sistema-paese, del resto.

Ma è mai realmente esistito, il sistema-paese Italia? Si, ma ha avuto un’unica missione: quella di autodistruggersi nel suo socialismo surreale e capitalismo di debito, con i governi a fare da mediatori o più spesso da faccendieri. Voi ricordate le leggendarie sinergie tra Alitalia e Poste italiane, vero? Chiusura dopo chiusura, protezione dopo protezione, abbiamo plasmato un paese incapace a competere. Ma anche un paese ostile all’investimento diretto estero, per sostituire gli inetti “capitalisti” domestici. Forse era fatale, visto che ormai siamo definiti essenzialmente come un paese di consumatori anziani.

Volete un altro plastico esempio? Il settore bancario italiano. Chiuso al mondo (la “foresta pietrificata”), controllato dalla politica mediante il sistema delle fondazioni, perennemente a corto di capitali, con gruppi di controllo divenuti comitati d’affari localistici oppure parte della costellazione di potere oligarchico nazionale. Quando l’habitat ha iniziato a divenire ostile, richiedendo sempre maggiore capitale, dopo una crisi devastante ma che soprattutto ha messo a nudo prassi di concessione del credito non particolarmente avvedute (per usare un understatement), ecco che è scattata la reazione difensiva dei gruppi di controllo: mettere titoli computabili come capitale (i subordinati) nei portafogli dei risparmiatori, pagando il meno possibile. La vigilanza, come l’intendenza, ha seguito, ed ora siamo a questo punto.

Problema sofferenze: anche qui, la soluzione sarebbe semplice: mancano i capitali domestici? Li si va a cercare dove ci sono, fuori dal paese. Che implica, questo? Una cosa terribilmente semplice: che esiste un prezzo per ogni cosa. Quindi, spazio a chi ha soldi per comprare le sofferenze al “suo” prezzo, cioè molto basso. Il successivo buco di capitale della banca può essere colmato con un aumento destinato al fondo “avvoltoio”. Il quale comprerebbe un “pacchetto”: la redditività bassa ma stabile della banca commerciale più quella potenziale molto elevata delle sofferenze.

Troppo cinico? Forse, ma vale il solito Articolo Quinto: chi mette i soldi sul tavolo ha vinto. Invece, quello a cui assistiamo è un gigantesco gioco a somma negativa, dove la difesa delle sedicenti “élites” al comando finisce a scavare la fossa all’intero paese. E giù le mani dalle nostre sofferenze bancarie: le abbiamo fatte noi, col sudore della nostra fronte e l’incapacità collusa e spesso criminale dei nostri banchieri. La crisi di un paese che attende che il proprio destino si compia ha fatto il resto.

Non stiamo assistendo ad una sceneggiatura originale ma all’ennesimo remake. Solo che, in un paese privo di memoria storica, a nessuno viene in mente di unire i puntini attraverso i decenni. Per fortuna, come ben si addice ad un paese malato di socialismo, abbiamo sempre il tic della “protezione” a soccorrerci. La narrativa del rapimento oltre confine ha sempre il suo fascino: dai turisti al risparmio. Poi ci sono anche quelli che “se avessimo una nostra moneta, non accadrebbe”.

In effetti, se andassimo avanti a colpi di svalutazioni competitive (che competitive non erano, ma solo l’adeguamento “a scatti” alla costante perdita di competitività di un sistema-paese già all’epoca incapace di adattarsi all’ambiente esterno), alla fine qualcuno da fuori potrebbe arrivare a comprare i nostri gioielli per un tozzo di pane. Ma a quel punto noi interverremmo con la clausola dell’”interesse nazionale”, e bloccheremmo ogni scalata straniera.

Come dite? Con quali soldi finanzieremmo gli investimenti, in quel caso? Con le stampanti, che domanda. Mai come nel caso italiano appare chiaro che il patriottismo, nella sua versione applicata all’economia, è l’ultimo rifugio di oligarchi-canaglie e di falliti. Perché è sempre e comunque un complotto esterno: tedeschi, francesi, romulani, vulcaniani. E su questo complotto, generazioni di editorialisti costruiscono la loro sussidiata carriera. Quanto sarebbe più semplice leggere tutte queste vicende in un modo solo: siamo un paese inadatto alla competizione internazionale. Ogni apertura è una crepa nel nostro edificio. Il nostro modello finirà ad essere la Corea del Nord.

