STREET-ART, DALLA STRADA AL MATTATOIO

STREET-ART, DALLA STRADA AL MATTATOIO

A Roma la street art si mette in mostra. Lontano dalla strada

Apre sabato la nuova edizione del festival Outdoor, negli spazi dell’ex mattatoio di Testaccio a Roma. Quattro percorsi, quattro diverse modalità di rapportarsi al tema del “patrimonio” 

 

Dal 14 aprile al 12 maggio 2018 negli spazi dell’ex mattatoio di Testaccio a Roma, ritorna Outdoor, il più grande festival in Italia dedicato alla cultura metropolitana. La manifestazione, promossa dal’assessorato alla Crescita culturale in collaborazione con l’Azienda Speciale Palaexpo, è ideata e diretta dall’agenzia creativa Nufactory, con il patrocinio della regione Lazio. Quest’anno il tema centrale della manifestazione è “Heritage”: nell’anno europeo dedicato al patrimonio culturale, Outdoor, attraverso le discipline artistiche, indaga il tema ponendo degli interrogativi a quanti visiteranno la manifestazione: Cosa rappresenta il patrimonio oggi? Quali culture sono oggi considerate come patrimonio nella nostra società? Quale patrimonio stiamo costruendo e quale trasmetteremo alle future generazioni?

 Nel padiglione arte, a cura di Antonella Di Lullo e Christian Omodeo, il collettivo di architetti Orizzontale ha realizzato un grande labirinto che pone lo spettatore al centro della mostra, con la possibilità di scegliere la propria esperienza tra 4 percorsi che rappresentano diverse modalità di rapportarsi al patrimonio.

Il primo percorso, Disobedience, riunisce artisti di diverse generazioni che, dal 1968 fino ad oggi, introducono degli elementi di discontinuità nel racconto storico. La crew di writers tedeschi Berlin Kidz vive i graffiti come uno sport estremo e ha trasformato negli ultimi anni lo skyline berlinese con un alfabeto ispirato ai pixaçaobrasiliani e all’alfabeto runico; Biancoshock, artista italiano, crea delle installazioni urbane che con ironia invitano i passanti a riflettere sui problemi della nostra società; Paolo Buggiani a partire dagli anni ‘70 basa la sua ricerca sul rapporto tra tempo oggettivo e soggettivo, incrociando nel suo percorso di ricerca artisti come Keith Haring, Richard Hambleton e Ken Hiratsuka; Mathieu Tremblin, artista francese, riadatta lo spirito dei situazionisti al mondo contemporaneo attraverso delle installazioni urbane che sono diventate virali su internet;  Wasted Rita, artista portoghese, conosciuta per i suoi disegni satirici e le sue installazioni che offrono un punto d’osservazione privilegiato sulla società contemporanea, è anche nota per aver partecipato al progetto realizzato da Banksy Dismaland.

Con il terzo percorso Speedlight, si sperimenta un nuovo sistema rispetto a questo continuo rivolgersi al passato. Un movimento istantaneo per tornare al futuro. Kid Acne, street artist inglese, fa delle parole l’oggetto principale della sua arte, come la scritta Paint over the cracks realizzata in occasione di Outdoor 2011; Motorefisico, progetto artistico degli architetti e designer romani Lorenzo Pagliara e Gianmaria Zonfrillo che attraverso rigorose linee simmetriche disegnano e reinventano lo spazio circostante; i Quiet Ensemble sperimentano la contaminazione dell’elemento naturale con la tecnologia in precario equilibrio tra casualità e controllo; Uno, artista romano conosciuto per aver portato il volto del bambino della Kinder per le strade di diverse città, pone al centro della sua ricerca la ripetizione e la manipolazione della carta.

Il quarto percorso, Retromania, indaga quei meccanismi che restituiscono un’aura agli oggetti industriali destinati alle masse, per includerli in un racconto storico normalmente riservato alle produzioni uniche ed irripetibili rivolte alle élites. Ricky Powell, uno dei grandi nomi della street photography, da quasi quarant’anni documenta con il suo obiettivo la scena artistica e musicale underground newyorkese e, con essa, l’evoluzione dei codici della street fashion; I Love Tokyo, la collezione di sneakers di Fabrizio Efrati, fondatore di Market Kickit, riunisce scarpe da ginnastica prodotte a partire dagli anni ‘80 e testimonia la comparsa di un mercato internazionale di sneakers destinato ai collezionisti di streetwear.

Articolo di Enrico cicchetti per ilfoglio.it

 

LA SOLITUDINE

LA SOLITUDINE

 

Lettera di un lettore

La paura della solitudine è una brutta bestia, perché ci rende estremamente fragili e dipendenti dagli altri. Può arrivare, in certi casi, a farci accontentare del primo rapporto che ci capita tra le mani. Anche dei rapporti di cui non siamo soddisfatti, né tantomeno contenti. Perfino dei rapporti che ci fanno male. La paura della solitudine ci rende poco esigenti nel selezionare le nostre relazioni. Quindi esposti ai ricatti affettivi.

