CASA ROSSA

CASA ROSSA

UNA LIETA PASSAGGIATA NEL BOSCO FA RIEMERGERE INASPETTATAMENTE ANTICHI FATTI DI GUERRA E DI ODIO- VIENE COSI’ TRAVOLTA LA CERTEZZA DI OGNI VERITA’ E I SENTIMENTI SI FANNO ILLUSIONE, SEPOLTI DALLA RASSEGNAZIONE SENZA SPERANZA DI UNA PICCOLA PROVINCIA

Riceviamo e pubblichiamo volentieri il lavoro di un giovane autore, blogger a sua volta e free lance nel mondo del cinema, nel quale vengono condensati, con una prosa fluida e incisiva, gli anni precedenti l’entrata in guerra dell’Italia e i primi anni della ricostruzione repubblicana. Storia e personaggi sono non solo verosimili, ma rappresentano in maniera emblematica  il clima di violento capovolgimento e di smarrimento di un’intera genererazione. L’autore afferma che il racconto è ispirato da una storia vera, mentre le foto sono occasionali e adattate ai contenuti del testo. I nomi dei personaggi sono fittizi; in quanto ai luoghi nulla è precisato; magari qualche lettore potrà rintracciare il rosone in ceramica che ancora adornerebbe l’ingresso di Casa Rossa.

 

 

Casa Rossa, come appare oggi, abbandonata da decenni

CASA ROSSA

Chiesi a Lisa una breve sosta perché mi aveva incuriosito la vista di quel vecchio nel giardino di Casa Rossa, seduto su una sedia a rotelle, testa calva, gli occhi nascosti sotto degli occhiali scuri. Un poco infagottato, si sarebbe detto assopito, non fosse stato per il sigaro che aspirava lentamente, perso nei suoi pensieri. Colpivano di lui la testa completamente calva, la fronte corrucciata, quasi fosse il rimasuglio di un vecchio sdegno, il grosso ventre su un corpo una volta certo possente.

Casa Rossa, lato, particolare

Casa Rossa era la costruzione più antica del paese. Sull’arco in pietra dell’ingresso stava scolpita la data di costruzione: 1630, l’anno della peste a Milano. L’avevo vista sempre lì fin da piccolo, ai margini dell’abitato, imponente, le finestre ad arcata, poi fienile, stalla e legnaia. Sul ballatoio c’erano spesso lenzuola stese ad asciugare al vento, odoranti di liscivia. Il ballatoio si sporgeva su un grande giardino delimitato da roseti, cespugli di azalee, mentre betulle e faggi erano addossati all’erta che segnava i confini. C’era poi un orto ben esposto, ricco di verdure e insalate che crescevano intervallate fra solchi di patate e carote. In fondo, quasi a ridosso della recinzione, crescevano alcuni alberi di cachi.

Cachi nel giardino di Casa Rossa

Mentre mi allontanavo preceduto da Lisa, dalla finestra sopra l’ingresso una tendina si agitò e intravvidi una figura lunga e ossuta. Mi tornò alla mente di quando, ormai ragazzo, arrivato a Casa Rossa mi sporgevo oltre la recinzione fino a raggiunge i cachi, che pendevano abbandonati e oramai raggrinziti, fra poche foglie superstiti.

Ricordavo anche, ma più confusamente, l’ultimo austero proprietario di Casa Rossa. Un professore, mi pare, accudito da una sorella. Venivano da fuori, ma era brava gente, mi informò mia madre. La casa si chiamava rossa non per il colore, ma perché alla fine dell’800, lo scantinato era diventato la sede dei socialisti della vallata. Ricordavo invece più nitidamente che mamma ammutolì e si fece inquieta quando, durante un inverno piovoso, si scoprì che Casa Rossa era stata all’improvviso lasciata. Si disse che il professore era andato a farsi curare un male serio, portando con sé, naturalmente, la sorella, lunga e ossuta d’aspetto, ma di cui nessuno avrebbe potuto descrivere il carattere, tanto era riservata e appartata. Fu verso la fine della guerra, doveva essere l’inverno del 1944-45.

Muratori al lavoro in Casa Rossa

Sulla casa ben presto scesero i segni dell’abbandono. Il giardino trascurato, l’orto incolto, le persiane sempre chiuse, l’erba che cresceva fra le fessure dei gradini. Casa Rossa rimase chiusa fino al 1946, se i ricordi non mi tradiscono, perché una mattina passando di lì per accorciare la strada per la scuola, vidi nella corte dei muratori al lavoro davanti ad una betoniera.

 

Appena lasciata Casa Rossa davanti a noi si aprì un sentiero, fatto con pietre di fiume e chiuso da cespugli di more e alti ciuffi d’erba. Percorse poche centinaia di metri, già il paesaggio mutava. Il bosco, diradando, mostrava a sinistra una ripida discesa, che finiva in un fossato ricoperto di vegetazione, e in cui si indovinava il letto di un torrente; l’altro lato invece proseguiva pianeggiante, con campi coltivati a erba medica. Giunse il suono delle bestie al pascolo, all’inizio piatto e monotono, poi modulato in una gamma di note.

“Caspita che bello, c’eri mai stato?- mi domandò Lisa.

