CECIONI

CECIONI

SVANITA, LOGORROICA, IMPROBABILE- COSI’ FRANCA VALERI ATTRICE- INTERPRETE SENSIBILE, FINE E COLTA NELLA VITA- I RICORDI DI UNA DONNA CONTRO GLI UOMINI ESIBIZIONISTI E I PIAGNISTEI DEI VECCHI  

 

FRANCA VALERII gatti sono stati la sua vita. Come lo furono Vittorio Caprioli e Maurizio Rinaldi. Ma non sarebbe giusto tralasciare la cosa più importante che Franca Valeri ha avuto in sorte: il teatro. Potrà sembrarvi una frase enfatica. Ma cosa c’ è di enfatico in un amore dichiarato con intelligenza e sommessa ironia?

Riproposto ora in un piccolo libro per Einaudi – La stanza dei gatti – dove il teatro è rappresentato come un vecchio signore, magari un po’ stanco ma al tempo stesso intramontabile. Guardo questa donna ormai fragile, percepisco la fatica che accompagna le parole e i pensieri lucidi strappati a una infermità che indossa con tranquillità; penso alle luci del palcoscenico che hanno illuminato la sua lunga vita.

franca valeriLa piccola casa in cui vive è accogliente: i gatti sono nella loro stanza; il cane Aroldo – un nome, dice, di ascendenze verdiane – ronfa tranquillamente sul divano: « è un Cavalier King Charles, sa quei cani immancabili nei quadri di corte? Ne ho cinque, gli altri quattro a Trevignano in campagna, e poi ci sono cani di altre razze, li salvo e li accudisco. Fanno parte della mia vita che è stata lunga e, devo riconoscere, fortunata».

Quanto fortunata?

«Parecchio, sospetto. Lo sono stata per tutte quelle occasioni che si sono presentate senza che le determinassi. Poi, oltre alla fortuna, c’ è il talento senza il quale in un mestiere come il mio non si va da nessuna parte».

Il talento ha una definizione?

franca valeri«Possiamo sostituirlo con bravura, creatività, istinto e, nei casi più rari, genialità. Ma alla fine è una condizione inconoscibile. Come la grazia che si va a posare dove vuole».

E lei come ha scoperto di averlo?

«Non l’ ho scoperto, nel senso che non è una condizione a parte o che si aggiunge alla psiche. Recitando avvertivo l’ estrema naturalezza con cui la voce accompagnava il corpo e la gestualità di quest’ ultimo. Sentire tutto questo equivale all’ ascolto del suono delle campane la domenica mattina».

Come fosse un richiamo religioso?

«Più che religioso parlerei di sacro. Sono convinta che l’ origine del teatro si collochi in quell’ indefinibile momento. Senza sacralità non si capirebbero i riti che vestono il teatro e la crudeltà che lo segna. Non era Antonin Artaud che parlava di teatro della crudeltà?».

È a quello che si riferisce?

«Intendo crudeltà non come sadismo ma necessità: se sei posseduto da quel demone non puoi fare altro che sottometterti alla sua forza. Sono convinta che il teatro sia il modo più importante che sia stato offerto a chi crede di avere qualcosa da dire».

Più importante della letteratura?

«Altrettanto importante, ma certamente collocabile prima della letteratura».

Lei recita ancora?

«Non più. Sono caduta, qui in casa, il 21 ottobre dello scorso anno. Rottura di cinque costole e una riabilitazione lenta e parziale. Devo stare ferma. Non mi lamento. Se c’ è una cosa che mi dà enormemente fastidio è il piagnisteo dei vecchi. Lasciamo le lacrime ai giovani. Loro hanno diritto di piangere con quello che gli sta capitando. Noi no».

Non trova che ci sia un eccesso di retorica sui giovani?

«Forse, ma dopotutto se non hanno un futuro, la domanda è: chi glielo ha rubato? Mi piacciono i giovani, mi circondo delle loro attenzioni. Racconto loro cose che non sanno, che neppure immaginano siano mai esistite. Mi sento una specie di portabandiera del passato».

FRANCA VALERICom’era da giovane?

«Spiritosa. Ma lo ero anche da bambina. Già allora pensavo di voler recitare. Cioè, volevo rendere il mio pensiero qualcosa di esprimibile agli altri. Non ho mai avuto dubbi su questa vocazione. Ma è stato difficile darle una voce e un corpo».

Perché?

«Sono nata alla fine della Prima guerra mondiale. Esattamente nel 1920. Poi arrivò il fascismo che scambiò la vita delle persone per un teatro permanente e mediocre. Dovetti attendere il dopoguerra. E fu davvero un bel periodo: un’epoca certo dura ma felice».

I suoi come reagirono a quella voglia di fare teatro?

COPERTINA DEL LIBRO DI FRANCA VALERI«Mio padre reagì male. Oltretutto, aggiunse con una certa ironia, non c’erano precedenti in famiglia. Gli feci notare che non era del tutto vero: una lontana cugina, Fanny Norsa, che era vissuta in Inghilterra, aveva calcato il palcoscenico come ballerina. La verità è che a mio padre sembrava impossibile che io avessi le qualità per recitare. Poi ebbe modo di ricredersi».

Quando?

«Una sera venne a teatro a sentirmi. Notò che la gente mi seguiva divertendosi e applaudendo. Il giorno dopo mi disse che aveva riposto molte ambizioni su di me e che dopo avermi visto attrice aveva avuto la certezza che non sarei fallita».

Cosa faceva suo padre?

«Era ingegnere, fu un importante dirigente della Breda. Allontanato dal posto di lavoro per ragioni razziali».

Foste perseguitati?

«Ce la siamo sempre cavata. Alcuni amici fidati aiutarono mio padre, mia madre, mio fratello e me a riparare in Svizzera. Anche in quell’occasione fui fortunata, mi venne risparmiato il dolore atroce delle tante famiglie ebree disperse, distrutte e annientate. Finita la guerra tornammo in Italia».

franca valeriCominciò allora la sua carriera?

«Avevo recitato, ma niente di impegnativo. Divenni amica di Vittorio Caprioli che aveva già maturato qualche esperienza teatrale. Era simpatico, brillante, fantasioso. Ci dicemmo che era venuto il momento di trovarci un lavoro e passammo in rassegna gli attori che avrebbero potuto aiutarci. La scelta cadde su Sergio Tofano».

Quello del “Signor Bonaventura”?

«Aveva creato una maschera che divenne popolarissima sul Corriere dei piccoli. Alla fine, dopo parecchi assalti, Vittorio lo convinse a fare compagnia con noi e uno dei primi spettacoli che allestimmo fu proprio Bonaventura. Ricordo che uno dei ruoli che interpretai fu il cane bassotto, il che vista la mia passione per gli animali mi sembrò gravido di conseguenze».

Con Caprioli vi sposaste.

«Il nostro matrimonio durò un po’ meno di quindici anni e poi ci siamo separati, andando ciascuno per la propria strada. Lui con le sue storie io con le mie. Senza rancori né complicazioni. Anche perché trovai un nuovo compagno, Maurizio Rinaldi, un musicista che seppe appagare l’altra mia grande passione: l’opera».

franca valeriErano molto diversi?

«Direi di sì, ma erano uguali in fatto di tradimenti. Specialisti in adulterio». Ne ha sofferto? «Non più di tanto, la gelosia passava rapidamente e poi cosa vuole gli uomini sono dannatamente esibizionisti».

Non ritiene che Caprioli sia stato un grande attore ma sottovalutato?

«Più che sottovalutato incompreso. Aveva una istintiva profondità nell’interpretare certi personaggi, rara in quel mondo. Oltretutto è stato un bravissimo regista di cinema. Ci sono almeno tre suoi film che reputo bellissimi».

Mi viene in mente “Splendori e miserie di Madame Royale”.

«Magnifico, una storia di travestitismo tra il grottesco e il dolente senza eguali. Con un Ugo Tognazzi insuperabile nella parte di Madame Royale. Dati i tempi non era semplice affrontare le problematiche di quel mondo».

Era la prima volta credo che in Italia si rappresentavano delle drag queen.

«Il film uscì nel 1970, oltre che regista Vittorio era anche uno degli interpreti di questa stravagante comunità omosessuale: si era dato il nome piuttosto pittoresco di “Bambola di Pechino”. Ma il suo film, cult anche per i più giovani, è Parigi o cara dove io interpretavo il ruolo di una svagata prostituta sui cui tratti avrei ricamato il personaggio della Sora Cecioni».

Franca Valeri e Vittorio Caprioli

La mitica Cecioni che esordiva al telefono con “Pronto mammà”.

«Già, il personaggio fu ispirato da una mia donna di servizio, oggi guai se le chiami così, Renata. Una bella cinquantenne, vedova, prosperosa, con ossigenatura e permanente fatta in casa. Fu lei il mio modello. Ancora oggi la penso con affetto e gratitudine. Ma so che quel mondo non esiste più».

Come definirebbe la comicità?

«Certamente è un istinto. Poi c’è la gioia di divertire il pubblico con qualcosa di tuo. C’è gente che incontro o che mi scrive per ringraziarmi di quel poco o tanto che le ho donato».

Lei ha lavorato tantissimo con Alberto Sordi. Cosa conserva di quel rapporto?

«Se non ricordo male, credo di aver fatto sette film con lui. Mai uno screzio, una insofferenza, una caduta di stile. Certamente fu un comico di straordinario talento. L’ho amato molto meno quando si mise in testa di fare la regia dei propri film. Aveva un tale potere sul pubblico che tutto gli era permesso e perdonato. Ma ho lavorato anche con Totò: davvero unico. La sua comicità si fondeva con i tempi della tradizione del teatro napoletano. In privato era molto diverso, come afflitto da una seriosa malinconia. E poi c’è De Sica che per me è stato un idolo. Oltre che recitare sapeva far recitare e questo non è da tutti».

Ha lavorato anche con Eduardo De Filippo?

«Presi parte a Questi fantasmi, ma a me piaceva soprattutto Peppino».

Ha mai capito perché litigarono?

«Rivalità, incomprensione, stanchezza. Chi lo sa. Il nostro è un mestiere che può molto innervosire. Comunque, senza togliere l’aura ai due fratelli, ritengo che la più straordinaria dei tre fosse Titina. E loro lo sapevano».