Cosa che non ci aiuta certo a crescere, ad evolvere positivamente, ad affermare le nostre potenzialità. Pier Paolo Pasolini un giorno ebbe a dire: «La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza». Cosa voleva dire? A mio avviso questo: l’indipendenza è una forza, ma presuppone la capacità, il coraggio di affrontare la solitudine. E questa non è una situazione comoda, facile da reggere, Perché fa emergere tutte le nostre debolezze.

Giovanni Lamagna

 

Risposta di Umberto Galimberti

Umberto Galimberti

Se «l’ uomo è un animale sociale», come ci ricorda Aristotele, la solitudine è la sconfitta della condizione umana, di cui si accorse anche il Dio del libro della Genesi (2,12) che, dopo aver creato Adamo, disse: «Non è bene che l’uomo sia solo». Questa è anche la ragione per cui quando il bambino di pochi mesi incrocia lo sguardo della madre, sorride. La sua gioia è nella fuoriuscita dalla solitudine, nella quale non potrebbe in alcun modo sopravvivere.

La solitudine non tarda a innescare vissuti depressivi e, come tutti sappiamo, la depressione abbassa le difese del sistema immunitario e ci espone con più facilità alle malattie. Ma oltre alle malattie fisiche, la solitudine ci induce a rimuginare senza sosta quelle idee negative che potrebbero attenuarsi o addirittura sciogliersi se avessimo la possibilità di comunicarle a qualcuno.

Chi di noi non ha mai sperimentato che, quando ci assale un dolore, la prima cosa che facciamo è cercare qualcuno a cui comunicarlo, onde poterlo attenuare grazie a qualche parola di conforto. Oggi evitiamo anche di comunicare il dolore, perché temiamo che dopo gli amici, anche se non ci evitano, certo diradino la loro presenza per non essere annoiati dal nostro lamento. E così il dolore, al pari della povertà, tende a nascondersi, aggravando in tal modo la condizione di solitudine che, a questo punto, diventa la nostra tomba.

I più esposti alla solitudine sono a mio parere i giovani e i vecchi. I primi perché hanno come interlocutori il loro telefonino e tutti quegli strumenti ironicamente definiti “social”, perché non possiamo chiamare “socializzato” un uomo solo davanti allo schermo del suo computer.

Se poi su questo comportamento abbiamo ancora qualche dubbio, dal Giappone e dalla Corea del sud ci informano che la prima causa di mortalità giovanile è rappresentata dall’ Hikikomori, sindrome che descrive quegli adolescenti che vivono reclusi nella loro casa o nella loro stanza, senza alcun contatto con l’esterno, neppure con i familiari (che provvedono alle loro necessità alimentari e fisiologiche), sempre attaccati al computer. Dopo un certo periodo si suicidano. Il fenomeno comincia a diffondersi anche in America e in Europa.

Un’opera di Bansky, uno dei più famosi street-art

Le persone anziane sono naturalmente le più esposte alla solitudine, anche se non sono prive di assistenza da parte di figli, nipoti o istituzioni sociali o religiose. Ben venga l’assistenza e mi auguro che il Ministero della Solitudine che la premier inglese Teresa May ha intenzione di istituire, non si risolva in un Ministero di Assistenza. Perché la solitudine è qualcosa di più radicale.

È l’esperienza della propria insignificanza sociale quando hai l’ impressione di non interessare a nessuno, e altro non raccogli se non un gesto di gentilezza in questa società, dove le persone passano vicine al prossimo come si passa vicino ai muri.

In una simile condizione nessuno ti vede e quindi nessuno ti guarda, per cui in un certo senso sono da invidiare quelle persone di fede che si sanno guardate dall’occhio di Dio, che sarà anche un occhio che giudica, ma almeno da qualche parte c’è qualcuno che ti guarda. E con quello sguardo ti sottrae all’abisso della solitudine, che diventa tragica quando in una coppia uno dei due se ne va e ti lascia solo al mondo, perché nessuno più ti restituisce quello che con lui o con lei hai condiviso.

Ma soprattutto – e questo è l’ aspetto più tremendo – hai perso il testimone della tua vita perché, consapevoli o meno, tutte le cose che nella vita facciamo, le facciamo perché uno sguardo le accoglie e le testimonia. Quando se ne va il testimone si perde anche la motivazione, l’intensità, la voglia che sono gli ingredienti della vita stessa. E qui la solitudine ti si offre in tutta la sua abissalità. E non c’ è parola che possa lenirla.

Umberto Galimberti è un filosofo, sociologo, psicoanalista e accademico italiano, anche giornalista de La Repubblica

In copertina un quadro di Edward Hopper (+1967), pittore statunitense, famoso per le numerose scene di solitudine dei suoi lavori. 

 

GILLO RACCONTA LA SUA AVVENTURA

GILLO RACCONTA LA SUA AVVENTURA

 

In fondo c’eravamo tutti convinti che fosse diventato immortale e che, in qualche modo, avesse trovato il segreto della vita eterna.