“Forse, non so…” tagliai corto. Continuavo a pensare a quel vecchio in giardino. Non mi ricordava nessuno, per quel poco che avevo intravvisto di lui.

Man mano che si saliva, aceri e noccioli, oppure frassini raggruppati e come sorretti uno all’altro, cedevano il passo a querce e castagni, ingialliti dall’autunno. Il vento aveva spinto foglie e ricci ai lati del sentiero e si sentiva a tratti l’odore dell’ultimo taglio dell’erba, ancora allineata a seccare fra i solchi.

Due cascinali, posti ai lati della strada, presidiavano l’ingresso del largo pianoro, qua e là punteggiato da alberi di melo selvatico. Un contadino, sbucato da dietro quasi senza rumore, passò a bordo di un piccolo Landini senza darci uno sguardo, seguito da un cane pastore che ci annusò, uggiolò cercando una carezza per poi inseguire il trattore.

Le prime ombre della sera avevano sfumato forme e colori e dietro il bosco il cielo già incupiva. L’aria qui era più pura e trasparente, e respiravamo con ritmo, a fondo, quasi a volerne fare una scorta, come per inalare un antidoto contro lo smog di quei giorni giù in pianura. Questo sì una nuova peste.   

La stalla sul pianoro

Arrivava fino al sentiero l’odore dello stallatico che due contadini spingevano coi forconi fuori da una stalla illuminata, dentro cui si intravvedevano le schiene delle mucche, le grosse mammelle penzolanti, l’agitarsi nervoso delle teste. Quasi si avvertiva scorrere, lungo quelle grosse schiene, la fatica della giornata e di quel ruminare incessante fra i richiami dei cani. Lo stallatico nereggiava a contatto con l’aria fredda in un cumulo fumante

Una donna, fazzoletto in testa, grembiule macchiato e grosse scarpe ai piedi, uscita da casa andava verso un magazzino. Ci scorse e si fermò a guardarci, per qualche istante. Proseguì poi indifferente.

Mentre stavamo per tornare sui nostri passi per rincasare, ci accorgemmo che sulla destra, là dove il pianoro finiva e la terra iniziava a salire, si stagliava contro il bosco un grande edificio, regolare, a più ordini di piani, ornato di grandi finestre ad arco, solide mura di giallo ocra e marrone bruciato. Il tetto ricoperto di lose di pietra grigia era sostenuto da una travatura che si prolungava a mo’ di tettoia, rendendo l’aspetto dell’edificio, già austero, un poco minaccioso.

“Sembra un sanatorio” dissi, con poca convinzione, uscendo da un silenzio perplesso. Pensavo al sanatorio di Davos, quello del romanzo di Thomas Mann La Montagna incantata.

Il sanatorio sullo sfondo, visto dalla strada che porta a Casa Rossa

Lisa mi rispose: “chissà, magari un volta, oramai la tisi la leggiamo nei romanzi..”

 Ma che ci faceva lì un edificio di quelle dimensioni? Era una casa soggiorno per anziani? Un luogo di cura per silicotici, per malati mentali? Non certo un centro di estetica o una clinica per il relax, non era quella montagna il posto giusto, troppo modesto e appartato, difficile da raggiungere e senza altre attrattive.

Eppure, quei stessi luoghi, durante l’infanzia, mi sembravano i più belli, e mal volentieri li lasciavo, anche solo per i brevi viaggi in pianura. 

Guardando l’edificio mi chiedevo se il professore fosse venuto lì a curarsi. Chissà, erano passati tanti anni..

“Dove stai andando?”- chiese Lisa. Inavvertitamente mi ero incamminato verso il misterioso edificio.

Feci un cenno con la testa, indicando nella sua direzione.

“No, no! è tardi, fra un po’ scende la notte e non mi va di camminare al buio nel bosco.. poi lo sai che ho paura dei cani.

 

Percorsa rapidamente la discesa ci apparve nuovamente Casa Rossa. Il vecchio era ancora là in giardino.

Sembrò accorgersi che lo osservavo perché mandò un richiamo verso l’interno della casa. Uscì una donna di mezza età, lunga e ossuta, che mi guardò interrogativa.

“Buon giorno, mi chiamo Lorenzo Bongiovanni. Sono nato in paese e da ragazzo per andare a scuola passavo sempre di qua. Mi scusi, ma cercavo di orientarmi… di ricordare…”

“Io sono Esterina, ma a lei non la ricordo… è del paese, diceva? Io ho sempre abitato questa casa, ma..“

Assentii un poco a disagio: “Certo..siamo cambiati, tanto tempo è passato…ma non abitava qui il professore..?”

“Questo è stato prima della guerra”, rispose la donna rimpannucciando il vecchio.… sono la sorella del professore”. Il vecchio sembrava non sentire, immobile, lo sguardo fisso davanti a sé.

“Ah, sì, piacere. ..Ma il professore…..?

Esterina mi interruppe, sbrigativa: “è morto, se l’è portato via….la guerra. Per fortuna che c’è stato lui” e così dicendo la sua voce si addolcì, appoggiando lieve una mano sulla testa del vecchio.

Non mi diede tempo di metabolizzare la notizia che salutò, voltò di spalle, spingendo risoluta la sedia verso la casa. Già in paese si accendevano le prime luci.  