Le accade di rivedere i suoi vecchi film?

«Non ho molto piacere a rivederli. Poi, se qualcuno insiste, capita che torni sui luoghi del delitto e finisce che mi ci appassiono. Siamo deboli, umani e un po’ vanitosi, no?».

Prima si accennava alla gelosia che è un tratto ricorrente tra coloro che recitano in teatro

«Sono sempre stata immune da questo sentimento. Anzi, ho cercato spesso di voler bene e farmi voler bene. Noto, con soddisfazione, che invecchiando il mio giudizio conta per le altre, per quelle attrici che sono agli inizi o nel pieno della loro attività».

Si sente vecchia?

«Lo sono, è un fatto. Le leggi della natura comprendono la decadenza. Ma il punto è come frani. O, se vuole, come si protegge la propria dignità di donna e di artista».

In questo nuovo libro si definisce una “donna sola”.

franca valeri intervista«Ho avuto una carriera quasi sempre solitaria, fatta più di monologhi che di incontri. Quanto al privato, la mia vita mi ha riservato il destino di essere lasciata sola. Soprattutto affettivamente. Quando perdi i genitori, gli uomini che hai amato, gli amici che non ci sono più, la solitudine diventa una condizione imprescindibile. Però non ho mai avuto la sensazione di essere abbandonata».

Vuole dire che non le pesa?

«So che esistono persone per le quali la solitudine è come una mazzata sulla fronte. Non fanno che lamentarsene. Io posso stare sola sia perché non ho perso il senso dell’amicizia, sia perché continuo a scrivere. Mi duole soltanto non poter più leggere».

C’è un libro che è stato fondamentale per la sua crescita?

«Ce ne sono diversi. Ma per forza di cose il libro della mia vita è stato la Recherche. Lo lessi tutto durante la guerra, diciamo nel mio esilio dorato in Svizzera. Mi entusiasmò, per la lingua francese che esprimeva e per quel senso straordinario che Marcel Proust attribuì al tempo del ricordo».

FRANCA VALERICosa intende dire?

«Quella lettura tra le tante cose mi ha anche insegnato il valore del tempo. Mi ha educato a ricordare. Molte cose della nostra vita ci sfuggono e a volte le ritroviamo improvvisamente. Ma dobbiamo essere pronti a carpirle. Mi piace molto in questa fase della mia vita ricordare. A volte quando non prendo sonno, o mi sveglio improvvisamente, comincio delle lunghe “passeggiate” notturne».

È come liberare la propria mente.

«La mente si rigenera nel ricordo e ci dimostra che siamo ancora vivi». Lo dice con una punta di nostalgia. «È una sorella che a una vecchia cocciuta come me fa da badante. Però non bisogna cercare la pietà che è quasi sempre falsa o inutile».

franca valeri 1Accennava allo scrivere.

«Sto lavorando a un nuovo libro. Vorrei intitolarlo: Il secolo della noia».

Quale secolo?

«Quello in cui siamo entrati. Aspettavamo il Duemila con la speranza che avremmo visto realizzate cose straordinarie. E tutto lo straordinario che c’è stato vomitato addosso è solo qualcosa di ripugnante. Ci resta questa noia. Noia per il progresso ostinato, per le banalità televisive, per le cattive notizie, per i ciarlatani della politica che hanno scambiato il Parlamento per un teatro, ma non sanno nulla del vero teatro. Ogni tanto mi chiedo: risorgeremo da tutto questo tedio? Non ho una risposta, ma ci sto seriamente pensando».

Antonio Gnoli per la Repubblica

Segue uno spezzone del film di Caprioli: Splendori e miserie di Madame Royale

 

IL NOVECENTO DI GILLO

IL NOVECENTO DI GILLO

IL GRANDE VECCHIO GILLO DORFLES RICORDA TRIESTE NEGLI ANNI DELLA SUA ADOLESCENZA- UNA CARELLATA FRA STORIA DELL’ARTE E ANEDDOTI SUGLI ARTISTI CHE CONOBBE E CHE LO EDUCARONO AL BELLO E AL GUSTO, DI CUI E’ STATO INTERPRETE AFFASCINANTE E RIGOROSO

GILLO DORFLES Il mio Novecento all’ insegna dell’ arte

Gillo Dorfles

MILANO – Nei novantasette anni di Gillo Dorfles (l’articolo è del 2007, oggi Gillo ha 107 anni, n.d.r.) ci sono molte cose che sorprendono. La sua vita è come una scatola di preziosa radica: semplice, antica, solida. La apri e avverti l’ odore di un intero secolo. Gioie e amarezze. Come per tutti. Ma con scarsi rimpianti. E soprattutto con pochi drammi. Ecco, se penso alla vita di Dorfles e al suo modo di raccontarla (forbito senza scadere nell’ affettato) vedo uno di quei caratteri che hanno reso immortale la commedia hollywoodiana: un senso sofisticato e civile di porgere i pensieri e le argomentazioni. Il che, naturalmente, non significa impedirsi di scegliere, di preferire, di detestare. Ma tutto si svolge secondo regole non scritte. Vado a trovarlo nella sua casa milanese, un bel palazzo degli anni Trenta dove abita al penultimo piano. Pare che Dorfles prediliga le scale all’ ascensore. Un tempo amava salirle a gambero. Un modo stravagante per tenersi in forma. Mi accoglie nella sua casa borghese. Dei Fontana e Capogrossi adornano le pareti del salotto. Dalla penombra del pomeriggio affiora un pianoforte a mezzacoda sul quale il professore si esercita quotidianamente. La musica è uno dei suoi impegni. L’ altro è la pittura. Ama dipingere. Per un professore che ha lungamente insegnato estetica può sembrare una stranezza. Se ci si spingesse un po’ oltre verrebbe da dire: ecco la quadratura del cerchio: il critico che volle farsi artista. Quando può scrive. Ora sono apparsi i suoi Taccuini Lacerti della memoria (Editrice Compositori). Sono ricordi, appunti, note che attraversano il secolo. Dorfles non è un uomo emotivo. La cifra dei suoi sentimenti è neutra. Ma è un neutro che nasce non dal vuoto, ma dal troppo pieno. È come se quest’ uomo avesse visto troppo: il crollo di un impero, due guerre mondiali, i totalitarismi, la ricostruzione, la democrazia. L’ individuo e la massa. Dorfles, in un certo senso, è il Novecento visto dal lato meno oscuro. Ma non per questo meno inquietante. In fondo egli è la perfetta realizzazione di una Mitteleuropa senza nostalgia e cupezza. Dorfles è nato nel 1910 a Trieste. «Per qualche anno sono stato cittadino dell’ Impero. Poi quando è scoppiata la Guerra mi trasferii a Genova, la città di mia madre. Restammo lì alcuni anni.

Lucio Fontana davanti a una sua opera

A Trieste tornai quando ormai ero pronto per il ginnasio e il liceo». Trieste l’ ha formata. «La mia educazione vera avvenne tra gli intellettuali e gli artisti triestini: Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen». Quest’ ultimo sarebbe diventato il vero ispiratore della casa editrice Adelphi. «Quando lo conobbi, alla metà degli anni Venti, era uno stranissimo pifferaio magico». Strano perché? «Perché il suo fascino nasceva da un evidente contrasto. Era fisicamente squinternato, brutto, malvestito; ma il cervello di Bobi era pura armonia. A un sedicenne quale io ero, la cosa produsse un’ impressione enorme». Che differenza di età c’ era tra voi? «Aveva una decina di anni più di me. Da lui ho appreso l’ amore per la letteratura mitteleuropea. Passavamo le serate a discutere di Kafka e Wedekind. Decidemmo anche di prendere delle lezioni di Joyce». Di Joyce? «Nel senso che un professore della Berlitz ci istruiva sulle pagine dell’ Ulysses, un testo come si sa impervio, infestato dal gergo e pieno di concetti». Niente male per un giovane. «Ricordo che mia madre cercava di mettermi in guardia da Bobi. Temeva che la sua influenza potesse alla fine risultare deleteria per la mia formazione». E lei? «Io ero felice di avere conosciuto un simile personaggio. Mi rendevo conto che la sua forza, la sua curiosità, il suo modo di porgere la cultura potevano renderlo inviso.

Opera di Capogrossi

Così successe che quando cominciò a frequentare Linuccia Saba, il vecchio Umberto reagì malamente». Cosa accadde? «Niente di proibito. Però Linuccia era diventata una specie di passione per Bobi, e Saba non lo tollerava. Credeva che Bazlen si fosse infiltrato nella sua casa per adescare la figlia, per la quale il poeta nutriva un affetto più che paterno». Intende dire che l’ attenzione per la figlia nasceva da qualcosa di oscuro? «Dico che la sua gelosia paterna era eccessiva. Saba era diventato un uomo triste, dal cuore stanco. Infragilito dalla malattia, dai frequenti ricoveri nel sanatorio di Gorizia, si era molto appoggiato alla figlia. Sicché le riversò la sua malinconica e prepotente gelosia. La vecchiaia di Saba fu amara e tormentata dalle antiche passioni, non è un segreto che egli avesse delle tendenze omosessuali». Che lui ha raccontato sia pure indirettamente nel romanzo Ernesto. «Fu una confessione viva, spontanea e al tempo stesso crudele». Dove incontrava Saba? «Essendo molto amico di Linuccia, passavo spesso i pomeriggi nella sua casa

Un ritratto di Italo Svevo

. Era un luogo dove regnava il disordine: pieno di oggetti, di poltrone sfondate, di libri sfasciati. Era una casa sporca e fatiscente che contrastava con lo sguardo acuto di quest’ uomo, con il colore azzurro dei suoi occhi. Ma il primo incontro avvenne nella sua libreria antiquaria di via San Nicolò. Ricordo che entrai e vidi questo vecchio con la visiera che mi guardò e bruscamente mi disse: Cos’ ti vol picio?». E lei? «Mi sentivo a disagio. Poi vidi una magnifica edizione del Settecento del Fedone di Platone, cominciai a sfogliarla. E Saba, meno bruscamente: No xe roba per ti. Comunque quella libreria rappresentò per me qualcosa di straordinario. Vi incontrai il meglio della cultura triestina: da Svevo a Stuparich, da Marin a De Benedetti». Svevo non era un vero letterato. «Parlava male l’ italiano e preferiva esprimersi in dialetto. Non era insomma un uomo cerebrale, ma era dotato di un grandissimo istinto narrativo. E poi era spontaneo e spiritoso, tutto il contrario del letterato pedante. A me diciottenne ricordava una specie di vecchio zio. A quell’ epoca si andava insieme a giocare a bocce lungo il Carso. Pochi sapevano chi fosse. Il successo di Svevo arrivò solo dopo la scoperta che ne fece Montale». Cosa è stata la cultura triestina? «Qualcosa di straordinario e forse di irripetibile. Avere ospitato Joyce per dieci anni, e che anni, visto che è lì che è nato Ulisse, sta a significare che quella città nascondeva qualcosa di speciale». Lei accennava a Montale. Quando lo conobbe? «L’ ho conosciuto attraverso Bazlen e Svevo. E poi, con qualche intervallo, siamo restati amici per tutta la vita». Intervallo nel senso che vi siete a volte persi di vista? «A un certo punto accadde che le nostre mogli litigarono.

