VIA AURELIA

VIA AURELIA

AGOSTO, RIVIVE LA VOGLIA DI LIBERTA’ E AVVENTURA- VIA AURELIA, LA FUGA VERSO IL MARE NEL SORPASSO DI PIETRO GERMI, FILM CHE ISPIRO’ EASY-RIDER- RIPERCORRERLA OGGI E NON RICONOSCERLA PIU’- MA FORSE SIAMO CAMBIATI SOLO NOI.

JEAN-LOUIS TRINTIGNANT – VITTORIO GASSMAN IN UNA SCENA DE IL SORPASSO DI PIETRO GERMI

La via Aurelia è un invito all’evasione. Chiunque ne percorra anche solo un tratto resta inebriato dallo scivoloso richiamo allo svago, al viaggiare, ai miraggi della villeggiatura. Quando ad agosto Roma è un deserto, aumenta il rischio di cedere alla seduzione dell’Aurelia: non è sempre possibile reprimere il desiderio di mettersi sulle tracce del film Il sorpasso di Dino Risi, e di indirizzare l’auto verso nord.

Il film del 1962 – prodotto da Mario Cecchi Gori e sceneggiato da Dino Risi, Ettore Scola, Ruggero Maccari – resta il migliore elogio di sempre della fuga estiva e del mettersi al volante senza una meta precisa tra gli infiniti pini italiani. Divenne subito una pellicola di culto, anche all’estero, tanto che ispirò in parte Easy rider di Dennis Hopper, del 1969. Vittorio Gassman ricevette due premi come miglior attore protagonista, il Nastro d’argento e il David di Donatello.

Fuga da Roma

Protagonisti del film sono Bruno Cortona (Vittorio Gassman) e Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant). La mattina di ferragosto Gassman gira per Roma con la spider alla ricerca di un telefono. Incontrerà per caso il giovane studente rimasto in città per preparare un esame e lo convincerà a partire con lui. Nelle prime scene del film Gassman trova tutti chiusi i bar del quartiere Balduina, sarà Trintignant a farlo salire a casa per fare la telefonata.

Il giorno di Ferragosto, Roma è totalmente sgombra, per Gassman è un ‘cimitero’

Oggi quel bar tavola calda di piazza Morosini è aperto. “Era questo il bar del Sospasso?”. “Sì, questa è la saracinesca che si abbassa quando Gassman cerca un telefono”, conferma l’uomo al bancone. Fuori, tra l’edicola e le bancarelle di vestitini a sei euro, il caldo già forte assilla la mattina, trafitta dai lavori in corso dei marciapiedi. Nell’altro angolo esatto della piazza, è semiaperto anche “Specialità alimentari”. Un fotogramma del film in bianco e nero è incorniciato tra gli scaffali e il commento è lo stesso ricevuto nell’altro esercizio di fronte: “La scena è stata girata qui”. “Qua fuori?”. “Sì. Mi dispiace che vedete il negozio così. Ma oggi chiudiamo”.

Il giorno di Ferragosto, Roma è totalmente sgombra, per Gassman è un “cimitero”. Attraversa piazza di Spagna senza nessuno in giro, a piazza del Popolo non è parcheggiata neanche un’automobile, incrociano solo un uomo che porta a spasso i cani. La città sembra abbandonata, si aggirano pochi spettri. Il viaggio narrato nel Sorpasso è proprio il percorso che porta da quel cimitero metaforico urbano fino alla morte reale di Trintignant sulla scogliera a picco, centinaia di chilometri a nord, in Toscana, dove dovrebbe palpitare la massima vitalità.

Ci vuole molta insistenza perché Gassman strappi Jean-Louis Trintignant dai suoi libri universitari e lo convinca, all’inizio, solo a pranzare in una trattoria vicino san Pietro. “Il padrone è dei nostri, si mangia bene”, garantisce. È l’attuale ristorante Cuccurucù a via Capoprati 10. Per i due avventori l’accoglienza non è delle migliori.

“Ma che fate avete chiuso?”, chiede Gassman alla proprietaria che si affaccia alla porta. “Pure noi c’abbiamo diritto a fa vacanza un giorno, che ve credete?”, risponde lei. E Gassman, irritato: “Ma quale diritto!”. Lei lo liquida, rientrando: “Il diritto de li mortacci tua”.

L’atmosfera, lì, oggi è decisamente più raffinata: una splendente erbetta sintetica conduce nella sala interna, vasta e illuminata dal sole che si riflette sul Tevere e si riversa dolcemente tra i tavoli, già apparecchiati per il pranzo. Sull’acqua qualcuno fa canottaggio. Ai tempi, avvertiva Gassman, il ristorante era “un po’ caro ma si mangia veramente bene”. Nel menu odierno gli gnocchetti alle vongole costano diciassette euro, ma si può ordinare anche “Bruschetta con burrata, pomodori confit e alici del cantabrico” a otto euro, o “Fettuccine al burro di Normandia e parmigiano 60 mesi” per quattordici euro.

La strada verso il mare

La prima sosta del road-movie è in un’area di servizio Agip, appena imboccata l’Aurelia per uscire da Roma. “Due Cynar, grazie”, chiediamo, per fedeltà alla sceneggiatura.

“Cynar? Che cos’è?”.

Trovata chiusa la trattoria Gassman, convince ancora il giovane studente esitante a proseguire lungo l’Aurelia. Deve quindi “abbeverare i cavalli” della celebre Lancia Aurelia B24 decappottabile (che quest’anno compie sessant’anni). Riempito il serbatoio, entra nel bar e cerca di comprare sigarette a un distributore automatico. Trintignant rimane chiuso in bagno; timido e impacciato, non osa chiedere aiuto quando resta con la maniglia rotta in mano.

L’area di sosta è facilmente rintracciabile ancora oggi, è all’altezza di via della Stazione Aurelia. È gestita in parte da McDonald’s – “Veniteci a trovare siamo aperti tutta la notte” – e in parte da Eni. Impossibile però mandare giù i “due Cynar lisci” che ordiniamo, la ragazza alla cassa non conosce l’amaro. In più, la porta del bagno dove Trintignant resta prigioniero non ha maniglie. La colonna sonora non è Quando, quando, quando di Tony Renis, la radio diffonde All about that bass di Meghan Trainor.

All’epoca il distributore automatico di sigarette era ancora una tecnologia d’avanguardia e Gassman l’ha soprannominato “la fregatrice”, dato che non gli restituisce i soldi inseriti. Al suo posto, due luminosi pannelli touch attendono i clienti del McDonald’s nel fresco dell’aria condizionata. Con un solo tocco e carta di credito si può ordinare un McLobster: il nuovo panino con l’astice canadese.


L’Italia che incontrano sulla strada Gassman e Trintignant, suonando il clacson tutto il tempo, è lanciata verso il successo. Le “belle famiglie” strette sui sidecar sfrecciavano verso il sogno del benessere, sfilando tra cartelloni pubblicitari Motta e quelli delle pompe di benzina.

