MARE MOSTRUM

MARE MOSTRUM

A VACANZE FINITE, PARLIAMONE: MEDITERRANEO UN MARE DI GUAI: TRAFFICATO, SPORCO E TROPICALE

Crocevia di navi e idrocarburi. Inquinato da sversamenti e petrolio. Surriscaldato dai cambiamenti climatici che provocano l’arrivo delle specie di pesci “aliene”. Tutti i problemi delle nostre acque salate.

Abbiamo ancora tutti in mente le inquietanti immagini dello sbiancamento della grande barriera corallina in Australia, considerata dai biologi marini un malato terminale ucciso dall’aumento delle temperature. Con uguale apprensione, abbiamo seguito le sorti di “Larsen C”, un iceberg grande come la Liguria (5.800 chilometri quadrati) che tra il 10 e il 12 luglio 2017 si è staccato dalla placca ghiacciata dell’Antartide, sempre per lo stesso motivo.

FREQUENTI ALLARMI APOCALITTICI. Nei giorni in cui gli scienziati di 13 agenzie federali statunitensi hanno deciso di scrivere al presidente Donald Trump di ripensare alle politiche sul clima, perché alla base dei gravi sconvolgimenti climatici ci sarebbe l’uomo, viene allora da chiedersi in quali condizioni versi il mar Mediterraneo. Non c’è onlus o gruppo ambientalista che dirami, a cadenza quasi quotidiana, un comunicato stampa apocalittico. Ma è davvero così?

DIFFICILE FAR ACCORDARE 24 PAESI. Sono numerosi i problemi del “mare nostrum”, come lo chiamavano gli antichi Romani. E in effetti ce ne siamo appropriati, lo abbiamo sfruttato senza alcun rispetto come se davvero ci appartenesse, e ora le generazioni future rischiano di pagarne le più salate conseguenze, nel disinteresse dei governi. Del resto sarebbe difficile trovare un accordo tra i 24 Paesi che, dall’Europa al Nord Africa, da Gibilterra alle coste del Peloponneso, vi si affacciano.

1. Eccesso di via vai: sullo 0,8% dei mari il 25% del traffico mondiale di idrocarburi

Il Mar Mediterraneo visto dal satellite è poco più di una pozzanghera. Rappresenta lo 0,8% dei mari del mondo. Eppure, sulle sue acque insiste il 25% del traffico mondiale di idrocarburi. Solo dal Medio Oriente e dal Caucaso, ogni anno, arrivano 360 milioni di tonnellate di greggio e derivati. Ma c’è di più: oltre i due terzi delle petroliere che solcano il mare nostrum fanno rotta altrove, non verso gli 82 porti che si affacciano sul Mediterraneo.

RIGIDITÀ USA SULLE PETROLIERE. Perché? Il problema, ben noto alla Commissione europea, riguarda le politiche statunitensi. A seguito dell’incidente della petroliera Exxon Valdez del 1989 avvenuto di fronte alle coste dell’Alaska, gli Usa hanno adottato l’Oil pollution act (Opa 90). Questa legge ha imposto unilateralmente l’obbligo del doppio scafo tanto per le petroliere nuove quanto per quelle esistenti.

NAVI CISTERNA MALANDATE. L’Organizzazione marittima internazionale (Imo), agenzia specializzata delle Nazioni unite, ha dovuto conformarsi e, nel 1992, ha introdotto norme relative al doppio scafo nella Convenzione internazionale sulla prevenzione dell’inquinamento causato dalle navi (Marpol). L’acquisto di nuove petroliere richiede investimenti esosi, e convertire le vecchie non è più economico, così la maggior parte delle compagnie ha preferito continuare a solcare i mari con navi cisterna malandate, allontanandosi dalle coste Usa e tracciando altre rotte.

2. In caso di incidente, le compagnie non pagano quasi mai

Quando una nave cola a picco e sversa in mare tonnellate di greggio, in base ai protocolli dell’Imo è possibile chiedere all’armatore al massimo 80 milioni di dollari a titolo di risarcimento. Il resto, almeno in linea teorica, può essere coperto dal Fondo di compensazione per l’inquinamento da petrolio, finanziato dai Paesi che lo producono e trasportano e, naturalmente, dalle assicurazioni.

ASSICURAZIONI AMERICANE COSTOSE. Non sempre, però, i danni ambientali vengono riconosciuti e quantificati. Nel disastro della Exxon Valdez, la compagnia – una delle più grandi e ricche – versò a stento 2,5 milioni di dollari agli Usa. Ecco perché sempre Washington ha imposto agli armatori di dotarsi di assicurazioni ulteriori che potessero coprire tutti i danni ambientali. Visti i rischi e i premi assicurativi multimilionari, si tratta di assicurazioni assai costose.

BOMBE ECOLOGICHE TUTTE DA NOI. L’atteggiamento sempre più ostile degli States nei confronti delle petroliere ha via via ridotto il traffico di idrocarburi nelle acque di loro competenza, aumentandolo esponenzialmente altrove, così come è aumentato il rischio di inquinare mari più piccoli e chiusi, Mediterraneo incluso. L’Unione europea e l’Italia sono intervenute con legislazioni apposite, ma, come si ricordava prima, sul Mediterraneo si affacciano anche altri Paesi che consentono ancora oggi il passaggio alle carrette del mare, pericolose bombe ecologiche sul punto di esplodere.

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La Exxon Valdez, protagonista di un disastro ambientale in mare.

3. Petrolio: ogni anno rilasciate tra le 100 e le 150 mila tonnellate di idrocarburi

Secondo i dati riportati dal Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), ogni anno nel mare african-europeo vengono rilasciate tra le 100 e le 150 mila tonnellate di idrocarburi. Negli ultimi 40 anni, ovvero da quando sono iniziati i monitoraggi, si stima che al largo delle coste europee siano state sversate, a causa di incidenti, non meno di 600 mila tonnellate di petrolio.

INCIDENTI SPESSO INSABBIATI. Dal 1990 al 1999 gli incidenti resi noti alle autorità portuali sono stati circa 250. Ma un buon numero potrebbe essere passato sotto silenzio, visto che spesso si tende a insabbiare tutto per evitare l’apertura di inchieste e il rischio di dover pagare multe salate.

GENOVA, ZERO RISARCIMENTI. Tutti ricordano il disastro della liberiana Haven, incendiata e colata a picco nel 1991 davanti a Genova, con un carico di 144 mila tonnellate di petrolio finito nel Mar Ligure. In quel caso la compagnia non risarcì al nostro Paese nemmeno una lira a titolo di danni ambientali, e così fece il Fondo di compensazione, che non riconobbe il danno senza peraltro che venissero sollevate obiezioni da parte del nostro governo.

IL MARE PIÙ OLEOSO AL MONDO. Sempre secondo l’Unep, il nostro è il mare più oleoso al mondo: per quantità di “catrame pelagico” battiamo di tre lunghezze il Mar dei Sargassi, altro malato storico, e di 10 la media di tutti i mari aperti.

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A causa di incidenti, sono stati sversati in mare non meno di 600 mila tonnellate di petrolio.

4. Trivelle: più rischi per salute e ambiente che benefici

E poi ci sono le trivelle che ben conosciamo, dato che sono state oggetto di un referendum il 17 aprile 2016 fallito per mancato raggiungimento del quorum. Il rapporto del Wwf “Progetto Medtrends, tendenze dei potenziali impatti ambientali e conflitti nei mari italiani”, prendendo in considerazione solo le 88 trivelle entro le 12 miglia marine interessate dal referendum ha dimostrato come, a fronte dei benefici economici derivanti dall’estrazione del petrolio, ci sono diversi pericoli:

  1. Si mette a rischio il settore turistico-costiero, che rappresenta da solo il 35% del terziario;
  2. Si espone anche la salute del 30% della popolazione italiana, che vive in comuni sul mare;
  3. Ci sono pericoli per la tenuta di attività come l’itticultura in rapido sviluppo;
  4. Sul fronte ambientale, è a rischio la sopravvivenza di 3 mila chilometri di costa e 27 aree marine protette e 2 parchi sommersi che tutelano 228 mila ettari di acque.

Più rischi che benefici, insomma. E si parlava, appunto, delle sole trivelle italiane.

