TRA LE PIEGHE DI GIUNONE

TRA LE PIEGHE DI GIUNONE

 

Una nuova epidemia minaccia il pianeta. Il suo nome è globesità. Cioè l’ obesità globale che sta facendo aumentare inesorabilmente la taglia del mondo. È una vera e propria apocalisse lipidica, che rivoluziona parametri e valori della fame e della sazietà.

 

Ormai il flagello colpisce senza eccezioni paesi ricchi e paesi poveri. Perché la sua distribuzione non è geografica, ma sociologica. Non dipende dal luogo dove si vive, ma dal ceto cui si appartiene. Infatti è nelle periferie dello sviluppo, nei retrobottega del consumismo, negli scantinati del progresso, che la malattia mostra i sintomi più inquietanti.

globesity 34Le sconvolgenti immagini del progetto fotogiornalistico Globesity, in mostra al festival FotoLeggendo di Roma, suscitano al tempo stesso timore e orrore, oltre che pietà e solidarietà. Perché anticipano, come in un fantasy nero, il futuro che attende la salute mondiale.

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Questi scatti ai confini del mondo extralarge, nei suburbi di Mexico City, nelle township di Città del Capo, ma anche nei nostri quartieri popolari, sono un catalogo di corpi in mutazione. Carni tremule che restituiscono l’ ologramma dolente di un corpo sociale sempre più sofferente. Dove l’ aumento vertiginoso dell’ indice di massa corporea medio è diventato il crudele indicatore di una società sempre più iniqua.

Che ha perso il senso della misura per effetto della bulimia consumistica. È come se l’ idea dello sviluppo infinito avesse prodotto corpi a sua immagine e somiglianza. Obesi da un lato e sottopeso dall’ altro. Entrambi malnutriti, o per eccesso o per difetto. Col risultato di trasformare il sovrappeso in uno stigma dell’ immobilità sociale, nella segnatura di un destino zavorrato. A tutti gli effetti gli oversize sono i nuovi paria del sistema mondo.

Prima presi per la gola dall’ industria del junk food, di cui sono gli insaziabili sponsor. E poi additati al pubblico ludibrio come mangiatori compulsivi, come persone senza volontà, come costo insostenibile per la sanità. Insomma umiliati e obesi.

Evidentemente nella società della velocità e della performatività, non c’ è posto per i chili di troppo. Fitness e fatness sono incompatibili, come il bene e il male. La religione della magrezza e della bellezza non tollera la grassezza. La considera alla stregua di una colpa da emendare, di un peccato da espiare.

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Se il corpo è l’ indicatore del rapporto tra individuo e società, grasso e magro sono i fratelli-coltelli che rappresentano il basso e l’ alto della piramide. È così da sempre. La differenza è che una volta essere pasciuti e panciuti era un segno di potere, di ricchezza e anche di bellezza.

Peso sociale espresso in peso corporeo. Ed è ancora così in tutte quelle parti del mondo dove l’ emergenza alimentare non è ancora finita. Come nel caso dei lavoratori indiani che emigrano dalle regioni più povere del subcontinente e fanno fortuna a Dubai. Nuovi ricchi che hanno l’ obesità come mission.

Scena dal film di Marco Ferreri La grande abbuffata, Cannes 1973 (qui una scena)

Perché i loro clienti misurano il loro successo e la loro solvibilità sulla stazza, più che sui report delle agenzie di rating. Insomma il peso non è un valore assoluto. Ma fluttuante. E anche recente.

Oggi ci sembra obbligatorio sapere e far sapere quanti chili “siamo”, che è un modo per pesare l’ essere. Ma, fino agli anni del miracolo economico, quasi nessuno montava sulla bilancia. Di fatto siamo passati dal mondo del pressappoco all’ universo della precisione.

globesity 26Tanto che negli Stati Uniti il peso viene scritto nella pagelle e determina il voto di condotta dei ragazzi. Come dire che l’ autocontrollo a tavola viene assunto a strumento di valutazione dei corpi e delle anime. Diventando il riflesso di una distribuzione di opportunità e chance ineguale.

Con i ricchi sempre più magri e i poveri sempre più debordanti. Devastati da cibi di cattiva qualità che fanno da placebo contro una marginalità senza consolazione, al di fuori di una sovralimentazione coatta. Che del piacere alimentare è solo l’ ombra deformante. Il ricalco infelice.