I due ascoltano Vecchio frac, superano le Fiat 600, zigzagano, mostrano le corna, insultano tutti, inseguono le “tedeschine” per corteggiarle, e soprattutto si attaccano al clacson (si può ancora acquistare la trombetta online per quaranta euro). Uno spavaldo e l’altro esitante, uno sbruffone e cialtrone e l’altro riflessivo e prudente, i due si completano e incarnano insieme il mito della spinta economica che promette di rendere presto il paese un paradiso di spensieratezza. Tale era l’autostima dell’Italia nei primi anni sessanta che quelle auto sembrano correre più degli attuali suv metallizzati che puntano verso il mare con le mountain bike al seguito.

La ghiacciaia sul mare

Dopo chilometri di erba scottata dal sole ai lati della strada, cartellonistica abusiva e monovolume targate Svizzera, finalmente soffia dai finestrini l’odore resinoso dei pini, rimasti gli stessi capolavori di allora. Di colpo il mare brilla azzurro sulla sinistra, e a rigarlo si affrettano motoscafi e pedalò in rotta verso il largo. L’Aurelia spacca in due Santa Marinella e procede per chilometri, con palme da una parte e oleandri dall’altra.

Annunciata dal forte odore di salsedine e dagli ipermercati, un’altra tappa obbligatoria, per chi volesse ripercorrere i luoghi del Sorpasso, è Civitavecchia. La sosta serve a mangiare la zuppa di pesce nel porto, a via Calata della Rocca. È rimasta però solo l’insegna del ristorante dove i due si fanno notare per l’intemperanza.

“È questo il ristorante dove è stato girato il film?”.

“Sì, ma ora è chiuso, ci sono i lavori”, rispondono due operai seduti sulla soglia, in riposo.

In attesa che riapra quello storico, si può mangiare la zuppa di pesce nel ristorante a pochi metri di distanza, La ghiacciaia, alto sul mare. Nella zona all’aperto, rinfrescata dal vento salato, alla parete accolgono i clienti alcune mandibole di squali sfoggiate come cimeli di cacce leggendarie. Il nome del ristorante riprende l’attività del nonno dell’attuale gestore: “Vendeva il ghiaccio. I pescatori andavano a vela, non come oggi, avevano bisogno di portarsi blocchi di ghiaccio”.

Avanzano alla ricerca dell’immagine di un’infanzia estiva abbellita dal tempo trascorso

Oltre la merlatura delle antiche mura – dove due gabbiani si pavoneggiano della loro stazza – mastodontiche navi turistiche chiudono il paesaggio. Il colore di gamberoni e cozze è talmente vivido che i vicini di posto si alzano e ci chiedono se possono scattare una foto.

“Ecco i documenti, la fattura con cui nel 1931 mio nonno aveva aperto la fabbrica del ghiaccio. Io ora ho riaperto l’attività e tra poco rivenderò ghiaccio. Sono stato pescatore, ho avuto un negozio di pesca, e ho insegnato a pescare agli altri. La ristorazione va bene, ma voglio affiancare anche l’attività con cui ha cominciato mio nonno. Sono stato fortunato a nascere qui”.

Il viaggio di Gassman e Trintignant è pieno di piccoli ostacoli dosati da una sceneggiatura esemplare. Fanno i conti con i passanti che chiedono un passaggio, con i loro scheletri seppelliti nel passato, e avanzano tra ricordi insabbiati, la casa in campagna dei parenti di Trintignant, la visita all’ex moglie di Gassman e alla figlia (Catherine Spaak), alla ricerca dell’immagine di un’infanzia estiva abbellita dal tempo trascorso e di un presente idilliaco e amaro degli anni del boom economico.

La spiaggia del sogno italiano

Da Civitavecchia a Castiglioncello, dove sono diretti i protagonisti del film, sono circa due ore e mezzo di strada. Gli oleandri che rigurgitano dai lati della strada, rossi o bianchi, invadono le carreggiate. La meta è uno dei luoghi di maggior peso della pellicola. Sulla spiaggia dell’attuale stabilimento Ausonia si addormentano Gassman e Trintignant e si risvegliano la mattina sulle sedie a sdraio.


Su quella spiaggia si ballava, si prendeva il sole, Catherine Spaak in bikini saliva a bordo di un motoscafo e si immergeva nelle acque del mare. Si svolgeva qui la famosa partita a ping-pong. Era tutto girato all’ombra del ristorante La lucciola, a sud di Livorno. È già metà pomeriggio inoltrato a Castiglioncello e il caldo è ancora minaccioso. Il tempo di ordinare da bere e troviamo qualcuno che ci racconta lo spirito del luogo.

“Sono cambiate tante cose. Ma le comparse continuano a venire. Vedete? Qui è dove era la spiaggia. Poi, nel 1965 è stata costruita la prima barriera di scogli in mare che ha mangiato la spiaggia. La sabbia si è spostata altrove”.

Scalza, in bikini, con gli occhi che le si riempiono di orgoglio mentre racconta il suo regno, Ilaria Piancastelli è qui dal 1979. I genitori hanno parte della società del bagno Ausonia.

“È qui che Gassman telefona. Qui invece c’era un piazzale dove si ballava. Si mangiava il gelato dalle coppe di vetro lavorate, con gli ombrellini, ve le ricordate?”. Mi ricordo la coppa Denmark. “Ora siamo alla quarta generazione. Questi bagni ci sono dal 1897”.

“Qui è sempre stato frequentato da attori?”.

“Prima venivano i pittori, il primo nucleo dei macchiaioli è nato qui. C’era una nobiltà decadente. Il primo albergo era quello: il Miramare, fondato nel 1907. Attorno al Miramare è nato il primo nucleo turistico”.

Effettivamente, passava le vacanze a Castiglioncello già Luigi Pirandello. Il 4 agosto 1932 scrive una lettera all’attrice Marta Abba: “Qua il posto è veramente delizioso: un paradiso. Un silenzio! Una quiete! Bellezze naturali incantevoli; molto superiori a quelle di Viareggio e di Camaiore e di Lecco; Ti dico, un vero paradiso. Io sto tutto il giorno a lavorare, al cospetto del mare. La sera vedo qualcuno, D’Amico, il pittore Corcos, il pittore Bartoletti e Pasquarosa sua moglie, Pavolini e qualche altro. Domani arriverà Bontempelli”. Marta Abba trascorreva l’estate vicino a Viareggio, a Lido di Camaiore.

Negli anni sessanta venivano in vacanza alcune famiglie storiche, tra cui i Monti; arrivavano Alberto Sordi e Gassman. Non lontano dalla spiaggia, nel circolo del tennis il Fazzoletto, si può vedere un affresco di Enzo Trapani. Si organizzavano anche tornei di tennis con Lea Pericoli e Nicola Pietrangeli.

Tutto intorno alla piccola baia di cemento con lettini e ombrelloni l’acqua è trasparente

“L’acqua qui è bellissima da sempre. Ci sono i ricci, non resisterebbero se fosse inquinata. Alcuni miei clienti al largo hanno trovato cavallucci marini”.

