da ninconanco | Feb 26, 2018 | Accademia, Album, Arte, Attualità, Le parole degli altri, Musicalmente, Teatro e cinema
Proviamo anche con Dio, non si sa mai: «Come dice Bertrand Russell, lui è così immenso che non si può nominare, ma a qualcosa devo pur credere e di raccogliermi ogni tanto ho bisogno anche io. Prego Gesù, mi attacco a lui».
Negli anni incerti, Ornella Vanoni, dama del 1934, acrobata per indole e amazzone tra le epoche, aveva usato come liana persino la bottiglia: «Bevevo soltanto champagne, mi piaceva da impazzire, ma ero diventata una palla e purtroppo ho dovuto smettere».
Ora che l’età non è più un problema, «sono molto infantile, ce la sto mettendo tutta per invecchiare ridendo», e la memoria è della stessa pasta dell’ironia: «Non è una dannazione, tanto le cose brutte alla fine le rimuovi, ma non sarà per questo che sono sempre stanca?», i malanni stagionali: «La tosse, il raffreddore, un disastro», la carriera e i ricordi assumono un’importanza relativa: «A forza di raccontare le vecchie storie mi sono annoiata. Son stufa di Ornella Vanoni, c’ho due balle così».
Ornella è un profilo sul divano, un sorriso orientato al tramonto che cade da una finestra di Milano, un cane nero da festeggiare senza pudore alternando insensatezze cinofile con il vizio dell’onomatopea e vezzeggiativi: «Oddio bambina, ia ia ia ia, madonni, madonni, lo yeti piccolino, il mio yeti piccolino».
I decenni la situano nello stesso luogo che occupa con baldanza fin dal ’58: «A me piace stare sul palco, mi è sempre piaciuto. Ma adesso che la paura se ne è andata ed è rimasta soltanto l’emozione, finalmente me la godo. Io e i miei musicisti ridiamo tantissimo e rideremo anche a Sanremo. Ci vado volentieri, è una buona occasione e porto in gara una canzone molto bella e adulta. Però poi di vincere il Festival, dico la verità, non me ne può fregar di meno».
Perché?
«Perché non bisogna mai pensare a quelle cose. Se ti attacchi all’idea di vincere e poi non accade, rimani malissimo. Come le dicevo, conta soltanto l’emozione. Se non ce l’hai è meglio tu stia a casa».
Se non la provasse più?
«Scenderei dal palco. Non sono un genio, ma forse scriverei qualcosa, porterei i cavi agli elettricisti, mi inventerei altro. Non potrei mai stare senza lavorare».
Lei è qui con noi da sempre.
«Sono vecchia? Sì. Le immagini dei bombardamenti per esempio sono vividissime. Essere vissuti durante la guerra è un grande privilegio, a chi non l’ha vista manca qualcosa».
Che cosa manca?
«Intanto che non sai se arriverai a domani. Dormivamo vestiti con le scarpe e il cappotto, pronti a scattare appena suonavano le sirene. All’inizio correvamo in cantina, poi capimmo che avremmo fatto la fine dei topi e cominciammo ad andare verso i prati, al limitare della città. Vedevamo i bengala rossi e ci gettavamo per terra. I sibili delle bombe e mio padre che mi si butta addosso per proteggermi dalle schegge me li ricordo bene. Non c’è depressione durante la guerra. Speri solo di restare vivo. Se hai il cancro lotti per vivere, se ti viene la depressione lotteresti per morire».
Lei è mai stata depressa?
«Ho avuto tre depressioni pazzesche, ho perso tanti capelli, in testa prima avevo una criniera, altroché».
Da ragazza era bellissima.
«In spiaggia, da giovane, mi chiamavano culo d’oro. Ma più che bellissima ero particolare. Avevo un viso molto moderno. E siccome avevo una grande cicatrice sul collo, usavo il corpo come scudo. Durante la guerra, mi avevano curato male una ferita, torturandomi con aghi terrificanti, senza antibiotici o medicine per togliere il dolore. Le garze e i cerotti non mi hanno aiutata, né mi hanno dato forza caratteriale. Ero molto timida. Lei non sa com’ero timida».
Fare musica l’ha rassicurata?
