STREET ART A PARIGI

STREET ART A PARIGI

 

GODETEVI LE OPERE DEGLI ARTISTI DI STRADA CHE STANNO TRASFORMANDO PARIGI CON IL LORO ESTRO E L’IRONIA GRAFFIANTE- DI SEGUITO LE OPERE PIU’ AMMIRATE, GLI INDIRIZZI UTILI E I SOCIAL PER CONTINUARE IL VOSTRO VIAGGIO IN QUESTO NUOVO MONDO D’ARTE. 

 

 

La street art, o arte di strada, è l’insieme di diverse forme di arte che si manifestano in spazi pubblici e comprende diverse techiche: spray, sticker art, stencil, sculture, ecc. Queste opere, spesso realizzate illegalmente, sono realizzate da alcuni come forma di critica nei confronti della società o della proprietà privata. Altri vedono questa nuova espressione artistica come una forma di arte lontana dalla formazione accademica e le città sono come una grande tela colorare o semplicemente un luogo dove esporre i proprio lavori. La street art si allontana dal concetto di graffito, nella tecnica e nel fatto che in questa disciplina non è obbligatoriamente legata allo studio dei caratteri tipografici.

Nella storia di questo movimento, nato negli anni ’60, si ebbe una svolta proprio a Parigi negli anni ’80 e ’90 con artisti come Jérôme MesnagerNémo e successivamente Stak, Andrè e Honet. Con l’arrivo di Invader e Zevs si inizia già a parlare di “post-graffiti”. Attualmente in Francia, questo movimento è molto vivo, e a Parigi sono attivi anche altri street artist come DranSethMosko et associés, Gérard Zlotykamien, Miss.Tic e tanti altri.

Su internet ci sono diversi siti creati in onore alla street art di Parigi, come per esempio la pagina facebook Street Art Paris o la mappa interattiva di paris-streetart.com. Per chi fosse interessato sul sito undergroundparis.orgsi possono prenotare diversi tour guidati in inglese da fare a piedi o in bicicletta.

Di seguito qualche opera dei principali artisti di street art a Parigi
 

Jérôme Mesnager

Jérôme Mesnager
Foto Flickr

 

Némo

Némo
Foto Flickr

 

Invader

Invader
Foto Flickr

 

Miss.Tic

Miss Tic
Foto Flickr

 

Dran

Dran
Foto Flickr

 

Mosko et associés

Mosko et associés
Foto Flickr

 

I 10 luoghi dove ammirare le più belle opere di street art a Parigi

Se sei appassionato di street art non farti mancare questi incredibili indirizzi. Di seguito i 10 luoghi dove ammirare le più belle opere di street art a Parigi

Il 13° arrondissement di Parigi

L’arrondissement di Parigi in cui è possibile effettuare un percorso artistico incentrato sulla street art è sicuramente il XIII°. Un tripudio di forme, colori e motivi, accompagneranno il visitatore in una sorta di pellegrinaggio che non può non partire dalla Butte aux Cailles. Quindi, un percorso turistico intorno alle stazioni metro “Nationale” e “Chevaleret” che trova in rue Jeanne d’Arc una opera a firma Obey.

Rue Dénoyez

Questa tipica stradina che si trova a Parigi nel XX° arrondissement, è diventata nota perché ha le pareti ricoperte interamente da graffiti. Quindi, oltre che avere la possibilità di prendere il sole in maniera rilassata sorseggiando una bibita o un caffè, si avrà anche modo di ammirare un ampio e incredibile panorama di street art.


Photo Credits

Metro Saint-Germain-des-Prés

Parigi è bella e romantica, ma è anche underground e multietnica. Nel sesto arrondissement parigino si trova la metro Saint-Germain-des-Prés, uno dei luoghi più cult per la street art. Qui, infatti, si ammirano, in un mosaico di colori in continuo divenire, alcuni dei più esemplari e magnifici tributi degli artisti a questa particolare forme di arte.