“Perché girarono Il sorpasso qui?”.

“C’era Suso Cecchi D’Amico, fu lei a convincerli”.

Ci porta dalla bagnina storica. Facciamo slalom tra una elegante clientela in costume da bagno, bambini abbrustoliti dal sole che si tuffano in mare.

Eccoci da Edda Lami, 86 anni, bagnina poliglotta, tuttora in occhiali da sole. È la “memoria storica” della spiaggia. Una volta chiuse a chiave involontariamente Alberto Sordi dentro la direzione. Invece di cambiarsi il costume nella cabine, per risparmiare, lui se lo cambiava negli uffici.

“Io _Il s__orpasso_ l’ho visto girare. Non era Gassman a fare la verticale sulla spiaggia, ma Giorgio Lami, la controfigura, mio cugino”.

“Com’era qui ai tempi?”.

“C’erano persone danarose, famiglie che avevano le case e stavano tre mesi al mare. Erano eleganti, facoltosi. Gassman veniva perché la sorella andava dai Fiorentini. Ho conosciuto Anna Ferrero e le mogli di Gassman, Nora Ricci, Shelley Winters, tranne l’ultima, perché qui non l’ha mai portata”.

Ci aggiriamo ancora un po’ su e giù lungo la caletta che ha mantenuto integro il fascino. Passano le generazioni e il sogno di estati interminabili rimane invariato. Il sole è ancora alto, nei cartelli è indicato il noleggio di gommoni e di sup.

Il destino tragico dell’Aurelia

Nello stesso anno in cui viene girato Il sorpasso, nel 1962, esce il romanzo di Giorgio Bassani Il giardino dei Finzi-Contini. La via Aurelia è ancora fonte di ispirazione. Nella prima pagina del libro si legge: “In un gruppo di amici, distribuiti su due automobili, ci eravamo avviati lungo l’Aurelia subito dopo pranzo, senza una meta precisa”. Questa volta il viaggio prosegue finché non spunta sulla sinistra un castello “a qualche chilometro da Santa Marinella”. Scendono tutti dalle auto, vengono investiti dal vento, la sabbia entra negli occhi. Il fragore della risacca è assordante. Risalgono in auto per tornare a Roma e invece alla fine svoltano al bivio per Cerveteri.

Per Gassman, Roma è un cimitero. Bassani invece scrive: “Tutto quel tratto del territorio del Lazio a nord di Roma, il quale non è altro, dunque che un immenso, quasi ininterrotto cimitero”. Si riferisce alle necropoli etrusche. La visita delle tombe è l’impulso per scrivere la storia dei Finzi-Contini. Al ritorno verso Roma “l’Aurelia cominciò a ingolfarsi di macchine provenienti da Ladispoli e da Fregene” ed ecco che la strada si fa Musa: “Io riandavo con la memoria agli anni della mia prima giovinezza, e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello”. L’Aurelia non è solo sinonimo di evasione e villeggiatura, è anche legata a un destino tragico. La gita sull’Aurelia spinge Bassani a ripensare alla famiglia deportata in Germania, a farlo interrogare sulla sepoltura dei Finzi-Contini.

Il finale del Sospasso è drammatico e altrettanto noto. Lasciata Castiglioncello per cercare il luogo dell’incidente si riprende ancora l’Aurelia, sempre verso nord, fino a Calafuria. Dopo tanto suonare il clacson, la spider sbanda per troppa avventatezza. Appena annunciato di aver trascorso “i due giorni più belli della mia vita”, il giovane biondino Trintignant muore. Gassman lo ha svezzato, cresciuto, corrotto, e ucciso. Il film è una storia di formazione che dura meno di quarantotto ore. Un’educazione sentimentale fulminante. Un’iniziazione che finisce in disgrazia.

Quando precipita con l’auto, Gassman si salva e ammette agli agenti di polizia di non conoscere neanche il cognome della persona che ha avuto accanto da Roma fino all’alta Toscana. Non è facile ritrovare l’esatto luogo dove è stato girato l’incidente. Il paesaggio è aspro. La strada corre alta sulla scogliera che scende rapidamente verso le onde che la battono. Sulla sinistra una fila di auto parcheggiate si snoda lungo il guard rail. Si prepara il tramonto.

È quasi sera. Qualche corpo prende ancora il sole italiano sui massi spruzzati dagli schizzi. Il cielo si rabbuia. Ogni Ferragosto l’Italia rivive il suo spericolato desiderio di avventure e di libertà.

Articolo di Francesco Longo per Internazionale (qui)

RANDONNEE’

RANDONNEE’

ALPI 4000, UNA LUNGA PEDALATA DENTRO SE STESSI-UN VIAGGIO VERSO LE VETTE RESE MITICHE DAI GRANDI DELLA BICI, SENZA TEMPO, FREGANDOSENE DELLA FATICA- NON FARSI LA SOLITA DOMANDA: CHI ME LO FA FARE ?, MA SOLAMENTE : PERCHE’ NO!? 

 

Ci sono i lustrini del Tour de France, quelli del Giro d’Italia, di Mondiali e di Milano-Sanremo, di Giri di Lombardia e Paris-Roubaix, storie di biciclette e di campioni, racconti che ogni tanto sembrano epica, ogni tanto sembrano tragedia e forse epica e tragedia lo sono davvero. Perché sono fatte della stessa pasta, narrano le gesta di persone fuori dal comune, anche se umane, forse troppo umane, a tal punto da essere preda delle stesse debolezze e delle stesse insicurezze di tutti, ma che una volta in bicicletta diventano speciali.

Immagine tratta dal sito facebook di Ivan Folli

La bicicletta trasforma, confonde i confini del possibile, rende affascinante la fatica, cancella tutto quello che l’uomo ha creato per non farla. Eppure è proprio la fatica, il desiderio di superarla, la voglia di non mollare a mettere sulla strada tutte le altre biciclette, quelle che corrono e scorrono lontano dai lustrini delle grandi corse, delle televisioni con dirette ormai integrali, quelle che non sono mossi dalle gambe potenti di Peter Sagan, da quelle fantasiose di Vincenzo Nibali, da quelle vorticose di Chris Froome. Ci sono altre bici e altre storie che magari non fanno notizia perché sono storie normali. Storie che però ogni tanto diventano speciali, perché appassionate e quindi appassionanti. Perché proprio per questo spinte dall’amore e da nient’altro. Amore per la bicicletta, forse amore per la scoperta. Come le ruote di Arrigo Danti, veronese nato che era ancora Ottocento e che da Verona finì a Bolzano passando per le Dolomiti e da lì scese a Milano per raccontare della sua scoperta ad Armando Cougnet, il patron del Giro d’Italia. Era il 1935 e il Danti girovagò per montagne e pianure per mille chilometri prima di sentirsi dire dal numero uno della corsa rosa che l’idea di far passare il Giro per quelle montagne era fantastica, ma che era da un anno che ci stava lavorando. Ce ne vollero altri due prima che Gino Bartali le esplorò per primo e tra i Monti Pallidi, da Vittorio Veneto a Merano, e con un assolo di 107 chilometri conquistò il suo secondo Giro d’Italia consecutivo.