Articolo di Marino Niola per la Repubblica

In copertina un’opera di Antonio Bueno

MIA MOGLIE HA PERSO LA FEDE

MIA MOGLIE HA PERSO LA FEDE

 

 

Mia moglie ha perso la fede. Ma non quella con la F maiuscola, perché non l’ha mai avuta. Parlo di quella che sta al dito, detto appunto anulare.

 

Sophia Loren e Marcello Mastroianni nel film Matrimonio all’italiana di Vittorio De Sica

Sparita, rubata o finita nella spazzatura? Peccato perché era d’oro, qualcosa di venale valeva pure, poi vuoi mettere il valore intrinseco. C’era pure la data incisa all’interno. Io non la posso perdere, parlo sempre della fede con la minuscola. Non sono ancora riuscito dopo anni a capire in quale cassetto è finita. Poi con tanti traslochi, chissà.

Ora che ci rifletto: è il dito che prende il nome dall’anello o è l’anello che dà nome al dito? Bah, chiederò a Di Maio, prossimo sposo, o a Salvini, che è uno scafista, pardon  scafato. Speriamo che non ci mettano tre mesi per rispondermi.

Le fede al dito non è come l’anello al naso, ne convengo, ma tutt’è due hanno a che fare col matrimonio. Da noi chi porta la fede è sposato/a e ci tiene a mostrarlo, e sono fatti suoi. In India, ad esempio, la tradizione dell’anello al naso è una questione culturale. Il suo legame con la sfera intima e matrimoniale di una donna è indissolubile. In alcune zone è prassi non togliere mai l’anello al naso, neanche una volta sposate. Neanche se viene il raffreddore.

Non so, ma fra Fede e fede ci deve essere una liaison Forse per questo è in calo la Fede e le chiese sono vuote. Diciamoci la verità, oggi la fede non la porta quasi nessuno. Oggi porta la fede che ha 50 anni in su. Se non la perde prima. Tutti gli altri preferiscono portare l’anello al naso, solo che lo chiamano piercing.

Piercing e tatuaggio fanno “moda”. Servono ad apparire, comunicano appartenenza e esprimono trasgressione e originalità. Il piercing e il tatuaggio, secondo esperti dell’età evolutiva, segnano una tappa nella crescita. E per crescere bisogna soffrire, e dimostrare di poter dare sofferenza. Sarà per questo che ci si sposa mettendo la fede al dito?

Una volta, al tempo delle tribù care agli antropologi, la sofferenza era reale e arrivava, a volte, alla mutilazione. Oggi siamo nelle mani dei tattooisti, che sono tutti un poco sadici. In palestra non vedi più peli, in compenso pelli trattate come gobelin o broccati a rilievo, e disegni ispirati all’arte runica o a simboli araldici. I neri di pelle (Salvini direbbe negher), sono ancora una volta discriminati, a meno che non usino la biacca, che però non dura. E poi avvelena. Che magari è il metodo Salvini per risolvere gli sbarchi, camuffandoli per bianchi.

Ma torniamo agli anelli (come disse Yuri Chechi), anzi no alle fedi. Obiettivamente gli anelli al naso o piercing sono più emancipanti e comodi.  La fede, se la porti per tutta la vita, rischi di non potertela più sfilare, perché l’anulare si ingrossa con l’età. Bella fregatura. E magari se riesci a toglierti la fede, questa ti viene a mancare nel momento estremo, proprio quando ne avresti più bisogno, che non si sa mai….

 

 

ZAVOLI MEMORIES

ZAVOLI MEMORIES

LA DOLCE ROMAGNA DELL’INFANZIA , IL DUCE OSANNATO DAI BALCONI- RIMINI CHE D’ESTATE ACCOGLIEVA LE BELLE TEDESCHE- L’ESORDIO ALLA RAI COME RADIOCRONISTA SPORTIVO, L’AMICIZIA  CON FELLINI, LA FEDE SOCIALISTA E IL RAPPORTO CON CRAXI, LE INTERVISTE AI BRIGATISTI. QUESTO E ALTRO NELLE ZAVOLI MEMORIES. 

 

 

Sergio Zavoli ha scritto la storia del giornalismo televisivo di qualità in Italia. Il segreto? Sente e pensa come un poeta. Forse perché è cresciuto nel realismo magico di Rimini, come il suo amico Fellini?