Ornella con Lucio Ardenzi
«Mi ha resa molto più inquieta. Debuttai seguendo un’intuizione di Strehler e interpretando per la prima volta le canzoni della mala senza mai aver cantato prima. Poi feci teatro. Quando mi sposai, mio marito (Lucio Ardenzi, ndr) mi fece recitare L’idiota di Achard».
Venne accolta come una rivelazione.
«La storia con Strehler era stata scandalosa e siccome con lui, proprio per quelle ragioni, non avevo mai potuto recitare, mi buttai senza rete. Ma avevo una paura tremenda e non dormivo mai. Facevo una tragedia di qualunque esibizione, anche se dovevo cantare alla Bussola. Che poi, a me, cantare a tarda ora non è mai piaciuto».
Perché?
«Adoro gli orari europei. Esci dall’ufficio, alle sette e mezzo sei in sala, alle nove e mezzo a casa e alle undici a dormire. Mangiare presto, dormire presto. È saggio. Invece gli italiani, niente».
Come niente?
«Agli italiani piace fare tardi. E che palle».
Quindi non era una nottambula.
«Ero nottambulissima. Quando sei ragazza, sei nottambula per forza».
Con Strehler vedevate l’alba?
«Ero una ragazza borghese, inconsapevole e ignorante. Quando ho incontrato Giorgio, lui si è innamorato di me e io mi sono innamorata di lui. Volevo fare l’estetista, Strehler mi ha spinto all’arte, a camminare su una strada che in realtà non avrei voluto assolutamente percorrere».
La affascinava l’inafferrabilità?
«Tutt’altro. Giorgio, riamato, mi amava tanto. Sono certa sia stato l’uomo che mi ha amata di più. Lo so».
Come lo sa?
«Mi sentiva come una sua creazione. Mi trovò intonsa, ero un materiale grezzo, un Pinocchio da plasmare. A dividerci furono i suoi vizi. A un tratto non li sopportai più. Non avevo voglia di assumere quella cosa che usava in continuazione. Della cocaina ero stufa, ero stanca. Lui ne faceva un uso smodato. Lo seguii, provai, poi a un certo punto me ne andai».
Fu solo quello?
«Fu esasperazione. A un certo punto, la mia testa si rifiutò di proseguire in quella direzione. Mai stata gelosa però. Che scopasse anche le altre non mi importava niente. Non l’ho mai sorpreso con una, non ne ho mai avuto bisogno. Sapevo con chi era e con chi andava. Con quali donne e perché. Una sola volta mi incazzai davvero. Mi portò a casa e poi riuscì. Mi mentì. E mi arrabbiai proprio perché di dirmi balle simili non c’era alcuna necessità».
La monogamia è un’illusione?
Giorgio Strehler
«Dipende dalla curiosità. Se sei curiosa e sensuale, la monogamia dura un po’ di anni e poi dopo non dura più. La monogamia è difficile. Le mie storie sono durate sempre poco, anche per il mestiere che facevo. Bardotti, il mio produttore, un genio, aveva ragione. Mi rimproverava perché sceglievo come compagni avvocati e commercialisti: “Non ti capiranno mai, le persone curiose volano alte, quelle poco curiose camminano”».
E lei perché li aveva scelti?
«Mi ero illusa che mi dessero una vita più serena. In realtà era sempre una vita del cavolo. Non capivano i nervosismi, le fatiche, le ansie. Non condividevano un cazzo, quelli lì».
Pensa di aver inferto più delusioni o di essere stata più delusa?
«Sono stata spesso delusa, ma forse ho deludito, o come si dice? Deluso, ecco, deluso anche io. Quando finisce, finisce. Ma ho pianto pure io, cosa crede? Non ho fatto piangere solo gli altri, non sono stata una farfalla che ha attraversato le vite di questi uomini in lacrime. Ho sofferto tantissimo».
«Se fossi stata più onesta», disse, «avrei detto a mio marito che amavo ancora Gino Paoli e non l’avrei sposato».
«Avrei anche voluto, ma c’era un problema: Gino era sposato. È stato un casino, un amore molto travagliato e forse ho amato Paoli così tanto proprio per questo. Non lo possedevo, non lo avevo. Quando non hai una persona sei portato a credere che l’amore più grande sia quello che ti fa soffrire di più. E invece, cazzo, dovrebbe essere il contrario. Dovresti amare chi ti rende felice».