Rue Igor Stravinsky

Per ammirare una monumentale opera di street art, si deve andare in rue Igor Stravinsky che si trova nei pressi del Centre Pompidou. Quindi, nella grande sinfonia urbana di Parigi si potrà ammirare una delle opere di street art più fotografate al mondo (di Jef Aerosol).

Rue Oberkampf

Per gli amanti della street art, percorre rue Oberkampf sarà fonte inesauribile di grandi emozioni. Non per nulla, le sue mura sono considerate una delle più importanti e di incomparabile valore gallerie di street art di tutta Parigi.

Rue de Verneuil

Nel VII° arrondissement parigino si trova rue de Verneuil, ove è ammirabile il muro Gainsbourg. Infatti, la parte esterna della casa di Serge Gainsbourg, che è stato attore e regista, poeta e pittore, paroliere e musicista di successo internazionale scomparso nel 1991, è divenuta una immensa parete ove la street art esprime tutta la sua forza, creando quello che è un vero museo a cielo aperto.

Quai d’Austerlitz

Quai d’Austerlitz, a poca distanza dalla stazione dei treni omonima, sotto la cité de la mode et du design, permette di ammirare le opere di vari artisti in continua evoluzione. Percorrere questi particolari luoghi sarà come respirare l’aria di New York. Una impareggiabile mostra d’arte di strada da visitare assolutamente.

Rue des Frigos

Tra le più storiche mura dedicate alla street art, indubbiamente, spiccano quelle di questa interessante via che si trova nel dinamico e poliedrico 13° arrondissement della capitale francese. Una rivisitazione di luoghi e attività che vivono nuove vite, grazie alla geniale attività artistica di questi novelli pittori.

Rue de l’Ourcq

Le mura dell’antico canale Ourcq, una delle fondamentali via fluviale utilizzate per approvvigionare Parigi, oggi brillano e risplendono di magnifici esempi di street art. Opere artistiche sono, quindi, sparse lungo tutto il percorso e non mancheranno di sorprendere piacevolmente il visitatore.

Quai de Valmy

Nel 10° arrondissement parigino, si trova quai de Valmy, gioioso luogo dedicato alla street art. Nella più pura tradizione tanto cara a città come New York o a Lisbona, anche qui a Parigi, quella che viene chiamata semplicemente arte di strada, è in piena espansione e oggi gode di un riconoscimento artistico internazionale. Una attrazione turistica parigina che merita di essere visitata.

 

Tratto da https://www.vivaparigi.com/luoghi-street-art-parigi/, sito che si ringrazia

Leggi anche:

Su Ninconanco altri articoli, digitando le parole steet art nell’apposito spazio di ricerca.
Art 42: il museo di street art a Parigi
“Heroic Parade”, la più grande opera di street art d’Europa alle porte di Parigi

MILENA DATAROOM

MILENA DATAROOM

ilva taranto 9

Ora che l’ Ilva ha una nuova proprietà, si può tirare una riga e fare i conti: qual è stato il «prezzo» del commissariamento? La storia dell’ azienda è piena di crocevia, colmi di speranze, poi

quasi sempre disattese.

Il primo bivio fu la scelta del quarto polo siderurgico italiano: dopo Cornigliano, Piombino e Bagnoli, si aprì Taranto. Il secondo bivio risale all’ inizio degli anni 90, quando il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert costrinse l’ Italia a scegliere fra Bagnoli e Taranto. Chiuse Bagnoli. Erano i tempi dell’ Ilva pubblica, quella che si chiamava Italsider.

gabanelli ilva 5Messa in liquidazione nell’ 88, diventa privata nel 1995. Se l’ aggiudicano i Riva con un’ offerta di 1.649 miliardi di lire (e 1.500 miliardi di debiti, a fronte di un fatturato di 9 mila miliardi e 11.800 dipendenti) superando i rivali del gruppo Lucchini.

L’ attività marcia fino al 26 luglio del 2012, quando l’ acciaieria viene messa sotto sequestro e i Riva arrestati. Le accuse della magistratura di Taranto per i vertici aziendali sono, a vario titolo, di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose.