«Mi risveglia una tenera lontananza. Sono un riminese onorario nato a Ravenna. Dopo una sosta a San Marino, mio padre divenne cassiere al Monte di Pietà: si metteva tra le dita l’ esile carta-moneta lasciandola scorrere sotto gli occhi fiduciosi delle persone che vivevano del poco. Il nostro costume di vita si fuse ben presto nell’ incomparabile fenomeno di una città che restringeva l’ annata a 4 mesi, un tempo chiamato “stagione”. C’ era un treno che arrivava ogni sabato da Amburgo, con la scritta su tutte le carrozze: RIMINI-AMMORE, uno slogan infallibile, più di una promessa…».

E l’ infanzia nella Romagna del Duce?

MUSSOLINI CON RACHELE

Mussolini con la moglie Rachele

«Gli insegnanti venivano a scuola in divisa. Quando uno di loro esordiva: “A chi il Duce?”, rispondevamo: “A noi!”. Fuori cantavamo inni fascisticamente luminosi (“Dio ti manda all’ Italia come manda la luce, Duce, Duce, Duce!”), con le lusinghe dei balconi gremiti di fanciulle. Il comandante diceva: “Voglio che nel mio plotone sia traslata la disciplina prussiana alla quint’ essenza!”. Poi si voltava per vedere se qualcuno rideva. “Chi sghignazza là in mezzo?”. “Io”, rispose Ovo, che prendeva il soprannome dalla sua grassezza. “Bravo, mi piace la tua lealtà. Come ti chiami, giovane camerata?” “Mi chiamano Ovo”. “E ti sta bene! Mangia, mangia, che ti aggiusta il Duce”».

Era un bambino «felliniano»?

PAOLO GARIMBERTI SERGIO ZAVOLI

Sergio Zavoli e Paolo Garimberti

«Un giorno mi svegliai inquieto: avevo sognato a colori. Fui portato a Forlì da uno specialista. “È solo un po’ d’ immaginazione!”. In treno, volli sapere cosa significasse. Mio padre prese tempo per cercare un’ idea: “L’ immaginazione è vedere quello che altri non vedono…”. Poi aggiunse: “Ma se non hai fatto nulla di male, può anche essere una buona cosa. Però bisogna stare in guardia, la vita non è tutto bianco o tutto nero”. Quando ci misero i pantaloni alla zuava, una notte di Capodanno decidemmo di vedere il misterioso treno delle “Indie”.

Passava ogni 15 giorni, all’ una e un quarto di notte, fermandosi per colmare i vagoni di carbone e acqua. Nascosti dietro a un mucchio di traversine, vedemmo uscire dal curvone un grande bruco che si fermò davanti a noi. Allora assistemmo al lento alzarsi di una tendina gialla che illuminava il brindisi di due persone immerse in un’ estatica felicità. E noi, silenziosi, ciascuno vagando chissà in quali pensieri, tornammo a casa senza neppure salutarci.

Rientrai da una finestra del primo piano lasciata aperta, pensai, da mia madre».

Poi venne la guerra…

«Dopo l’ 8 settembre, indugiavamo spesso nella Trattoria del Lurido, o di Mazzasette, un ribelle che non finirà mai nelle retate tedesche e ogni tanto si diceva ne lasciasse uno per terra. La guerra guerreggiata arrivò il giorno dei Santi del ’43. Ricevuto il secondo ordine di presentarmi al Distretto di Forlì mi rifugiai a San Marino, ma fui preso e aggregato a quello di Pesaro. Dopo un bombardamento, con altri ragazzi fuggimmo. Riparammo in luoghi diversi: io a Perugia, nascosto da mia sorella.

Giunti gli Alleati, in 7 volontari, con una divisa senza segni sul giaccone verdastro, fummo assegnati alle retrovie. Più tardi passammo alle cucine, a rimestare una polvere di piselli, il brodino verde dell’ 8a Armata. Un mattino vedemmo, finalmente, l'”azzurra visione” di San Marino. L’ indomani scendemmo a Rimini sventolando un tricolore e canticchiando It’ s a long way to Tipparery. Era il 21 settembre del 1944, giorno del mio compleanno. Seppi che mio padre, di notte, con un gruppo di sammarinesi, distribuiva il pane ai rifugiati, che si facevano trovare seduti lungo la fila dei materassi, in attesa, così sembrava, dell’ eucarestia».