Mentre mi allontanavo a malincuore da dentro sentii la donna canticchiare: Ciriciricì, dove seeei?….. Ciriciricì dove vaaai…?

Quella notte, mi girai a lungo nel letto per cercare calore. I ricordi si presentarono in fila, silenziosi ma implacabili, belli o brutti che fossero. Più erano remoti più mi apparivano vividi e dettagliati, e più ne richiamavano altri, che, come una cascata senza argini, mi sommergevano.

 

Visita al sanatorio

Immagini del sanatorio abbandonato

Retro del sanatorio abbandonato

Era da giorni che pioveva, e ne prometteva ancora. Poi alla fine mi ero deciso. Nell’ultimo tratto, lasciata la strada, il sentiero per quello che avevo chiamato il sanatorio si era fatto fangoso. Le suole degli stivali sembravano incollarsi nella terra.. Davanti, l’alto edificio era impenetrabile, oltre il cancello arrugginito l’erba coricata lasciava intravvedere un sentiero. Sul lato nord fino al primo piano e oltre, la casa era sommersa dalla vegetazione, che ricamava con lunghe lingue di verde le mura ammuffite, insinuandosi per le finestre sfondate, nelle grate delle cantine, attorcigliandosi ai cavi della luce.

La porta era socchiusa, mi scrollai la pioggia di dosso e pulii alla meglio gli stivali. Entrai in un giardino inondato di luce, l’odore delle rose era così forte da stordire. Davanti a me un uomo stava seduto accanto ad un albero di cachi. Senza le foglie i frutti pendevano come palle colorate da un albero natalizio.

Lo riconobbi subito: “Professore, come sta?”

Il giardino di rose del professore

“Lei chi è? “- rispose con voce incerta, schermandosi gli occhi dal sole, ma per nulla sorpreso. Indossava una camicia a maniche corte rosso corallo, pantaloni di lino bianchi, fermati ai fianchi da una cintura di cuoio intrecciato, e la barba folta e brizzolata faceva un bel contrasto sulla camicia. Poteva dimostrare 45-50 anni. Testa dai lineamenti forti, folti sopraccigli e occhi cupi ed infossati gli davano un aspetto che incuteva timore.

Mi sentivo imbarazzato e con un sorriso incerto dissi: “Sono quel ragazzo che le rubava i cachi del giardino”

Scoppiò in una risata: “finalmente so che non erano gazze o tortore, … ma almeno erano buoni?”

Il sole mandava un caldo tepore e sotto il suo sguardo ironico tolsi gli inutili stivali, spogliandomi fino a rimanere come lui in camicia, poi con indifferenza presi a camminare a piedi nudi nell’erba fresca.

Il professore parlava cercando le parole, come succede a chi per lungo tempo sta in solitudine.

“Ma lei è stato mio allievo, per caso? Più che una domanda sembrava un’affermazione, tanto il tono era stato spiccio e burocratico.

Mentre pensavo la risposta arrivarono, da oltre il muro di cinta, voci confuse, esclamazioni, simili ad un coro di lamenti.

“Sono i ragazzi dell’oratorio, ma vengono sempre meno, le mamme hanno paura o sono prese da altri pensieri nella testa…non so”, sospirò il professore.

Cosa mai voleva dire? Quale oratorio? Solo allora mi accorsi del campanile di una chiesa che spuntava alto oltre il muro, proiettando la sua ombra sul prato. Un antico orologio batteva le ore, e le rondini allarmate di rintocchi si tuffavano dall’alto, stridendo in cerchio come ubriache.

“Una volta usciva un angelo annunciatore, col suo martello, bong-bong… ora si è inceppato, o lo fa per dispetto, chissà. Il professore ne mimò i movimenti, alzandosi sulle spalle.

Poi abbassò la voce: l’orologio è antico, ma i rintocchi che ha sentiti sono registrati… il solito imbroglio per catturare o illudere le anime dei semplici.. Come ai miei tempi, tutti catturati dalla sua voce magnetica, tutti avvinti e sottomessi. Signorsì!” E fece il gesto di portare la mano aperta all’invisibile visiera e poi il braccio steso davanti a sé.

Sentii che era meglio cambiare discorso per chiedergli ciò che mi stava più a cuore: “Professore, mi tolga una curiosità, ma questo edificio che cos’è?”

“Una volta è stato un albergo, poi chiusa la funivia i turisti sono spariti. Allora l’hanno trasformato in un sanatorio. C’era anche una piccola astanteria, una specie di pronto soccorso, per i casi più semplici, prima di essere trasportati in pianura,…salvo uscire in orizzontale.” La battuta, accompagnata da un gesto di mano, voleva essere cinica, ma detta con un tono così amaro da sconcertare.

Quasi per rimediare, addolcendo la voce e alleggerendo lo sguardo, il professore aggiunse:” Ma oramai sono anni e anni che qui è chiuso, cose passate, dimenticate”  

 “Professore, lei è stato curato qui, mi pare. Dunque quella sua… malattia non è stata una cosa seria” dissi per sviare il discorso.

“Quale malattia?” domandò sorpreso. “Come vede sono qui, vivo e vegeto, mi pare” e fece una smorfia di disappunto.

“Ma non lasciò Casa Rossa per curarsi?”