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Le trivelle sono state oggetto di referendum in Italia nel 2016.

5. Una discarica a cielo aperto: acque reflue e scarichi illegali

Ma gli idrocarburi non sono l’unico veleno che finisce in mare: acque reflue e scarichi illegali industriali sversano ogni anno nel Mediterraneo milioni di tonnellate di agenti altamente inquinanti. E poi ci sono i rifiuti, che galleggiano e formano isole. All’inizio di luglio 2017 si è conclusa la missione dei ricercatori Jacopo Pulcinella e Valentina Corrias, coordinati da Antonello Sala, dell’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Ismar – Cnr) di Ancona, condotta a bordo della nave da crociera Costa Luminosa per svolgere attività di monitoraggio di specie marine considerate a rischio.

IN 50 ANNI PERSO IL 41% DEI MAMMIFERI. Il team è partito dal porto di Venezia toccando Trieste, Dubrovnik, Corfù, Katakolon e Mykonos: una rotta che ha attraversato l’Adriatico, lo Ionio e l’Egeo consentendo di testare lo stato di salute del Mediterraneo orientale. Secondo i ricercatori del Cnr bisogna tener presente che «negli ultimi 50 anni il Mediterraneo ha perso il 41% di mammiferi marini e il 34% delle quantità totale di pesce». Durante il loro viaggio, gli scienziati hanno registrato e campionato le masse di rifiuti galleggianti: dai loro dati sembra che il Mediterraneo orientale abbondi per esempio di polistirolo.

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Gli sversamenti illegali sono uno dei problemi del mar Mediterraneo.

6. Cambia il clima: arrivano le specie di pesci “aliene”

E poi ci sono naturalmente i problemi derivanti dall’aumento delle temperature. Il nostro è un mare piccolo e chiuso, quindi risente più di altri ecosistemi anche delle più tenui variazioni climatiche.

AUMENTO ANOMALO DELLA TEMPERATURA. Negli ultimi cinque anni la temperatura è cresciuta in media di circa mezzo grado. Il 22 giugno 2017 alle ore 13.30, registrando un valore pari a 25,2 gradi, la boa di Capo Mele, nel Savonese, ha certificato un aumento anomalo della temperatura di circa sei gradi sulle medie del Mar Ligure. A inizio agosto il Gruppo di ricerca di oceanografia dell’Università di Malta ha reso noto che la temperatura dell’acqua attorno all’isola era, in più punti, superiore ai 30 gradi, in costante aumento dagli Anni 70 a oggi.

COSÌ POTREBBE DIMINUIRE LA PESCOSITÀ. La “febbre” del Mediterraneo potrebbe portare, nel lungo periodo, a una diminuzione della pescosità, dato che le acque hanno già iniziato un processo di acidificazione e a un aumento di fenomeni temporaleschi eccezionali, come piccoli uragani e tifoni. Ma, intanto, ha già causato l’arrivo di specie “aliene”, provenienti da mari ben più caldi del nostro.

ANIMALI VELENOSI E MORTALI PER L’UOMO. Il temuto leone zebrato (Pterois miles), velenoso e potenzialmente mortale per l’uomo, è tipico del Mar Rosso, ma sembra trovarsi benissimo ormai anche lungo i litorali siciliani. A Portofino invece è arrivato un turista d’eccezione: il Percnon gibbesi, un granchio classico del Brasile e della Florida. Mentre in Puglia è stato avvistato il pesce palla argenteo (Lagocephalus sceleratus), velenoso persino dopo la sua cottura.

ARRIVANO TRAMITE ACQUE DI ZAVORRA. Molti di questi animali sono giunti nel Mediterraneo tramite le acque di zavorra delle grandi navi commerciali. Solo dall’8 settembre 2017 entra in vigore la convenzione Imo, che rende obbligatorio il trattamento delle acque a bordo. Ma, intanto, il danno sembra già stato fatto se si considera che, delle oltre 830 specie invasive segnalate nel Mediterraneo, 600 vi si sarebbero stabilite in modo permanente.

Articolo di Carlo Terzano per www.lettera43.it/it/

 

IL “BALLO” DI SAN VITO

IL “BALLO” DI SAN VITO

 

NUOVE CURE PER UNA NUOVA SCIENZA- CONDIVISIONE E ACCESSIBILITA’ DEL SAPERE CAMBIANO IL RUOLO DEL RICERCATORE, CHE ORA OPERA E VIVE OLTRE I CONFINI DEL LABORATORIO- LE RISPOSTE DELLA SCIENZA HANNO UNA DIMENSIONE GLOBALE CHE ESIGE EQUITA’ DI DIRITTI E OPPORTUNITA’.

 

La scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo

Dall’ 1 al 3 settembre si terrà a Sarzana il Festival della mente, dedicato alla creatività e alla nascita delle idee. Elena Cattaneo, scienziata e senatore a vita, aprirà la manifestazione venerdì 1° settembre con una lectio magistralis dal titolo “Le reti che fanno bene alla scienza”. Sul tema, Elena Cattaneo ha scritto questo articolo apparso sul Domenicale del Sole 24 ore, di cui pubblico la sintesi.

Sarzana, La Spezia. Festival della Mente

“ Ogni nuova scoperta scientifica trova senso nella sua condivisione e accessibilità. L’immaginazione dello scienziato incurante del mondo esterno, seppure diffusa, dice ben poco del vero ruolo dello studioso. Oltre il laboratorio esistono infatti reti di comunicazione e di fiducia, nella scienza e con la società. Sono reti spesso invisibili, difficili da raccontare tanto sono intrecciate e tortuose, ma sempre logiche. Reti che possono portare in luoghi della terra mai visitati prima, dove studiosi che non conosciamo ancora sono pronti ad accoglierci solo perché le loro scoperte (o le nostre) diventate pubbliche, hanno fatto nascere un’idea, teso un filo, creato una corrispondenza e alimentato un pensiero su un nuovo possibile sviluppo della ricerca da mettere a fuoco insieme e proiettare nel futuro. Non c’è nessuna garanzia che la strada “giusta” passi di lì, ma intraprendere quel viaggio è l’unico modo per saperlo. Come fare a raccontare lo stupore di queste reti, che si intrecciano, si disfano e si riparano, ogni volta con l’obiettivo di un nuovo avanzamento della conoscenza? Ci proverò con una storia.

La pagina del Medical surgical reporter del 13 aprile 1872 con la comunicazione della individuazione della malattia

Nancy Wexler in visita a Banaquitas, villaggio sulle sponde del lago Maracalbo in Venezuela

Negli anni ottanta un gruppo di studiosi seguirono l’invito pieno di traguardi incerti di Nancy Wexler, genetista e professore di neuropsichiatria alla Columbia University, che con l’obittivo di indentificare il gene di una difficile malattia neurologica ereditaria, la Còrea di Huntington, coinvolse e reclutò in una impresa mai tentata prima menti brillanti da tutto il mondo. Lo fece con un affettuoso quanto imperioso: “Let’s go to Venezuela”. Nancy voleva portare i ricercatori in quella regione del Sud America per uno scopo ben preciso. E’ nei villaggi intorno al lago di Maracaibo  che l’Huntington- che conta migliaia di malati in tutto il mondo, e a migliaia anche in Italia- raggiunge la sua massima diffusione. Molte delle famiglie di quel villaggio vi convivono, da sempre con sofferenze triplicate dalla povertà e dall’avere più figli malati nella stessa famiglia. Tutti “figli” di Maria Concepciòn Soto, vissuta alla fine del 1800 nel villaggio di Lagunetas e considerata una capostipite della malattia. Lei, si è capito ha trasmesso il gene a molti dei suoi 18.000 discendenti. Chi ha quel gene svilupperà la malattia, i movimenti scoordinati (che in Italia chiamiamo il “ballo di  San Vito”) e di  disturbi psichiatrici, fino a subire l’isolamento e, nelle realtà più povere, lo stigma di essere additato come un “indemoniato”. Non è un caso che con una legge del 1933, il regime nazista impose a queste (e altre) persone con malattie genetiche la sterilizzazione obbligatoria e più avanti le camere a gas.