Umberto Saba

O meglio, la Mosca – che era la compagna di Montale – interruppe i rapporti con noi». Per quale ragione? «La più antica del mondo: la gelosia. Eusebio – che era il soprannome che a Montale aveva dato Bazlen – si era invaghito di una poetessa. E per un certo periodo mia moglie fu la depositaria delle lamentele della Mosca, fino al giorno in cui le disse: “ma lascia che si diverta un poco!”. Voleva placare la gelosia, ma il risultato fu che la Mosca troncò i rapporti perché convinta che anche noi facessimo parte del complotto amoroso». E Montale? «Di fronte a quella giovanottona prepotente, fisicamente esplosiva e per di più poetessa, sto parlando della Spaziani, aveva perso la testa». Non dava l’ impressione di uno che si lasciava andare facilmente. «A volte era un uomo permaloso, scontroso, dai tratti molto liguri. Ma quando si sentiva di buon umore sapeva esaltare le sue doti migliori: l’ intelligenza e la fantasia. A parte quelle incomprensioni con la Mosca, devo dire che abbiamo passato insieme a mia moglie delle serate bellissime con lui». A proposito di sua moglie, so che era legata alla famiglia di Toscanini. «Era la figlioccia. Fece da testimone di nozze quando ci sposammo. Con Toscanini ci vedemmo spesso. E l’ impressione che ebbi di lui era di un uomo testardo e autoritario. Capace però di passioni travolgenti, come la storia che ebbe con Ada Mainardi. Tra i due c’ erano trent’ anni di differenza. Nelle lettere che le spediva si firmava “Artù”!. Era dotato di una grandissima intelligenza musicale. Peccato che detestasse tutto quello che era stato scritto dopo Debussy. Ricordo che una volta ci incontrammo nella sua villa di Riverdale, a New York, e mi parlò malissimo di Busoni e di tutta la musica dodecafonica».

Eugenio Montale

Lei cosa ci faceva a New York? «Erano i primi anni Cinquanta e per me che da tempo mi occupavo di arte, quella città diventava imprescindibile. La mia formazione è stata abbastanza singolare. Sono laureato in medicina con una specializzazione in psichiatria. Mi sarebbe piaciuto analizzare la mentalità del prossimo, rilevarne le stranezze e le anomalie. Ma alla fine hanno prevalso gli interessi estetici ed artistici». Si può applicare la psicoanalisi all’ arte? «Hanno provato in tanti, con pessimi risultati. Il complesso edipico non serve nell’ arte». Però può esserci un rapporto tra arte e follia. «Diciamo che è un rapporto che può servire a comprendere meglio certe motivazioni dell’ artista. Ma non aiuta a intendere l’ opera. Per questo sono un po’ freddo davanti alla recente rivalutazione di Wolfli, un pazzo di Zurigo che ha dipinto lungamente in manicomio, ed è stato definito uno dei più grandi artisti del secolo scorso. Mi pare una enfatizzazione di un artista interessante, ma sopravvalutato in quanto schizofrenico». Mi scusi, se uno non sapesse niente e guardasse un “taglio” di Fontana, potrebbe essere indotto a ritenere quella tela opera di un pazzo. «Fontana era perfettamente normale, semmai rifletteva con la sua opera una diversa inquietudine. Sono stato tra i primi ad apprezzarlo e non me ne pento». Mentre so che non ama Giorgio Morandi. «Quella frangetta, quell’ apparente modestia, quella finta riservatezza nascondevano l’ animo di un furbacchione. Era un uomo di presunzione e ambizione sconfinate.

Arturo Toscanini

Come artista indubbiamente è stato un grande, ma come fantasia, diamine, era limitato alle sue bottigliette. Era coetaneo di Fontana, ma tra loro c’ è l’ abisso di un secolo». In che senso? «Fontana ha creato un’ arte nuova che ha influenzato intere correnti: spaziali, nucleari etc. Mentre Morandi ha rivangato tra le vecchie figurazioni, con estrema raffinatezza, ma senza alcuna innovazione. Questo non vuol dire che Morandi non sia stato un grande della sua epoca. Ma il suo sguardo era rivolto al passato. Quello di Fontana si proiettava sul futuro». Che cosa è stata la critica in Italia? «Difficile dirlo. Intanto separerei il lavoro dello storico dell’ arte da quello del critico che esercita il suo gusto sul presente». Abbiamo avuto dei grandi storici dell’ arte. È d’ accordo? «Sì. Berenson, Longhi, e in parte Ragghianti, furono storici molto preparati. Ma capivano poco della contemporaneità, non avevano la sensibilità sufficiente per analizzare il presente. E poi non c’ era il mercato che c’ è oggi».

James Joyce

Che cosa ha cambiato il mercato? «Tutto. Quando un Principe o un Papa ordinavano un’ opera a Raffaello o a Simone Martini era un gusto epocale e senza sbalzi che si imponeva. Oggi gli sbalzi sono infiniti e dettati dalla collaborazione perversa che a volte si instaura tra critici inaffidabili e mercanti senza scrupoli. Non ci vuole molto a lanciare un artista mediocre». Non pensa che questo stato di cose sia dovuto anche al tramonto dell’ idea di bellezza? «Lascerei il bello fuori dalla porta. La cosa da tenere sott’ occhio è che la durata di un’ opera si è accorciata enormemente. Il barocco ha resistito per secoli. L’ arte nucleare è durata cinque anni». Perché ha scelto di fare il critico e non lo storico dell’ arte? «Ho una certa difficoltà a memorizzare le date. E poi il passato è una grande immensa nebulosa, occorre un talento particolare per saperlo attraversare. Preferisco il presente. È il motivo per cui mi sono interessato fra l’ altro al design, una esperienza contemporanea della quale ho vissuto gli albori». Che rapporto ha con gli oggetti? «Sono come i sentimenti, però più affidabili. Stanno alla base della nostra vita di relazione». Riflettono anche una civiltà, un’ epoca. «La moda, il design, l’ arredamento sono le spie di ciò che una società rappresenta e delle sue evoluzioni». L’ Italia eccelle in questi campi. Perché? «Siamo un paese dotato di talento e di fantasia. Requisiti invece assenti nella politica, dove regna lo sbraco e il cattivo gusto». Cos’ è uno snob in una società di massa? «Un uomo meno solo di quanto si creda. Da noi ci sono snobismi intellettuali, mondani e politici. Non trova che mentre si verificano dei casi di sinistrismo snob, non c’ è un destrismo altrettanto snob? Mirare a eccellere per una certa qualità mondana ed effimera non danneggia nessuno. Tutt’ al più è una perdita di tempo». E il suo tempo come lo trascorre?

Giorgio Morandi, natura morta

«Suono per me, quando nessuno mi ascolta. Ma la cosa che mi affascina di più è dipingere. Ogni tanto, con qualche fatica, scrivo. Nella scrittura non c’ è quella immediatezza creativa che si verifica nella pittura, dove a volte hai la sensazione che un Dio o un demone ti cattura». Lei crede in Dio? «È una domanda che non si fa, esula dalle mie competenze terrene». Diciamo allora qual è il suo rapporto con la fede. «Credo in qualcosa che prescinde dal crudo e duro materialismo. Ma mi fermerei qui, anche perché finiremmo col parlare di religione». La spaventa? «Non il parlarne, ma per quello che rappresentano – ossia il dogmatismo che le anima – sì, mi terrorizzano. Vorrei un mondo liberato dalle certezze assolute. Forse il Novecento ci ha lasciato una eredità ambigua». Lei che lo ha attraversato quasi interamente che giudizio ne dà? «Mi aspettavo qualcosa di più. Ma ormai quasi centenario non ho più il diritto di ritenermi deluso».

Articolo di ANTONIO GNOLI per La Repubblica 

Precente articolo su Gillo lo trovate in questo sito sotto: Gillo, Angelo era troppo, del 20 aprile 2017

 

 

PATTI E IL BARBONE

PATTI E IL BARBONE

 

LA MORTE DI UNO SCONOSCIUTO, UNA CROCE DI STRACCI FATTA A PEZZI- FINISCE LA PUREZZA E L’IDILLIO, SI CONOSCE IL MONDO IL CUI TANFO E’ ALLONTANATO DAL PROFUMO DI UN FIORE, INCASTONATO NEL CUORE DI UN BARBONE- LA VOCE LIRICA DI PATTI SMITH.

 

 

MORTE DI UN BARBONE

Le colline erano verdi e così eravamo noi

ma non nel modo di cui si parla

non avevamo conosciuto la morte

nè camminato con macchia

perchè tutto brillava sulla mano

 

Non avevamo conosciuto la morte

ma il cerchio dei passeri

posati come una ghirlanda sulla palude

segnavano per tutti quella croce fatta a pezzi

Patti Smith, giovane

negli abiti smessi smesso era egli stesso

 

Nel sole e nel vento il battere il passo

l’erba alta ne conosceva lo strascicare

la gentilezza ne avvolse il mito essere

la sua espressione commuoveva i fratelli

 

Il tanfo e senso d’inutile collera

ora noi sappiamo della morte non altrettanto dell’uomo

un fiore selvatico posto nel petto da straccione

le colline sono addolorate d’innocenza

 

Patti Smith

Tratto dal volume Presagi d’innocenza, Frassinelli editore, 2006- Traduzione di Robin Benatti

Patti Smith (1946) cantautrice e poetessa, esponente di punta del rock anni ’60, musa e ispiratrice della generazione punk e new-ware in America.