Poco più di un mese ci separa della morte di Gillo Dorfles. Avevamo in serbo di ricordarlo ancora in vita con questo articolo.Ma non gli dispiacerà leggersi da lassù in questa bella intervista, rilasciata da Gillo a Corrado Beldì nel febbraio del 2016. Buona lettura. 

(AP Photo/Alberto Pellaschiar)

“…. la data che abbiamo atteso di più, è quella di oggi: il 12 aprile 2016 Gillo Dorfles compie centosei anni. Non lo scriviamo in cifre per pudore, ma soprattutto perché non li dimostra affatto. Nato nel 1910, Dorfles è il gran giovane della Milano creativa, l’allegro fustigatore, l’amico di Fontana, il pittore senza macchia, il cantore del kitsch piccolo borghese, l’immancabile presenza alla Scala, l’uomo che ha attraversato il secolo breve con incredibile vigore, tra mille incontri che hanno dell’incredibile, da Italo Svevo alla redazione di Zero.

Quali sono i suoi primi ricordi di Milano?
Risalgono a più di 100 anni fa, effettivamente. Quando avevo tre anni e la mia bisnonna era proprietaria di quel palazzo con quattro colonne in corso Venezia, al numero 36. L’edificio era stato costruito dal mio prozio. Venivamo a trovarla da Trieste e restavamo ospiti a Milano per qualche giorno. Ricordo le passeggiate sulle sponde del Naviglio.

Cosa ricorda della Prima Guerra Mondiale?
Quando scoppiò la guerra avevo cinque anni. Ricordo il giorno in cui partimmo da Trieste, con mia mamma, per riparare a Genova. Tutta la città era imbandierata a festa, con drappi e stendardi asburgici, color giallo e nero. Da quel giorno, sono due colori che mi piacciono moltissimo!

Quando si è trasferito a Milano?
Sono arrivato nel 1928 per iscrivermi all’Università Statale, corso in Medicina e specializzazione in Psichiatria. Mi sono laureato però, per fortuna dei pazzi, non ho mai professato…

Ernesto Nathan Rogers

Com’era la Milano di allora?
Era una Milano molto più piccola, direi più famigliare. Solo successivamente Milano è diventata una metropoli, senza tuttavia diventare mai troppo aggressiva. Milano ha una sua eleganza. Un suo rispetto per le persone. Fin dal principio mi sono sentito a mio agio, grazie ai parenti ma soprattutto all’amicizia con Ernesto Nathan Rogers.

Conosceva Rogers fin dall’infanzia, vero?
Rogers era triestino e ci eravamo conosciuti da bambini: aveva solo un anno più di me. Il padre aveva trasferito la famiglia a Milano qualche anno prima. Grazie a lui conobbi subito il giro degli architetti milanesi a partire dai fondatori di BBPR, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peresutti, Gian Luigi Banfi e poi Luigi Figini e Gino Pollini.

Teatro Alla Scala, scorcio con palco reale

Che personalità aveva Rogers?
Era un uomo simpatico e molto, molto socievole. Aveva anche cercato di imparare a dipingere prendendo qualche lezione da Anselmo Bucci. Purtroppo Ernesto era piuttosto negato e per fortuna ha decise di dedicarsi anima e corpo all’architettura.

Lucio Fontana, di spalle nel suo studio a Milano

Come è entrata l’arte di Milano nella sua vita?
Innanzitutto andando al Cenacolo. Il Cenacolo è Milano. Poi ricordo che mi colpì moltissimo il Castello Sforzesco, non parlo delle collezioni ma dell’architettura. Però, soprattutto, sono stato molto fortunato perché conobbi subito Lucio Fontana e Fausto Melotti, tra i più importanti artisti della Milano tra le due guerre e non solo.

Lucio Fontana, concetto spaziale, la fine di Dio

Lucio Fontana è stato l’amico di una vita.
Ci vedevamo molto spesso. Quando lo conobbi studiava con Adolfo Wildt all’Accademia di Brera. Eravamo molto amici. Mi ha anche regalato tre quadri. Vede quello rosa? Anche quello nero nell’angolo. Fontana aveva una personalità molto esuberante: era l’esatto contrario di Fausto Melotti.

Melotti aveva una grande passione per la musica
Certamente: sua sorella Renata era musicista e anche il marito Gino Pollini suonava il violino. Fausto Melotti aveva vasti interessi ed era un uomo molto più sofisticato di Fontana. Insieme abbiamo visto tantissimi concerti. Fausto poi era attivissimo con la sua piccola industria di piastrelle di ceramica disegnate e prodotte da lui.