Papa Francesco accoglie una malata di Còrea di Huntington

Ebbene, nel 1975, quel primo viaggio dei ricercatori in Venezuela contribuì a tessere una gigantesca rete che lega ancora oggi in maniera indissolubile gli studi sulle malattie neurodegenerative a quella zona del mondo, povera, politicamente instabile, e defilata rispetto ai grandi accadimenti del pianeta. E’ stato infatti grazie al sangue di quelle persone che si è scoperto il gene della malattia e le troppe “lettere” CAG (citosina, adenina, e guanina) ripetute, che contiene……

Nancy Wexler mentre conforta un’ammalata

La scoperta del gene ha permesso il riconoscimento della malattia e l’identificazione di farmaci sintomatici. Queste conquiste hanno raggiunto la parte più fortunata del mondo, l’Europa e il Nord America, lasciando per lo più a guardare le popolazioni il cui sangue ha reso possibile tutto ciò. Loro vivono nel nulla, in agglomerati polverosi di capanne a baracche, al confine di tutto. Trattati da “indemoniati”. La comunità di studiosi della malattia sa che il mondo ha un grosso debito con loro. E a maggio di quest’anno gli scienziati e le associazioni legate alla malattia hanno avviato un percorso per sanarlo. Grazie ai fili intessuti negli anni con i malati e le poche persone intorno alla zone più disagiate del Venezuela, Colombia, Argentina e Brasile, oggi esiste una rete internazionale che, al grido di “Mai più nascosta”, ha reso possibile l’incontro di questi malati tra di loro e con le associazioni di medici di tutto il mondo. “Mai più nascosta” è stato anche l’impegno pronunciato da Papa Francesco lo scorso 18 maggio, il primo Pontefice a dedicare un’udienza speciale ai malati di Huntington e a parlare della loro solitudine e emarginazione.

A distanza di mesi è ancora difficile dimenticare Brenda, 15 anni, di Buenos Aires, mentre nel suo vestito bianco si avvicina al Papa salendo le scale con un passo che sembrava più sicuro di quello che la malattia da tempo le permette, o Yosbely, 35 anni di Barranquitas in Venezuela, capace di trasformare la triste Còrea (dal greco “danza”) della malattia, nello sforzo di eseguire un ballo diverso, o il sorriso gentile di Dilia, 78 anni, che da El Dificil in Columbia ha portato frasi di buon augurio a tutti, nonostante la sofferenza che ha accumulato negli anni accudendo il marito e nove dei suoi 11 figli colpiti dalla malattia. Con un filo di voce ha spiegato cosa significa per una madre disseppelllre tre figli, per ricomporli insieme, perchè non si hanno soldi a sufficienza per pagare tre tombe. La scienza non ha ancora dato loro una risposta, una cura, ma unendosi le associazioni con il contributo delle istituzioni, lavora anche al di fuori del laboratorio per restituire loro e a tutti i malati la dignità che con la malattia sembrava perduta. Anche io voglio continuare a contribuire ad accrescere questa rete. Una delle tante che dimostrano come la scienza può rendersi utile se non resta isolata……

 

ROMA: DELLE GROTTESCHE AMENITA’

ROMA: DELLE GROTTESCHE AMENITA’

ROMA CAPITALE E ILLEGALITA’: FRA DEFORMAZIONE SISTEMATICA DEI FATTI E IDEOLOGIZZAZIONE DELLA VITA PUBBLICA LA VERITA’ AFFONDA SOTTO IL CHIACCHERICCIO DEI SOLITI BEN PENSANTI E I FURBI CHE SPECULANO SU POVERTA’ E DISAGIO 

 

I manganelli? No, per carità. Fa brutto e ricorda Genova. Le cariche? Sì, ma con moderazione, senza esagerare che qualcuno potrebbe farsi male. Gli idranti? Che schifo, roba da aguzzini cileni. A sentire alcuni esponenti del buonismo e terzomondismo nostrano non si capisce come la polizia possa agire per sgomberare palazzi o piazze occupati illegalmente. E ripeto: il-le-gal-men-te.

Come si libera una piazza in una zona centrale e vitale della Capitale dove bivaccano cento persone? Invitandole a giocare a tressette? Portandoli fuori col flauto magico? O magari facendo intervenire Francesco Totti?

Ce lo dovrebbe spiegare per esempio il presidente del partito che è anche l’ azionista di maggioranza del governo, cioè Matteo Orfini del Pd, il quale guardando le immagini di piazza Indipendenza da qualche spiaggia vacanziera ha detto che «non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti».

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Roma, piazza Indipendenza dopo lo sgombero

Ma cosa c’ entra la povertà? Cosa c’ azzecca la disperazione? Niente, un fico secco. Eppure basta uno spruzzo d’ acqua e qualche ferito a un Gad Lerner per attaccare gli agenti, che dovrebbero «mettere a posto la coscienza» ed è «troppo comodo» farlo «con la carezza di un poliziotto» (il riferimento è a quel celerino che mette la mano sulla guancia di una donna in lacrime per consolarla, ma a Gad non va bene manco questo).

Che dire ancora di Monica Cirinnà, la madrina delle coppie gay, la quale prova «vergogna» perché «in 22 anni a Roma non ho sgomberato neanche un canile senza soluzione alternativa». E già, altro che Minniti e prefetti vari, bisognava affidarsi a lei che ha trovato tante belle soluzioni per i cani senza dimora, ovviamente senza causare traumi e senza farli scappare.

MIGRANTI PIAZZA INDIPENDENZAPoi, ovviamente, ci sono le ong come Medici senza Frontiere, ormai un vero e proprio Stato dentro lo Stato, o agenzie dell’ Onu come l’ Unicef, che invece di limitarsi a fare quello che devono fare, cioè assistenza, si schierano politicamente e parlano di «violenza indiscriminata» e «sgomberi senza alternative» (e nessuna parola è arrivata proprio dall’ Unicef sull’ utilizzazione come scudi umani di bambini esposti alle finestre dei palazzi occupati e con bombole del gas in mano).

Sarebbe curioso capire da costoro, e da quelli che sul web trasudano rabbia e dipingono i nostri poliziotti come belve feroci e fasciste, come si affronta un lancio di bottiglie, come si fa a dialogare con persone che armeggiano con bomboloni pronti a esplodere e lanciano sassi perché vogliono restare dove non hanno diritto di stare.

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Gli occupanti di piazza Indipendenza 1

Ma lo sanno tutti questi perbenisti che quel palazzo occupato dal 2013 era un concentrato spaventoso di illegalità come pochi altri? Che ogni tentativo di controllo era respinto dagli occupanti? Che poco tempo fa tra le centinaia di profughi e richiedenti asilo erano stati arrestati pure degli scafisti? Lo sanno, o fanno finta di non saperlo, che occupazione e proteste vengono sobillate da centri sociali e sedicenti (e italianissimi) movimenti per la casa?

E che migliaia di persone hanno perso soldi e lavoro per colpa di quel palazzo catturato dai migranti?

scontri a piazza indipendenza 5Dovrebbero leggersi, questi soloni, il perfetto racconto che ha fatto un blogger esperto di cose romane (il suo sito si chiama, significativamente, romafaschifo.com): «Chi parla di violazione dei diritti umani puntando il dito contro le forze dell’ ordine, dovrebbe prima ancora che vergognarsi rendersi conto che sta facendo il gioco di chi a Roma, in maniera subdola e criminale, da anni strumentalizza il disagio, la povertà, la difficoltà».

E poi: «Le mosse degli agenti sono state pressoché impeccabili. Lo sgombero, finalmente. Come chiesto da tempo dal Tribunale. La reazione misurata al successivo e per certi versi inaspettato asserragliamento degli occupanti in piazza. L’ attesa di giorni e giorni. Il controllo della situazione in una zona difficilissima. Più si offrivano alternative ai migranti, più queste alternative venivano rifiutate.

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Il giornalista Gad Lerner

Cosa doveva fare la Prefettura? Far finta che non ci fosse una intera piazza trasformata in accampamento? Con decine di infiltrati dei movimenti? Con decine di persone che non avevano nessun titolo di avere assistenza alloggiativa e che dunque erano lì solo a piantar grane? Con fuochi e bombole pronte caricate come marmitte sui terrazzi? Con gli addetti dell’ Ama che il giorno prima erano passati solo per pulire e sono stati presi a sassate?».