Storie del secolo scorso che si intrecciano con storie recenti, perché animate dalle stesse passioni, quella per la bicicletta e per l’esplorazione, e dagli stessi panorami, quelli montani, anche se questa volta solo alpini e non dolomitici. Quelle che hanno messo sulla sella gente diversa, proveniente da gran parte del continente europeo, attirando persone anche dall’altra parte del mondo, con l’unico desiderio di pedalare lungo gli oltre millecinquecento chilometri della Alpi 4000. Le chiamano randonnée, ossia il più antico modo di intendere la bicicletta, quella del viaggio, ossia prove senza classifica su lunghe distanze da affrontare in completa autonomia intramezzati da alcuni punti di controllo e firma. Un vagare da Bormio a Bormio sotto le vette alpine che superano i 4.000 metri, scalando le montagne sulle quali anche il ciclismo professionistico si è arrampicato alla ricerca di imprese da raccontare.

 

Immagine tratta dal sito alpi4000.it

 

L’Alpi 4000 è un’esplorazione montana, un viaggio tra cime mitiche e voglia di fregarsene della fatica. Un viaggio sull’arco alpino e dentro a se stessi, dove la domanda non è mai “chi me lo fa fare?”, ma solo e soltanto “perché no?”. Un viaggio che è un incrocio di storie, che magari vengono da un passato che neppure si è vissuto, ma che si porta dentro come i ricordi. Magari quella di un uomo che da Milano se ne era tornato in bicicletta al paese d’origine per un matrimonio, forse perché altro modo non c’era, forse perché era bello così, sicuramente fregandosene di tutto, anche del fatto di non sapere quasi pedalare. “Mio nonno riuscì a trovarne una in prestito, ci impiegò una settima ad arrivare, dormì in mezzo i campi perché i tempi erano quelli che erano, ma ci arrivò. Quella storia mi ha sempre affascinato tanto che dicevo sempre un giorno lo farò anch’io. E ho iniziato così. Rifacendo quel viaggio che aveva fatto mio nonno tanti anni prima. Da Milano al Friuli. Era il mio primo viaggio. E’ un po’ da lì che è iniziata la passione di viaggiare in bici”, racconta al Foglio Ivan Folli, che da quel viaggio ci ha preso gusto e ora con la bici viaggia, esplora, sulla bici ha scalato lo Stelvio, l’Iseran, ha percorso “1.520 chilometri in poco più di cinque giorni con più ventimila metri di dislivello e nove passi alpini sopra i duemila metri” concludendo la Alpi 4000 in meno di 140 ore, ottenendo così il Brevetto Randonneurs Mondiaux (BRM), il massimo per un viaggiatore in bicicetta.

“Non avevo mai fatto distanze così lunghe in così poco tempo, avevo fatto solo randonnée che al massimo raggiungevano i trecento chilometri e passare ai millecinquecento chilometri è stato un azzardo. Ma è andata bene, una soddisfazione incredibile”. Una faticaccia ma che una volta iniziata non può non essere finita, soprattutto a chi non “piace abbandonare le cose a metà”. E sì che mentre si lascia sotto i palmer oltre ventimila metri di dislivello è normale avere dei momenti di difficoltà, si scoramento. “A me sono capitati paradossalmente mentre pedalavo in pianura. Ero vicino a Pavia, a quindici chilometri da casa e quel giorno faceva un caldo bestiale, la temperatura superava i trentacinque gradi. Sarà stata la fatica, sarà stato il poco sonno ma non stavo benissimo, avevo un fastidio al ginocchio destro e mal di stomaco”. Ma anche un obbiettivo: arrivare a Bormio. “Avevo iniziato la randonnée con l’idea di arrivare all’arrivo per dedicare questo viaggio a una persona a me cara. Avevo una bandana che mi aveva regalato legata sul manubrio e quando mi sentivo scarico questo pezzo di stoffa mi dava la spinta per continuare”.

Un viaggio quello di Ivan Folli che è uguale a quello di chiunque sale su di una bicicletta. Perché una volta saliti non si scappa da quello che si sta facendo, perché è quello che si è scelto, si entra in un legame biunivoco che ti lega al mezzo e alla fatica e più questa sale più ci si fa forza, più si cerca di scappare dalla tentazione di desistere. Non è pazzia però, “è un gesto d’amore”, sintetizzò forse meglio di chiunque altro René Vietto, uno dei più grandi talenti del ciclismo francese che mai si è riuscito a vincere un Tour de France. Poco male, disse a fine carriera, “non aver vinto la Grande Boucle per un po’ è stato un cruccio, ma poi ripenso a quanto ho pedalato e quanto mi è piaciuto farlo che non posso che essere felice ed entusiasta di tutto quello che ho fatto. In bicicletta continuo ancor ora a trovare serenità”.

Serenità, la stessa di Ivan, mentre saliva verso lo Stelvio di notte. “Pedalare in mezzo al buio, vedere solo poche luci a valle e le stelle nel cielo sono qualcosa che ti riempie l’animo e ti svuota la testa, ti senti in pace con tutto. Ma forse il ricordo più bello di questa esperienza è quello di quando ho raggiunto la cima del Moncenisio, sempre di notte, e c’era il lago e la luna che si specchiava nell’acqua e guardando giù, verso la strada che avevo appena percorso, vedere le lucette tremolanti degli altri randonneurs che si arrampicavano verso la vetta. Questo è un ricordo che porterò sempre con me”.

Articolo apparso sul Foglio.it

LANIER: IL WEB E’ UNA TRUFFA

LANIER: IL WEB E’ UNA TRUFFA

NETWORK MANIPOLATORI INCOMBONO SULLE PERSONE E SOTTRAGGONO OGNI LIBERTA’- JARON LANIER, SVILUPPATORE DI MICROSOFT, LANCIA L’ALLARME: “gli stati d’animo negativi come paura, paranoia, invidia e odio si diffondono più rapidamente rispetto ai positivi. L’odio è uno strumento più efficace quando si tratta di manipolare gli individui con l’ausilio di algoritmi. A rendere possibile tutto ciò è il modello imprenditoriale economico di Facebook. È questo il problema centrale. L’idea di finanziare Internet attraverso la modificazione comportamentale è nata in questo secolo. È stato un grosso errore, che va corretto.”

 

lanier social network

L’uomo con i dreadlock (un tipo di treccine di capelli ottenute annodandoli in modi ripetuti e diversi, ndr) denuncia da anni le pecche del mondo digitale, dal rischio di finire oggetto di un controllo globale, alle conseguenze disastrose della cultura della gratuità. Molte delle sue previsioni si sono avverate. La fama di massimo esponente di un’avanguardia critica nei confronti dell’Information Technology di cui gode il pioniere americano della “realtà virtuale” è anche legata alla sua esperienza diretta maturata nella Silicon Valley. Jaron Lanier lavora tuttora come sviluppatore a Microsoft, ma continua a scrivere libri sui poteri occulti di Internet, vincendo premi letterari. Il suo ultimo saggio riesce a essere più diretto e provocatorio dei precedenti. Si intitola Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (ed. Il Saggiatore) ed è stato scritto prima delloscandalo di abuso di dati di Facebook, che Lanier — e ciò non sorprende — aveva già previsto. Non a caso, di recente il New York Times lo ha definito un «oracolo».