Che effetto le fece il «ritorno alla civiltà»?

zavoli adorni

Sergio Zavoli mentre intervista Vittorio Adorni

«”Adesso – scriverà il riminese Gino Pagliarani – si tratta di non stringere la speranza con braccia troppo corte”. Inventammo un “giornale parlato” d’ informazione, il Pubbliphono, con il “ph” perché sembrasse più importante; poi, con 7 altoparlanti trovati in un magazzino e qualche rotolo di cavo, Gino Pagliarani alla politica, Glauco Cosmi alla cronaca, io allo sport, al costume e alla cultura, animammo l’ arrivo, nientemeno, di un nuovo mondo. Il giornale “usciva” a mezzogiorno e alle 19. Si aprivano le finestre e in un paio di grandi piazze s’ innalzava la sigla del quotidiano, Una notte sul Monte Calvo, presto sostituita da un valzer viennese. Nostro distributore era il vento, che favoriva o cancellava il giornale, sia che scendesse verso il mare o salisse sulle colline».

VITTORIO VELTRONI NANDO MARTELLINI

Nando Martellini e Vittorio Veltroni alla RAI

La Rai, come si accorse di lei?

«Il direttore di Radio Venezia, in viaggio verso Roma, si fermò a Rimini per riposarsi al caffè Forcellini. Quella domenica ero alle prese con il derby Ravenna-Rimini. Terminata la cronaca, il direttore segnalò a Roma uno studente che raccontava il calcio con una tonalità, a suo dire, inedita. Parlava allo straordinario capo delle Radiocronache, Vittorio Veltroni, padre di Walter. La Rai, non disposta a cedere alla richiesta di aumentare il compenso del celebre Nicolò Carosio, mi chiese se ero disposto a trasmettere, sperimentalmente, Bologna-Genova. Il mercoledì un telegramma mi invitava a Roma, via Asiago 10, “per comunicazioni”. La domenica raccontavo, in diretta, Roma-Fiorentina. Poco dopo, Veltroni mi segnalò a Cesare Zavattini, suggerendogli di ascoltarmi».

vito taccone

Il corridore Vito Taccone

Cominciarono così le sue grandi «invenzioni». Montanelli la definì «principe del giornalismo televisivo». Ogni nuova impresa mieteva successi. Processo alla tappa rivoluzionò il racconto del Giro d’ Italia…

«Il ricordo più vivo è Vito Taccone, detto “il camoscio d’ Abruzzo”. Vinse cinque tappe di seguito con una spavalderia che non piaceva ai campioni. Alla terza vittoria mi confidò: “Lo sa perché vinco? Perché vado al traguardo come se andassi a fare una rapina. Io devo vincere finché mia madre non ha saldato un vecchio debito. Devo riuscirci, è più forte di tutto…”».

Con Nascita di una dittatura, Renzo de Felice si levò tanto di cappello. E Clausura si meritò il secondo Prix Italia…

«Rachele Mussolini mi confidò l’ unico rimpianto: “Benito rifiutò l’ invito degli americani perché andasse a fare il giornalista da loro. Si preoccupava per la mia gravidanza. Ci saremmo risparmiati tante cose!”. Amadeo Bordiga accettò la sola intervista della sua vita sperando che gli svelassi i segreti del Giro d’ Italia, di cui era appassionatissimo».

La notte della Repubblica è il suo capolavoro indiscusso. Cosa la colpì di più?

«Quasi tutto. Ho bene in mente la risposta alla domanda: “Perché ha lasciato le Br?”. “Perché cominciavano a mancarci le parole”. Oppure: “Perché correvamo a vedere il Tg delle 20 per capire cosa avevamo fatto”. Franceschini mi confidò di aver voluto sfiorare Andreotti, in una via di Roma, “per sentire cosa si prova a toccare il potere”. A Bonisoli chiesi se aveva sparato in via Fani, quanti colpi e con quanta precisione. Cominciò visibilmente a smarrirsi, finché mi domandò se potevo risparmiare suo figlio, un ragazzo convinto dell’ innocenza del padre: “Smentito dalla tv, rimarrebbe con la mente sconvolta per sempre”. Risposi che non avrebbe ascoltato le parole più gravi; sapevo di venir meno alla pienezza della regola, ma anche di mitigare un’ indicibile sofferenza».

Alla Rai lei ha fatto tutto: da redattore a presidente. Raccontò anche le malefatte della Prima Repubblica.

«Per l’ inchiesta C’ era una volta la Prima Repubblica andai a intervistare Craxi, ad Hammamet. All’ una e mezza di una notte molto calda, la malattia esigeva che vivesse attorniato da un esercito di bottiglie d’ acqua. Convinto di aver parlato senza riserve se ne compiacque chiedendomi, con ironia: “Adesso sarai contento”. Voleva forse ripagarmi per una polemica nata tra noi in Rai.