Questa è la realtà, caro Orfini e compagnia cantante, altro che violazioni dei diritti umani e altre cazzate del genere. Invece no. Ci sono frotte di giornalisti e politici scandalizzati perché la polizia è intervenuta alle sei di mattina (e quando dovevano cominciare, dopo il cappuccino?) e altre anime belle colpite al cuore dalle parole pronunciate da un funzionario durante un inseguimento nel piazzale della Stazione (se tirano qualcosa spaccategli il braccio), cose normali in tutte le polizie del mondo e comunque alla fine non ci sono stati spaccamenti di niente.

Nessuno di questi, invece, ha qualcosa da dire sul fatto che molti profughi hanno rifiutato altre case in periferia o vicino Roma al grido di «ormai ci siamo integrati qui, i nostri bambini vanno a scuola e non andiamo via da questo quartiere». È stata intervistata da Sky una signora che non ha accettato di andarsene perché i letti offerti «erano troppo stretti». Proprio così: letti troppo stretti.

Altri, mentre migliaia di romani (e di italiani) ogni giorno fanno chilometri per raggiungere il posto di lavoro e tornare a casa, hanno detto no ad alcune villette in provincia di Rieti. Per questa follia, nessuno si è scandalizzato.

ORFINI GIACHETTI

Matteo Orfini e Roberto Giachetti, esponenti del PD,romani.

Ecco, di fronte a tale scenario è giunta a un certo punto la notizia che anche un cuoco, tal Chef Rubio, si è indignato non poco per le immagini dei getti d’ acqua sugli occup.anti. Ha detto, l’ esperto di ordine pubblico, che si vergogna di essere italiano. Poi si è rimesso a spadellare e l’ Italia, il Paese, non era facile, ha superato pure questa durissima prova.

 

SULLE ORME DEL JAZZ

SULLE ORME DEL JAZZ

L’anno d’oro del jazz

Miles Davis, Charles Mingus, John Coltrane, Billie Holiday e gli altri: cronaca di un annus mirabilis.

 

Alcuni anni fa mi trovai a sfogliare una biografia di Shakespeare: A Year in the Life of William Shakespeare: 1599, di James Shapiro. Ad aver attirato la mia attenzione era stata la trovata dell’autore di concentrarsi su un solo e cruciale anno della vita di Shakespeare. L’idea di stringere in quel modo l’obiettivo mi incuriosì e mi è tornata in mente quando, per caso, mi sono accorto di un altro annus mirabilis. Altro mondo, altra epoca, altra arte: non più Londra, ma New York; non più il teatro, ma il jazz; non più il 1599, ma – giusto invertendo due cifre – il 1959.

Facciamo cominciare la geografia dell’annata 1959 del jazz newyorkese dal numero 207 della Trentesima strada, dalle parti dell’Empire State Building. Lì si trovava una chiesa ortodossa sconsacrata. La compagnia discografica Columbia l’aveva comprata per trasformarla in studio d’incisione, con oltre novecento metri quadrati di superficie e soffitti alti che la rendevano ideale per registrare anche orchestre di grandi dimensioni. Uno di quei rari studi di registrazione con una sonorità propria.

Il 2 marzo 1959, alle 14.30, in quella ex chiesa entra alla spicciolata il sestetto di Miles Davis: c’è da registrare Kind of Blue. Il gruppo si era costituito a metà 1958: al piano c’è Bill Evans (l’unico bianco), ai sassofoni John Coltrane e Cannonball Adderley, al contrabbasso Paul Chambers e alla batteria Jimmy Cobb, più Wynton Kelly al piano in un brano. Sette mesi più tardi, e dopo più concerti, comincia la prima delle due sessioni di registrazione di Kind of Blue. Cobb la ricorda come una “giornata primaverile”. Secondo le parole di Bill Evans nelle note di copertina, Miles Davis “concepì molti degli arrangiamenti dell’album solo poche ore prima della registrazione”.

Intanto, una settimana dopo, il 9 marzo, arriva nei negozi Porgy & Bess, l’album orchestrale che Miles Davis aveva registrato l’anno prima con Gil Evans. La seconda sessione di registrazione di Kind of Blue si tiene un mese e venti giorni dopo, il 22 aprile. Appuntamento al 207 della Trentesima strada di nuovo alle 14.30. Nel libro che Ashley Kahn ha dedicato a Kind of Blue, con la trascrizione dei dialoghi fra una take e l’altra, alla fine del brano Blue in green c’è Davis che rimprovera Chambers per qualcosa che ha sbagliato al contrabbasso, mentre due tecnici della sala di controllo, estasiati e increduli, si sussurrano: “Bellissimo. Bellissimo…”.

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Kind of Blue è l’apice di una tendenza compositiva che Miles Davis, con i decisivi innesti classici apportati da Bill Evans, stava sviluppando in quel periodo: il jazz modale, ovvero – per farla imperdonabilmente semplice – un jazz sviluppato secondo blocchi di singoli accordi portati avanti a lungo e di particolari scale melodiche, a differenza delle strutture classiche allora più diffuse (in particolare del bebop, il genere di cui Charlie Parker era il santo protettore), fatte di molti e spesso velocissimi cambi di accordi. Alex Ross, nel suo Il resto è rumore. Ascoltare il XX secolo, individua la forza di Kind of Blue nella “lentezza onirica del movimento armonico”. Basta ascoltare quei primi secondi di ouverture dell’album – l’inizio del brano So What, con quel botta e risposta fra piano e contrabbasso – per capire che saranno quarantacinque minuti di una densità fuori dal comune.

“Kind of blue” sta per “piuttosto triste”, una frase che Miles Davis usava spesso per spiegare l’atmosfera di un suo brano. Ma era anche un gioco di parole con i toni blues di alcuni momenti dell’opera. L’album esce il 17 agosto 1959: è un successo immediato sia di critica che di vendite. Kind of Blue riesce a soddisfare sia gli ascoltatori che non chiedono niente di più di un raffinato e caloroso sottofondo, sia quelli che invece prestano attenzione alla carica espressiva e alle sfumature tecniche dell’opera. Intanto, nello stesso mese di maggio, Duke Ellington registra Jazz Party, un album in cui alla sua band regolare si aggiungono dei percussionisti sinfonici. Sempre in maggio, nello stesso studio dove il sestetto di Miles Davis tre settimane prima aveva inciso Kind of Blue, entra Charles Mingus. È lì per incidere il suo album d’esordio Mingus Ah Um,  altro disco di bellezza straripante.

Già, Mingus: contrabbassista fra i migliori di sempre, compositore prodigioso e una personalità di quelle che – come si capisce tanto dalle interviste raccolte da John Goodman in Mingus secondo Mingus quanto dall’autobiografia Peggio di un bastardo– può dare vita a una rissa dal nulla. Le esecuzioni dei gruppi diretti da Mingus sono sempre a metà strada fra il rituale di purificazione collettiva, l’impetuosa protesta di strada, la celebrazione folklorica o il più commovente dei lamenti funebri. Anche per Mingus il 1959 risulta un anno eccezionalmente prolifico e costellato di capolavori: il contrabbassista e compositore registra Jazz Portrait in gennaio, Blues and Roots in febbraio, Mingus Ah Um in maggio e Mingus Dynasty in novembre. Come a dire che in un anno – in quell’anno – produce del materiale che potrebbe idealmente bastare da solo per una carriera intera, e una carriera di alto livello.

Uno dei brani più belli di Mingus Ah Um è Goodbye Pork Pie Hat, intenso tributo al sassofonista Lester Young, morto il 15 marzo. In effetti, il 1959 sa essere anche un anno maledetto. Il 17 luglio muore Billie Holiday, per cirrosi epatica. In quell’anno sarebbe uscito un album che avrebbero intitolato Last Recording. La piangono tutti. Thelonious Monk aveva tenuto per tanti anni in camera sua un poster di Billie: a ogni suo risveglio, la cantante di Strange Fruits era lì a fissarlo. Nella sua autobiografia, Miles Davis ricorda: “L’ultima volta che la vidi da viva fu quando venne giù al Birdland dove stavo suonando agli inizi del ’59. Mi domandò di darle qualche soldo per l’eroina e le passai quello che avevo. […] Ogni volta che mi capitava di incontrarla le chiedevo di cantare “I Loves you, Porgy”, perché ogni volta che lei cantava “non lasciare che mi tocchi con le sue mani calde” potevi praticamente sentire quello che sentiva lei”.