Il professore non rispose, si irrigidì in evidente disagio. Si sentiva che non amava ricordare quei tempi, ma nello stesso tempo avvertivo in lui la voglia di parlare, di sfogarsi, forse di confidarsi.

 

La fuga

Culone al centro, prima dellìincidente, a capo del manipolo di fascisti

“Lei era appena nato, non può ricordare”. Ancora una volta sorrise amaro. “Oltre al giardino e ai cachi… fuori, sarà stato il 1939-40, c’erano gli squadristi, vecchi ubriaconi o sfaccendati di paese trasformati in milizia, un’armata di Lanzichenecchi, non meno crudele dei tedeschi, anzi peggio, esacerbati com’erano quegli energumeni dal sentirsi sempre inferiori ai nazisti. Uno in particolare- che all’inizio, sfruttando la sua pelata e la mascella volitiva, imitava in osteria il Duce- divenne capo del manipolo che, sotto la sua guida, iniziò a fare le “spedizioni punitive” e a terrorizzare il paese. Quell’uomo me l’aveva giurata, e le leggi antisemite gli diedero mano libera.” Qui il professore fece una pausa, seguiva i suoi pensieri. Dopo un lungo in silenzio soggiunse: “io sono ebreo”. Con lo stesso tono di chi direbbe: fuori piove. Poi riprese. “Durante una spedizione delle sue, Culone, questo il soprannome in paese, cadde da un camion come una pera marcia, fra le risate dei camerati. Rottura del femore, lo curarono male e finì su una sedia a rotelle, più malvagio e cattivo di prima. Dopo la disgrazia, una lingua velenosa fra i suoi prese a chiamarlo Culone sfascista, e così rimase.”

 “Si sapeva di rastrellamenti, di liste e di treni che partivano per la Germania, ma tutto era troppo confuso, incerto. Il direttore sanitario del sanatorio Sandri era un amico, presagendo il peggio si offrì di darmi riparo lì da lui.. Dovevo andarmene, mettermi al sicuro. Tutti sapevano che le squadracce erano lì lì per perlustrare il paese, avevano iniziato a rastrellare a valle e ora salivano, salivano.. e Sandri mi pressava.”

Sabato fascista a scuola

 “ Mi creda, lasciare la casa dove ero cresciuto mi pesava di più che non abbandonare la scuola. Era una fatica insegnare a quei bambini, trasformati in marionette, le marce fasulle del sabato, tutta quella retorica per inneggiare alla violenza e alla razza. Insopportabili. “

“Una notte, mentre tutto il paese dormiva, con Ester mia sorella, arrivammo qui. Sandri aveva preparato tutto, in una soffitta su un lato appartato del sanatorio dove nessuno ci avrebbe notati. Mi accorsi allora di avere lasciato a Casa Rossa un’agenda con nomi di confratelli perseguitati. Alcuni di loro avevano cambiato casa e identità per non farsi trovare. Dovevo recuperarla e distruggerla. Quando rientrai in sanatorio era spuntata l’alba. Non mi accorsi che nel cortile era fermo un camion militare. Prima che potessi tentare la fuga fui preso, ammanettato e portato a valle, dove gli ebrei rastrellati venivano incarcerati.”

Il professore si passò le mani sugli occhi, premendole sulle palpebre chiuse, quasi a volere rivivere quelle scene.

Il professore sotto tortura

“Iniziarono gli interrogatori: domande senza risposta si alternavano a schiaffi, poi a pugni. Cercavano Ester. Volevano sapere dove si nascondeva. Meno male, almeno lei era sfuggita alla loro grinfie. Ma com’è che non l’avevano trovata? Il primo, atroce sospetto fu che fosse stato Sandri a tradirci. Ma perché solo io? Mi accorsi che così ricostruiti i fatti non stavano in piedi. Più verosimile la storia che Sandri, visto il cortile invaso dagli squadristi, l’avesse fatta scappare, forse con l’aiuto di quella contadina di cui si era invaghito, e che la mattina, come si vantava lui, prima di fare le pulizie in sanatorio, finiva nel suo letto.

Chi dunque rimaneva? Un vicino di casa, un collega di scuola, oppure quel mingherlino che ronzava attorno a Ester e che poteva avere presagito qualcosa da una mezza parola?

Il giovane fascista, allievo del professore

Gli squadristi si alternavano nell’interrogatorio e a picchiarmi. Avevo il volto tumefatto e ormai insensibile.  Fra i fascisti più violenti riconobbi un mio allievo. Pensai: il primo filo di barba e già così dissoluto. Mi spuntò una lacrima per lo sgomento. Cosa mai gli avevamo insegnato?  

Io non parlavo, né avrei potuto farlo perché non sapevo dove Ester era nascosta. Mi consolava, inoltre, l’idea che Sandri, abile com’era, se la sarebbe cavata. Come medico conosceva tutti e non c‘erano prove della sua complicità con me. Quanto alla mia presenza in sanatorio poteva essere stata un’emergenza medica.”

“Infatti” -lo interruppi- ecco spiegata la storia della sua malattia”.

“No- replicò il professore- le cose erano diverse, ma lo seppi dopo.” Poi proseguì.