Signor Lanier, il “ceo” di Facebook, Mark Zuckerberg, nella sua audizione al Parlamento europeo dopo lo scandalo dati ha per lo più aggirato le domande.

«Mi ha molto stupito che le domande siano state poste in sequenza, senza incalzarlo. Così Zuckerberg ha detto solo quello che voleva.

Ciò mi fa sorridere: Facebook e i servizi che controlla, come WhatsApp, Instagram e Messenger, sono in grado di monitorare e manipolare ogni singolo individuo».

Zuckerberg ha ribadito che Facebook non esercita un monopolio e che a suo avviso grazie allo sviluppo dell’intelligenza artificiale si argineranno gli episodi di manipolazione o istigazione all’odio. Lei ci crede?

«Ovviamente no. Nella Silicon Valley tutti, ma proprio tutti, sanno che è una balla. Non penso che ci sia qualcuno che creda a una sola parola di quello che ha detto Zuckerberg. Neppure in Facebook».

Dopo lo scandalo lei sostiene la necessità di cambiare il modello imprenditoriale di Facebook: eliminare la pubblicità e introdurre il servizio a pagamento, un po’ come fa Netflix (una piattaforma video che distribuisce online contenuti come film, serie tv e intrattenimento, ndr).

Jaron Lanier, nel suo studio, attorniato da strumenti musicali

«Io non sono contro la pubblicità in generale, ma contro quella mirata al singolo, basata sui dati dell’utente raccolti non da ultimo a scopi manipolatori, come fa Facebook. In questo modo si esercita un influsso enorme sul comportamento degli utenti, spianando la strada ai personaggi più infami, che puntano a distruggere la nostra società, e con questo non mi riferisco solo a certe piattaforme russe che hanno influenzato la campagna elettorale americana.

A peggiorare le cose interviene il fatto che in questo sistema gli stati d’animo negativi come paura, paranoia, invidia e odio si diffondono più rapidamente rispetto ai positivi. L’odio è uno strumento più efficace quando si tratta di manipolare gli individui con l’ausilio di algoritmi. A rendere possibile tutto ciò è il modello imprenditoriale economico di Facebook. È questo il problema centrale. L’idea di finanziare Internet attraverso la modificazione comportamentale è nata in questo secolo. È stato un grosso errore, che va corretto (sospira). Ma è difficile riuscirci. Un passo importante è fare appello diretto alle grandi aziende tecnologiche perché cambino le cose»

 “Il web 2.0, quello in cui i consumatori diventano anche produttori di informazioni – status di Facebook, foto su Instagram, opinioni su Twitter – è un truffa. Perché noi lavoriamo, gratis, a condividere mici, baci coi fidanzati e spiritosaggini, ma a guadagnarci è Zuckerberg.”

Non è troppo idealista affidarsi alla speranza?

jaron lanier«Assolutamente no. Da un anno e mezzo a questa parte un numero sempre maggiore di sviluppatori e di ex dirigenti della Silicon Valley si sono espressi in termini molto critici riguardo a quello che hanno creato. E non hanno timore di esprimersi pubblicamente in termini critici. Qualche anno fa non era così. Oggi non sono più solo. È una bella sensazione».

Lei è tuttora un dipendente Microsoft. Questo non crea un conflitto di interessi?

«No. Ho sempre detto apertamente che non parlo a nome di Microsoft. Ho un accordo con l’azienda che tutela la mia libertà accademica. Ma in questo contesto voglio chiarire che soltanto Google e Facebook manipolano i comportamenti nella misura che ho descritto.

Ciò non vale per Apple, Amazon e Microsoft. Dei colossi della tecnologia dell’informazione, Google e Facebook sono gli unici che non sono riusciti a diversificare le strategie per trarre profitti dalla Rete. Ora dipendono totalmente da questo modello di manipolazione — proprio come i loro utenti. Non credo che in Google e Facebook operino malvagi intenzionati a distruggere la nostra società. Li conosco, non sono così. Ma hanno commesso un errore spaventoso».

Nel suo nuovo libro scrive che la paura e l’odio sono il miglior carburante dei social network e indica senza mezzi termini i rischi che il persistere del sistema comporta per la sopravvivenza della specie e della democrazia. Non solo: sostiene che i social network tirano fuori il peggio di noi, distorcono la realtà, minano la nostra capacità di empatia.

«Sì, i social media tirano fuori il peggio di noi. E ho tralasciato molti temi scottanti attinenti a quest’ambito, per esempio il cosiddetto “Revenge Porn” (cioè diffondere video privati a sfondo sessuale girati insieme al partner per “vendicarsi” di quest’ultimo, ndr). Non può andare avanti cosi. Perciò esorto a cancellare gli account social. Si può vivere senza questa schifezza che distrugge la società. Cancellarsi dai social è l’unico modo per scoprire che cosa possa sostituire questo grandioso progetto fallito. Ma capisco perfettamente che non tutti possono farlo.

Ovviamente non voglio che le persone si rovinino per protestare contro Facebook: se è professionalmente indispensabile che mantengano un account Facebook, Twitter o Instagram, ben venga, ma li invito a moltiplicare gli sforzi per ridurne i danni. Chi però può permettersi di cancellare l’account ha, a mio avviso, l’obbligo morale di farlo. Con Facebook e Google è come pagare il pizzo al crimine organizzato. Ma il fatto che esercitino un controllo monopolistico sull’attenzione e la comunicazione tra le persone non significa che non si possano contrastare».

A sentir lei Facebook, Instagram e WhatsApp equivarrebbero all’eroina digitale. Smettere non fa andare in crisi di astinenza?

«Sì, temo sia così. La reazione dopaminergica, l’adrenalina che scatenano in noi i like e i commenti ai post sono frutto di tecniche appositamente utilizzate dai social per creare dipendenza. Per uscirne bisogna combatterla».

Il nuovo Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali (General Data Protection Regulation, Gdpr) è utile a tal proposito?

MARK ZUCKERBERG

Mark Zuckerberg

«È un buon inizio, forse un po’ disorientante. Il Gdpr si limita però alla tutela della sfera privata, non entra nel merito della manipolazione e della dipendenza create influenzando il comportamento attraverso gli algoritmi. La pubblicità personalizzata è solo una componente del sistema di “modificazione comportamentale” su Facebook. Tutto ciò che ha a che fare con la nostra navigazione online è progettato in modo da rendere l’utente sempre più dipendente».

Si dice che negli ultimi trent’anni lei abbia incontrato più volte Donald Trump…

UDIENZA DI ZUCKERBERG AL SENATO

Mark Zuckerberg in udienza al Senato USA

«Sì».