 

 

LA CANZONE DI PIERA

LA CANZONE DI PIERA

NON PER DENARO, NE’ PER FAMA, MA PERCHE’ NON POSSO FARE A MENO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA GENTE- VOLEVO SCOPRIRE IL CONFINE, IL LIMITE, VINCERE IL TIMORE DELL’ORIZZONTE E SCOPRIRE ME STESSA- AMO ESSERE DESIDERATA- INTERVISTA-CONFESSIONE A PIERA DEGLI ESPOSTI- 

 

piera degli esposti

Definizione di inquietudine, vocabolario di Piera Degli Esposti: «È il timore che l’orizzonte porti con sé soltanto brutte sorprese. Per questo, come tutti, odio la vecchiaia: la bambina che è in me vede il tempo in cui vive e non gli anni che ha». Quelli dell’attrice adorata da De Chirico, De Filippo, Bellocchio, Sorrentino e Moretti, sono incerti:

«Sono nata nel 1938, sui documenti risulto venuta al mondo nel ’39, ma non mi sento una creatura anagrafica e non ho mai desiderato esserlo. Non vado d’accordo con l’età che ho e coltivo un buonissimo rapporto con le persone che mi circondano. Da ragazza ero schiacciata dai doveri e dagli incontri obbligati, oggi mi orientano i piaceri. Esco fuori a cena quasi tutte le sere e sono contenta. Non ho mai amato restare da sola, soprattutto con l’oscurità, forse per lo spavento che la morte mi sorprenda proprio lì, di notte».

Tra una preoccupazione: «Mi dica quando non mi faccio capire» e un bagno nelle terme di Abano: «Amo restare sospesa sull’acqua» Degli Esposti nuota nei ricordi: «Anche se la memoria è un esercizio faticoso, doloroso, quasi masochistico».

Ci ha detto di sentirsi una bambina.

«C’è chi il bambino lo tacita, chi lo reprime, chi lo scaccia e chi addirittura lo uccide. Io – sono tra i pochi – ho preferito tenerlo con me. La mia parte bambina è giocosa, curiosa, incline a meravigliarsi».

Di che cosa si meraviglia?

«Dell’affetto. Non sono popolare come Vasco Rossi, ma quando mi fermano per una fotografia o per un bacio, mi scopro felice. È come tornare indietro all’epoca in cui ero piccola e le amiche di mia madre dicevano: Ma come è cresciuta, come è diventata bella».

È un indizio di narcisismo?

«Non mi sento una mammoletta e se faccio l’attrice significa che qualcosa di indiavolato esiste, ma sono egocentrica, non narcisa. L’egocentrismo lo conosco e lo riconosco, il narcisismo non mi somiglia».

Ma la notorietà le piace.

piera degli esposti«Non per denaro, né per fama, ma perché non posso fare a meno della conversazione e amo la gente. Amo essere desiderata. Sono più nota adesso di quando facevo teatro. E quando mi riconoscono come una di famiglia, magari per una serie tv, mi sembra di essere in un tinello mentre durante la cena, sullo schermo, passa la mia faccia».

Nello specchio si riconosce ancora?

«In una società che si è votata al lifting e alla metamorfosi delle facce e dei corpi, ho conservato il mio volto senza deturparmi. Si rimane giovani o ci si illude di farlo soltanto con la testa, non con le plastiche».

Lei ci è riuscita.

«Questo non vuol dire che mi ricordi tutto e che non mi stupisca nel vedere ciò che ho fatto. Un mio amico, Manuel Giliberti, ha raccolto in un libro la mia storia teatrale dagli anni ’60 ad oggi. Certe cose le avevo dimenticate, altre ero incredula di averle persino recitate».

Il libro si intitola Bravo lo stesso.

«La frase me la disse Giorgio De Chirico, dopo avermi visto al teatro dei 101, in A dieci minuti da Buffalo di Günter Grass riadattato da Antonio Calenda che di quella specie di garage, di quello scantinato, curava la programmazione. Interpretavo un maschio. De Chirico mi venne incontro: Sei stato molto bravo. Risposi che ero una femmina e lui rincarò: Bravo lo stesso. Mi fece capire quanto era preziosa la diversità e quanto fosse rischiosa l’omologazione».

Che scena teatrale era quella teatrale tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70?

«Una scena ricchissima, piena di cantine, teatrini off, artisti come Manuela Kustermann, Giancarlo Nanni, Leo De Berardinis e Perla Peragallo, luoghi in cui sperimentare. Il Teatro La Fede, il Beat ’72, il 101, dove con Gigi Proietti muovevo i primi passi e dove la gente diceva che ci fossero 100 posti e un solo bagno».

Lei da ragazza in bagno si chiudeva.

laura delli colli con piera degli esposti

Piera con Laura delli Colli

«Durante l’adolescenza facevo scorrere l’acqua bollente nella vasca e mi immergevo a lungo. Bussavano alla porta: Piera, cosa fai?, Aspetto l’estasi. Passavano le ore. Ribussavano ancora: Quanto dobbiamo aspettare per l’estasi?. Il mio metodo, un metodo che all’inizio ho faticato a far accettare, l’ho creato io. E l’ho inventato in casa».

In cosa consisteva?

«Nella scoperta di sé stessi, dei limiti, dei confini. Spingevo i cassetti della madia con il ventre in maniera selvaggia, sperimentavo il tono della voce, parlavo da sola affacciata su un giardino disabitato. I vicini andavano da mia madre: Abbiamo visto Piera alla finestra, con chi parla?».

piera degli espostiÈ stato difficile far accettare il suo metodo?

«Non piaceva a nessuno. I premi che ho avuto in seguito pareggiano a stento i rifiuti che ho avuto. Far accettare agli uomini l’idea che fossi una duellante è stata una piccola rivoluzione. Pretendevano di essere gli unici a duellare, i maschi».

Una volta salita sul palco, cosa ha capito del suo mestiere?

«Che il palcoscenico non erano le assi di legno fissate al suolo, ma il luogo in cui ero io, il mio spazio, a prescindere da dove fossi veramente».

Con i registi con cui ha lavorato che rapporti ha avuto?

«Alterni, generalmente buoni. Prima di iniziare qualsiasi lavoro li prendevo da parte e mi facevo rassicurare: Sarai buono con me? Puoi promettermi che non mi sgriderai?» .

Ha mai provato a fare un bilancio?

«Sono contenta di aver affrontato delle sfide, di aver fatto delle imprese e sono felice che certe imprese siano riuscite. Sono lieta anche di averle abbandonate, alcune imprese. Ci vuole coraggio anche per lasciare, per sfidare il dolore dell’addio. Non è da tutti».

Che impresa ha abbandonato?

carolina crescentini laura morante piera degli esposti

Piera con Carolina Crescentini e Laura Morante

«Quella con Carmelo Bene. Non era semplice lasciarlo, Carmelo, dopo aver acconsentito al suo desiderio di avermi. Un desiderio che paradossalmente coincideva con il mio».

Perché lo lasciò allora?

«Prima mi corteggiò. Mi invitò a Forte dei Marmi, in vacanza, per convincermi ad accettare una scrittura. Avrebbe dovuto interpretare Amleto di lì a poco e lo trovai biondo, su un dondolo, assorto nella lettura di un libro. In quei giorni fu delizioso. Preparava la carne sulla brace, giocava a ping-pong con il mio compagno, quando subiva un punto si contorceva, faceva l’adorabile buffone. Mi offrì il ruolo, moltissimi soldi e una promessa: Una volta che ti dirigerò, non potrai farti guidare da nessun altro».

Poi cosa accadde?

piera degli esposti premiata«Non ero convinta. Pregai il mio compagno di chiamarlo e di comunicare a Carmelo il mio rifiuto. Ma lui non si fece ingannare e gli rispose a brutto muso: Deve venire a dirmelo lei, voglio guardarla negli occhi. Mi fregò. Andai, mi circuì in un istante e uscii da lì con la ferma convinzione di poter domare la bestia».

Si sbagliava?

«Come non mai. Non mi aspettavo che cominciasse a fare quei giochetti, in fondo mi aveva voluta lui. Ma cominciò. A Pavia, sede della rappresentazione, mi fece vedere i sorci verdi. Appena arrivai per le prove, teatralizzando ogni cosa come sapeva fare solo lui, esordì subito con una stilettata: Mi sembra di vedere la Degli Esposti, come mai sei venuta? Non mi pare che avessimo fissato un appuntamento. Da lì in poi, fu una escalation di sgradevolezze. Andammo a cena, insultò per tutta la sera un’amica, poi cercò di sviarmi suggerendomi che il giorno dopo non si sarebbero tenute le prove. Non mi fidai».

Le prove c’erano?

patty pravo piera degli esposti

Piera con Patty Pravo

«Certo che c’erano. Io certe cose le annuso. Mi presentai regolarmente e lui non si contenne. Quando al culmine di una tensione brutale fece un riferimento alla malattia ai polmoni, una malattia molto seria che avevo superato a prezzo di un calvario e alla flebilità della mia voce, decisi che era arrivato il momento di chiudere. Ascoltato quel riferimento, il mio compagno avrebbe voluto passare alle vie di fatto. Lo trattenni. E me ne andai. Volevo solo allontanarmi. Feci bene».

Fu un’impresa anche quella?

«Senz’altro. A volte, pur non essendo un’atleta, a volte mi sono sentita come un piccolo campione. L’altro giorno ho visto Federica Pellegrini vincere e battere i pugni sull’acqua. Mi sono riconosciuta. Io per farmi ascoltare battevo i pugni sui tavoli, non c’è poi tanta differenza».

tony servillo piera degli esposti paolo sorrentino 994962

Piera con Tony Servillo e Paolo Sorrentino

Anche vivere ha rappresentato un’impresa?

«A me la vita piace molto, anche se è spesso attraversata da giorni di pioggia. Ci abituiamo alle stagioni e ci abituiamo agli imprevisti. Consapevoli. Dritti contro il vento. Senza disamore alcuno».

Qualcuno l’ha chiamata La guerra di Piera.