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E Thelonious Monk come se la passava nel ‘59? Il 28 febbraio suona alla Town Hall: la prima parte del concerto con un quartetto, la seconda con un ensemble di dieci elementi. Durante le prove, spesso sale sullo sgabello del piano e balla. I musicisti che lo accompagnano sono perplessi, tranne chi fra di loro conosce bene Monk. Affetto da disordini psichiatrici, al pianista i dottori somministravano clorpromazina (la Thorazine), un antipsicotico utilizzato per contrastare gli effetti del bipolarismo e della schizofrenia. Gli effetti collaterali sono pesanti. Thorazine o meno, il concerto alla Town Hall è un successo, anche se più per il pubblico che per i critici. Nel 1959 a Monk non è permesso suonare nei locali, perché gli era stata tolta dalla polizia la sua Cabaret Card, uno strumento per esercitare un controllo più oppressivo sugli ambienti del jazz nero: il paradosso è quindi non avere il patentino per suonare nei locali, ma intanto essere ammesso da star nella prestigiosa Town Hall, e riempirla. Per Monk è una consacrazione. E pensare che solo poche settimane prima, in Delaware, era stato malmenato per strada senza motivo da poliziotti che lo avevano preso a manganellate accanendosi soprattutto sulle sue dita di pianista.

Mentre le vendite di Kind of Blue raggiungono cifre enormi, in città soffiano già dei nuovi venti d’innovazione. John Coltrane, per esempio, si sta affermando come un introverso quanto potente nuovo sacerdote da seguire. E, in quello stesso periodo, arriva in città Ornette Coleman con il suo free jazz, uno stile che si prefigge di superare alcuni degli ordinari vincoli formali del jazz. Coleman tenta di liberare l’improvvisazione jazzistica dalle sequenze di accordi prestabilite. L’obiettivo è affidare l’improvvisazione collettiva al senso di interplay, sviluppando un’acuta capacità di ascoltare e assecondare gli spunti e le direzioni prese dagli altri musicisti. John Lewis, il pianista del compassato Modern Jazz Quartet, dichiara che Coleman gli “ricordava ciò che James Joyce o Dylan Thomas avevano fatto in letteratura”.

Ornette Coleman sbarca a New York con il suo sassofono contralto di plastica nell’autunno del 1959. Secondo alcuni che avevano già avuto modo di ascoltarlo, era il jazzista più innovatore dai tempi di Charlie Parker, insieme a Coltrane. Dopo aver girovagato senza molta fortuna in varie città statunitensi, nel 1959 Coleman arriva dunque preceduto da trepidazione e aspettative. Il primo incontro con il pubblico newyorkese avviene al Five Spot, in una conferenza stampa il pomeriggio del 17 novembre. Dei tanti giornalisti e appassionati accorsi, alcuni rimangono folgorati, alcuni non ci capiscono niente ma percepiscono la forza di quella novità, e altri ancora se ne vanno delusi, o deridendo il sassofonista texano. Il quartetto – senza pianoforte, cosa per niente scontata all’epoca – di Ornette Coleman incide The Shape of Jazz to Come in primavera e Change for the Century in estate. The Shape of Jazz to Come si apre con “Lonely Woman”, un brano che riesce a rendere estremamente fluido il confine fra la melancolia abbandonata e l’inquietudine oscura.

In quei concerti dell’autunno del ’50, il quartetto è alle stelle: la sua intesa e la sua compattezza, pur in quella inedita assenza o apparente assenza di strutture, sbalordisce il pubblico newyorkese, seppur fra lodi sperticate e polemiche sarcastiche. Paul Bley dice a un giornalista: “Ornette aveva seminato il panico nel cuore dei celeberrimi jazzisti che calcavano le strade di New York, perché niente sarebbe stato più lo stesso”. Sul palco, il quartetto aveva una presenza dal fascino simile a quello che alcuni gruppi grunge avrebbero esercitato una trentina di anni più tardi: Charlie Haden, l’unico bianco del gruppo, sta tutto piegato sul suo contrabbasso quasi a nascondersi il viso; Billy Higgins suona la batteria con uno sguardo fisso, vacuo ma forte; Don Cherry suona la sua pocket trumpet reggendola come un rapper introverso farebbe con il suo microfono; e Ornette Coleman suona il suo sassofono contralto come se dovesse continuamente reprimere uno scatto d’ira lungo quanto il concerto.

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Di Coleman, Miles Davis dice: “Diamine, ascoltate che cosa scrive, come suona. Dal punto di vista psicologico, quel tipo ha un gran casino nella testa”. Eppure, il pianista Paul Bley racconta che, in una delle serate del debutto newyorkese del profeta del free jazz, Davis “passò tutta la sera a parlare con il barista volgendo le spalle al palco, come se fosse passato di lì per caso a bere qualcosa”. Del resto, come dice il sassofonista Jackie McLean: “[Miles] è diventato arrogante, dicono, da quando ha avuto successo? Ma Miles era già arrogante quando ancora camminava nel girello!”. Max Gordon, proprietario del Village Vanguard (che è ancora lì, e non tanto diverso da com’era nel 1959), nel suo memoir Dal vivo al Vanguard ricorda: “Andandosene dal palco alla fine del primo set, Miles si fermò al tavolo di Gary Giddins [quindicenne suo fervido fan e futuro critico] per schiacciare nel portacenere il mozzicone della sigaretta che aveva finito. “Prendilo e mettilo da parte”, disse a Gary. “Un giorno varrà un bel po’ di quattrini”. In Quattro vite jazz, A.B. Spellman riporta il commento di Cecil Taylor, pianista dalla solida formazione classica ma radicale nel suo aderire al free jazz: “Miles Davis? Non suona male, per essere un milionario”.

A proposito di Cecil Taylor: nel numero del gennaio ‘59 di Jazz Review, Gunther Schuller, uno dei più rispettati critici e storici del jazz di sempre, aveva recensito i suoi primi due album, due opere di una certa complessità d’ascolto: Jazz Advance e The Cecil Taylor Quartet at Newport. Significa che nel 1959 gli eroi di quella che da lì a poco sarebbe stata definita la New Thing, come ci racconta anche Alyn Shipton nella sua Nuova storia del jazz, stavano già cominciando a guadagnare una certa curiosità nei circoli del jazz, e questo deve aver fatto provare ai musicisti più attenti alla propria reputazione un senso di accerchiamento. Durante una di quelle storiche serate di Ornette Coleman al Five Spot, arrivano insieme Thelonious Monk e Charles Mingus. Ascoltano per un po’ il quartetto di Coleman, poi Monk fa uno dei suoi celebri giri su se stesso e dice: “Diamine, queste cose io le facevo venticinque anni fa, però mica in tutti i pezzi”. E se ne va.

Coleman, da parte sua, Monk lo adorava, lo adorava al punto da dedicargli il brano “Monk and the Nun” in The Shape of Jazz to Come. Ovviamente, nonostante questo successo d’attenzione e i locali sempre pieni, a parità d’ingaggio Ornette Coleman guadagnava sempre molto meno di altri musicisti. Per non parlare dei musicisti bianchi. In un locale in cui suona più volte nel 1959, fa regolarmente il tutto esaurito, per milleduecento dollari a settimana: la settimana dopo nello stesso posto suona Dave Brubeck e il cachet è notevolmente superiore, e non riempie neanche il locale. A proposito di Dave Brubeck: anche per lui il 1959 è un anno decisamente fortunato. Il 14 dicembre pubblica l’album Time Out, in cui ogni brano si basa su una scansione ritmica diversa. Il brano più famoso è “Take Five” (composto in realtà dal sassofonista Paul Desmond): vende oltre il milione di copie. È un brano dal tema orecchiabile, ma con un ritmo in 5/4 (la maggior parte dei brani è in 4/4). Quello di Brubeck è un jazz bianco per eccellenza, se vogliamo, lontano dalla furia intelligente e a suo modo anarchica dei vari Coltrane, Mingus e Coleman. Brubeck fa il possibile per imporsi in circuiti – e stipendi – diversi da quelli del jazz dei club. Ci riesce.