Dove andavate ad ascoltare musica?
Mi sono subito associato al Giardino ma soprattutto alla Società del Quartetto e poi ovviamente andavo alla Scala. Mio suocero Giuseppe Gallignani, compositore e direttore d’orchestra, nato a Faenza nel 1851, era direttore del Conservatorio di Milano, era stato molto amico di Verdi ed era amico fraterno di Arturo Toscanini. Morì quando mia moglie Lalla era molto giovane e Toscanini divenne il suo tutore. Con Lalla, diventai subito uno della famiglia e andavo spesso dai Toscanini nella casa di via Durini.

Che personalità aveva Arturo Toscanini?
Era un uomo molto gentile, Lalla era la sua figlioccia. Spesso andavamo a trovarlo all’Isolino di San Giovanni sul Lago Maggiore che era della loro famiglia. Si andava in motoscafo e si faceva il bagno nel lago. Erano delle bellissime estati.

Che ricordi aveva suo suocero di Giuseppe Verdi?
Certamente moltissimi episodi, è un po’ come se lo avessi conosciuto anch’io. In particolare aveva una enorme quantità di lettere scritte dal Maestro, lettere che poi mia moglie ha regalato al Conservatorio. Molte del tempo in cui Giuseppe Verdi era ancora a Parma. Peccato: ora nessuno le vede, invece se le avessimo conservate potrei fargliele leggere proprio qui, ora, su questo tavolo.

Che concerti ricorda di quegli anni?
Degli anni trenta ricordo il ciclo di concerti wagneriani diretti da Toscanini alla Scala, soprattutto I maestri cantori di Norimberga e poi il Sigfrido e Lohengrin. A quei tempi Richard Wagner era piuttosto di moda, diciamo in piena fioritura. Poi ricordo molto bene i concerti di Vladimir Horowitz non solo al Quartetto ma anche a casa Toscanini, per chiudere in bellezza delle belle cene in compagnia. Sempre con Verdi e Wagner al centro di ogni cosa.

H. Matisse: nudo disteso di schiena

Henry Matisse

Quali sono invece i due artisti visivi del Novecento di cui non si potrebbe proprio fare a meno?
Pablo Picasso e Henri Matisse. Sono stati i veri maestri. Tutti gli altri li hanno un po’ copiati, in un modo o nell’altro. Hanno messo fine, finalmente, alla pittura di ritratto e di paesaggio.

In quegli anni, si sentiva ancora l’influsso dei futuristi?
Non molto: Umberto Boccioni era morto negli anni della guerra e altri avevano cambiato pittura. Ho avuto modo di conoscere molto bene Fortunato Depero ma soprattutto Giulia Villa, la madre di Mario Sironi, una signora assai vivace che nella sua casa aveva moltissimi mobili futuristi. Ovviamente, ho conosciuto bene il vecchio Giacomo Balla.

Giacomo Balla

Cosa facevate la notte?
Si usciva molto ma spesso ci ritrovavamo proprio nello studio BBPR con Ernesto Rogers e gli altri. Era un po’ un punto di ritrovo dove si invitavano architetti, storici del design e letterati da tutta Europa. Ricordo Sigfried Giedion da Zurigo ed Herbert Read da Londra. In quegli anni, ho conosciuto anche Giuseppe Terragni.

Andavate anche per locali e trattorie?
Certamente! Ho sempre frequentato moltissimo Brera. Ricordo un ottimo ristorante in via San Simpliciano, che ora purtroppo non c’è più. Poi mi piacevano moltissimo le trattorie che affacciavano sul Naviglio, per delle belle serate in compagnia. Devo dire, tuttavia, che la vita notturna in quegli anni a Milano era piuttosto scadente.

Ora è cambiata, secondo lei?

Giacomo Balla: compenetrazione irridescente

Beh, certamente è migliorata… Che ricordi ha della Seconda Guerra Mondiale?
Lasciammo da Milano per rifugiarci nelle nostre campagne, in un borgo vicino a Volterra. Passai tutta la guerra in campagna. Ci furono vittime e feriti perché il villaggio fu bombardato e distrutto per due volte: prima dai tedeschi, che lo conquistarono e stabilirono il comando militare in una parte della nostra casa, poi dagli inglesi che presero posto negli stessi locali. Alla fine della guerra il villaggio era completamente scoperchiato. Mio padre, che era ingegnere, riavviò una fornace abbandonata e contribuì a ricostruirlo. Allora, finalmente, tornammo a Milano.

Gualtiero Marchesi

Come è cambiata Milano nel dopoguerra?
Finalmente è diventata una metropoli e non più solo una brigata lombarda. Dal punto di vista artistico, Milano ha presto superato un gusto un po’ rétro per la pittura fin de siècle e post impressionista. Penso ad Arturo Tosi e Alberto Salietti, che in fin dei conti erano dei pittori mediocri, eppure piacevano molto alle famiglie borghesi.