Bettino Craxi

Gli dissi di no, pur sapendo che accettava con difficoltà contrasti del genere: l’ intervista non aggiungeva granché, occorreva rifarla. Concluse: “Domattina!”. Ma dovevo ripartire. Si rivolse allora ai tecnici con un mezzo sorriso: “Si ricomincia”. Durante la replica lo vidi cercare le parole, aveva gli occhi umidi, la voce bassa, ma chiara, una tonalità dolente, ma risoluta. Finì così: “Fu quando mi accorsi che non decidevo più nulla, che tutto mi sfuggiva dalle mani”. Ne nacque qualcosa più di un’ intervista».

craxi

Chi ha sentito più vicino nella sua felice carriera, in cui ha ricevuto due lauree honoris causa e ha continuato a scrivere poesie per la collana mondadoriana “Lo Specchio”?

«Il mio amico più sorprendente, allegro, inquieto, Fellini, la sua dolce, infantile semplicità portata a limiti sorprendenti. Un giorno gli raccontai di aver fatto un sogno in un ospedale di Kiev, dopo un grave incidente a Chernobyl: attraversavo, camminando su una corda sospesa tra due palazzi, il centro di una piazza e a un certo punto venivo assalito dal pensiero di precipitare, sentendo arrivare la paura della morte. Mi interruppe dicendo: “Perché non hai sentito che quello potesse essere l’ inizio, e non la fine, del viaggio?”. E aggiunse: “Non sei curioso di sapere come andrà a finire?”».

Federico Fellini

Come visse il distacco dal suo mondo?

«Tra me e la mia gente si era messa, all’ improvviso, una distanza serena. Immaginavo mio padre e mia madre posare i loro gomiti sul davanzale della finestra e, tacendo, aspettare i miei ritorni. Poi mia madre mi mandava sul viso una carezza, e io ci mettevo sopra una mano per fermarla. Risento lo stupore e l’ emozione provata scoprendo che nella città nativa, imperiale e dorata, era rimasto vivo, dopo tanto tempo, un saluto al quale risposi in un libro “… ma resto ancora in quel muro,/ un filo d’ erba/spuntato da una crepa”. Ogni tanto mi capita di pensare che i muri si somiglino, e quel filo d’ erba continua.

Articolo di Pier Luigi Vercesi per il Corriere della Sera

 

 

 

 

 

GLOBULI DI SPERANZA

GLOBULI DI SPERANZA

IL CANCRO SI CURA SENZA CHEMIO COL TRASFERIMENTO DEL LINFOCITI GENETICAMENTE MODIFICATI– MELANIA RIZZOLI: “COSÌ SI APRE LA PORTA ALLO SFRUTTAMENTO DELLE DIFESE INTERNE DEL CORPO. A SCONFIGGERE IL TUMORE SONO STATI I GLOBULI BIANCHI DELLA PAZIENTE.”

 

 

«Le metastasi del mio cancro al seno ormai si erano diffuse in tutto il corpo, i medici mi avevano dato al massimo tre mesi di vita. Il mio calvario era iniziato nel 2013, con la prima diagnosi e l’ asportazione di una mammella, che però non aveva risolto il problema, ed ogni trattamento chemioterapico che subivo funzionava sempre meno del precedente.

Finché il mio cancro si è ripresentato più forte dopo dieci anni, invadendo anche il fegato e i polmoni. Dopo sette cicli di chemioterapia ulteriormente sperimentati nel tentativo di arginare la situazione ero esausta, perché sapevo che il tumore metastatico può essere curato per un po’, ma mai guarito.

Io negli anni non mi ero mai arresa, ma ad un certo punto ho detto basta, non volevo più continuare a curarmi. Volevo morire».

E invece Judy Perkins, 52 anni, ingegnere e madre di due figli, non solo non è morta ma oggi è tornata alla sua vita normale. Il suo cancro è sparito, ed i medici del National Institute of Health (Nci) di Bethesda, in Maryland, che l’ avevano in cura, la considerano incredibilmente guarita: la scorsa settimana lo hanno reso noto e annunciato al mondo intero.