La questione razziale è determinante da molti punti di vista. Pensiamo solo all’episodio che il 25 agosto 1959 accade a Miles Davis. In quel momento è uno dei musicisti più in vista del momento, ma questo non lo mette al riparo dagli ordinari episodi di razzismo. Di fronte al Birdland, uno dei club più importanti di New York, e proprio nei giorni di una serie di concerti tutti esauriti del suo sestetto, il trombettista accompagna un’amica bianca a prendere un taxi di fronte alla porta del locale. In quel momento passa un poliziotto bianco, e l’immagine di una donna bianca accompagnata da un uomo nero, seppur elegantissimo e con il suo nome scritto a caratteri cubitali nella porta del club lì a pochi metri, non deve andargli giù. Il poliziotto urla a Davis di allontanarsi. Comincia una colluttazione, il poliziotto estrae il manganello, lo colpisce alla testa e lo porta in prigione. Alcuni fotografi ritraggono il trombettista con la giacca tutta sporca di sangue. Davis viene presto discolpato di ogni accusa, ma l’umiliazione rimane.

Miles Davis non è l’unico trombettista ad avere problemi con la legge, in quelle giornate newyorkesi. Succede anche a Chet Baker. Il trombettista e cantante bianco passa metà del 1959 a New York e metà in Italia. In quell’anno registra e pubblica alcuni album fra più importanti della sua carriera, fra cui Chet, accompagnato dalla stessa sezione ritmica del gruppo di Miles Davis (Bill Evans al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Philly Joe Jones alla batteria). Nelle sue memorie, Come se avessi le ali, il trombettista scrive: “A New York, nella primavera del ’59, si svolse il mio processo: mi appiopparono sei mesi da scontare a Rikers Island. Passai dieci giorni in infermeria e poi mi misero con gli altri”. Intanto, in un mondo per molti versi agli antipodi stilistici di Chet Baker, e spinti dal nuovo vento avanguardistico che soffia su New York, anche Mingus e Coltrane vanno verso un linguaggio tonale più aperto. Ma Coltrane non lo farà prima di regalarsi anche lui un capolavoro personale, per quel 1959: Giant Steps.

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Il 26 marzo, racconta Lewis Porter in Blue Trane, l’introverso – e in strenua e dignitosa lotta contro la dipendenza da eroina – sassofonista entra in studio. Ma, evidentemente insoddisfatto, decide di non usare niente del materiale uscito da quella sessione. La seconda sessione si tiene il 4 e 5 maggio. Ne esce un altro gran disco. Oltre ai ritmi vertiginosi e alle armonie complesse di tutto l’album, Giant Steps contiene anche “Naima”, una struggente ballata dalla cadenza lentissima e con una linea di contrabbasso ossessiva che si distende ai piedi del tono romantico della melodia principale: l’abisso è dappertutto e, per uno come Coltrane, un brano d’amore non poteva certo essere sufficiente per distrarlo da questa consapevolezza.

L’approccio compositivo di Giant Steps è molto diverso – se non per certi versi opposto – a quello di Kind of Blue. Le composizioni sono per lo più velocissime e le strutture complesse, a partire dal brano che dà il titolo all’album. Per farla breve: i centri tonali dei brani di Kind of Blue sono pochi e dilatati; quelli di Giant Steps, al contrario, tanti e vertiginosi. Coltrane era uno che studiava maniacalmente anche durante gli intervalli dei concerti con il sestetto di Miles Davis.

Poco tempo prima, Joe Termini, proprietario del Five Spot e di altri locali, aveva incoraggiato Coltrane a lasciare il gruppo di Miles Davis: “John, fatti un gruppo tuo, è ora”. Nasce il John Coltrane Quartet: poco dopo la registrazione di Giant Steps, il sassofonista comunica a Miles Davis la sua uscita dal sestetto, seguito anche dagli altri membri. Del resto, era una band all-star da cui sarebbero nate altre formazioni fondamentali. Per esempio, è nel 1959 che Bill Evans forma il suo primo trio. I membri, il bassista Jimmy Garrison e il batterista Kenny Dennis, glieli consiglia Miles Davis. A proposito di Davis, l’aver ricevuto dal 1959 la benedizione di due album come Porgy & Bess e Kind of Blue non gli basta. Nella sua autobiografia scrive: “Ma c’era ancora una cosa che mi premeva di fare alla fine del ’59 ed era iniziare un album con Gil Evans, un album che chiamammo Sketches of Spain”. Un altro disco capitale.

Se vogliamo parlare del 1959 jazzistico e newyorkese (di cui, vedo, non mi sono accorto solo io)  come un anno di grazia, allora è sul concetto di grazia nel mondo del jazz che vale la pena  interrogarsi. La grazia può generarsi anche dalle fiammate dello sfregamento fra temperamenti e visioni artistiche gigantesche e spesso opposte o contrapposte; oppure dalla coesistenza fra abissi personali e immani altitudine artistiche; e anche dalle circostanze, dal mercato, da una competitività che andava ben al di là dei tabulati di vendita, o da diversi ma a loro modo convergenti sensi di bellezza che fanno dell’idea di “anno di grazia” un’idea fatta anche dell’impossibilità di dimenticare che, in fondo, la grazia è come “Naima”, il brano di Coltrane: un anno di grazia è anche un anno in cui la bellezza è inseparabile – addirittura più del solito – dall’abisso.

Ecco che il 1959 volge al termine. È la sera dell’ultimo dell’anno. Robin Kelley, nella sua biografia di Thelonious Monk, ci racconta che il pianista e sua moglie Nellie sono invitati a festeggiare a casa dell’amica Nica, la baronessa Pannonica de Koenigswarter, pecora nera della famiglia Rothschild (pecora nera perché frequentava i musicisti neri) e mecenate che sostenne molti jazzisti di quegli anni, e Monk in particolare. Arriva la mezzanotte. Monk si siede al piano. Alla festa sono presenti anche Donald Byrd e Hank Mobley. Il primo estrae dalla custodia la sua tromba, il secondo il suo sassofono tenore. Si avvicinano al pianista e si mettono a suonare con lui il brano di Monk che era giusto suonare a quell’ora: “‘Round Midnight”. Quell’anno di grazia se ne va sulle note di uno dei notturni più belli della storia della musica.

Articolo di  Lorenzo Alunni , antropologo e traduttore. È nato a Città di Castello nel 1983. Collabora o ha collaborato con Il lavoro culturale, Internazionale, Il Mucchio Selvaggio, Jazzit e altre testate.Tratto dal sito il tascabile.com

LE OMBRE DIPINTE

LE OMBRE DIPINTE

LA STORIA UMANA FATTA COL CARBONCINO– DALLE CAVERNE DI LASCAUX AI DISEGNI FOTOGENICI DELL’ATOMICA, ALLE OMBRE GENERATIVE DI KENTRIDGE SIAMO IMMERSI NELL’ OSCURITA’ ASSOLUTA.   

Molti millenni addietro, l’autore delle pitture rupestri di Lascaux, in grotte buie, su tralicci incerti e traballanti, alla luce di fiaccole fumose alimentate da grassi dall’odore nauseabondo, seppe disegnare, su una superficie irregolare, figure di animali di eccezionale icasticità. In quelle condizioni, questo grande artista riuscì a raffigurare forme di svariate dimensioni di bovini con una sorprendente precisione nelle proporzioni, considerato che alcune figure disegnate misurano circa sei metri di lunghezza.