Cosa le piaceva o le piace mangiare?
Guardi, io sono sempre stato molto ghiotto e mangio tutto, ad esempio mangerò con molto piacere quello che mi ha portato (n.d.r. salame e cioccolatini). Ieri sera ho cenato con Gualtiero Marchesi (morto nel dicembre del 2017 ndr) e gli ho raccontato che mi piace molto la pastasciutta con lo zafferano. Dice che presto mi inviterà a cena da lui…

Dove andavate in quegli anni la sera e cosa vi piaceva bere?
Si andava molto per gallerie ma il vero porto di ritrovo era il bar Jamaica, sempre in compagnia. Si bevevano diverse cose a seconda delle occasioni. Io ho sempre preferito il vino, in particolare mi piace molto il Cannonau, un vino della Sardegna che ha una personalità molto specifica. Ne vuole un bicchierino?

Perché no. Però non vorrei esagerare…
Ecco qui, si serva. Avanti: non è pericoloso… Un gusto molto personale, vero? Vuole anche del liquore?

Ad esempio? Cosa potrebbe offrirmi?

Bar Jamaica e scorcio di via Brera

Non so, io talvolta bevo whisky o Slivovitz, un ottimo liquore jugoslavo, un’acquavite ricavata dalle susine…

Magari più tardi, grazie! Ho un’altra curiosità ora: cosa farebbe se avesse ancora 25 anni?
Con modestia rifarei quello che ho fatto, una vita compiuta e divertente in cui ho cercato di seguire l’eclettismo, facendo cose diverse l’una dall’altra. Rifarei una laurea in Psichiatria e mi iscriverei a un corso di nudo, per imparare il disegno dal vero.

Se potesse fare un viaggio all’estero, dove andrebbe?
Vorrei rivedere i musei di New York. Ora al Guggenheim c’è appena stata una grande mostra di Alberto Burri. Grande artista. Il suo cretto è stato un momento rivoluzionario della storia dell’arte. Poi vorrei tornare alla National Gallery di Londra. Che bella collezione!

Museo Guggenheim N.Y.

Se potesse rubare un quadro in un museo di Milano che ama particolarmente, quale si porterebbe a casa?
Senz’altro andrei dritto dritto all’Accademia di Brera. Certo che poi sarei molto indeciso e forse dovrei rubarli tutti!

Milano, lungo il naviglio Martesana

Se avesse la bacchetta magica, cosa cambierebbe di Milano?
Non cambierei moltissimo: Milano resta sempre una città di grande fascino. Certo, secondo me bisognerebbe ripristinare ed allargare i Navigli, per renderli navigabili nel modo più completo. Toglierli è stata una grande sciocchezza. Il sistema dei Navigli possono essere una rete idrica formidabile, dalla Martesana fino a Porta Ticinese e poi al Lambro e al Naviglio pavese. Si immagina lei quante attività potrebbero affacciarsi sull’acqua. Pensi ai vantaggi per i trasporti e alle gite in vaporetto!

Che legame ha con la religione?
Non se ne può parlare in modo approfondito in un incontro colloquiale, tuttavia devo dire che ho sempre avuto un interesse culturale per la religione. Nel periodo di guerra ero stato anche organista la domenica mattina in una chiesa nelle campagne di Volterra e così ho anche imparato un mucchio di cose sulla liturgia. C’era un coro molto approssimativo ed io suonavo negli intervalli. Il parroco, che da quelle parti chiamano pievano, era fascista e mi invitava sempre a pranzo. Quando gli alleati sfondarono la linea gotica sparì e non se ne seppe più niente. Arrivò un altro prete, questa volta antifascista, ed io continuai a suonare.

Cosa pensa delle battaglie di questi giorni per i diritti civili?
Le unioni civili, di cui si parla in questi giorni, sono una cosa talmente ovvia che non occorre nemmeno discuterne.

Fausto Melotti, installazione a Gibellina

Chi sono oggi gli amici più cari di Gillo Dorfles?
Direi nessuno! Sono tutti amici recenti, conosciuti negli ultimi anni. Gli amici storici non ci sono più. Penso agli artisti e agli architetti che frequentavo. Anche Vittoriano Viganò e Franco Albini. Purtroppo sono tutti scomparsi, una cosa incredibile.

Giuseppe Capogrossi

C’è un amico che le manca particolarmente?
Certamente Lucio Fontana: il fatto che non ci sia più, mi spiace davvero perché discutevamo moltissimo. Poi tanti altri amici come Emilio Scanavino e Fausto Melotti. Mi piaceva molto frequentare Giuseppe Capogrossi, molto intelligente e vivace, una personalità distinta. Aveva un talento pittorico limitato, così ha inventato un alfabeto personale di genio che lo ha reso immediatamente riconoscibile.

Ci sono artisti del dopoguerra secondo lei ancora troppo sottovalutati?
Qualche anno fa le avrei detto gli artisti del Movimento Arte Concreta e poi anche Luigi Veronesi e Mauro Reggiani. Tuttavia negli ultimi anni è stato fatto molto per riscoprirli.

 

Fondazione Fausto Melotti

Tra gli artisti dell’ultima generazione ha visto qualche talento interessante?
Ce ne sono due o tre piuttosto interessanti. Li ho anche presentati non molto tempo fa. Tuttavia preferisco non nominarli perché non vorrei che si montassero troppo la testa!