«È carino, la guerra di Piera. Ma la verità è che io ho creduto al mio talento. Visto che nessuno ci puntava una lira, se non l’avessi fatto nemmeno io non sarei andata avanti di un solo passo».

storia di piera dacia maraini e degli espostiPer De Filippo lei era il verbo. Per Sorrentino, un’attrice inarrivabile. Per i fratelli Taviani, la più umile delle muse. Visto che del suo talento era consapevole, come ha fatto a salvarsi dalla presunzione?

«Sono una persona che ha paura ed è molto difficile che una persona che ha paura possa essere presuntuosa. La lotta con la paura mi impone un ordine che ho stabilito io stessa, nella mia casa, nel mio lavoro, nella mia vita di tutti i giorni. Un ordine che mi trattiene dal finire come in quel bellissimo film di Polanski, Repulsion, con il caos che si impossessa lentamente della casa e Deneuve, la protagonista, che fluttua nell’appartamento sola e senza mèta con i piatti sporchi ovunque fino ad impazzire. Io voglio altro. Voglio che il disordine che ho nella testa si proietti fuori e diventi coraggio».

piera degli esposti nei panni de la santa«Mi hanno deluso le amicizie promettenti che poi hanno tradito le aspettative iniziali. Si parla sempre delle delusioni d’amore, ma le amicizie immaginate e poi perdute non feriscono meno».

Tende a dimenticare?

«Tendo a ricordare tutto, soprattutto se in qualcuno avevo riposto fiducia. Se avevo visto un grand’uomo e poi mi accorgo di avere avuto di fronte un mediocre, non lo dimentico».

Ci ha detto di amare la gente. Ha incontrato molte persone intelligenti?

«Le persone intelligenti si isolano. Ma sono stata anche, diciamo, in situazioni mentalmente più modeste e mi sono trovata benissimo. Come le ho detto, a me il rumore della vita piace e mi piace anche quello della gente. Non deve essere il rumore dei cretini, ma il cenacolo ristretto, composto da due o tre amici e non di più e in cui magari si ragiona di cose interessantissime, non mi appartiene e alla lunga non fa per me. Mi divertono le avventure, le conoscenze nuove, i ragazzi più giovani di me, il dialogo. Anche se non è altissimo. Anche se è semplice. Non è che si debba leggere sempre Kant per sentirsi bene».

Ha detto di aver incontrato due uomini più leggeri di altri: Marco Ferreri e Lucio Dalla.

piera degli esposti al teatro greco di siracusa

Piera durante le prove al teatro greco di Siracusa

«Ferreri non era legato a nessuna epoca. Uomini come lui non ne costruiscono più. Era molto più avanti degli altri e non aveva paura dell’ignoto. I suoi film rappresentano senza spavento il futuro che non abbiamo ancora conosciuto. Dovremmo rivederli e considerare Marco un Virgilio che ci accompagna. Mi ha anche fatto molto ridere. Lo trovavo molto erotico. E ridere, in amore, come nell’amicizia, è fondamentale. Fa parte del godimento. È come bere, mangiare, fare l’amore».

E Dalla?

«Lucio, un fratello, credo di averlo incontrato per la prima volta a sei anni. Gli dicevo: Sei brutto, ma hai dei fianchi stupendi, sembri Robert Mitchum. Da ragazzi andavamo sui colli bolognesi a bordo della sua Lambretta. Io suggerivo: Andiamo in Vespa? e lui, piccato, mi correggeva È una Lambretta, Pierina. Una Lambretta. Due giorni dopo la sua morte, mi arriva una lettera a casa. La apro: Salve, sono il padrone della Lambretta e si mette a raccontarmi tutta una storia in cui Dalla, che di quella motoretta era letteralmente pazzo, l’aveva ottenuta scambiandola con un altro oggetto, un banjo, al quale pure teneva tantissimo. Leggerla mi fece molta impressione. Mi sembrò che Lucio per un momento fosse tornato».

piera degli esposti ne il divoIn quanto a segni e simbolismi lei non scherza.

«Il 9 maggio 1978, dopo un anno da tregenda per la malattia ai polmoni di cui le parlavo prima, mi ritrovai all’alba in Via Caetani, a Roma, davanti alla sede dell’istituto di Dramma Antico dove avrei dovuto incontrare un funzionario che conservava per me due biglietti di treno per Siracusa.

Tornavo a recitare al Teatro Greco dopo un anno di sosta forzata, ma per diktat medico, dovuto al rischio di una crisi polmonare, non potevo prendere l’aereo. Lo aspettai appoggiandomi a una R4 rossa e poi, dopo quasi un’ora e mezza, visto che non arrivava nessuno, mi spostai per prendere un caffè. Sapere più tardi che in quell’auto c’era stato Moro mi impressionò molto. Mi consolai pensando di avergli fatto compagnia».

Neanche due anni più tardi si trovò a lavorare con Nanni Moretti.

dacia maraini e piera degli esposti

Piera con Dacia Maraini

«Tutti mettono in luce i suoi difetti, ma in realtà Nanni, tutt’altro che ingeneroso, era di grande umanità. Non era ancora famoso come oggi e mi offrì di recitare il ruolo della madre in Sogni d’oro. Propose quello del padre a Bene, ma Carmelo fuggì adducendo la scusa di un mal di denti. Io accettai, ma non dissi subito di sì: Ci voglio pensare. Nanni veniva a vedermi tutti i giorni alle prove dello spettacolo di Cobelli e invece di entrare dalla porta principale, scavalcava un muro di cinta.

piera degli esposti dacia maraini marco ferreri

Piera con Dacia Maraini e Marco Ferreri

Gli altri attori erano allibiti: ‘È strano il tuo giovane amico’ e io ‘non vuole incontrare la gente’. Nanni era un po’ nervosetto e qualche stranezza in effetti l’aveva. Camminava sempre un passo avanti e poi si voltava di scatto: Non ho capito bene cosa hai detto. Lo conobbi in un periodo in cui eravamo entrambi un po’ sbalestrati. Inventava sonetti in cui avvicinava i socialisti a mio fratello Franco: Penso male di Bettino/mi dispiace per Franchino e ogni tanto mi invitava a casa.

Conobbi anche sua madre Agata, una gran donna. Signora, lei mi piace tanto – le dissi – sarebbe stato bello se l’avessi conosciuta nei miei primi tempi a Roma. Era una frase sincera, alla quale però non diedi seguito. Nanni me lo rinfacciava. Le avessi fatto mai una telefonata mi diceva. Ma lui era fatto così».

Lei perdona o porta rancore?

PIERA DEGLI ESPOSTI E LUCA BARBARESCHI

Piera con Luca Barbareschi

«Vorrei mantenere il punto, alimentare la rabbia e tatuarmi la delusione, ma poi in verità me la scordo, la annacquo e finisco per mischiarla al perdono. Sono una perdonifera nata».

 

Articolo di Malcom Pagani per ”Il Messaggero

 

LA CASA DELLA VITA

LA CASA DELLA VITA

LE CASE DELLA VITA, PALAZZO RICCI IN VIA GIULIA E PALAZZO PRIMOLI(OGGI MUSEO) IN ROMA, DIMORE DEL CRITICO MARIO PRAZ, NELLA DESCRIZIONE CHE EGLI NE FA, TESTIMONIANZA E GUIDA ERUDITA ALLA RICERCA DEL BELLO E DEL BUONGUSTO.

IL COLLEZIONISMO E’ UN VIZIO, SODDISFA L’ISTINTO DEL POSSESSO, ESSO SI SOSTITUISCE ALL’EROTISMO- AVERE UN CERTO MOBILE CHE HA ARREDATO LE STANZE DI MARIA ANTONIETTA PUO’ DARE UN BRIVIDO ANCHE AD UN ANIMO PIU’ DELICATO. PAGINE SCELTE DI LA CASA DELLA VITA, PRECEDUTE DAI RICORDI DI ALBERTO ARBASINO, MAURIZIO CALVESI E ALVAR GONZALES PALACIOS. 

 

Nonostante l’età (sono state scritte nel lontano 1958) non annoiano, alla lettura, le oltre 400 pagine di La casa della vita, di Mario Praz.

Mario Praz

Praz, nato a Roma nel 1896, da padre impiegato di banca e da madre nobile, laureato in legge e in letteratura, poliglotta, fu saggista, critico d’arte e appassionato collezionista, esperto di letteratura inglese dal 1600 alla fine del ‘800, ma anche di quella spagnola, russa e francese. Morì a Roma nel 1982. Non si impegnò nel dibattito pubblico, anche se viene ricordata la sua critica alle posizioni estetiche di Benedetto Croce. Dopo la guerra finì in parte emarginato, ad opera dei crociani e per la diffidenza nei suoi confronti degli antifascisti.

La Casa della vita è uno strano libro in cui, dietro il racconto delle magnifiche stanze addobbate secondo lo stile Impero, caro a Praz, emerge continuamente, dissimulata e reticente, la biografia intellettuale, e non solo, dell’autore. Già l’assenza nel titolo del possessivo mia è inusuale, non trattandosi di una “generica” vita, ma quella, unica e irripetibile, dell’autore. Sicché, oltre all’erudizione del fervente antiquario, l’obiettivo di descrivere minuziosamente, stanza dopo stanza, le case in questione, si trasforma inevitabilmente in rievocazione fra autobiografia e storia dei luoghi e dei tempi, in un affresco ancora ricco di fascino dell’Italia fascista e della ricostruzione post-seconda guerra mondiale. Ma chi era Mario Praz? Così lo descrivono tre illustri contemporanei.

ALBERTO ARBASINO: “Il Professore, così come noi l’ avevamo conosciuto negli anni Cinquanta, era un personaggio solitario ed estremamente gentile. Viveva, circondato di bizzarre leggende, in una casa che dicevano assomigliare ad un monumento funerario – si trattava del famoso appartamento di via Giulia, pieno di bronzi e di cornici dalle dorature lucenti, di mobili lustri, di quadri e acquerelli dai colori pastello, della ricchissima biblioteca dalle meravigliose rilegature, di incantevoli porcellane di un mondo di curiosità e di testimonianze appartenute alla vita elegante del XIX secolo, epoca che l’ esuberanza di Napoleone ha reso una tra le più ‘ giovani’ ! “La sua casa e i suoi saggi smentivano i fantasmi di quello stile Impero, ciarpame polveroso e sinistro, che fa da sfondo ai racconti della seconda metà dell’ Ottocento, soprattutto inglese: le case del mistero, abitate da vecchi maligni e bisbetici… Come se gli autori dell’ età vittoriana vivessero, dal canto loro, in ambienti gai, tra una mobilia ridente! “Il collezionismo del Professore non raccoglieva opere troppo importanti, che fossero oltre la portata delle possibilità offertegli dallo stipendio universitario e dalle scoperte presso gli antiquari fuori del circuito della moda. Ma le centinaia di oggetti in stile perfetto e di gusto squisito – frutto di un’ erudizione sterminata e di una vertiginosa preveggenza – creavano attorno al Padrone di Casa una atmosfera piena di fascino, e costituivano un degno parato per l’ arte infinita della sua conversazione.