“Dopo l’ennesimo pestaggio, come per accordo, i carcerieri uscirono tutti dalla cella. Oramai era sera avanzata e poco dopo piombai nel buio. Almeno per un po’ era finita, pensai con sollievo. Scese un silenzio innaturale, mi prese un lieve sopore quando sentii dei lamenti. La cella era deserta. Il corridoio silenzioso. Solo allora mi accorsi che ero io a gemere, ogni qualvolta la testa appesantita mi piombava sul petto.

 

Culone Sfascista

“Professore, professore, mi sente? “

Chi parlava? Non vedevo nessuno e nessuno era entrato nella cella. Non potevo girarmi. Ero rimasto legato, mani e piedi ad una sedia, piegato su un lato.

“Professore, non vuole collaborare? Non capisco tanta testardaggine. Tanta inutile resistenza. Il mondo è contro di voi, che vale opporsi, lei finirà dove merita, lei e quelli come lei, non glielo avevo detto? Qui la voce si inalberò, divenne tagliente, amara: “Eh, no! Il sapientone, il professore, l’intellettuale!… Voi ebrei non state capendo in cazzo! E’ l’ora di fare pulizia, o no ? L’ha capito dove finirete tutti, o no? Caput!”

Culone Sfascista

Sentii un fruscio, qualcosa che rotolava, un’ombra che si spostava a tratti, poi il guizzo della fiamma di un fiammifero illuminò un cranio lucido. Un odore di sigaro inondò la cella. Lo sconosciuto stava fumando. Ma quel fotogramma mi era bastato, l’avevo riconosciuto: era il capo manipolo, il nemico giurato, Culone Sfascista.

Culone si sporse in davanti dalla sua carrozzella per farsi vedere. Prese a ondeggiare e mimare col solo busto, le mani sui fianchi, forse inconsapevolmente, le oscene movenze del Duce. Che atroce messa in scena di uno storpio.

Sembrò leggermi nel pensiero o forse fu il disgusto ad affiorare sul mio viso rigonfio perché si fece cattivo: “So, so tutto, che credi! non serve che parli, oh, e.bre.o”. Pronunciò la parola ebreo scandendola come un insulto, sibilando come un serpente. “Vi tenevo d’occhio da tempo, voi due. Quel Sandri è furbo, ma prima o dopo verrà anche il suo turno. Non solo voi ebrei siete la feccia del mondo!… “

“ So tutto- riprese enfatico- anche quello che tu non sai, ebreo….. Prese una boccata di fumo con studiata lentezza. “ No, non è salva… come tu credi, o come te l’ha fatto credere il tuo amico Sandri.” Girò la carrozzella per guardarmi meglio.

“Non sei stupito? Non ti spaventi?  Non sei disperato? Ah, voi persone istruite….che gran simulatori!”

 “Siete in mano mia, tu e lei, almeno fino a quando, domani, non verranno i crucchi, i cameraatten!” Culone alzò il tono della voce, sembrando di buon umore, tant’è che prese a battere ripetutamente e strisciare le mani sui braccioli.

“Fa conto che sia qui anche lei, in un angolo che ascolta in silenzio, da buona ebrea devota” Ridacchiò nel buio, poi si spinse fino alla finestra. Ora era messo di spalle e un raggio di luce ne rivelò il profilo arcigno, la schiena ricurva e incassata.

Rigirata la carrozzella rimase in silenzio, facendo più volte sì con la testa, lo sguardo perso al soffitto. Poi lentamente, studiando le parole disse: “So dove sta tua sorella, chi la tiene nascosta. Posso andare a prenderla quando voglio, oppure mettervi tutt’e due su un carro per la Germania, spedirvi in un viaggio da cui non si ritorna…” 

“Non  è vero!, stai mentendo” lo interruppi

“Credi davvero che la fuga passasse inosservata? Noo, ma è stato meglio così…” Ora, parlando, Culone Sfascista tormentava i braccioli della carrozzella, carico come una molla pronta a scattare. “Vuoi sapere perché solo tu? Te lo spiego io, caro il mio professore ebreuccio. Sono qui per questo. Tua sorella è merce di scambio, sempre che i tedeschi non l’acciuffino prima. Perché tua sorella tu la vuoi salvare, non è vero? Ti do questa opportunità, che ne dici?”

“ Non ti credo” ! urlai.

“Mi devi credere, anche perché non hai altra possibilità, senno insieme in Germania, caput! Com’è buffa la vita, alle volte, vero professore.” Culone Sfascista sbottò in una risataccia, poi succiò avidamente il sigaro: “e allora?” riprese minaccioso.

“Cosa vuoi da me?” domandai.

“Forse tua sorella la puoi salvare, se ci tieni, tu oramai sei segnato, un morto vivente, ma…… prima della deportazione, senza clamore, posso prendere Ester, portarla lontana da qui, confusa in mezzo ad altri, magari in un luogo sicuro, custodito… che so, un convento, dato che Ester è così pia, tanto un dio vale l’altro quando c’è di mezzo la pelle.”

“E a quale prezzo?.. Chi mi assicura?” 