C’è una vena masochistica nell’amore?
«Tutte le donne hanno una leggera vena masochistica. L’uomo se ne va, la donna invece trascina il rapporto sperando che tutto si sistemi. Ma quando una cosa si rompe, si rompe e quando si incolla, si vedono le crepe».
Lei e Paoli eravate una frattura vivente.
«Con quel maglione nero e quella voce, Gino era una personalità particolare. Io non ne parliamo. “Quella lì è la cantante della mala che porta sfiga”, dicevano di me, “e poi è pure lesbica”».
E di lui che cosa dicevano?
«Le stesse cose o quasi. “Quello lì è gay”. Anzi, è recchia, invertito, frocio. Che in fondo è anche una parola più onesta, perché gay presuppone un’allegria di base che Gino non aveva e perché in certi giorni girano le balle anche ai gay».
Mai stata attratta da una donna?
«Ho avuto attrazione per qualche ragazza, certo. Fascinazione e curiosità. Una mia amica sostiene che la mia parte maschile sia frocia. Se passa una bella donna dico “che bella”, se passa un bell’uomo dico “che fico”. Non ha torto».
Torniamo a Paoli. Gino è di indole cupa?
Ornella con Gino Paoli
«Suo figlio Tommaso dice che ci sono delle mattine in cui non si sa se non trovi il dentifricio o se è morto qualcuno. Sa qual è la fortuna di Gino? Aver trovato Paola, sua moglie. L’ha voluto e se l’è tenuto. Lei è allegra e ha due palle così. Ci sentiamo spesso. L’ultima volta ho rimproverato Gino per interposta persona: “Paola, guarda che se Gino continua a dire che sono una brava donna purtroppo insopportabile, lo cito per danni”».
Lei porta rancore?
«Ho avuto un’ultima storia d’amore con un ingrato che mi ha ferita. Ora sono felicemente sola, ma un pelo di fastidio, quando ci penso, ce l’ho ancora. Se quello va sotto un tram magari mi dispiace, però meglio».
Meglio?
«Ho sempre esigiuto rispetto. Si dice esigiuto, no? Oppure si dice esigito? Spero di no. Mamma mia che brutte parole, che schifo, esigiuto, esigito. Comunque ho sempre preteso rispetto, in amore e sul lavoro. E ogni tanto mi incazzavo. Antonello Falqui lo mollai così, su due piedi, in uno studio tv, 20 minuti prima di andare in onda».
Come andò?
«Avrei dovuto cantare La storia di un ricordo di Gino Paoli. (La intona: “Una porta che si chiude, il tuo viso che sparisce”). Una canzone drammatica. Prima di me doveva esibirsi la gallese Shirley Bassey. Sa come sono provinciali gli italiani, no? Quando arriva uno dall’America o dall’Inghilterra si sciolgono: “Ah, divina” e non capiscono più niente. Aveva un pezzo triste anche lei e a un tratto Falqui mi si avvicina: “Dovresti cambiare canzone”, dice. Non replico. “Benissimo”, dico ai musicisti. “Facciamo Senza fine”, tre minuti, rapidi e poi andiamo a casa. A quel punto, Falqui chiama la pausa a tradimento. Allora mi sono incazzata: “Esterofilo di merda”, gli ho detto e mi sono chiusa la porta alle spalle. Lui era sconvolto, agli amici comuni diceva: “Ti rendi conto? Mi ha dato dell’esterofilo di merda”».
Falqui ebbe una celebre storia d’amore con Mina.
Mina
«Scapparono insieme, ma la fuga durò poco. Si è parlato a sproposito della nostra rivalità, ma non c’è mai stato antagonismo e a me Mina era molto simpatica. La nostra diversità mi è servita da propellente. Io pudica, lei tutta allegra e spumeggiante. Agli inizi era straordinaria, dopo meno. Era più distaccata e si vedeva».
Mina vive in Svizzera
«Credo che all’inizio l’allontanamento fosse di natura fiscale, perché se fosse tornata le avrebbero tolto anche le mutande. Poi forse ha capito che non farsi vedere rendeva eterni e trasformava in miti. Penso che nella distanza sia felice».