MAURIZIO CALVESI: “… Fisicamente, Mario Praz era un uomo molto brutto. Zoppicava leggermente. Era cupo, con un viso tetro e molto sinistro. In più, era contraddistinto da una celebre nomea: gli si attribuiva un potere malefico. Ancor oggi nessuno, qui a Roma, pronuncia mai il suo nome, perché tutti sono persuasi che questo nome potrebbe provocare una catastrofe. “Egli era perfettamente consapevole di questa diceria e, in un certo senso, ne era contento. Se ne serviva. Gli piaceva essere temuto e coltivava la leggenda che gli attribuiva la facoltà di gettare il malocchio e di portare sfortuna. Poiché era di natura assai lugubre ed aveva un temperamento aggressivo, aveva contribuito a rafforzare la sua immagine di uomo poco socievole e poco disposto alla comunicazione e alla convivialità.

ALVAR GONZALES PALACIOS: “… Tra gli antichi egizi, la casa della vita non era altro che la tomba. “Praz, io credo, avrebbe voluto morire come Sardanapalo, dando fuoco attorno a sé a tutte le cose care, sgozzando i più bei puledri, strangolando una dopo l’ altra le bellezze che lo circondavano, purificando tutte queste vanità in un rogo allegro e sinistro… “In un certo senso, fu quel che successe: pochi giorni dopo la sua morte, mi chiamarono per verificare, nei limiti dei miei ricordi, l’ entità del furto commesso da ignoti nel suo appartamento. Lo spettacolo era sconvolgente. Aperta la porta di mogano, si presentò ai miei occhi la vista di una stanza saccheggiata e profanata. “I ladri avevano portato via un centinaio di oggetti e lasciato uno spaventoso disordine. Dappertutto, brandelli di carta da imballaggio, mobili rovesciati, suppellettili sparpagliate in tutti gli angoli… Vidi i fiori di seta, che una volta ornavano le anfore di opalina e di bronzo dorato del camino presso il quale tante volte ci eravamo seduti a conversare, sparsi come il rito di una messa nera. Pensai che un simile spettacolo dovette offrirsi agli occhi di Carter quando fu abbattuta la pietra che sigillava la tomba di Touthankamon…”

 

Non essendo possibile sintetizzare la profusione di dettagli e osservazioni in tema di stili e arti minori, né della qualità di affreschi, consolle, soprammobili, busti marmorei e putti in silhouette, biblioteche Regency,  armadi a losanghe e palmette, lampadari in bronzo o cristallo, vasellame, vassoi, carte da parati e tapisserie, ventagli, ecc. ecc. che Praz descrive con acribia, vi rimando volentieri alle numerose foto d’insieme dei diversi ambienti.

Leggo, infatti, nella versione accresciuta, edita da Adelphi nel 1979, arricchita da 27 tavole fuori testo, che riproducono le stanze delle case in cui Praz visse. L’indice delle persone e delle materie lungo ben 15 pagine dice della ricchezza, in poco caotica-né poteva essere diversamente,-dei fatti e dei ricordi che Praz restituisce, con uno stile per nulla pedante e un lessico corrente.

Nell’invitarvi alla lettura integrale del testo, mi limito a riportare, precedute o intercalate da un breve commento, alcune delle pagine che mi hanno particolarmente colpito, per il contenuto autobiografico e la vivacità delle descrizioni (fra parentesi il numero della pagina). Ho cercato, per quanto possibile, di dare un senso cronologico alla presentazione.

Due paia d’occhi azzurri (pagg. 121 e segg.)

Se gli occhi in questione sono quelli di una madre, è facile che il ricordo si trasformi in carezza. Qui però essa si carica di un contenuto metaforico che è la promessa di quell’erotismo che poi Praz troverà nelle donne della sua adolescenza, con quella bellissima immagine delle donne liberty che chiude il brano.

“Erano i primi anni del secolo, e la vita sembrava allora molto lieta; o forse era così lieta solo nel ricordo, perché è il ricordo che crea il tempo felice. Sua madre gli dava la buonanotte, a lui coricato, e con un bacio si faceva perdonare lo svago che si prendeva senza la compagnia del figliolo (davvero stavano troppo insieme); e nel curvarsi su di lui, la luce della lampada sul comodino le aveva colto gli occhi nel suo alone, e gli occhi avevano scintillato come le gemme della parure, erano apparsi come pietre preziose che pensassero.

Quadro stile Liberty. proveniente da Praga e ora esposto al museo di Miramare, Trieste

La straordinaria qualità di quegli occhi era d’unire due virtù in apparenza opposte, la morbidezza del velluto e o scintillio prezioso, adamantino delle gemme. Lui, di quegli occhi, sentiva solo la carezza e la luce; apprese poi che altri ne sentiva il fuoco….. Chinava la fronte su di lui già invaso del primo sopore; egli ricordava la magnifica acconciatura, le perle morbide come lo sguardo, i brillanti pieni di scintille come quello sguardo, e la veste magnifica di danza, come calice di quel fiore che emergeva con bianche spalle e candida fonte; quella veste che più tardi aveva veduto sgualcita e impallidita in un armadio, e poi era rinata improvvisamente alla sua vista nei quadri di Boldini o di Sargent, chè le donne dell’epoca liberty eran tutte come dondolanti fiori sui prati d’un mondo sereno.”

Conoscenza con Croce (pagg. 136 e segg.)

Palazzo Primoli, casa museo Mario Praz

Il tono ironico e un poco beffardo del brano svela un aspetto del carattere di Praz, non certo propenso alla adulazione, e piuttosto scettico nel riconoscere prestigio o ascendente a chiunque. C’è da dire che, come ogni ricostruzione a posteriori, la natura del suo rapporto col filosofo napoletano va presa col beneficio di inventario. Purtuttavia, essa è degna di nota, perché, più che confermare la nota diversità di opinioni estetiche fra i due, Praz insiste per ribadire la lontananza da un mondo che non è mai stato il suo, nemmeno in gioventù, sotto l’ombra del più autorevole e riverito filosofo italiano del ‘900. 

Nell’aprile del 1925 feci conoscenza personale di Croce a Napoli, nel suo palazzo di Trinità Maggiore 12: ricordo un cortile un po’ fatiscente, dove un pittore di angoli pittoreschi d’Italia, nei secoli scorsi, avrebbe trovato il fatto suo, tanto più che, se la memoria non m’inganna, c’era anche una capra. O forse la capra ce l’ha messa a mia immaginazione, ma non era certamente immaginaria la pittoresca schiera di “vaccarielli”, ossia di seguaci e ammiratori del Croce che mi presentò al lavar della mense: napoletani entusiasti e trasandati, alcuni dei quali forse erano giovani, ma l’abito filosofico o filo-filosofico conferiva a tutti un aspetto uniforme di gente grigia, occhialuta, brizzolata, scalcagnata e fervida. Tutti pendevano dalle labbra di Croce, che raccontava aneddoti spiritosi. La sera, dopo cena, seguivano Croce nella passeggiata costituzionale che gli era prescritta dal medico; s’arrivava zampa zampa (come si dice a Firenze, ossia a passi lenti e gravi) fino a San Francesco……Forse Croce mi vedeva già membro a vita di questa masnada d’ammiratori e clienti, alcuni dei quali poi apostatarono; né è da dire che il filosofo avesse per tutti qualche stima, ma molti non allontanava perché lo divertivano come (per usare un termine cinquecentesco) “nuovi pesci”, altri ne doveva tollerare per indulgenza e bontà; …..

Casa Museo Praz

Forse anch’io passai più tardi per apostata, ma Croce avrebbe avuto torto a credermi uno dei suoi; del resto allora le mie tendenze così poco crociane, non erano ancora apparenti. Forse ero stato crociano solo quando ero studente a Roma, prima del 1920…. Ma nel 1925 e per qualche anno ancora il Croce poteva immaginarsi che io fossi uno dei promettenti discepoli della sua scuola.

Parigi, oh cara!  (pagg. 248-249)

L’occasionale visita a Parigi nel 1930 permette a Praz di rievocare il fascino della città, di ironizzare con mano lieve e toni amichevoli sulla coppia di amici che lo ospitano ma, soprattutto, sulla loro casa e sullo stile dell’arredamento. La casa è quella di Charles Du Bos, in rue des Duex Ponts, strada posta proprio al centro dell’Ile St. Louis, sulla Senna, fra pont de la Tournelle e pont Marie. Charles Du Bos scrittore e critico cattolico francese strinse col coetaneo Praz un forte legame di amicizia.

Casa Museo Praz

“Era un appartamento incantevole con una camera d’angolo simile alla prora di una nave in mezzo al fiume grigio-glauco; a destra si vedeva la riva dell’isola dagli alberi con le foglie verniciate di fresco verde primaverile, uno spicchio di Notre-Dame e le torri di Saint-Sulpice goffe come tubi, la cupola del Panthéon e le case del Lungosenna color zinco contro il celeste del cielo. La camera era parata di tela dorata con cineserie; i libri eran disposti in scaffali di lacca a fiorami; c’era un’aria di chiesa parata a festa ed era assai civettuola anche nelle altre stanze…… La camera da letto era colore argento si cui spiccavano le tinte vive delle grandi conchiglie collocate sui mobili; era questa la stanza aux coquillages (conchiglie, ma qui per stile roccocò, ndr), e ci si domandava se non fosse in onore d’una famosa poesia di Verlaine (poesia Conchiglie, di cui do la traduzione del frammento citato di Praz, n.d.r.):

……

un’altra imita la grazia                                                 Celui-ci contrefait la gràce

del tuo orecchio ed un’altra ancora                       De ton oreille,et celui-là

la nuca rosa, corta e grassa.                                       Ta nuque rose, courte et grasse;

Ma una sola mi ha turbato.                                        Mais un, entre autres, me troubla.