“Non mi fare perdere la pazienza, Cristo!”- disse minaccioso Culone sfascista -“ ebreo e diffidente… attento, noi storpi ne abbiamo così poca di pazienza, non lo sapevi?  Ma tu cerca di aprire bene le orecchie e fa funzionare diamine quel po’ di cervello che ti è rimasto. Ti propongo uno scambio, tutto alla luce del sole, tutto regolare, perché non mi piacciono i soprusi o gli scippi.”

“Cosa vuoi dire?”

“Tua sorella in cambio della tua casa.

“La mia casa…?

“ Sì, la casa più antica e bella del paese, un castello per questo povero storpio. Qui Culone allargò le braccia come volesse indicarlo il castello, fece una smorfia di autocommiserazione, strinse le spalle,scrollò la testa, il sorriso sardonico: “manca il ponte levatoio, ma mi accontento”. Sì, sì, sì..”. Poi in tono solenne: “Io!, con le pezze nel culo che fondo un casato. Non è un’idea grandiosa?.. sì, sì, sì… e, attento con tutto quello che c’è dentro, beninteso! Che voi ebrei ve ne intendete..”

“ Che ti passa per la testa?  A chi vuoi darla a bere? Quando basta … sì insomma, basta un sequestro, la requisizione di guerra….”

Culone Sfascista mi interruppe stizzito: “Ma come fai a non capire, Cristo santo? Un contratto, un acquisto, anziché i soldi, tua sorella, una vita… e ti pare poco?”

“Ma che bisogno c’è di questa messinscena…?”

Culone Sfascista

“Perché, il mondo cos’è se non una messinscena? La testa a ciondoloni, le labbra atteggiate a muso di gallina, stretto sulle spalle: ”Vedi professore, te lo dico così: io non vi odio perché siete ebrei, vi odio perché siete ricchi. Il motore che muove il mondo non sono le ideologie, Hitler o Mussolini o Stalin, ma la lotta fra chi è ricco e chi è povero, il resto è contorno. Voi ricchi, che siate ebrei o ariani, bianchi o negri, avete i soldi appiccicati all’anima, fin da quando nascete. La gente come me, che invece nasce per strada, senza neppure un nome, vive per strapparveli. C’è una potenza più feconda del denaro? Non nascono così tutte le dinastie? Ecco perché Culone Sfascista mi va bene, ecco perché anche questa sedia mi sta bene, benissimo!…ecco perché voglio la casa, per saltare il fosso. Vissuto da pezzente voglio morire riverito, da benestante.”

La voce di Culone Sfascista si abbassò, divenne melliflua: “Ma non sarebbe bello farlo grazie a Mussolini, come un ladro di galline. Che merito sarebbe. Sento che ne convieni anche tu. Le forme vanno sempre rispettate. Che direbbe dopo la gente. E poi la guerra,.. dovrà pure finire e magari quelli che adesso ti inneggiano in piazza, domani chissà… ti impiccherebbero. Quindi, tutto regolare, davanti ad un notaio, qui in caserma. E presto, perché domani mattina vi spediscono a Milano per la Polonia, via carri blindati. Tu sei uno dei primi nella lista, ma Ester.. tua sorella….”

 

La mia attenzione venne catturata da un brusio crescente, come uno scroscio di pioggia che via via aumentava di intensità. Dal bosco, le foglie in cima agli alberi, sull’onda del vento, si staccavano scendendo verso terra in un crescendo caotico e disordinato, una baraonda di sussurri, brusii, crepiti e tonfi. Il professore ebbe un sussulto, come chi si desta nel mezzo di un sogno. Si alzò, lisciandosi la barba, con molto sussiego, poi disse: “Che sbadato, non le ho ancora presentata Ester.”

Dalla casa si sentì un canto avvicinarsi: “Ciriciricì dove seeei…? Ciriciricì dove vaaai….?

“E’ lei- annuì il professore compiaciuto- si presenta così ogni tanto, è sempre stata una ragazza capricciosa, imprevedibile. Mi racconta storie strane, è felice, dice. Vuole che lo sia anch’io. Anche quando non c’è, la sento sempre vicina, e così vivo e ricordo.”

 

Epilogo

Fascisti quando entrano al sanatorio

“La sera della fuga, Sandri mi aveva lasciata raccomandandomi di riposare. Mi avrebbe avvertita lui del ritorno del professore, come ancora usava chiamare Lorenzo in segno di rispetto. L’aria diaccia, l’odore stantio della soffitta erano come un sudario. Una striscia di luce dispersa da chissà dove e rimbalzata tremolante sui tetti era l’unico segno del mondo di fuori, della vita che pure scorreva. Inquieta mi agitavo nel letto, già albeggiava. All’inizio sembrò un rombo in avvicinamento, poi si sentirono distintamente giù in cortile frenate di camion, lo sbattere di sportelli, voci concitate e ordini. Non potevano che essere loro, i fascisti.”

“Pensò allora che vi avevano traditi?” domandai a Esterina.

Eravamo nella penombra di un piccolo studio, Esterina, seduta come suo solito impettita, sull’orlo di una poltrona, io di fronte, attento a non interrompere quel flusso di confidenze, o ad evocare emozioni che avrebbero potuto ferirla. Avevo fatto breccia con insospettata facilità in una antica voglia, che chiedeva di abbandonarsi, di liberarsi del peso di ricordi ingombranti, come una fiumara che irrompe dal suo alveo. Il fatto che venissi da fuori e che potessi essere per lei come un fratello minore forse aiutarono la sua confidenza. L’ascoltavo in silenzio, punto da viva curiosità perché, man mano che Esterina parlava, presagii che non erano soltanto quelle lontane vicende a farla soffrire, ma ferite più recenti.    