Chi ha conosciuto di felice?
«Hugo Pratt. Ti sedevi davanti a lui e negli occhi blu, ma di un blu profondo, aveva tutto l’atlante. Possedeva ironia, spirito, una cultura folle, e un sincero amore per Stevenson perché era un ragazzo selvaggio anche lui. Un uomo stupendo. Gli dicevo “Ma come sei grasso” e lui, in veneziano: “Ciò, el magnar, el bever, le donne. Senò seria magro come un termometro”. Abbinava l’erotismo e le donne ai piaceri del cibo e del vino. E non sbagliava mica, sa?».
Altri uomini stupendi?
«Lucio Dalla. Lo adoravo. Più grande di Battisti, di De André, di Gaber che pure era grandissimo e superiore a Fabrizio. Dalla era il più grande di tutti. Intelligenza suprema, senso della tristezza portato all’estremo, ironia assoluta, vocalmente poi, una spanna sopra tutti gli altri».
Gli antipatici? I mediocri?
«Mediocri un’infinità. Come disse Umberto Eco a suo figlio prima di andarsene: “Quando starai per morire capirai che hai passato la vita circondato da deficienti”. Antipatici, diceva? Tom Jones. Così tamarro, così tremendo. Non lo sopportavo. Se vuole, posso parlarle dei simpatici. Del magnifico Ron o di Patty Pravo. È matta come una capra, mi diverte alla follia, è meravigliosa».
Ci parli di Patty.
Patty Pravo
«Quando sale sul palco Patty, è un fatto. Ha personalità. Racconta balle stupende. Quando dice: “Ho fatto la traversata oceanica in solitaria” so che racconta una balla, ma la racconta talmente bene che sono ammirata: “Ma cara”, dice, “le balle bisogna raccontarle enormi, altrimenti che balle sono?”».
In politica le piaceva Craxi.
«Il ciccione era fallocratico, ma aveva carisma, quello che manca ai figuranti di oggi. Sono apolitica comunque, ho litigato con tutti: destra e sinistra».
Ora, a pochi giorni dalle elezioni, tornerà a Sanremo: 51 anni fa salì sul palco con Tenco.
«Lo ritenevo un soccombente. Quella sera, quando si uccise, ero lì. Lo rimproverai: “Teniamo gli occhi aperti Luigi, altrimenti in tv non arriva niente”. Li aprì, mi parve un gufo. Seppi da Paoli che aveva assunto tre scatole di Pronox e bevuto una bottiglia di cognac. Mi spaventai: “State vicini a Tenco”, dissi ai discografici. Forse fui brusca, forse superficiale. Ma a Sanremo essere egoisti è facile, ognuno ha i propri cazzi, le proprie paure, il proprio ego».
L’ha combattuto l’ego?
«Cantare bene alla mia età significa essersene liberati. Non ho il difetto della vanità, non penso mai al segno che ho lasciato, il mito della Vanoni non ce l’ho. È faticoso, l’ego. Una volta chiesi a Gerry Mulligan se si fosse mai innamorato di una modella: “Sì, e fu un dramma”, rispose. “Eravamo entrambi innamorati della stessa persona”».
Si è raccontata molto in questi anni, ma cosa ha tenuto per sé?
«Una malinconia molto profonda nella quale nessuno poteva entrare per darmi una mano. Sono solare e gioiosa, ma anche molto dublinese. Mi piace la pioggia».
Come ci si salva?
«Con l’autoironia. Mi conosco troppo bene per offendermi».
Pensa mai alla morte?
«Siamo appesi a un filo, può capitare a chiunque, in ogni momento. Bisogna cercare di ritagliarsi un po’ di serenità interiore. Quando penso alla morte penso al mare».
Perché?
«Perché il mare ti porta via».
Malcom Pagani per www.vanityfare.it
da ninconanco | Feb 24, 2018 | Attualità, Attualità, Economia, Job e dintorni, Le parole degli altri, Società
DAL 22 GENNAIO SUL CORRIERE.IT LA NUOVA RUBRICA DI MILENA GABANELLI DATAROOM– NUMERI E DATI PER SPIEGARE RAPIDAMENTE ARGOMENTI COMPLESSI O CONTROVERSI CON UN’OCCHIO FRA CORRIERE E FACEBOOK. IN QUESTO ARTICOLO SI PARLA DEL FUTURO DELL’AUTO.