Nota un cambiamento tra il Trump predigitale e l’odierno “presidente dei tweet”?

«Certo, vedo una differenza enorme, ma in negativo. A New York ci sono molti personaggi come lui, tra lo spaccone, il falsario e lo showman. Nel caso di Trump, l’ho capito da subito: è del tutto inaffidabile, uno che rideva sempre delle sue battute. Da quando si è candidato, ha sviluppato una dipendenza nei confronti dei social media, il mondo ne è stato testimone. Trump è drogato di Twitter. E questa dipendenza per qualche strano motivo ha minato la sua sicurezza. Pur avendo un grande potere mostra una strana insicurezza. Si comporta come se fosse sempre oppresso. È il tipico comportamento indotto dalla dipendenza».

Come mai in Internet l’odio si spaccia meglio della speranza?

«Gli stati d’animo negativi sono più contagiosi è più duraturi. Quelli positivi impiegano più tempo ad attecchire e scemano più rapidamente. Ci vuole pochissimo per creare il panico e eccitare gli animi e molto invece per ritrovare la calma. Google e Facebook funzionano in base a un sistema di feedback rapidissimi. È questo che interessa ai loro clienti, agli inserzionisti: io li definisco semplicemente dei manipolatori. I post che diffondono stati d’animo negativi garantiscono un impatto maggiore, perché la reazione dell’utente è immediata e l’interesse più duraturo».

«Un lavoro è tale quando dai suoi proventi si può crescere un figlio. Perciò non ci casco quando ribattono alla tesi che internet ci impoverisce citando le star che YouTube avrebbe creato. Per una Jenna Marbles che, da zero, è diventata una celebrità insegnando alle ragazze a truccarsi, ce ne sono milioni che non battono chiodo. A forza di sentir ripetere questa bugia mi sono messo a censire i musicisti hip hop che sbarcano il lunario grazie alla rete. Nel mondo ne ho trovati 250. Un’inezia rispetto ai posti distrutti».

Molti ex colleghi della Silicon Valley la considerano un traditore.

«Alla fine mi ero quasi abituato a essere considerato un estremista. Ma oggi il vento è cambiato. Ormai nella Silicon Valley riscuoto un numero tale di consensi che temo di scadere nella banalità. Cerco di non fare il guru. Dico solo quello che penso».

DONALD TRUMP TWITTER

Donald Trum e il simbolo di Twitter

Martin Scholz per ”Die Welt”, traduzione di Emilia Benghi per ”la Repubblica

RIFUGIO CAPRESE

RIFUGIO CAPRESE

DANDY E RIVOLUZIONARI NEL PARADISO CAPRESE DEI PRIMI DEL ‘900.

L’isola divenne il crepuscolare rifugio di anarchici, futuristi, esuli e profeti di varia estrazione, mentre Parigi viveva i fasti della Belle Epoque- Un libro, pervaso di nostalgia, ripercorre quei tempi irripetibili.

Capri Linkiesta

«Capri, prima ancora di essere un’isola, è l’Isola.» È qui che, fra il 1905 e il 1940, sulla piazzetta, al caffè o in clausura, lavorarono anarchici, socialisti, futuristi, poeti e profeti. L’isola è stata il palcoscenico estenuato di incontri e addii fra dandy radicali, esteti dannunziani, facoltosi disoccupati e dilettanti supremi: il microparadiso terrestre in cui una cultura raffinata e astenica celebrava le proprie ambasce crepuscolari e recitava la diversità, lo spleen, l’isolamento, l’insofferenza velleitaria per il proprio tempo. Ma soprattutto Capri è stata l’imprescindibile punto di convergenza per chi esplorava nuove forme di linguaggio artistico e di teorizzazione politica, elaborando nuovi progetti di umanità e generando utopie ad alto potenziale: la fucina di ideologie, movimenti e correnti che determinarono la storia europea del Novecento.

LUOGO DI ESULI ILLUSTRI

Fra gli scogli di Marina Piccola o fra le rovine di Villa Jovis si dettero convegno le personalità cruciali per le avanguardie degli anni venti e trenta: i futuristi con Marinetti,

Villa Jovis

Prampolini e Depero, e i circumvisionisti; Romaine Brooks, Marevna, Walter Benjamin e Peggy Guggenheim. Nelle strade di Capri e intorno alle sue dimore spirava il vento politico dell’Est, con la Prima scuola superiore di propaganda e d’agitazione per operai fondata da Bogdanov, Lunacˇarskij e Gor’kij (nonostante l’opposizione di Lenin). Su tutti, Edwin Cerio – l’ironico bardo del cosmopolitismo caprese – accoglieva gli esuli e faceva da ponte fra la cultura internazionale e la cultura mediterranea.

In Capri Lea VergineElisabetta Fermani Sergio Lambiase raccontano prestigio e decadenza dell’isola: affrontano i labirinti delle memorie dei sopravvissuti, si avventurano nello spoglio di carte d’archivi privati o semipubblici, distillano i momenti privilegiati e ignoti di molte vite, e con l’aiuto di questi documenti originali e testimonianze vive arrivano a tratteggiare, infine, questo esterno con figure. Capri, inventario unico di storie e incontri, disegna una topografia culturale d’eccezione; narra un luogo e un tempo irripetibili, ma di cui oggi avremmo sommamente bisogno.

Ma perché proprio Capri? Perché Capri, intendo dire, e non Taormina, Positano, Sorrento o Fiesole, tutte località prescelte da raduni apparentabili sotto più d’un aspetto; o Ascona, in Svizzera, per fare un nome venuto alla ribalta, da qualche anno, a proposito di comunità squisite? Perché Capri, prima ancora di essere l’Isola, è un’isola

Scala Fenicia

Si crede di conoscere Capri, ma vi sono state e vi sono infinite maniere di tradirla o di ignorarla. Per J.J. Bouchard nel Seicento, per Norbert Hadrawa alla fine del Settecento o per Ferdinand Gregorovius a metà del secolo seguente, Capri ha rappresentato un modo di compiere un viaggio in un passato che rendeva archeologico e mitico anche il presente (si pensi anche alle riletture delle cronache di Tacito e di Svetonio con le vicende di Masgaba, l’architetto di Augusto, o di Trasillo, l’astrologo di Tiberio, e di mille altri incantamenti).

Che i colori, i profumi, gli stupefacenti scenari naturali abbiano calamitato su quel trapezio di calcare, non più grande di dieci chilometri, efebi giulivi, fanciulle scostumate, clochards di lusso, eccentriche in odore di follia, belli e dannati, fa parte dei luoghi comuni della pubblicistica degli ultimi sessanta anni. E, tuttavia, questa non è che l’immagine facile di uno dei luoghi più eccitanti e più inquietanti. Pochi miti, come Capri, hanno avuto una straordinaria sfortuna postuma. Dagli inizi del secolo agli anni che hanno preceduto l’ultima guerra, l’Isola non è stata solo l’estenuata féerie (mondo fantastico ndr) di dissidenti vittoriani, esteti dannunziani, facoltosi disoccupati, dilettanti supremi, né il palcoscenico romantico di tanti «incontrarsi e dirsi addio»; piuttosto il polo magnetico, il punto di confluenza, la tappa obbligata, il luogo geometrico di amicizie e congedi dei più disparati destini, cardine attorno al quale ha ruotato grandissima parte della cultura e della politica dal 1905 al 1935, tanto per mettere a fuoco un periodo aureo che oggi sembra arcaico, ma il cui senso non ha cessato di lasciare aspettative.