Ma sul tavolino c’era una riproduzione della castissima Madonna di Alessio Baldovinetti (pittore fiorentino del Rinascimento n.d.r.). E del resto Madame Du Bos, che si occupava di decorazioni interne e probabilmente aveva decorato così la sua casa come un campionario della sua abilità, non aveva nulla di troublant (cioè che potesse turbare, n.d.r)…. Certo un ambiente deliziosamente artificiale e calcolato come una composizione, come i discorsi di Charles Du Bos che conferiva un aspetto profondo anche alle cose più semplici, e parlava insomma come un libro stampato”

Gli incontri con Montale (pagg. 252-253)

Il poeta Eugenio Montale

Praz riflette su come il tempo cancella i ricordi, anche di coloro coi quali abbiamo avuto frequentazione abituale o cospicui scambi epistolari. “Quando incontro costoro, anche dopo lunghi intervalli- scrive Praz-: “ non scambio che poche parole indifferenti, come se non avessimo più niente da dirci”.  Era il suo carattere, ma anche l’effetto dei lunghi soggiorni all’estero, e, forse, dell’epoca piena di sommovimenti, che lo allontanarono da affetti duraturi o amicizie non contingenti. La stessa sorte succede nel suo rapporto con Eugenio Montale, pure assai stimato, e la cui rievocazione è partecipata, ma mai proprio commossa.

“Eppure ci fu un tempo, tra il 1927 e il 1934, che nei miei soggiorni fiorentini non passava giorno che non incontrassi Eugenio Montale, ci trovavamo al caffè o in trattoria, e, a giudicare dalle lettere di lui che mi rimangono, avevamo da dirci moltissime cose. Ammiravo totalmente la poesia di Montale che m’era riuscito di tradurre Arsenio (poesia contenuta nella raccolta del 1928 di Ossi di Seppia, n.d.r.) in versi inglesi, che avevano incontrato l’approvazion3 di T.S. Eliot da farglieli pubblicare nel “Criterion-vol. VII n. 4)…..

Casa Museo Praz

Il tono del nostro epistolario era piuttosto faceto, ci scambiavamo poesie in inglese maccheronico parodiato da quello dei versi di Pound e di Eliot.”

Il tono faceto, Montale lo estendeva (forse scaramanticamente) anche alla narrazione di propri casi, non molto allegri, in verità. Il poeta soffriva infatti di esaurimento nervoso, aggravato dalle ristrettezze finanziarie, perché lo stipendio che gli passava l’editore Bemporad era assai misero. Su questo, ecco ciò che riporta Praz, prendendolo dalle lettere rimastegli di Montale:

“ In cure svariate ho perso anni e speso migliaia di lire. Ho consumato centinaia di ricostituenti, preso molti inefficaci Fellow,s , ho fatto almeno tremila iniezioni di glicerofosfati, cacodilato, forgenina, formiati vari, valerofosfer, ecc.ecc., senza nessun risultato. Dunque? Dunque non c’è che da aspettare un miracolo e da rassegnarsi a quest’inferno. Mi diceva Sbarbaro che varcati i 30 anni si guarisce di questi mali: ne ho 31 e due mesi e sto peggio….”

Nel libro, osserva Praz, che c’era dell’esagerazione in quelle parole, ma non troppo:

Casa Museo Mario Praz

“ Quando Montale passò da casa mia in piazza Dei Nerli prima di recarsi al Gabinetto Vieusseux dove dovevano intervistarlo per assumerlo al posto di Tecchi (il direttore uscente), egli era così prostrato e tremante dall’agitazione che poteva a malapena reggersi in piedi, e dovette prendere una carrozza. Mi pareva quasi incredibile che potesse agitarsi tanto per una circostanza così poco solenne, e non riflettevo che per lui quell’impiego, sia pure modesto, voleva dire una certa indipendenza finanziaria”

Nel rievocare il suo rapporto con Montale, Praz si abbandona poi al pettegolezzo sentimentale, ricordando l’insistente corte cui il poeta fu oggetto da parte di Giulia Celenza, traduttrice di valore dei capolavori della letteratura inglese, da Rudyard Kipling a W. Shakespeare. Il poeta di Ossi di Seppia non ne voleva sapere, nonostante la Giulia, donna dal senso pratico, gli vantasse un suo “gruzzoletto”. Ciò che pone fine alle avances della traduttrice, secondo quanto scrive Praz, fu quando: “salendo lei dinanzi a lui per una scala, egli vide spuntare sotto la sua sottana una sottoveste di flanella rossa”. A pensare che, sempre attorno ad una scala, anche se in discesa, Montale scriverà poi una delle sue più commoventi poesie, dedicata alla moglie:

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale/e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio./Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,/le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede./Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più./Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,/erano le tue. ”

Tornato Praz dall’Inghilterra nel 1934, riflette amaramente sul tempo che passa e le amicizie che si dissipano, il tono è autocritico, anche se fatalistico. Quando scrive questi ricordi Praz ha 62 anni, quindi relativamente giovane, ma il tono è di chi oramai accetta le cose e se stesso così come sono.

Casa Museo Praz

“quel alone leggendario in cui mi vedeva Montale, di amico di T.S. Eliot e di apostolo della cultura italiana all’estero che pure se ne infischiava del fascismo, si dissipò alquanto…. I nostri incontri e i nostri rapporti epistolari si diradarono… Eppure tra noi non c’era stato nessun screzio, nessuno di quei dissapori comuni tra letterati. Ci eravamo passati accanto, per un momento avevamo creduto di camminare insieme, poi ciascuno aveva voltato le spalle all’altro e proseguito per la sua strada. E’ quello che mi è capitato con tante, con troppe persone nella vita. Forse è colpa mia, forse è dalla natura stessa della cose….”

Preraffaelliti, i fantasmi di un tempo che fu. (pag. 273)

Praz capita a Londra nel 1923 in tempo per assistere alle scene di vita degli ultimi circoli che spingevano per il rifiorire dell’epoca del Preraffaellismo. Vi arriva indirizzato dalla vecchia amica Vernon Lee e durante un thè entra in contatto con un cenacolo morrisiano (William Morris era stato un pittore aderente al movimento). Questa è la descrizione che fa Praz di un mondo oramai concluso, estetizzante e vuoto.

Dante Gabrielli Rossetti

“Vecchi dall’aria di artisti, uno con la barba e candida chioma, alla Mazzini, occhi celesti sognanti e camicia azzurra. Tipi di ratés (falliti, perdenti, n.d.r.) allampanati, con vestiti sciatti e facce pallide di sognatori dispeptici. Vecchie zitelle. Una signora australiana molto provinciale a cui pare d’essere in paradiso per trovarsi in un ambiente preraffaellita. Nel salottino all’ingresso un magnifico ritratto rossettiano di Mrs Morris, blu e rosso cupo dominano nelle pesanti pieghe delle vesti e dei cortinaggi. Al piano di sopra una vecchia damigella ossuta e vestita in modo grottesco canta Lieder con voce sfiatata.

William Morris

La stanza ha una magnifica vista sul fiume che passa sotto le finestre, l’altra riva è quasi pastorale, prati e poche case, bellissimo pomeriggio fresco e dorato…. E’ una stanza piena di quadri disegni… Ci sono pure oggetti curiosi, estetizzanti, cuscini dai colori vivaci, ninnoli dall’aria medioevale; un piccolo virginale che a un ceto punto Miss Morris si mette a suonare, accompagnandovi un canto incredibilmente stonato… a tutta quella buona, ingenua gente, questi ninnoli falsi e antiquati, questi canti stonati, quell’ambiente artiste paiono un sogno. Credono di rivivere i bei tempi della Brotherhood la fratellanza preraffaellita, n.d.r.). E forse queste donne brutte e ridicole, e Miss Morris baffuta, raggiante, vestita d’impossibili merletti e bigiotterie (ma sul petto ha un medaglione colla testa della madre dipinta da Rossetti) sembrano un’accolita di giovani muse a questi uomini mancati, e disillusi, o rimasti fanciulli, ma tutti certo logorati da lavori ingrati e meschini? Come sembra lontano, frusto e buffo il preraffaellismo stasera! Sul pianerottolo una serie di fotografie, in varie pose, di Mrs Morris: in esse ella sembra un’ebrea o una romana del popolo, mora, ricciuta, olivastra, sgraziata. In una sembra una selvaggia della Papuasia”

W.Morris: The orchard

Chi era il vero Praz nelle parole di Vernon Lee (pagg. 274 e segg.)

Per capire un po’ più a fondo la personalità di Praz durante gli anni della sua formazione, il documento più convincente è la lettera che nel gennaio del 1924 da Firenze gli invia Vernon Lee, e che lo stesso Praz riporta nel libro. Vernon Lee è lo pseudonimo di Violet Paget, scrittrice inglese da molti anni residente a Firenze, in una dimora storica, il Palmarino, fra Fiesole e Maiano, dove i due si erano conosciuti. All’inizio del 1924 Praz, lasciata Londra, è ora a Liverpool, come senior lecturer in italian; sono per lui giornate tristi e la lettera di Vernon Lee vorrebbe essere consolatoria. Riporto alcuni passi dai quali emergono alcune acute considerazione della scrittrice su Praz, che lei tratta un po’ come un nipote da esortare e indirizzare nella vita.

“Avrei da lavorare, ma la Sua lettera sembra richiedere una risposta senza troppo indugio. Sebbene io non sappia se potrà esserle di alcuna validità, e creda e speri che a quest’ora Lei abbia dimenticato… il Suo momento di spleen….