Le emissioni dei gas di scarico delle automobili contribuiscono al riscaldamento del pianeta. Per questo, i governi di tutto il mondo — nell’accordo di Parigi sul clima sottoscritto da 196 Paesi nel dicembre 2015, da cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di ritirarsi — hanno stabilito di mettere fine alla vendita di automobili a benzina o diesel: oggi in tutto il pianeta ne circolano più o meno un miliardo. Per riuscire a contenere il riscaldamento medio del pianeta sotto i due gradi, come proposto a Parigi, è necessario che entro 20 anni si arrivi a 600 milioni di auto elettriche. Oggi sono appena 2 milioni, lo 0,2% del totale.
Le vendite di auto elettriche nel 2017
La Cina è il Paese dove ne vengono vendute di più. Nel 2009 il Governo aveva messo a punto un piano di incentivi ancora in vigore per diventare leader entro il 2012: lo scorso anno le vendite di auto elettriche sono quasi raddoppiate arrivando a 652 mila, anche se la cifra è irrisoria se paragonata al numero totale di vetture vendute che ammonta a 28,9 milioni. Il 2017 è stato un anno importante anche per gli Stati Uniti che, nonostante il mercato delle auto sia calato per la prima volta dal 2009, sono diventati il secondo mercato al mondo per vendita di vetture elettriche grazie anche agli incentivi dell’era Obama: le immatricolazioni sono state 199.826 su un totale di circa 17,2 milioni.
Nel 2017 il mercato è cresciuto anche in Europa, del 43,6%, ma a un passo più lento rispetto a Cina e Stati Uniti: le elettriche sono state 149.086 mila su un totale di 15.131.778 milioni, lo 0,9% del mercato. Oggi, per le strade del Vecchio Continente, circolano 501.798 vetture elettriche.
In classifica l’Italia non compare proprio. Nel 2017 le vendite sono aumentate, per un totale di 1.967 vetture in tutto il Paese, ma le vetture elettriche rappresentano appena lo 0,1% del mercato. Sono raddoppiate le auto ibride rispetto al 2016 — per un totale di 66 mila — ma a dominare il mercato continuano a essere le auto a benzina o diesel: secondo il focus della Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica, nel 2017 ne sono state vendute 1.970.962, con un aumento del 7,9%.
Il problema delle batterie
C’è un motivo che contribuisce a frenare le vendite di automobili elettriche in Italia: gli incentivi sono fra i più bassi d’Europa — circa 3.000 euro contro una media di 9.000 — e ci sono poche colonnine per la ricarica. La più virtuosa invece è la Norvegia che, con una politica attenta all’ambiente, fra bonus governativi e una capillare rete di ricarica è riuscita ad avere un deciso impatto sul mercato. Il 52% delle auto immatricolate a dicembre 2017 era elettrico, così come lo sono circa il 20% delle auto in circolazione: l’obiettivo e di arrivare al 100% entro sette anni.
A bloccare il mercato, per ora, è anche il prezzo delle vetture: in media si aggira sui 30 mila euro, su cui pesa fino al 50% la batteria. Secondo uno studio di Bloomberg, tuttavia, dal 2010 a oggi il costo delle batterie al litio è diminuito del 73% — passando da 1.000 dollari per kWh a 273 dollari nel 2016 — e la previsione è che i prezzi caleranno ulteriormente nei prossimi vent’anni. Questo crollo è dovuto anche ai produttori di auto elettriche, in particolare Tesla, che per rendere più abbordabili le proprie vetture puntano a far scendere i prezzi delle batterie fino a 124 dollari per kWh. Le batterie, inoltre, saranno meno ingombranti, più leggere – oggi pesano una tonnellata – e più veloci da ricaricare.