E com’è nata l’idea di costruire una mostra sull’approssimazione?
È un tema centrale da sempre. Nel 1951 ci fu un convegno fondamentale alla Triennale, La divina proporzione, con Le Corbusier superstar e Wittkover, Ackermann, Giedion, Rogers, Fontana: e lo stesso Le Corbusier diceva che il numero aureo, fondamento del Modulor, era solo apparentemente razionale. Senza l’approssimazione non ci sarebbe vita, tutto resterebbe perfettamente immoto.

Mi scusi professore, quando è il suo compleanno?
Non mi ricordo… (n.d.r. sorride).

Opera di Gillo Dorfles

C’è un’opera d’arte che associa a una grande emozione?
Difficile: sono piuttosto refrattario alle emozioni portate dai capolavori artistici. Forse mi emoziona di più la musica.

Quali sono i compositori del Novecento che le interessano di più?
Certamente Luciano Berio, un musicista molto raffinato. Eppure credo dovremmo avere più attenzione per Riccardo Malipiero che ha scritto, tra le altre cose, Minnie la candida, una bellissima opera dedicata a una lavandaia. Malipiero era un musicista notevole. Certo, secondo me, non c’è nessuno che abbia saputo raggiungere le vette di Giuseppe Verdi e Richard Wagner.

Cosa le piace suonare quando si siede al pianoforte?
Mi piace suonare qualsiasi cosa, soprattutto la musica che improvviso: molto più comodo di leggere uno spartito, come può immaginare.

Le istituzioni milanesi fanno abbastanza per gli artisti e per la diffusione della cultura?
Oggi a Milano c’è moltissimo, sia per l’arte sia per la musica. Credo però che i grandi artisti emergano comunque, a dispetto delle istituzioni. A volte il genio nasce ai margini. Quanto alla diffusione della cultura, i giovani devono vedere l’arte moderna e contemporanea, fin da bambini, nelle scuole. Quando abbiamo fatto la mia mostra a Palazzo Reale con i bambini abbiamo costruito anche una piccola mostra di riproduzioni delle mie opere. I bambini erano molto interessati e creativi. L’arte apre la mente.

C’è una zona di Milano che ama particolarmente?
Mi piacciono molto le vie dietro Corso Venezia: via Serbelloni, via Mozart, via Vivaio. In quella zona non c’è grande architettura ma ci sono molti edifici di grande dignità civica: è una zona che ha una personalità molto milanese.

Villa Necchi-Campigli, in via Mozart a Milano. Gioiello da visitare

Ci sono tre opere che vorrebbe portarsi nel aldilà?
Portarmi dei quadri sarebbe d’intralcio, preferirei dei libri con tante riproduzioni a colori. Quelle dei pittori che amo di più.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?
In queste settimane c’è una mostra di mie opere al MACRO di Roma. Una mostra che spero di portare presto in Francia e in Germania. Insomma, ho ancora molti progetti.

Come vuole essere ricordato Gillo Dorfles?
Certamente per la mia pittura.

Grazie professore, è stato bellissimo incontrarla.
Grazie a lei. È sicuro di non volere un altro bicchierino di Cannonau?

Altri articoli su Gillo sono (qui) e (qui)

 

 

ENZO PRIORE DI BOSE

ENZO PRIORE DI BOSE

L’esercizio della pazienza.Non c’è la parola web in “Ogni cosa alla sua stagione”, di Enzo Bianchi, ma c’è l’essenza, il silenzio, il ricordo di quando le parole erano poche e avevano grande significato. C’è la costruzione di una vita, di come si impara a vivere

Enzo Bianchi,l’esercizio della pazienza

Enzo Bianchi, priore di Bose

 

Rileggo Ogni cosa alla sua stagione di Enzo Bianchi. La vita che è gioia e dolore, memoria e speranza e, almeno per il fondatore della Comunità monastica di Bose, mai oblio. Dai giorni degli aromi a quelli del focolare, dai giorni del presepe a quelli, appunto, della memoria, dalla cella si parte e alla cella si torna in un epilogo struggente, dove la guida resta il Vangelo, «un libro che non ci estranea dalla vita ma ci fa entrare in essa con il desiderio di condividerla con gli altri, un libro che non chiede ascesi se non per ordinare l’amore, un libro che non fornisce una legge, non impone fardelli troppo pesanti ma “in-segna”, fa segno, indica un percorso vitale, invita tutti alla responsabilità, spalanca le strade dell’amore…».

Ma non ci sarebbero queste pagine, non ci sarebbe vita, non ci sarebbe lo stesso Bianchi (certamente lettore attento del filosofo Roberto Esposito), senza la comunità. Quella inventata da Etta e Cocco, la maestra e la postina che decisero di dividere tutto e che in un paesello del Monferrato presero a cuore i suoi giorni più duri (orfano di madre a otto anni, con un padre difficile), e quella fondata da lui stesso, dopo gli anni dell’Università, a Bose, perché «la comunità è l’insieme di persone unite non tanto da un possesso, da una proprietà, da un “di più”, ma da un “di meno”, da un debito che ciascuno vive verso gli altri».