Anarchici, socialisti, futuristi, poeti e «profeti» russi e mitteleuropei, in malattia e stravaganza, nella teorizzazione politica di respiro internazionale come nella ricerca di forme nuove di linguaggio, sulla piazzetta, al caffè o in clausura, lavorarono a Capri. E ne nacque un clima certo non secondario rispetto alla già celebrata realtà geografica di Apragòpoli (Svetonio: isola del dolce far niente. ndr), quello cioè di quartiere di esuli illustri, di traguardo di emigrati politici, di centro di artisti.

Via Krupp

Su tutto questo s’era levato un muro di silenzio. Ecco perché dico «sfortuna postuma». La mitologia ulteriore, che s’era accompagnata a tali avvenimenti e alle eco sparse per il mondo, non si è esaurita, ma si è fatta, di lustro in lustro, sempre più remota.
Perché l’Isola, corrosa e alimentata al tempo stesso dalla sua leggenda, rimanga nella storia, prima che le cerimonie vandaliche delle cronache recenti l’eliminino del tutto, si è deciso di far luce su quella che possiamo chiamare una topografia culturale moderna.

CAPRI NASCOSTA

L’accesso alla Capri nascosta non è stato facile né immediato.
Solo rovistando tra i momenti privilegiati e ignoti di molte vite, con l’aiuto di documenti e testimonianze, solo inoltrandosi nelle trame di liaisons affatturate dalla discrezione quando non dal segreto, solo affrontando i labirinti delle memorie distillate dai sopravvissuti, avventurandosi o seppellendosi nello spoglio di carte d’archivi privati e semipubblici, si è, alla fine, arrivati a tratteggiare un «esterno con figure».
Ricerche condotte nell’arco di venti mesi hanno fruttato una congerie di dati, notizie, testi, manoscritti, opere, una quantità di materiali e immagini, noti a pochissimi o del tutto inediti, di cui questo libro offre una scelta, un repertorio di indicazioni, uno stralcio di costellazioni.
Di fronte a cosa ci si è trovati? A una concatenazione di contrasti al posto di un unico tema dominante, a una scacchiera di riflessioni che si articolano a vari livelli, a varianti che si snodano all’interno di vasti disegni – ecco perché luogo geometrico – infine, a una tavola del possibile.

Anacapri-punta faro Carena

FRA DECADENZA E UTOPIA

Le voci del coro sono spesso dissonanti, le personalità e le direzioni di lavoro di frequente diversissime tra loro, ma tutto questo variare di livelli, di spessori, di intensità, di intenzionalità si allaccia poi febbrilmente nel vortice di un rondò teso, questo sì, a una ricerca di assoluto che, nel crollo di una società e nella disgregazione dei suoi valori, tenta la via della speranza per sé e per gli altri. Siamo lontani dall’usurato cliché di maniera dell’esotismo borghese.

Se è pur vero che una cultura raffinata e astenica celebrava qui le proprie ambasce crepuscolari, che superuomini in trasferta, asceti cupidi, gurine brillanti, avventurieri toccati dalla grazia si davano convegno tra gli scogli di Marina Piccola o tra le rovine di Villa Jovis, c’è, per contro, un numero imponente di personaggi che elabora nuovi progetti di esistenza, che lavora a un notevole potenziale di utopie. Vediamo: cosa significò Capri per le legioni di grandi frivoli, di dandies radicali, per i perversi che non sapevano perdere l’innocenza, per gli intriganti visitati dalla poesia, che decisero di trascinare o amministrare, per le sue strade e le sue dimore, l’ansia, l’anarchia o il disfacimento delle loro vite? Per tutta quella corte scintillante e rivoltosa (talvolta ribalda) che, comunque, ne accrebbe e decretò la leggenda in anni a noi più vicini? A tal proposito, gli itinerari che qui si è cercato di ricostruire portano ad alcune considerazioni.

Da una parte c’è l’isola vissuta come mosaico di ruderi, di antichità, di avanzi del passato romano, sul cui sfondo recitare la diversità, la nevrastenia, lo spleen, l’insofferenza velleitaria per il proprio tempo, l’isolamento; da un’altra c’è l’isola vissuta come viaggio iniziatico, educazione sentimentale, terreno naturale di intrecci favolosi, dove la terezza taciturna e il distacco ironico dell’indigeno consentono di intrattenere, indisturbati, commerci col morboso e col mistico; da un’altra ancora – ed è quella che ci interessa maggiormente – c’è la Capri di chi non si rifugia nel microparadiso terrestre come stazione di risarcimento psicologico ma, invece, esplora le trincee politiche e artistiche.

ISOLA INVENTATA, SENZA LUOGO E TEMPO

Ma perché proprio Capri? Perché Capri, intendo dire, e non Taormina, Positano, Sorrento o Fiesole, tutte località prescelte da raduni apparentabili sotto più d’un aspetto; o Ascona, in Svizzera, per fare un nome venuto alla ribalta, da qualche anno, a proposito di comunità squisite?
Perché Capri, prima ancora di essere un’isola è l’Isola.
Nel 1516 Tommaso Moro pubblicava Nova Insula Utopia e, nel titolo, identificava l’isola con il non-luogo (utopia, dal greco ou topos, significa letteralmente non-luogo, da nessuna parte). Capri è anche un non-luogo inventato dagli uomini: essa è una forma, e questa forma è una clausura e un’esclusione. «Non si viaggia che per rinchiudersi» scriveva de Sade – o Luigi Compagnone, non ricordo bene.
L’isola ha le sue leggi, diverse da quelle del continente. C’è un che di monastico e di anarchico, una clausura e un’esclusione nell’idea di isola. L’isola esercita una vocazione oracolare: quella che affabulava russi e tedeschi, americani e inglesi, e quel tale Gilbert Clavel (che ricorda il piccolo Giovanni Friedmann di Thomas Mann) così amante del gioco degli scacchi, prima di andare a suicidarsi a Basilea.
Utopia, scacchiera, metafisica furono le passioni geometriche che, brevemente, trattennero tanti precipitosi nomadi.

Articolo di Lea Vergine, all’anagrafe Lea Buoncristiano, è una critica d’arte e curatrice italiana. Collabora ad alcuni dei principali quotidiani italiani, tra cui il manifesto e Il Corriere della Sera.

STRAVAGANTE HOSTEL, VERONA

STRAVAGANTE HOSTEL, VERONA

 

 

Ci sono progetti che esistono e progetti la cui esistenza è di fondamentale importanza.
Stravagante Hostel, che ha aperto i battenti lo scorso 7 luglio nella città di Verona, è uno di questi.