Pur avendo a disposizione materiali diversi come il gesso, il marnae le diverse tonalità di crete e ocra rosse, i pittori paleolitici, in generale, tranne alcuni sporadici casi, impiegavano prevalentemente il nero del carbone (testimonianza esemplare a riguardo è il cosiddetto “salone nero” della grotta di Niaux – Ariège – Francia) oppure il nero prodotto per calcinazione di ossa, corna e avorio, ai quali seguirà anche il nero di origine minerale, come l’ossido di manganese, che troviamo impiegato nella grotta di Lascaux. In alcuni casi, come nei dipinti della grotta di Chauvet, l’impiego del carbone nero non si limitava al delineamento dei contorni ma veniva utilizzato prevalentemente per il modellato chiaroscurale dei corpi dei cavalli e perfino per rendere la morbidezza della loro livrea. L’utilizzo così ricorrente del carbone nero nelle linee di contorno deve avere qualche significato che va ben oltre la ragione meramente ottica di favorire il maggior contrasto con lo sfondo. L’assoluta oscurità ambientale che regna nei cunicoli di queste grotte e la colorazione naturale delle stesse pareti rocciose avrebbero suggerito un pigmento molto chiaro come il gesso o il marna, un minerale sedimentario molto diffuso, composto di argilla e creta, che strofinato produce una traccia molto chiara. Come si spiega dunque questo utilizzo esclusivo del carbone? Perché più maneggevole e più a portata di mano del gesso?

Grotta di Chauvet, Gruppo di cavalli.

Si possono addurre svariate spiegazioni, e quelle forse più pregnanti simbolicamente vanno ben oltre il mero utilitarismo o la pigrizia operativa. Allo stato delle cose sussistono molti motivi per supporre che la scelta del carbone nero abbia radici più nella psiche che nella terra stessa. Un tentativo di avvicinamento ad una plausibile spiegazione ci obbliga a fare un esperimento mentale propedeutico e preliminare consistente nell’immedesimazione, ovvero nel cercare di rivivere in prima persona le condizioni materiali e psicologiche in cui questi pittori operavano: entriamo con l’immaginazione nella cavità di un cunicolo molto profondo e sempre più buio e mano a mano che si avanza si fa sempre più forte la sensazione di essere inghiottiti dalle viscere della terra, da un abisso nero, segreto e dal quale non c’è ritorno, dove l’oscurità ha perso ogni proprietà ottica divenendo sempre più intensa. Di converso, si fa sempre più chiara la sensazione di trovarsi, più che dentro, fuori dal mondo, in un luogo in cui anche il tempo smette di scorrere e si sospende. Qui tutto porta a vivere la dimensione esistenziale di chi si trova sul limite di una soglia assoluta, varcando la quale ci si aspetta di trovarsi immersi in un’altra realtà….

Muovendosi alla luce tremolante di qualche fiaccola di pietra, gli uomini che esploravano queste grotte non potevano evitare di imbattersi con la propria ombra proiettata sulle pareti illuminate, né con le ombre proiettate dalle rocce sporgenti, i cui profili si avvicendano e si connettono gli uni con gli altri, saltando fuori all’improvviso da dietro prominenti escrescenze rocciose, per poi scomparire in un antro insidioso, in una cavità inattesa, suggestionando a tal punto l’immaginazione, con i loro fluttuanti cambiamenti di forma, continui scivolamenti e dislocamenti di posizione, da inscenare una pantomima di parvenze, una successione animata (cinematografica diremmo oggi) di sembianze, il cui dinamismo sembra conferire loro vita propria, come potrebbero averla soltanto gli spettri, le anime e gli spiriti…

Soltanto a seguito di questo esperimento mentale che impone di fare una tabula rasa di tutta la nostra cultura visuale e richiede di lavare il nostro sguardo, avvezzo a immagini di ogni tipo, si potrà tentare di coglier il senso che il pittore paleolitico attribuiva a questi fenomeni visivi, di un uomo che viveva la condizione primigenia di essere pervaso dallo stupore di produrre e di vedere per la prima volta comparire dal nulla un’immagine, la prima immagine dell’umanità…

Per la mentalità preistorica quindi in ogni cosa c’è un equivalente di qualcos’altro: un oggetto poteva essere percepito come la trasfigurazione in altro stato di ciò che significavano e rappresentavano per loro le ombre. Questo ci porta a fare delle congetture su quali oggetti possano costituire un differente statuto delle ombre: quello in cui anch’esse presentano un corpo. Il carbone sembra possedere tutti i requisiti per rappresentare una sorta di concrezione solida dell’ombra della vita, un’ombra non ottica, quindi, ma organica, che si produce quando la luce del fuoco ha divorato “la luce della vita”, impregnando nei corpi spenti il grado di oscurità più profondo che un materiale possa mai raggiungere, nel quale la quasi totale assenza di luce riflessa ne decreta lo stato di morte.

Nell’esperienza quotidiana di quegli uomini il carbone si presenta come un residuo, quel che resta di una combustione, ovvero una tangibile e concreta presenza dell’anima nera delle piante e, per estensione, di tutto ciò che ha avuto una vita….

Tutto si tiene insieme trasformando la contiguità in continuità che non ha nell’ottica, nel contrasto luministico, la sua ragion d’essere più vera, bensì nel senso ancestrale che il nero, i differenti stati della nerezza in questo contesto prospettano e proiettano nella mente dell’uomo paleolitico. Le proiezioni e le sovrapposizioni delle ombre avranno provocato nella mente di quegli uomini delle associazioni e delle condensazioni psichiche forse a noi inscrutabili e incomprensibili, ma avranno di certo inciso nella scelta dello strumento con cui il pittore decideva di tracciare il contorno di quelle presenze e delle stesse immagini degli animali. Il gesto di tracciare il contorno della forma di un animale con una linea nera è un gesto aurorale che segnala l’avvento di un salto evolutivo sul piano percettivo e cognitivo nella mente dell’uomo preistorico, che inaugura una nuova forma di relazione tra il sensibile e l’intelligibile, in grado di tenere insieme il finito con l’infinito, il pieno con il vuoto, il visibile con l’invisibile, il presente con l’assente, il reale con l’immaginario. Aver intuito che tra questi due piani di realtà, o due mondi, non sussiste una discontinuità e una distanza incolmabile, bensì una continuità, sancisce l’avvento del pensiero simbolico quale mezzo per far fronte all’ignoto e attribuire un senso all’assenza….

William Kentridge è un pittore sudafricano che vive e lavora a Johannesburg, e per la realizzazione delle sue opere utilizza vari strumenti e tecnologie, dal disegno, alla fotografia, alla registrazione video, alla scultura, alla scenografia e regia teatrale: è un artista performativo, come si dice oggi.

Il suo testo “Sei lezioni di disegno” (Johan & Levi, Cremona 2016) è la trascrizione di sei “Norton Lectures” nella quale descrive e documenta ciò che possiamo interpretare come le confessioni creative della sua attività artistica. Con puntiglio descrive la sua metodologia operativa, le diverse fasi che vanno dal momento in cui affiorano le idee iniziali a quelle relative alle loro rielaborazioni; espone i materiali e i procedimenti tecnici con i quali progetta di realizzare l’opera finale con una accurata chiarezza didattica, quantunque si raccomandi di essere un artista e non un professore.

Kentridge, disegno a carboncino. 

Tra i vari mezzi che utilizza durante questo progressivo avvicinamento alla realizzazione finale dell’opera il disegno a carboncino e a china è certamente quello che privilegia, al quale si affida costantemente e non soltanto perché il suo tratto nero possiede le caratteristiche grafiche e chiaroscurali che, meglio di altri, gli consentono di esprimersi in modo molto personale, con immediatezza e con sinteticità. La ragione per la quale Kentridge si affida a questo mezzo espressivo è dettata dal fatto che egli lo considera un’attività che sta tra il fare e il vedere, che permette di controllare e commisurare le soluzioni tecniche con la previsione degli esiti a cui daranno luogo. Il motivo ricorrente da cui ha inizio e al quale ritorna più volte in queste sei lezioni è rappresentato dalle ombre proiettate, riprendendolo dal brano arcinoto del mito della caverna di Platone, descritto dal filosofo greco nel libro VII° de La Repubblica.