Per tutti questi motivi, permetteteci di dirlo chiaro e forte: Mediaset è sotto minaccia dello Straniero? E

chissenefrega. Firmato: un cittadino-contribuente che ne ha piene le palle. Da molto tempo.

 

Da www.phastidio.net , blog a cura di Mario Seminerio

RAVO

RAVO

 

L’ARTE CHE SI AVVICINA  ALLA GENTE, NE SCANDISCE I PASSI, NE COGLIE GLI UMORI, LA RICHIAMA AL BELLO- CON RAVO, GIOVANE ARTISTA DI STRADA , NASCE A COSTO ZERO UNA PINACOTECA  A CIELO APERTO.  

 

 

Doveva succedere, prima o poi, ed è successo. In alcuni articoli sulla street-art  qui pubblicati l’avevo previsto, o intravisto. Già Kentridge quest’estate a Roma con l’intervento sulle sponde del Tevere lo faceva presagire. Il museo dal Palazzo va sulla strada, sotto i ponti, tra i vicoli. D’ora in avanti nessuna reverenza o inibizione, ma rovesciamento di canoni e valori per un’arte fra la gente e non solo per élites e pochi privilegiati. L’opera di Ravo è più rivoluzionaria di quella di Banksi, di A-One o di Cane Morto, per citare alcuni degli artisti murali. Essa non vagheggia di somigliare all’arte ufficiale, a quella appesa, per intenderci, manovrata dai critici e galleristi, sistema dell’arte speculativo che condiziona le aste, e attraverso una manipolazione precisa riesce a fare alzare i prezzi delle opere. Ravo, come dice nell’intervista qui sotto, ripercorre le orme dei grandi artisti del passato, partendo dall’idea che il bello è intramontabile e che è, e deve tornare a essere, di tutti.

Anche in questo caso vale la pena di sottolineare la sostanziale differenza di significato delle opere di Ravo rispetto alle opere museali: il loro linguaggio racconta la globalizzazione, e le sottrae dal rischio della irrilevanza fuori dal loro contesto di origine. Richiamandosi alla vita di tutti i giorni, a ciò che avviene per strada, queste opere hanno il pregio di essere capite da tutti, non necessitano di mediazioni, né aggiunge qualcosa al loro valore il nome dell’autore, spesso ignoto, se non colto durante l’esecuzione stessa dell’opera. L’opera si offre anonima ma ricca di senso e aperta nel significato, facendole vivere la trasformazione che potenzialmente racchiude. In questo, credo, sta il tratto distintivo della street-art: più che nella sua genesi nel suo destino, che è destino di fruizione e di intreccio con la cronaca prima che con la storia. Un’arte diffusa sul territorio, che si alterna con i fatti della quotidianità urbana e la ravviva di colori e di significati, si insinua fra impegni e lavoro, nel traffico e nei vicoli, fra un bar e un ristorante, riscrive le piazze, diventa una icona più della Los Angeles di Friedkin, più di Penny Lane a Liverpool o il Chelsea Hotel di New York, o via Montenapoleone a Milano o via Condotti a Roma.

Ma su Ravo eccovi l’articolo di Paolo Berizzi per Repubblica.

 

“Ravo” è pazzo o c’è un pazzo che si crede “Ravo”? Uno che con le bombolette spara i quadri di Caravaggio sui muri delle città, nel ventre dei cavalcavia, sui piloni di cemento, nei parcheggi degli aeroporti. Uno che dice: «Trasformerò le strade italiane, e non solo quelle italiane, in un grande museo diffuso. Perché l’arte deve essere di tutti, e per tutti».

Andrea Ravo Mattoni è l’evoluzione “colta” del graffittaro 2.0: sulle tele urbane una volta disegnava i “puppet”. Poi ha deciso che lo spray era meglio usarlo per riprodurre le grandi opere dei classici: Caravaggio, Botticelli, Veronese, Piero della Francesca. Il che gli sta valendo la patente di artista “riconosciuto”. «Sì, finora sui muri ho fatto tanto Caravaggio. Sono lombardo come lui. E gli artisti li scelgo in base al territorio dove vado a lavorare ».