Nel 2013 torna in mano pubblica con il commissariamento, nel 2015 arriva l’ Amministrazione straordinaria. Solo nel 2016 arriva il decreto per la vendita e nel 2017 l’ aggiudicazione alla cordata Am Investco, guidata da ArcelorMittal, nata dalla fusione della francese Arcelor e dell’ indiana Mittal, con quartier generale in Lussemburgo. E la storia si ripete: Ilva è di nuovo privata.

Per prendere possesso dell’ Ilva, però, ArcelorMittal ha dovuto attendere settembre 2018. Non è bastata l’ offerta vincente, così articolata: 1,8 miliardi il prezzo di acquisto, 2,4 miliardi di investimenti entro il 2023, di cui 1,25 miliardi per il piano industriale e 1,15 di investimenti ambientali, e un’ occupazione per 9.407 unità.

ilva taranto 8L’ accordo doveva essere accettato dai sindacati. Il ministro Carlo Calenda del governo Gentiloni ci prova fino all’ ultimo, arriva a 10 mila assunzioni, ma il voto del 4 marzo 2018 spazza via il vecchio governo e la palla passa nelle mani del suo successore, Luigi Di Maio.

La trattativa si è chiusa il 6 settembre scorso: ArcelorMittal si impegna ad assumere 10.700 lavoratori e ad assorbire, dal 2023, i 3.100 lavoratori che nel frattempo restano in cassa integrazione sotto l’ Amministrazione straordinaria di Ilva. Se non accetteranno l’ incentivo all’ esodo (100 mila euro lordi) il costo complessivo potrà arrivare attorno a 400 milioni. Mentre l’ Amministrazione, entro i prossimi 5 anni, dovrà terminare i lavori di bonifica nell’ area fuori dallo stabilimento. Ma per fare questo basteranno non più di 400 lavoratori.

gabanelli ilva 6Quanto sono costati gli oltre 6 anni dell’ Ilva senza padrone in cui sono cambiati 5 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), 4 commissari (Enrico Bondi, Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi) e un subcommissario (Edo Ronchi)?

Nel 2015 Ilva ha perso 600 milioni, nel 2016 ne ha persi 300, nel 2017 di più, 360, e 200 nei primi otto mesi del 2018. In pratica dal 21 gennaio 2015, inizio dell’ Amministrazione straordinaria, a oggi, l’ Ilva ha perso 1,46 miliardi di euro. Solo i due anni di ritardo per il passaggio ad ArcelorMittal (inizialmente la gara si sarebbe dovuta chiudere a giugno 2016) hanno pesato per circa 700 milioni.

Le perdite relative agli anni 2012-2014 ammontano invece a 2,18 miliardi, ed emergono dai numeri della data room a cui ebbero accesso le aziende che presentarono la prima manifestazione d’ interesse. Complessivamente, quindi, le perdite del dopo Riva sono state di 3,6 miliardi. Un salasso dovuto alla riduzione dell’ attività a seguito della chiusura dei forni più inquinanti, e una conseguente perdita di mercato.

ilva taranto 1Rimane il tema da cui tutto è partito: il disastro ambientale. In questi sei anni si è risanato pochissimo perché non c’ erano i soldi. Oggi a disposizione ci sono circa 2,2 miliardi. Chi li mette? Per metà la nuova proprietà, per l’ altra i Riva. La Guardia di finanza, grazie al filone milanese dell’ inchiesta, nel 2013 trova 1,7 miliardi, frutto di evasione e plusvalenze, nascosti in Svizzera, nell’ isola di Jersey e Lussemburgo.

Riesce a sequestrare 1,3 miliardi. Denaro che avrebbe dovuto essere investito nella copertura dei parchi minerali e nella gestione dei fanghi velenosi. I fondi, però, arrivano effettivamente nella disponibilità di Ilva solo a giugno 2017: 230 milioni vengono utilizzati per la gestione corrente, mentre i restanti 1.083 milioni sono vincolati al risanamento aziendale.

ilva taranto 7Il più urgente è proprio la copertura di quelle montagne di polvere di carbone e ferro all’ aria aperta che, nei giorni di vento, coprono il quartiere Tamburi di Taranto. Per evitarlo, l’ Autorizzazione integrata ambientale del 2011 prevedeva che i parchi minerali venissero coperti. I lavori sono partiti solo nello scorso febbraio e si concluderanno nel 2020.