Lei, infatti, è la prima donna in assoluto che ha subìto un trattamento immunoterapico rivoluzionario, il cosiddetto “trasferimento cellulare adottivo”, e da due anni Judy – la “paziente 1”, come è stata classificata – risulta completamente libera da un adenocarcinoma maligno, che la medicina ufficiale considerava ormai incurabile e addirittura in fase terminale.

cancro al seno 6La Perkins, nella sua intervista, ha poi aggiunto: «Dopo un paio di settimane dall’ inizio della nuova terapia io già percepivo che i miei tumori si stavano restringendo, perché mi sentivo sempre meglio, come non mi succedeva ormai da mesi, gli stessi dottori erano raggianti e ogni giorno che passava, quando vedevano i risultati chimici, istologici e radiologici, praticamente erano loo a ballare per la felicità. Mi hanno salvato la vita».

Il caso clinico della “paziente 1” è stato pubblicato sulla nota e qualificata rivista Nature Medicine e la sua intervista sul Daily Mail, e dalla Società Americana di Oncologia Clinica (Asco) c’ è già chi parla di trattamento rivoluzionario.

Perché, a differenza delle terapie classiche oggi in uso, qui si è aperta la porta allo sfruttamento esclusivo delle difese interne del corpo aggredito dal cancro per combatterlo, stimolando le sue stesse cellule a reagire, a riconoscere quelle cancerose, ad attaccarle e a distruggerle per sempre.

Per capirci: in questo caso non sono state le chemioterapie, le radioterapie e gli anticorpi monoclonali a sconfiggere il tumore, ma le cellule di difesa immunitaria della paziente ammalata, ovvero i suoi stessi globuli bianchi, che sono stati isolati, modificati, riattivati, moltiplicati in provetta e re-iniettati nelle sue vene, e che incredibilmente hanno fatto piazza pulita di tutte le cellule maligne, comprese le metastasi, spazzandole via in poche settimane.

cancro al seno 5Gli scienziati e gli ingegneri biologici del Centro di Ricerca del National Institute of Health avevano infatti accertato che quel tumore aveva subito nel tempo ben 62 mutazioni, ma avevano anche scoperto che il sistema immunitario della Perkins sarebbe stato da solo in grado di combatterlo, se uidato e modulato a dovere.

Così i ricercatori hanno selezionato dal suo sangue alcune centinaia di linfociti con un semplice prelievo, e hanno trasformato e ampliato queste cellule “T” in un esercito di 82 miliardi di globuli bianchi che, una volta reintrodotti mediante flebo nel circolo sanguigno della paziente, hanno svolto egregiamente il nuovo compito per il quale erano stati programmati.

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Uno straordinario successo e un meraviglioso esempio di ingegneria genetica biologica e molecolare.

TEMPO DI SICUREZZA

L’ innovativo approccio immunoterapico è in pratica una forma modificata della “terapia cellulare adottiva”, che già si era rivelata efficace nel trattamento del melanoma maligno, ma finora era considerata poco potente contro i tumori cosiddetti freddi, vale a dire quelli resistenti alle comuni terapie dello stomaco, dell’ esofago, delle ovaie e appunto del seno.

I linfociti infiltranti il tumore, chiamati “Til”, sono stati cioè coltivati in grande quantità in laboratorio, modificati con l’ ingegneria genetica in modo da diventare capaci di bersagliare specificatamente le mutazioni delle cellule tumorali, e poi reinfusi nell’ organismo mediante una semplice trasfusione, creando in tal modo una formidabile risposta immunitaria, una armata militare forte e mirata contro il tumore da distruggere.

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Dopo il trattamento, in poche settimane nel corpo di Judy Perkins ogni traccia di tumore era scomparsa, e i ricercatori hanno spiegato che tale situazione è rimasta invariata e stabile nei successivi ventidue mesi, il tempo di sicurezza che hanno atteso per pubblicizzare ufficialmente la nuova terapia biologica.

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Se i dati saranno confermati nei prossimi mesi, come sembra molto probabile, e arricchiti con studi più ampi, questo approccio terapeutico sarà esteso ulteriormente ad un più ampio spettro di tumori resistenti alle terapie classiche, quelli cioè considerati senza speranze.

AZIONE TERAPEUTICA

È noto infatti che tutti i tumori presentano delle mutazioni del Dna e dell’ Rna cellulare, e proprio questo principio ha portato gli scienziati in questa direzione, attaccando il carcinoma con l’ immunoterapia, ragionando sul fatto che proprio le stesse mutazioni che causano il cancro e lo fanno progredire e diffondere, potevano rivelarsi il bersaglio migliore per curarlo ed eliminarlo.

cancro al seno 1

Non importa ed è irrilevante se questo studio clinico sia stato fatto una volta soltanto e su una sola paziente, perché se ha funzionato su di lei – in una fase gravissima della sua malattia, quella considerata in medicina irrecuperabile e certamente letale – la sua azione terapeutica accertata e certificata apre sicuramente nuove e importanti prospettive di cura per il tumore in stato avanzato di metastasi per migliaia di pazienti nel mondo, offrendo una chance insperata laddove tutte le terapie convenzionali somministrate in precedenza hanno fallito.