Ogni cosa alla sua stagione ha l’ardire di farci assaporare i giorni, persino quelli più temuti dell’autunno che chiama l’inverno. Ogni cosa alla sua stagione, ogni cosa a suo tempo, andrebbe ricordato a chi si precipita, a chi ha fretta, a chi intende spostare sempre un po’ più in là l’obiettivo, a chi si ostina a tornare indietro, perennemente indietro perché vorrebbe saldare conti che non si possono più saldare e così fuggire al presente, a ciò che è, a ciò che ci si para davanti e chiede attenzione, ascolto, partecipazione, misura.

Non c’è la parola web nel libro di Bianchi, ma c’è l’essenza, il silenzio, il ricordo di quando le parole erano poche e avevano grande significato. C’è la costruzione di una vita, di come si impara a vivere, a fortificarsi, a forgiarsi e a temprarsi, perché «vivere, infatti, è duro, e occorre imparare a vivere come si impara un mestiere. Occorre soprattutto esercitare la “pazienza”, accettare la fatica come il prezzo di tutto ciò che si acquisisce in umanità, non aver paura di vivere l’amore anche quando presenta la faccia del sacrificio per l’altro… Sì, per amore ci si può sempre curvare, sapendo che comunque la vita ci curva e che ognuno se ne va portando con sé un segreto: come ha potuto trovare senso nella propria esistenza».

L’edificazione di sé, per dirla con Salvatore Natoli, è un lento, paziente e perseverante esercizio quotidiano. Vale per chi si è dato un convento dove abitare e per chi è fuori, per chi pensa di vagare libero per il mondo mentre è rinchiuso dentro altre mura. Ogni cosa alla sua stagione, ma le stagioni passano, si rincorrono e chi ha tempo non aspetti tempo.

filosofeggiodunquesono@gmail.com

 

ARMANNI, SANTI E CAVALIERI

ARMANNI, SANTI E CAVALIERI

 

IL POP-DADAISTA DELLA BASSA CHE ASSEMBLA SANTI E GUERRIERI– LUIGI ARMANNI DA’ IL MEGLIO DI SE’ QUANDO DONA  AGLI OGGETTI NUOVA VITA  SOTTO LA LUCE DEL MITO, DELL’EROISMO E DELLO SBERLEFFO IRRIVERENTE.

 

In un articolo (vedi qui ) vi ho parlato di Luigi Armanni pittore. Ma altrettanto interessanti sono le sue sculture. Anzi, chi conosce la personalità di Luigi, sa che manipolare, riadattare, accostare materiali, assemblare e reinterpretare oggetti d’uso è la cosa che più gli è congeniale.Luigi non potrebbe stare ore e ore a sbozzare del marmo, cesellare del metallo o incidere una miniatura. Il pennello, i colori vanno trattati con una cura e una pazienza che sembrano ritardare, quasi sviare l’idea di partenza, scansioni che l’impazienza di Armanni mal sopporta. Non a caso, alla tela, da qualche tempo preferisce i muri, dove l’idea di precarietà e consunzione, di contingente dell’opera umana, prima ancora che artistica, è presente re ipsa. A volte il suo segno si appesantisce, quasi volesse scavare nel muro, con una rabbia che ricorda quella di Jean-Michel Basquiat, artista afroamericano morto ad appena 28 anni. 

La pratica del riuso per accostamenti creativi è vecchia, dal dadaismo costruttivista all’arte povera, secondo la felice definizione datane da Germano Celant. Ma quella di Armanni non è l’estenuata replica di un epigono.

Il muro stesso, non è solo più la superficie sulla quale operare, ma materiale da plasmare, attorniare di oggetti, segnali, cartelli, che di fatto lo travisano e camuffano. Uno slittamento di senso verso una installazione in cui la pittura è decorazione e la scultura assorbe tutto il significato.

Nelle sculture-assemblaggio di Armanni l’ispirazione, apparentemente diretta ed esplicita, in realtà va interpretata alla luce del suo nomadismo culturale, in cui confluiscono lezioni antiche e influenze contemporanee, reinterpretate per ridare vita e significati diversi agli oggetti, grazie alla forte e originale ispirazione dell’artista.

L’archetipo che balza subito agli occhi è il “primitivismo” che guida la mano di Armanni. Inteso non tanto come recupero di un pensiero primordiale, di una purezza originale, ma del mito come antidoto alla modernità, come reazione alla prosaicità del vivere, dove l’apparenza ha sostituito la realtà. In tal senso la ripresa che egli fa di Corto Maltese, il moderno Moby Dick di Ugo Pratt, è esemplare.