Vernonn Lee, 1870 circa

Lei soffre…. degli anni di incertezza, di compressione, quasi di irreparabilità attraverso i quali è passato, e passato a questa buona fortuna assolutamente inattesa. Lei era così assolutamente senza speranza, e pareva che ne avesse tanta ragione obiettiva, che il solo pensiero di Lei soleva deprimermi negli intervalli dei nostri incontri…..penso che Lei possa soffrire di quello attraverso cui passano molti giovani: la depressione del “mezzo del cammin”…. Nei tre anni durante i quali L’ho conosciuto prima che si recasse in Inghilterra mi capitava spesso di provare noia al pensiero che il Suo vero io non c’era ancora, che Lei era fatto tutto di letteratura. Forse mi sbaglio, ma le Sue allusioni a Madame Bovary, alle etère e alla fanciulle-fiori da Parsifal nella Sua ultima lettera sono un residuo di questo. Ciò che mi ha fatto piacere nelle nostre ultime conversazioni era il fatto che mi sembrava che la prosperità L’avesse fatto crescere, che una reale personalità, una personalità interessante e spontanea stava emergendo da quel patetico fascio d’impressioni libresche che fin allora era stato ai miei occhi Mario Praz…. [credo che] Lei sta sviluppandosi in un essere umano maturo e che il suo speen.. sia in parte causato da questa penosa e lenta trasformazione dell’io irreale della prima giovinezza nella realtà, prosaica e confortevole e, speriamo, utile dell’età matura… sospetto che Lei abbia bisogno di innamorarsi…. Purché non conduca ad un dongiovannismo che sarebbe estremamente grottesco e probabilmente ignobile nel Suo caso… Naturalmente prima o poi dovrà sposarsi, e dovrà vivere e lavorare e avere coraggio con questa prospettiva… .. sono sempre stata colpita del fatto che Lei soffre della esilità di interessi delle persone che sono puramente dei letterati a meno che non siano geni creatori….

Vernon Lee ritratta da Johnn Singer Sargent

Sia pieno di curiosità distinte dalla letteratura; le quali faran sì che la letteratura apparirà quale dovrebbe essere, non un compito, ma una gioia. E anche, per l’amor del cielo, balli, vada ai ritrovi anche se la annoiano… si rassegni ad esserlo per un paio d’anni .. e si proponga di mettere qualcosa di piacevole e d’interessante in ciascuno di essi, se Le riesce. Lei è un giovane molto fortunato; si proponga di non demeritare della Sua fortuna. Cresca, caro Praz. E col crescere uscirà dal Suo spleen !

L’ubriaco sotto la finestra (pagg. 117 e segg.)

Roma, tempi di Trilussa, anche se oramai malato, anche se in libreria oramai non “Te portavi via n’ libbro c’un baijocco.” Ma l’aria strapaesana è la stessa decritta del poeta romanesco, anche se illuminata dalle fosche tinte dalla guerra. La piazza di cui parla Praz è quella de’ Ricci.

Ora nella piazzetta l’oste dispone in fila i tavolini e la sera, soprattutto la sera del sabato, i popolani s’attardano a bere e a conversare sotto la viva luce d’una forte lampada elettrica, e sovente c’è chi canta accompagnandosi sulla chitarra, e certe sere, come presi da frenesia, gruppi di giovani si siedono sui banchi di pietra del vecchio palazzo nell’angolo morto della piazzetta, e seguitano a cantare a scquarciagola…… Ma per anni la piazza è rimasta, a sera, silenziosa, deserta e buia, se non quando l’illuminava la luna che qui si specchiava come in un pozzo cupo, e non si sentiva che il lontano passo cadenzato di qualche rara pattuglia…

Mario Praz, Bellezza e bizzarria

Fu appunto una notte di luna del maggio 1943 che venni svegliato da una voce che declamava rauca e ineguale: “ Dio solo può piegare l’Italia, gli uomini e le cose mai”: spiccava le sillabe, tuonava la sentenza come a un’adunata; ma subito dopo la voce proseguiva con un commento rotto, disordinato, calava di tono, si perdeva in un farsetto, in un pigolio. Era un ubriaco sotto la finestra…. Ecco la guerra, tuonava ogni tanto; poi tutto d’un fiato: Dio solo può piegare l’Italia, gli uomini e le cose mai; e subito dopo, scandendo le sillabe: Centomila, duecentomila prigionieri, contadini, operai, un tozzo di pane.. ora non sarai nemmeno questo. Abbracciare tutto. Tutto il mondo contro.. Dio solo può piegare…. “Ecco la guerra”, come un urlo di spavento, s’inalberava come un fantasma di Goya. “I discorsi sono immensi, grandiose sono le promesse. Abbiamo combattuto, abbiamo amato la patria. Ci hanno fregato con una medaglia d’oro (sì, diceva fregato non fregiato). Quarantaquattro medaglie d’oro, duecentootto d’argento. Solo Dio…. Gli uomini e le cose mai. Il tono scendeva bruscamente poi risaliva: “L’immenso condottiero”- e dopo una breve pausa, quasi sottovoce: “Quel porco”…….

Null’altro accadde nella piazza fino alla mattina del 26 luglio, quando dalle finestre della sede dell’Istituto di Cultura Fascista invasa dal popolo piovvero sul selciato miriade di fogli di carta, suppellettili, mobili, ritratti, e macchine da scrivere.

Roma sotto le cannonate ( pagg. 138 e segg.)

Praz, nei “tristissimi mesi” dell’occupazione di Roma da parte dei tedeschi e dei bombardamenti Alleati tenne un diario di guerra.

“Come angusta e meschina, irrespirabile s’era ridotta la vita! Le mie note, a rileggerle, mi sembrano quelle d’un’altra persona, … mi sembra d’essermi adeguati allora alla folla anonima, che freme, paventa, guarda verso terra come un animale in cerca di cibo, e qualche volta si ricorda della sua umanità.. e guarda vrso il cielo come a una lontana speranza”…

Distruzione e lutti dopo un bombardamento, Praz gira inquieto in bicicletta in compagnia della moglie. Mentre il disordine pare infastidirlo e la vista dei cadaveri lo lascia inerte, l’emozione sgorga irrefrenabile solo davanti ai ruderi di San Lorenzo. Seguendolo nel suo pensiero verrebbe da pensare: di San Lorenzo c’è n’è una sola, di uomini invece…….

Ricordo come un sogno una sera, la sera dell’invasione della Sicilia (10 luglio 1943 ndr)…eravamo stati invitati a casa di un giornalista tedesco.. Languiva la conversazione… venivano riferiti particolari raccapriccianti dei bombardamenti di Colonia: il fosforo liquido ardeva per le strade; si parlava di gente carbonizzata nei rifugi, di uomini grossi che si mummificavano e rattrappivano come macabri trofei dei cacciatori di teste; c’era che lodava il discorso del Duce per il suo equilibrio, e quello di Giovanni Gentile per la sua sincerità….. Pochi giorni dopo, il 19 luglio, mentre correggevo le bozze di Fiori freschi, vidi alla finestra della camera di pranzo le fusoliere oro e argento d’una formazione di bombardieri, alta sui tetti, e i pennacchi di fumo dell’antiaerea. Si udivano esplosioni, seguite da pause tra ondata e ondata di aerei. Nel pomeriggio io e mia moglie ci recammo in bicicletta al quartiere Prenestino che era stato colpito. Abitava da quelle parti un antiquario, Borelli, di cui avevo spesso visitato le collezioni; la casa che sorgeva nel suo giardino, il “rustico”, era stata centrata da una bomba. Borelli in gabardina e berretto, tutto coperto di polvere e come inebetito, andava attorno raccogliendo con gesti incerti e meccanici quel che si poteva estrarre di sotto le macerie. Rientrando a casa aveva trovato sotto l’arco del suo portone un operaio morto, col basso ventre squarciato. Per tutto il quartiere s’aggiravano come sonnambuli gli abitanti delle case sventrate; povere famiglie che trascinavano via quel che avevan potuto salvare, materassi, valigie e involti trasportati su biciclette; e guardavano in su verso le stanze che fino a ieri erano state il loro nido appartato, ora esposte agli occhi di tutti, spesso rese grottesche dal capriccio del bombardamento: così ricordo una fila di cravatte che pendeva del vuoto. Dietro Porta Maggiore, in uno spiazzo, una tela copriva i morti, vigilati dai carabinieri. Ma fu soltanto alla vista della basilica di San Lorenzo che mi vennero le lacrime agli occhi; quella facciata distrutta, quell’opera d’arte scomparsa che era durata secoli da identificarsi per me quasi con l’eternità, mi commuoveva più della morte degli uomini.

Ecco la pagina conclusiva del diario di guerra “quella lunga agonia d’umiliazione” che Praz intese inserire in La casa della Vita (pagg. 142-143):

“4 giugno 1944- La mattina cannonate a regolari intervalli, come quando ci fu il combattimento dell’otto settembre. Pare che sparino da dietro il Gianicolo. La mattina e il pomeriggio seguitano a sfilare soldati tedeschi, stanchi, sudati, ma armati fino ai denti, pel Corso Vittorio, pel Lungotevere, tra la gente seduta sulle spallette, allineata lungo le strade, gente scamiciata, sporca, silenziosa. Non ridono, non disprezzano, non commiserano. Vecchia civiltà. L’antica folla romana , tra gli antichi monumenti, vede ancora una volta un esercito in rotta, se e tace. Aeroplani in picchiata fanno un gran chiasso verso le due. Mitragliamenti. Vibrano le finestre semichiuse. Buffi autoveicoli di tutti i generi: alcuni paiono ciabatte su ruote, come in un quadro di Bosch. Uno enorme, come un carro carnevalesco a gradinate, con soldati scamiciati e scomposti: un cannone è nascosto sotto le frasche. Un’aria di carnevale macabro. Con Giuliano [Briganti ndr] vedo sul lungotevere una circolare interna carica di soldati tedeschi abbattuti, cionchi. Passiamo pel Corso Vittorio. Proprio qui, quattro anni fa, la folla tornava da Piazza Venezia, atterrita dal discorso del Duce che voleva la guerra, volti disfatti contro il sole che calava. Quando passarono le Giovani Fasciste, qualcuno aveva osservato: “Non troverete marito”. Oggi ci si avvicina un vecchio dall’aspetto piuttosto degno e chiede l’elemosina: “ Sono uno sfollato”. La sera tra le otto e mezzo e le nove si sa da quelli che hanno la luce della Tiburtina (noi della Società Romana siamo al buio) che gli americani sono a San Paolo. La gente alle finestre e sui poggioli si agita ed è contenta. Poi nel crepuscolo-ancora si odono colpi di cannone- il pianista che abita di faccia in Via Monserrato, suona le battute della vecchia Marsigliese, il vecchio inno dell’uomo libero, che sempre dà un tuffo al cuore.”

 

 

 

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