Melania Rizzoli

Articolo di Melania Rizzoli per Libero Quotidiano

In copertina: anonimo del ‘500 della scuola di Fontainebleau, museo del Louvre Parigi.

 

FELICI E VECCHI

FELICI E VECCHI

“SONO VECCHIO E FELICE” – PAOLO HENDEL E IL LIBRO “LA GIOVINEZZA E’ SOPRAVVALUTATA”: “QUANDO LA GERIATRA HA PENSATO CHE FOSSI IO DA VISITARE E NON MIA MADRE, NON È STATO PIACEVOLE – L’EROTISMO A 66 ANNI? HO AMICI PIÙ GRANDI DI ME CHE PRATICANO IL SESSO TANTRICO! E POI NON È PIU’ OBBLIGATORIO VANTARSI DI FARLO TRE VOLTE A SETTIMANA…”

«Di vecchiezza/La detestata soglia… Il caro tempo giovanil/ dell’arida vita unico fiore» declama Paolo Hendel nel suo fiorentino doc (“Solo il mio nonnino sosteneva che discendiamo da Georg Friedrich Händel”).

PAOLO HENDELNon esagera – giusto un filo – Giacomo Leopardi col pessimismo?

«E Mimnermo: “Avanza l’amara vecchiaia/ che rende insieme orribili e malvagi”! Esagerano sì, ma capisco. Da ragazzo se leggevo “Pensionato di 65 anni investito”, pensavo: “A quell’età, ha dato”. Un accidenti! Oggi, raggiunti i 66, so d’avere un sacco di cose da fare e da dire».

La riprova? La giovinezza è sopravvalutata (Manifesto per una vecchiaia felice), scritto con Marco Vicari e con il contributo della geriatra Maria Chiara Cavallini (Rizzoli).

Cosa le è venuto in mente di affrontare un tema che, in genere, si preferisce rimuovere?

PAOLO HENDEL - LA GIOVINEZZA E SOPRAVVALUTATAE si sbaglia: l’unica soluzione per non invecchiare è morire prima, non mi pare granché… Un giorno ho accompagnato mia madre dalla geriatra: mentre – in sala d’attesa – aspettavo che uscisse dal bagno con la badante, la dottoressa ha aperto la porta, mi ha guardato: “Prego, tocca a lei”. Era il secondo avvertimento.

Era già successo qualcosa?

Sono un “primiparo attempato” (ho avuto mia figlia Marta a 54 anni). Un giorno la bidella l’ha avvisata: “Oh, ti è venuto a prendere il nonno!”.

Ma quando inizia la vecchiaia?

Come diceva il professor Francesco Maria Antonini – uno dei pionieri della geriatria – comincia quando… ti senti vecchio. L’importante è non perdere mai la curiosità, la passione, la capacità di indignarsi, l’interesse per la lettura. Jorge Luis Borges sosteneva: “Chi non legge è masochista”. Io in certi periodi lo sono, comunque ci sono anziani che leggono unicamente la tabella dell’oculista o la bolletta della luce! Azzarderei un paradosso…

Azzardi.

PAOLO HENDELLa vecchiaia è una roba da giovani, va affrontata con le prerogative che di solito sono loro proprie: entusiasmo, ottimismo per il futuro. E invece da ragazzi non si apprezza la giovinezza, capita che la si sprechi. “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia!” cantava Lorenzo il Magnifico (non mi riferisco a Jovanotti, eh).

Via, forse specificare è eccessivo.

Mah. Una volta l’ignoranza era un limite che si cercava di superare, adesso prevale il “Sono ignorante e me ne vanto”.

Cosa dovrebbero sapere i giovani per diventare vecchi felici?