Ne risultano opere che appaiono grezze nel loro insieme, realizzate con oggetti frutto del caso, ma in realtà studiate con l’attenzione dei particolari e con l’abilità dell’esperto artigiano. Il tono squillante di un colore, la leggerezza di un sagoma, la preziosità quasi barocca di un dettaglio, servono per contrasto, a dare all’insieme quel senso di forza, quasi brutale, di perentorietà, che solo le sculture tribali ci trasmettono.

Ma qui finisce ogni parallelo, dal monento che l’arte di Armanni si muove logicamente su un tessuto antropologico assai diverso, ibridandosi di elementi altrove sconosciuti e in cui il grottesco e l’eccesso riescono a convivere con il senso della misura, l’equilibrio compositivo e una esplicita spinta ironica, a volte quasi uno sberleffo, che serve a decodificare prosaicamente il contesto e il significato dell’opera. L’opera sopra riportata, che rappresenta il leone, simbolo di Venezia, ne è l’esempio, a mio parere, più elaborato e raffinato

La scultura che precede è il pifferaio magico della favola di Andersen. La figura si proietta sul reticolato che fa da sfondo e dà prospettiva, con un sapore schiettamente pop, in cui si recuperano, insieme al colore (il clarinetto a strisce è esemplare) toni e dinamica leggerezza, come solo si possono provare nei momenti onirici.

Una seconda fonte di ispirazione mi pare di intravvederla nel recupero dell’iconografia classica. Armanni intende l’artista, come durante il Rinascimento, quale costruttore di forme. I graffiti con santi e madonne, il modello del grande trittico con scene evangeliche, in cui forme quasi bizzantine scansionano icone, dipinte su materiale poverissimo come le tegole di un tetto, sono radici culturali ben visibili e feconde.

Polittico in legno dipinto e figurazioni su argilla .

Trittico, particolare

Trittico, particolare

La metamorfosi che gli oggetti subiscono nelle mani di Armanni riesce quasi sempre con esiti di felice espressività perchè è ben presente nell’autore l’idea che l’arte è anche inganno e finzione, come ogni opera di libera associazione e interpretazione. Però, al contrario di Magritte e dei metafisici, più interessati all’atto creativo in sè e meno alla fruizione, Amanni con onestà e sincerità evita di imporre una sua soluzione, ma lascia il significato dell’opera alla libera interpretazione di chi guarda. Almeno fino a quando essa esisterà sotto i nostri occhi, per rimanere dopo nell’animo del fruitore e dare “forma” culturale permanente al “rito” che si è consumato. Il retroterra culturale è insomma lo stesso di un Burri o un Fontana, anche se con esiti estetici diversissimi. La nutura e la sensibilità anarchica di Armanni, guardano scopertamente, oltre che ai già citati dadaisti, ad aspetti concettuali che richiamano Tano Festa e, più in generale, agli artisti della Scuola Romana, alla felice stagione di reazione della pop-art italiana allo strapotere americano, fra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

 

 

 

La bottega-laboratorio di Armanni. In primo piano una sua tela dal sapore metafisico

Anche i mostruosi cetacei di Armanni, pesci che affondano negli abissi misteriosi, continuano il mito insondabile dell’avventura, ma capovolti in aria, appesi al soffitto.Ondeggiano,con distratta leggezza, e più che farci paura richiamano lo sguardo, come in un gioco di bambini.

 

Non poteva mancare il giovane, biondo guerriero, bello, forte e certamente gentile, come alludono i fiori deposti ai suoi piedi. Un santo senza corona, ma già assiso nel tabernacolo? Sorregge un trofeo o una coppa. La violenza è sparita, rimangono il gesto cavalleresco, la vocazione e il destino da seguire. La preziosità dei segni e dei colori sul muro sembrano i tasselli di un mosaico bizzantino, o la ripresa di Egon Schiele.

L’inganno e la finzione si fanno un invito al gioco per lo sberleffo supremo: la violenza e la forza rappresentate dal guerriero, sontuosamente abbigliato e ricoperto di orpelli, dall’enigmatico nome di ERO (abbreviazione forse di eroe, chissà), si trasformano nella fattezze mostruose di un dadaista Ubu Re, il patafisico inventato da Jarry nel 1896 per scandalizzare la borghesia parigina.

 

Non poteva mancare San Giorgio, il viso di dura scorza legnosa, la sua corona di latta e l’armatura travisata in forma di ventaglio. In quanto al drago, eccolo ai piedi del santo, informe, vinto eppure ancora vitale e minaccioso, come sempre lo è il male che è in noi.

 

Un’ultimo lavoro, di attualità mai remota. La bocca in primo piano sembra conturbante. Un banale invito erotico?  No! Sono le scritte, prima ancora degli oggetti ad indicare divieto e blocco, che ci danno il vero significato del lavoro: un urlo di dolore, il respiro che manca e Charlie che muore. Il Bataclan, Parigi, il terrore. La morte.

 

Nell’ istantanea, primo piano di Luigi Armanni.

In copertina: scritta apparsa su un muro di Parigi durante la rivolta studentesca del 1968.

 

Contact Us