Verso la rinuncia alla benzina
Se si guarda al rapporto fra costo di ricarica e chilometri percorsi, le auto elettriche sono più convenienti di quelle a benzina ed eliminano il problema delle polveri sottili, però serve un’enorme quantità di energia elettrica: con 1,4 euro si percorrono 18 chilometri con una vettura a benzina o diesel, 23 con una elettrica ricaricata in un colonnino pubblico e addirittura 39 ricaricandola a casa. I dubbi più comuni, tuttavia, riguardano la ridotta autonomia, i tempi di ricarica troppo lunghi — strettamente legati alla capacità della batteria, alla potenza della colonnina e a quella del caricabatteria installato a bordo — e, soprattutto, la scarsa diffusione delle colonnine di rifornimento.
In Italia sono 4.207 in 2.108 postazioni, una ogni 14.388 abitanti. La Germania è la migliore in Europa: 22.708 colonnine, una ogni 3.620 persone. In Norvegia invece le colonnine sono 7.855, ma ce n’è una ogni 671 persone. In totale, in Europa sono 70 mila i punti di ricarica pubblici, mentre nel Mondo si arriva a 1,45 milioni di colonnine. Siamo indietro, nonostante siano stati stanziati 33 milioni e mezzo per costruire infrastrutture di ricarica: l’impiego, però, è in ritardo.
In questa direzione, ad ogni modo, stanno andando quasi tutti i Paesi mondiali: la Norvegia ha deciso di eliminare completamente le auto a benzina o diesel entro il 2025 disincentivandone l’acquisto attraverso pesanti imposizioni fiscali; l’Olanda ne vuole vietare la vendita a partire dal 2025 e proibire la circolazione entro il 2035, per arrivare nel 2050 all’obiettivo zero emissioni; la Germania, principale mercato europeo delle auto tradizionali per vendite e produzioni, ha messo il limite a partire dal 2030. In Italia, invece, una risoluzione del Senato ha posto l’obiettivo del 2040, quando verrà vietata la vendita di auto a benzina e diesel: a mancare, però, è un programma chiaro per raggiungere l’obiettivo.
Un’economia che scende
Insieme al mercato delle auto a combustione interna, ci sarà anche un’intera economia che progressivamente scomparirà. Secondo uno studio del Financial Times, ad esempio, la proliferazione delle vetture elettriche farà crollare del 90% la richiesta di riparazioni in garage, perché la manutenzione dei motori elettrici è più semplice: basta pensare che il motore di una macchina Tesla è composta da appena 18 parti mobili. Con loro, ovviamente, se ne andranno i benzinai, gli autotrasportatori che consegnano carburante e, in generale, è minacciata l’intera industria del petrolio: un rapporto di Fitch Ratings, non a caso, consiglia alle compagnie petrolifere di «non mettere la testa sotto terra di fronte alle nuove tecnologie, altrimenti saranno guai».
Un’economia che sale
Aumenterà vertiginosamente, invece, la richiesta di energia elettrica per alimentare le colonnine e ricaricare le vetture. Da qui al 2030, per esempio, in Inghilterra le auto elettriche passeranno da 90 mila a 9 milioni e, secondo uno studio del colosso energetico National Grid, questo aumento non sarà sostenibile per la centrale nucleare di Hinkley Point C, di proprietà della stessa multinazionale di Warwick: nello scenario più estremo saranno necessarie sei centrali per soddisfare la richiesta. Stando a National Grid, tre delle quattro soluzioni prevedono principalmente l’utilizzo di energia solare, da integrare con la costruzione di nuove centrali nucleari e con lo shale gas, che dovrebbe diventare a zero emissioni.
Da dove arriverà l’energia nel futuro
Lo conferma al Corriere della Sera Davide Tabarelli, presidente e fondatore di NE-Nomisma Energia, società di ricerca sull’energia e l’ambiente, secondo il quale la domanda mondiale continua a salire, e quindi dovrà crescere la produzione. L’obiettivo è che una soluzione arrivi dalle fonti rinnovabili, è cioè dal sole, ma in futuro, secondo Tabarelli, il fabbisogno sarà soddisfatto per il 30% dal carbone, per una altro 30% dallo shale gas, per il 15% dall’idroelettrico, per un altro 15% dalle nuove rinnovabili e per il 10% dal nucleare.