Fortemente desiderato dalla Cooperativa Sociale L’Officina  dell’AIAS ONLUS, questo ostello ha come obiettivo quello di ridare valore alla città e all’uomo puntando sui valori sociali.
Stravagante Hostel mira a diventare un luogo di ospitalità unico per la città, sia per i servizi che offre ma, soprattutto, perché ad occuparsene saranno dei giovani con disabilità.
I ragazzi, con l’aiuto di cooperatori, volontari e familiari, si occuperanno dell’accoglienza, della gestione e anche della piccola osteria annessa.
L’ambiente dell’ostello, 800 mq suddivisi in 5 piani, è stato curato, per volere della Cooperativa Sociale L’Officina, anche da Rame Project, un collettivo di artisti di murales e writer che si è occupato di decorare le mura esterne ed interne della costruzione regalandogli anche un grande valore artistico.

KoesLuca FontPeeta e Lucamaleonte hanno realizzato 4 interventi diversi, ognuno con il suo stile e significato che rendono l’ostello un luogo ancora più unico.

Noi siamo andati a trovare Lucamaleonte a Verona, quando ancora il suo murale non era finito e abbiamo parlato di Roma, dell’eterna rivalità fra le due squadre della città (quindi tra me e lui), dei suoi lavori più iconici, di rap, di street art, del progetto e del suo immenso significato.
Qui sotto trovate la nostra chiacchierata e “Tutti diversi, tutti uguali”, il bellissimo muro che ha deciso di creare per Stravagante Hostel.

Il tuo lavoro, essendo su strada, interagisce con tutto l’ambiente che lo circonda, sia dal punto di vista architettonico sia da quello sociale. Che tipo di intervento hai deciso di creare per un progetto particolare come quello di Stravagante Hostel?

Il contatto con Andrea (Koes) e con il progetto Rame c’è ormai da molto tempo, sono andato abbastanza a colpo sicuro perché i committenti avevano ben chiaro in mente ciò che volevano.
Erano rimasti molto affascinati dal Mucchio di Fagiani che ho realizzato a Roma per la mostra al Macro “Cross the Streets” e avrebbero voluto replicarlo, io gli ho proposto delle alternative e quella che è piaciuta di più è quella dei pappagalli, probabilmente per il tanto colore che lo contraddistingue.
Il disegno di chiama “Tutti diversi, tutti uguali” e, nonostante il significato non sia di prima lettura, ciò che ho voluto rappresentare è il concetto di inclusività.
Il progetto è stato molto semplice, è venuto tutto molto naturale, ho voluto mantenere il mio stile ma usare molto più colore di quanto ne uso di solito.

Com’è stato per te lavorare ad un progetto così carico di significato e dalla forte impronta sociale?

Colpisce, e rispetto a tanti altri progetti e luoghi ti fa pensare, ritengo sia una fortuna poter collaborare con delle realtà che ti riportano con i piedi per terra.
È molto facile nel mio mondo lavorativo perdere di vista determinate cose, le più semplici e belle, e questi progetti ti riportano in una dimensione più umana.
Dimensione umana che poi è profondamente radicata nel progetto Rame dove è molto forte la voglia di creare link fra artisti, amici e progetti.
Un qualcosa che fino a 10/15 anni fa era molto comune nel mondo della Street Art ma che si è andata a perdere perché ognuno preferisce guardare al proprio orto, rispetto che condividerlo.

La street art ha subito una forte evoluzione, da arte disturbante è diventata una dei principali mezzi di riqualificazione del territorio. Pensi che un progetto come questo possa aiutare a “riqualificare” la mentalità di persone e istituzioni?

Non so bene se a livello locale possa effettivamente aiutare, ma ci sono città, come ad esempio Roma, in cui ormai è quasi fin troppo sdoganata.
Spesso diventa anche una leva politica per fare propaganda, io, rispetto a questo, ho fatto un passo indietro.
Mi piace aderire ai progetti anche con il cuore, crederci.
Nei progetti commerciali c’è un altro spirito, collaboro con Bvlgari ormai da 3 anni, abbiamo fatto cose molto belle insieme ma, ovviamente, in quel caso il mio lato artistico è molto indirizzato.
Quando invece interviene una realtà politica, istituzionale, ma anche una galleria, con la quale posso essere in conflitto preferisco non inserirmi, non apprezzo tutti questi giochi di potere che spesso calcano la mano sul concetto di riqualificazione, come se davvero stessimo salvando il mondo.
Sono dei disegni sui muri, possono un minimo cambiare la testa della gente ma se poi le cose non vengono fatte con il cuore non servono assolutamente a niente.

E quindi tu come lo hai vissuto l’ingresso della street art nelle gallerie d’arte?

Non ho mai sofferto questo passaggio, non ho iniziato a fare i miei lavori illegalmente per strada e cominciato ad esporre dopo anni, è successo tutto quasi contemporaneamente.
Ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare con la street art in un momento in cui ancora non c’era un grandissimo giro, soprattutto in Italia, e questa cosa ha portato a far girare il mio nome molto all’estero.
Due anni dopo aver cominciato a fare stencil sono stato chiamato dagli Stati Uniti per delle mostre, quindi mi è venuto abbastanza naturale.
Per me l’importante è fare le mia arte, se lavoro per strada utilizzo un linguaggio, se invece lavoro per una mostra ne utilizzo un altro, sempre mio. Sono due realtà che possono convivere tranquillamente.

Al progetto hanno preso parte tutti gli attori di Rame Project, Koes, Luca Font, Peeta e ovviamente tu. Cosa accomuna il tuo lavoro con quello dei tuoi colleghi?

Per me è sempre un onore lavorare al fianco di artisti che stimo, di Luca ho anche un tatuaggio, sono appositamente partito da Roma per farmi tatuare da lui a Bergamo quasi 10 anni fa, Peeta è un mostro sacro in quello che fa.
Per questo progetto abbiamo lavorato senza parlarci, cromaticamente il mio lavoro e quello di Luca hanno molti tratti in comune, però l’ho scoperto quando ho visto il suo muro, non prima.

Stravagante Hostel è un progetto per i giovani nostrani che parla però ai giovani di tutto il mondo, qual è il messaggio più forte che avete voluto comunicare?

Non bisogna dimenticarsi dell’inclusività, un valore fondamentale che stiamo perdendo.
Ci sono delle realtà che non vanno guardate con l’occhio della tenerezza ma con l’occhio della normalità, entrare in un bar e trovare un barista diversamente abile non fa alcuna differenza, il caffè viene buono o schifoso lo stesso.
Questo progetto è meraviglioso perché vende un servizio. Chi verrà qui non lo farà perché prova tenerezza, pagherà per essere ospitato e ricevere ciò di cui ha bisogno.
In più l’idea di inserire al suo interno delle opere con un valore artistico importante gli regala anche qualcosa di più.
Se io posso mettere del mio per dare ancora più risonanza ad un progetto come questo lo faccio molto volentieri.

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