Nel mito si narra di uomini imprigionati fin dall’infanzia con delle catene ai piedi e al collo, in modo che possano veder soltanto le ombre proiettate sulla parete che hanno davanti dalla luce alle loro spalle. Tra la sorgente luminosa e i prigionieri corre una strada lungo la quale degli altri uomini trasportano svariati oggetti, differenti per forma e per materiali, dei quali i prigionieri possono vedere unicamente le ombre. Per questi prigionieri incatenati la realtà consiste soltanto nelle ombre degli oggetti, ma se uno di loro venisse liberato e gli fosse concessa la possibilità di volgere gli occhi verso la luce, dice Platone, verrebbe irrimediabilmente abbagliato e incontrerebbe notevoli difficoltà nel vedere gli oggetti reali. Egli non sarebbe in grado di dire cosa effettivamente essi siano, e si troverebbe in un tale imbarazzo da pensare che le ombre che vedeva prima siano più vere degli oggetti reali che i suoi occhi stanno vedendo per la prima volta.

Questa immagine platonica del corteo di ombre è cruciale per il pittore sudafricano: la rivede in molte altre situazioni, dai ceppi dove venivano incatenati gli schiavi africani costretti a remare nel ventre buio delle navi che li trasportava in altri continenti; dagli eserciti di minatori che scavano in tunnel bui, ai cortei di rifugiati e migranti dei nostri tempi in fuga dalle guerre e dalle carestie. Il tema lo appassiona in modo particolare e lo ha portato a lavorare con sagome e ombre proiettate per un periodo lungo più di vent’anni. Le ombre, sostiene il pittore, in ragione dei loro limiti e delle loro fugacità ci obbligano a imparare a vedere, a compiere un atto generativo per costruire la forma degli oggetti che proiettano; ci costringono a fare dei salti concettuali per completare le loro immagini e “tutto ciò stimola una consapevolezza del nostro agire, nel quale riconosciamo la parte attiva che compiamo nel vedere, (…) la comprensione di ciò che non si vede, la consapevolezza dei limiti del vedere (…)Concediamoci di non essere né i prigionieri nella caverna, incapaci di comprendere quello che vediamo, né l’onnisciente filosofo che ritorna alla caverna con tutte le sue certezze. Concediamoci di abitare la terra di mezzo, lo spazio tra ciò che vediamo sul muro e la forma che inventiamo dietro la retina.”

Lo strumento grafico preferito dal pittore è il carboncino, vuoi per la sua duttilità che per la profondità del nero che conferisce alla traccia, a cui affida il compito di visualizzare lo spessore del tempo, la sua materializzazione. Il pittore parte da una considerazione tecnica di cui, generalmente, chi non dipinge non tiene conto, quella cioè di tenere presente che una cosa vista di sfuggita per un istante, spesso richiede magari un giorno, o molto di più, per essere disegnata. Questo fa sì che il tempo rallenti ed esca dall’immagine disegnata. Tuttavia il disegno a carboncino offre altre soluzioni per trattenere la presenza del tempo, ispessendolo e conferendogli perfino una materialità. “Il carboncino si cancella facilmente, ma lascia sempre una traccia. La carta è dura e si può eliminare il tratto, ridisegnare, cancellare ancora, senza alterare la struttura, sebbene si veda il danno. La cancellazione non è mai totale. Resta tra le fibre della carta una sagoma grigia di polvere di carboncino, un fantasma dell’immagine prima del cambiamento.” Riprendendo il processo con la telecamera si ha la registrazione della trasformazione “del tempo nella polvere di carboncino. (…) La cancellatura imperfetta non è artificiosa, non è un effetto supplementare. È quanto ci propone il processo creativo.”

Il tema delle ombre proiettate costituisce l’idea, il mezzo e l’opera, della progettazione e della realizzazione del suo intervento sul muraglione del Lungotevere da Ponte Sisto a Ponte Mazzini a Roma, una parete di travertino alta 10 e lunga 550 metri, inaugurato il 21 aprile 2016. Le figure di Triumphs and Laments, “Trionfi e Lamenti” si possono vedere come una sorta di murale “in negativo”, sul piano formale equivalente all’impronta in negativo della mano preistorica impressa sulle pareti di molte grotte del paleolitico, anche se in questo caso le immagini vengono prodotte tramite un procedimento di lavaggio dello sfondo, ovvero mediante un processo di asportazione dello strato di sporco che nel tempo si è depositato sulla superficie del muro.

Queste immagini sono il prodotto di una intensificazione spaziale del tempo: sono ombre nere dipinte dal carbone della storia. Su di esse il pittore sudafricano ha progettato e realizzato un altro corteo durante l’inaugurazione dell’evento, un corteo di ombre proiettate dalle sagome tenute in mano come vessilli da figuranti che, dalle due estremità della parete, si dirigevano a passo lento verso il centro del percorso, accompagnati e sostenuti da un concerto di suoni e vocalizzi, imprecazioni ed esultazioni. La sovrapposizione delle ombre ottiche, fluide e mutevoli, su quelle impresse sulla parete, fisse e definitive, creava un dialogo non soltanto ottico ma anche storico tra le ombre del tempo-passato e quelle del tempo-presente. Le ombre proiettate dalle stesse sagome che precedentemente sono servite da stencil per quelle dipinte inscenano in contrapposizione a quest’ultime una sorta di fluidificazione dello spazio, ridotto a far da argine allo scorrere del tempo, al susseguirsi degli eventi, metafora della storia di Roma che come l’acqua del Tevere continua a scorrergli dentro…..

A testimonianza di questo vano tentativo di rimozione troviamo ancora una volta l‘immagine fotografica di un’ombra impressa dall’anima del carbone.

L’ombra di Hiroshima è la sagoma nera della scala e del corpo di una sentinella dissolti e impressi sulla parete di una casa dall’intensità distruttiva del flash avvampante irradiato dall’esplosione della bomba atomica sganciata da 580 metri di altezza dall’aereo Enola Gay, delle forze Armate degli Stati Uniti, il 6 agosto del 1945. Quest’ombra proiettata (?), o sarebbe meglio dire impressa, dall’esplosione di un piccolo sole cosmico, una versione miniaturizzata del Big Bang originario, vuole essere un monito a futura memoria contro l’irresponsabile arroganza dell’uomo, che continua a non avere alcuna consapevolezza delle conseguenze irreversibili dell’uso delle armi atomiche: carbonizzare l’intera natura e con essa anche il genere umano. L’ombra di Hiroshima, a tutti gli effetti un’immagine acheropita, non prodotta dalla mano dell’uomo, è senza dubbio un’icona della modernità il cui statuto sollecita delle riflessioni su molti suoi aspetti: da quello fisico a quello ottico, da quello politico a quello simbolico, da quello percettivo a quello estetico.

Hiroshima, Foto US Air Force. 

Di cosa è fatta questa ombra? Innanzitutto rileviamo che possiede una singolare proprietà: essa permane anche dopo che la luce dell’esplosione si è spenta e ancorché non siano più presenti i corpi degli oggetti che l’hanno proiettata. Questo ci dice che non è il prodotto di un semplice fenomeno ottico, ma che la sua produzione chiama in causa anche fenomeni termici e chimici. Del corpo della sentinella, che ha fatto da schermo alla vampata di calore che ha sbiancato la parete per tutto lo spazio del suo intorno, non rimane niente, se non questo “disegno fotogenico”, come l’avrebbe definito W. H. Fox Talbot nel suo The Pencil of Nature (1844),letteralmente stampato dal flah atomico che cancella il suo soggetto nell’istante stesso in cui lo fotografa. Così lo definisce Jean-Christophe Bailly nella sua magistrale descrizione, contenuta in L’istante e la sua ombra (Bruno Mondadori, Milano 2010), nella quale aggiunge: “quest’uomo scomparso, cancellato e presente, questo ricordo di uomo, polvere d’essere dispersa, questa sentinella (…) veglia in effetti al di là del tempo che l’ha spazzata via: di per se stessa e come un assoluto della fotografia, non è il tale o il talaltro individuo anonimo, è l’intera specie umana.”

Sul piano strettamente materico, quindi, quest’ombra è la stampa a impressione della polvere residua del corpo carbonizzato; è l’icona dell’anima nera di quel carbone, fissata per l’eternità sulla pelle stessa del mondo e destinata a documentare la fine della storia. Con essa possiamo dire che il carbone ha compiuto il suo ciclo, dipingendo con la sua polvere nera l’intera evoluzione dell’umanità.

Stralci dell’articolo di Giuseppe Di Napoli per Doppiozero

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