“ Me lo sono chiesta tante volte, senza venirne a capo”- rispose- “Ma in fondo che importava? Sandri mi disse poi che i fascisti erano capitati lì per caso, per caso si erano imbattuti in Lorenzo che rientrava, nulla sapevano di noi, tant’è che presto sgombrarono per andare a Casa Rossa, pensando di trovarmi lì.”

Ma la vera sorpresa doveva ancora arrivare. Quella stessa mattina, mentre era ancora fresca la paura per l’incursione notturna, sentii del trambusto, un ascensore che saliva, e poi passi concitati verso la soffitta. Entrò Sandri e dietro di lui Culone Sfascista, sulla carrozzella, sollevata a braccio da due inservienti per la rampa della soffitta, come un Papa sulla sedia gestatoria. “Presto- mi esortò Sandri- raccogli le tue cose e segui il Capo. Ero frastornata e impaurita. Culone, toccata terra, intervenne deciso: “ Presto, prima che ritornino, che si sparga la voce che lei Ester è qui”. Sentirmi chiamare per nome da quell’individuo osceno mi fece girare la testa, lasciandomi come inebetita. Culone se ne accorse. Prese a guardarsi intorno indispettito, agitando le mani, l’aria contrariata dell’innamorato respinto, per poi sbottare: “Non sono come pensa, sa! Sono dalla vostra parte, che cosa crede? Poi le dirò con calma. Su,su, ora si affretti e stia tranquilla che la porto in salvo.”

Ma …lui, sì… non stava dalla parte dei tedeschi, non è un fascista?- chiesi  a Sandri- Ma come può essere?”

“Fidati e seguilo, non c’è altra via d’uscita, se vuoi salvarti. Le cose cambiano…”

 “E mio fratello?” supplicai, rivolta prima a Sandri e poi a Culone. Nessuno dei due rispose.

 

“Culone mi portò in un luogo sicuro, sull’altra sponda del lago, un collegio per i figli di famiglie benestanti. Lì fino alla ritirata feci l’istitutrice. Culone mi veniva a trovare ogni domenica. Era riverito e considerato dalla direzione. Nonostante il suo stato incuteva rispetto. Ci servivano il caffè nella veranda, mentre lui mi faceva l’elenco degli ebrei e antifascisti che aveva aiutato a fuggire o a sottrarsi alla cattura o alla deportazione in Germania nei campi di lavoro o in Polonia a morire. Era circostanziato, convincente, autorevole.”

“Ma non è vero!, tutti in paese lo ricordano a capo del suo manipolo”- replicai

Esterina abbassò lo sguardo, imbarazzata, sembrò farfugliare qualcosa.

“E di suo fratello, non le disse nulla della sua sorte?”- insistetti-

“Quando gli chiedevo di mio fratello e di quella notte in sanatorio, allargava le braccia, sospirando: “Ho fatto il possibile. Troppo tardi. E non aggiungeva nient’altro.”

“Poco prima della Liberazione, credo verso l’inizio del ’45, Giuliano, questo è il suo vero nome, cercò di entrare in confidenza. Ormai le sue visite in fondo mi facevano piacere, lui cercava di essere comprensivo, quasi paterno data la differenza d’età. In questi momenti sapeva tirare fuori dalla sua natura aspra e risentita, dei modi galanti che sorprendevano, suscitando ilarità che lui bonario assecondava.

“Che avvenne dopo la Liberazione?”

“La domenica prima mi disse di prepararmi, che potevo rientrare a casa, non c’era più alcun pericolo. Lungo il tragitto, mi confessò di stare bene con me. “Lo facevo sentire un uomo normale”, e lo disse con un tono sincero, di profonda gratitudine, che mi commosse.” Per il resto non fu un bel viaggio, non avevo paura di ritornare a Casa Rossa, ma sentivo di soffocare sotto il peso dei brutti ricordi che via via si presentavano.

Il giardino di Casa Rossa abbandonato

“Ricordo che arrivati a Casa Rossa, il nostro sguardo andò al giardino abbandonato. “Lo sistemerai, Ester, come sai fare solo tu”. Il disagio che lungo il tragitto era cresciuto in me, ora mi chiudeva il respiro. Quanti ricordi e paure, quante notti passate ad immaginare paesi lontani, dove vivere liberi e felici.  Dentro, la casa era diversa, quadri e mobili erano cambiati o spostati, solo la mia camera di letto era quella di sempre. “L’ho lasciata com’era” mi sussurrò da dietro Giuliano. Ma non lo ascoltavo più. Non riconoscevo più Casa Rossa, mi era come estranea, e non era solamente effetto della prolungata lontananza. Capii che c’era qualcosa di più, un dubbio mi serpeggiò nel pensiero. E fu come se mi avessero denudata, sorpresa nell’intimità più imbarazzante. “   

Giuliano capì che ora doveva parlare, chiarire. Lo fissai risoluta negli occhi, senza battere ciglio. Dovevo avere un’aria dura e decisa, perché non cercò nemmeno di sottrarsi, di prendere tempo.