“Ravo” non è né acronimo né ologramma: 35 anni, da Luvinate che è il paese di famiglia. Figlio e nipote di artista. «Papà Carlo faceva arte comportamentale; mio nonno — prigioniero 7 anni in un campo in Africa — dipingeva i guerrieri Masai. Zio Alberto era illustratore». Di questo promettente albero genealogico Ravo jr ha espiantato e reipiantato la radice: ne è venuta fuori una strana declinazione di “arte pubblica”, street. I murales dei classici. Una specie di post-madonnaro. «La nostra pop art sono il ‘400, il ‘500, il ‘600. Gli Usa hanno Warhol, noi Caravaggio».

L’ultima opera di Ravo è la “Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi” — uno dei più celebri dipinti di Michelangelo Merisi. Impreziosisce un muro di San Salvatore di Fitalia, provincia di Messina. È lì che nel ‘69 il quadro fu trafugato ed è lì che il graffittaro lo fa rivivere adesso: «Tutti lo possono ammirare. Gratis…». Il concetto del “tutti” e del “gratis” è centrale: «Non faccio concorrenza ai musei. A chi vede i miei murales magari viene voglia di andare a vedere l’originale ». C’è chi vorrebbe e non può. «La mia idea è: dare a tutti l’opportunità di conoscere l’arte. A costo zero. Renderla pubblica».

Il giochino funziona e infatti Andrea Ravo Mattoni, per star dietro alle richieste di Comuni, aziende, privati cittadini, si è preso dei collaboratori. «Vado dove mi chiamano. Per un’opera mi occorrono 4-5 giorni. Ma non tutti i quadri sono riproducibili con la bomboletta: dipende dallo stato di conservazione. Ci vuole una buona foto. Per dire: l’Ultima Cena di Leonardo è impensabile ».

La storia di Ravo inizia da uno strappo. «Al secondo anno di liceo artistico a Varese mi bocciano. Decido di fare il perito elettronico». Poi arriva l’Accademia di Brera e, nel 2003, l’idea di una factory con due amici. «Sono un writer anomalo. Mai fatto graffiti dove non si poteva. Mi interessava tenere una linea». La retta sparisce e poi ritorna ed è sempre la stessa: la bomboletta. «A Brera decido di smettere di usarla. Era il 2001-2002. Volevo fare un percorso di arte neoclassica: solo pennello. Il mondo dei graffiti mi sembrava limitato ».

L’arte, anche quella di strada, si evolve. «Nel 2010 riprendo in mano la bomboletta. Riparto da quello che facevo su tela: i classici». Sostiene Ravo che viviamo in una società satura di immagini. «Per questo ho voluto pescare dal passato. È da lì che tutto arriva ». La prima performance a Varese, ad aprile: la “Cattura di Cristo”. Caravaggio a spruzzo sotto un pilone di cemento. Poi la bomboletta si sposta nell’area di sosta dell’aeroporto di Malpensa: lo chiamano per decorare una parete di “Parking go” con il (sempre caravaggesco)“ Riposo durante la fuga in Egitto”.

È il “suo” classico, Merisi. E siccome Caravaggio visse e produsse anche a Messina, l’ultima “commissione” arriva da là: ecco, dunque, la “Natività”. «In mezzo ci ho messo la Sardegna: all’aeroporto di Olbia Costa Smeralda ho riprodotto “La prova della vera croce” del Maestro Ozieri» (sardo).

Chi sarà il prossimo committente? «Mi chiamano anche dall’estero — dice Ravo — . Il mio sogno? Realizzare il più grande museo diffuso al mondo. Un’enorme pinacoteca a cielo aperto che riproduca le grandi opere dei nostri classici ». Follia? «Macché. Scusate, qual è il modo migliore per esportare la nostra arte nel mondo?».

Paolo Berizzi per la Repubblica 15 12 2016

 

Contact Us