Tabarelli, tuttavia, è scettico sul fatto che si possa arrivare a far circolare milioni di auto elettriche entro il 2040 e vede un pericolo «nell’equilibrio fra le aspettative e i numeri»: il suo timore è che «Tesla possa diventare la nuova Enron», la multinazionale energetica americana protagonista di uno dei più fragorosi fallimenti della storia. Lo conferma l’investitore americano Jim Chanos, che si arricchì scommettendo contro il colosso texano, secondo il quale l’azienda produttrice di auto elettriche è «strutturalmente non redditizia» e continua a rimandare i propri obiettivi. «Tre anni fa si diceva che oggi sarebbe stata in attivo, oggi si dice che lo sarà fra tre anni», ha dichiarato a Bloomberg.
Insomma: si va verso l’elettrico, ma non sappiamo bene come e siamo ben distanti dalla soluzione del problema. Quello che serve, più di ogni altra cosa, è un’educazione a consumare meno e a usare, quando possibile, i mezzi pubblici. Anche questo andrebbe insegnato nelle scuole ai nostri figli.
Milena Gabanelli e Andrea Marinelli per www.corriere.it
da ninconanco | Feb 20, 2018 | Accademia, Letteratura
Giusto un mese fa il Capitano Achab ci ha lasciati. Aveva raccolte le vele, chiusa la cambusa, appeso il berretto bretone al gancio, ma era una finzione. Perché al tramonto, fumando l’ultima sigaretta, sorseggiando il bicchiere della staffa, era rimasto a lungo in silenzio. Osservava le lievi increspature delle onde e il luccichio delle luci lontane. Amava molto quegli argini, gli scanni nascosti fra le canne, le strisce sabbiose appena emerse dal mare. Ma già era pronto per l’ultima sfida. Aveva tracciata nella mente la rotta definitiva per quel viaggio da cui non si torna, perché è troppo intrigante oltrepassare quelle colonne, misteriosa e sconosciuta quella terra, imponderabile il destino che là ci aspetta.
Un viaggio chi si può fare solo in solitudine e senza rimpianti. Per questo sembrò evaporarsi la sera prima con l’ultima boccata, prima di scendere in quella gola nera che precede l’aurora. Non poteva fermarsi ancora, darci un breve congedo, regalarci un altro pomeriggio di leggera ironia e di arguzie. Doveva seguire la sua vocazione, che sarebbe stata quella di un grande capitano sugli oceani, se come sempre il destino non avesse imbrogliate le carte.
E un grande Capitano è stato, ma di terra, perché in fondo non amava la promiscuità dei porti, il contatto sfuggente, le baldorie e gli eccessi di chi, sbarcato a terra, lascia il meglio di se stesso a bordo. Forse in gioventù aveva sentito il fascino dell’azzardo. Ma ben presto capì che la malìa del rischio alla fine ottunde e incatena. E lui era un uomo libero, misurato e lucido, costante nei propositi, forte nei suoi ideali.
Se non è stata la stella polare a guidare in terra i suoi passi, certo lo sarà in cielo.
Così come l’hanno guidato, quando era in mezzo a noi, l’amicizia e l’amore. Che lui manifestava esitante, a volte, per un ritegno innato, non certo per mancanza di generosità. Lo vedevi dalla delicatezza dei modi, nel rispetto con cui ti ascoltava, a volte pensoso, lo intuivi nel tono sempre rispettoso o bonario.
Non credo si sia voltato indietro nel suo viaggio. Con tanto avvenire d’avanti e tanta strada ancora da fare forse penserà che di lui qui si siano perse tracce e ricordo. Eppure, è come se fosse in mezzo a noi, come se si librasse su di noi, invisibile negli spazi sconfinati della pianura, come se nelle stanze risuonasse ancora il suo passo. E sarebbe sorpreso lui stesso nel saperlo.
Lo hanno capito, prima e meglio di noi, giù nell’orto della sua casa, i fiori che lui coltivava, i ranocchi e i pesci del suo stagno, forse anche le galline che continuano a salire di notte sugli alberi per sfuggire ai topi, come ben si conviene nel paese dei Bigatti. Facciamo così Capitano: finché non tornerai, qui il tuo posto a tavola è riservato. Se dovessimo nel frattempo venire noi da te, accoglici fraternamente come sempre.
Sul capitano Achab puoi trovare ( qui ) un altro articolo