“Ho acquistata io la casa di tuo fratello, pochi giorni prima di……”

“Cosa?”, non è possibile, non ci credo!”

“Voleva fuggire, espatriare, prima che fosse troppo tardi. Mi aveva chiesto di darvi una mano, trovare il modo, i mezzi. Mi offrì lui stesso la casa, con tutto quello che c’era dentro, così come la vedi”.

“Ma non ne sapevo nulla, non me l’ha mai nemmeno accennato…”

“Piuttosto che farla finire chissà in mano a chi, magari saccheggiata…diceva”

“Ma perché non parlarmene?”

“ Voleva evitarti un dolore. Sapeva come c’eri attaccata ” Te lo avrebbe detto, … forse non ci fu il tempo.”

 

Esterina sembrò non riuscire più a continuare. Dalla finestra socchiusa dello studio entravano i profumi del giardino. Mi ricordai di quando Casa Rossa rinacque, dell’albero di cachi, del bucato steso a asciugare. Esterina si alzò turbata, sembrò volersi affacciare dalla finestra e, guardando quei colori annegati nel verde, trovare lì le parole per riprendersi. Forse quello che affiorava ora nella sua mente non erano i ricordi delle sofferenze e dei sacrifici della guerra, ma altri, ancora più dolorosi perché vicini e presenti.  

Esterina di spalle alla finestra in una foto giovanile

Stagliata contro i vetri, la sua figura mi appariva sfocata dal riverbero, incerta nei contorni, un po’ come ora la sua voce.  Si voltò sospirando, guardandomi per la prima volta dritta negli occhi.

“Lorenzo, lei non è più il ragazzo di allora, potrà capire. I primi anni dopo la guerra furono altrettanto duri, senza lavoro, senza mezzi. Dove avrei potuto andare? Quella in fondo rimaneva pur casa mia, capisce? Mi sentivo fragile, abbandonata, cosa potevo fare? Ma la gente non capiva. Mormorava, mezze parole, frasi sibilline, niente di chiaro. Quando si sparse la voce e videro Culone affacciarsi da padrone dalla casa, la gente divenne ostile, si indurì. Le vecchie amicizie, quelle poche non risucchiate dal gorgo della guerra, si dileguarono. Al loro posto c’erano solo rancore o disprezzo. Il paese mi voltò le spalle, poi mi dimenticò.”

“E di …lui, che fecero, che dissero?”

 “Nulla, con quella baraonda, quello sbando…. Chi ancora lo ricordava lo faceva solo per attizzare l’odio, ma alla fine anche l’odio stanca, i più preferirono dimenticare. Erano giorni in cui la gente cercava solo di che sfamarsi, un lavoro…. Culone antifascista, o doppiogiochista, come amaramente lui si definiva, non lo conosceva nessuno in paese. Ma erano tutte sue invenzioni le decantate missioni per soccorrere gli ebrei e i perseguitati dal regime? Mah! Non ebbi voglia o forse coraggio di indagare, troppa pena, troppo strazio. Troppi voltagabbana. E per Casa Rossa c’era da credergli? Indagare, se mai si fosse potuto, avrebbe solo indurita l’anima.”

“Capisco… per lei deve essere stato un inferno…”

“Arrivammo ad un compromesso. A lui bastava fare il padrone di Casa Rossa, sentirsi importante, rispettabile. A me chiedeva solo di accudirlo, come ad un padre ammalato. Ogni tanto si inteneriva, si avvicinava, cercava di afferrarmi, strapparmi un po’ di intimità… era sempre un uomo, e vigoroso. Come sa essere penoso e ridicolo, a volte, l’amore.” Qui Esterina si fermò, cercava le immagini, o forse le parole giuste, quelle più difficili da trovare. “Anche le rinunce reciproche a volte avvicinano…”- disse come parlando tra di sè.

“Ma perché tanta rassegnazione, perché darsi per vinta, Esterina?” le domandai

“All’inizio l’idea di ribellarmi mi era venuta. Non mi sembrava giusto seppellirmi qui dentro, rinunciare ad un uomo e compagno, ad una vera famiglia. Poi ho cercato un senso dove un senso non c’era.

“Cioè?…E i dubbi sull’uomo che le sta vicino?”

“Il tempo passando ti allontana dalle cose, finisci per non vederle più, o, chissà, forse sei tu che giri lo sguardo altrove, magari dove intravvedi l’ombra di una speranza, che da qualche parte deve pur esserci. I dubbi?…me li sono fatti passare. Non facciamo un po’ tutti così? Una sola libertà mi era rimasta: accettare la mia impotenza. Un paradosso, è vero, ma se non trovi altra strada? Non cerco compassione, né indulgenza, in quanto alla giustizia, alla verità…. non so. Sono possibili? Lorenzo, le confesso, e sono sincera, che non c’è altro modo per sentire la catena più leggera che vedere la vita come predestinazione, o se vuole il compiersi di un impegno, che ci precede e indirizza i nostri passi.”

In copertina: rosone in ceramica policroma simboleggiante il viaggio dell’uomo verso l’autentica rinascita spirituale, ancora presente in Casa Rossa.  

 

Contact Us