La nostra è una delle epoche più difficili per loro, non c’è lavoro, si è persa la fiducia: io avevo la speranza di cambiare il mondo, quelli dai 17 ai 27 per me sono stati gli anni dell’impegno politico (chissà, forse per questo dopo ho avuto voglia di fare il grullo e di salire sul palco a giocare e scherzare). Suggerirei di guardarsi dentro e guardarsi attorno, di curare i rapporti con le persone e di vincere la sensazione di paura che ormai ci porta a osservare gli altri con sospetto. Se si vive come una cittadella assediata, tirando su il ponte, ci si prepara a un’esistenza sterile.

paolo hendel a teatro“L’altruismo è una forma di egoismo” ripete il Dalai Lama, benché Paolo Sorrentino in Loro 2 attribuisca la frase a Ennio Doris.

Ne sono convinto. In seconda media scrissi in un tema che i santi sono fortunati perché godono nel fare il bene agli altri, in fondo è un atto egoista. Il professore mi mise 5.

Perché “la giovinezza è sopravvalutata”?

Se riesci ad attraversarle intuendone l’importanza, ogni stagione ha un suo valore.

I pro della vecchiaia?

Il dolce far niente. Nel mio caso, concerdermi i video giochi! Mi ha molto preso The legend of Zelda, ge-nia-le, con l’eroe che combatte i cattivi… La sera è mia figlia che ordina: “Babbo, basta, vai a letto!”. E poi finalmente comprendi che “la vita è un balocco”, come mi ammoniva Mario Monicelli quando mi vedeva preso da travagli senza particolare importanza. Che non era un invito ad affrontarla con superficialità, ma con la giusta leggerezza. E, soprattutto, con ironia. Lui non si è mai preso troppo sul serio: “Maestro a me? E che siamo, alle elementari?”. A una certa età non si temono i giudizi, c’è meno ansia da prestazione.

paolo hendel carcarlo pravettoniA proposito: la visione dell’erotismo per gli over nel libro non incoraggia.

Ma no, racconto persino di amici più grandi di me che praticano il sesso tantrico! Se c’è piacere, amore, spontaneità va bene tutto. Però mi premeva sottolineare che non è obbligatorio vantarsi di farlo tre volte a settimana… Io non me ne vanterei, non è nel mio carattere. E comunque non è il mio caso (ride).

Il segreto per invecchiare con dolcezza e non da acidi brontoloni?

Mhmmm, non saprei. Però succede che si perdano le asperità. Mio padre è sempre stato uno sciupafemmine col mito della virilità, disattento verso la famiglia. A 80 anni un giorno è stato ricoverato al pronto soccorso accanto a un altro malato. Bene: senza guardarsi in faccia hanno allungato il braccio e si sono presi per mano. Gli infermieri – commossi – non avevano il coraggio di spostarli.

paolo hendelChi rappresenta un esempio di “invecchiamento felice”?

I Rolling Stones, che hanno 300 anni in quattro e sono i veri vincitori della storia del rock (problemi alla prostata a parte), leggende pur non essendo morti anzitempo. Tina Turner, malgrado la vita drammatica per le violenze. Ma si sa, le donne sono sempre più avanti. In terza media la ragazza più carina della classe mi guardò intensamente: “Hai bellissimi occhi verdi”. “Sì, e le mutande blu!” risposi per l’imbarazzo. Risultato: non mi ha più rivolto la parola.

E Bruce Springsteen no?

Come si fa a considerarlo anziano?

Peccato per la debolezza di tingersi i capelli.

Beato lui che ce l’ha!

Carcarlo Pravettoni, la sua creatura, come vedrebbe la vecchiaia?

paolo hendelÈ stato (prima di Renzi) l’inventore della rottamazione. Sosteneva, dieci anni fa: “Per voi anziani, variamo il progetto capolinea. Slogan dell’operazione: porta il nonno a rottamare. Ovvero: fondi l’anziano fuso”.

Ora avrà cambiato la prospettiva.

Ha cambiato faccia. Con il lifting.

 

Lei non sembra come tanti suoi colleghi, che dietro la maschera nascondono grande tristezza.

Sono sereno, ho avuto la fortuna di trovare l’equilibrio sia sul lavoro sia nel privato. Certo, se avessi messo a mondo Marta qualche anno prima, con mia moglie avremmo pensato a un altro figlio. Ma per molto tempo l’idea mi ha terrorizzato, era una responsabilità che non potevo neppure concepire.

Non ci pensi. Le cose vanno come devono andare, dice il mio filosofo di riferimento: Gianni Morandi.

La vita è adesso, dice invece il mio: Claudio Baglioni. Un altro anziano meraviglioso.

Articolo di Daria Laura Giovagnini per https://www.iodonna.it

In copertina: Artemisia Gentileschi: Susanna e i vecchioni (1610)

 

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