Il costo previsto è di 300 milioni ed è a carico della nuova proprietà, ma la somma è stata anticipata dall’ amministrazione straordinaria di Ilva con i fondi sequestrati ai Riva. Si potevano evitare gli incalcolabili danni alla salute, il collasso ambientale e quello dell’ azienda? La risposta è sì.

La responsabilità, in prima istanza, pesa sulle spalle dei ministri dell’ Ambiente, della Salute, i governatori della Regione Puglia, Arpa, magistrati, sindacati, che a partire dal ’95 (anno in cui lo Stato ha venduto l’ Ilva ai Riva) avrebbero dovuto imporre l’ adeguamento alle norme. Invece, mentre la proprietà accumulava soldi nei paradisi fiscali e a Taranto si moriva, hanno fatto finta di niente. Fino a quando non è più stato possibile.

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Michelangelo Borrillo e Milena Gabanelli per “Corriere della Sera – Dataroom”

IL PRODE ACHILLE

IL PRODE ACHILLE

AGIAMO SPINTI DAL NARCISISMO, IL MOTORE ECOLOGICO DELLA VITA DI TUTTI- “MA NON SONO VANITOSO, LA VANITA’ E’ SOLO IL SUO PRÊT- A- PORTER”DA VERO TEMPERAMENTO ARTISTICO ACHILLE BONITO OLIVA NON LAVORA SULLA INVENZIONE, MA SULLA CITAZIONE- LE SUE.

Achille Bonito Oliva, ovvero ABO. Lei produce fortunati «ABOrismi». L’ ultimo?

«L’ umanità ha finalmente selfie control. Una mania che ho riscontrato nella mia vacanza in Grecia. Niente bagno senza selfie. Ho visto un tipo che si tuffava con l’ asta del telefonino».

Questa serie si intitola «Italiani». Cosa vuol dire «essere italiano»?

«Un’ identità multimunicipale, non monolitica come quella tedesca. C’ è un genius loci che ci tiene collegati antropologicamente: il senso del relativo. Io sono napoletano, per me è l’ ironia che, come diceva Goethe, è la passione che si libera nel distacco. C’ è sempre il sospetto di un possibile perdono. E di un condono».

Siamo al costume nazionale: il condono.

«Come mancanza di adesione totale allo Stato proprio per quel relativismo creatore dell’ evasione fiscale, sostenuto dalla religione cattolica che prevede la confessione e, appunto, il perdono».

achille bonito olivaLa sua vita comincia con una laurea in Giurisprudenza a 21 anni. Cosa c’ entra?

«Sono le mie radici familiari. Mio padre apparteneva all’ aristocrazia di campagna, con un antenato che lasciò l’ Albania al seguito di Skanderbeg e venne poi fatto duca, con terre che possediamo ancora nel Vallo di Diano. Mia madre veniva dalla borghesia agraria e discendeva da Celestino V, il papa del gran rifiuto. Mi laureai a 21 anni, Giurisprudenza non allarmava i miei genitori poi mi iscrissi a Storia e filosofia, cominciai a interessarmi di poesia, a 15 anni avevo letto già di tutto, da Kafka a Faulkner. Ho avuto successo fin da piccolo».

Nel senso?

«Sono il primo di nove figli. Ma non ho mai sentito la responsabilità familiare, come accudire o portare il buon esempio, anche nel grande affetto che ci lega tra fratelli e sorelle.

Ho intrapreso un’ altra strada».

L’ incontro con l’ arte come avvenne?

«La poesia mi avvicinò al gruppo del ’63: Balestrini, Sanguineti, Giuliani. Pubblicai due libri, che loro apprezzarono. Poi frequentavo assiduamente, a Napoli, i dibattiti della mitica libreria di Mario Guida. Facevo interventi di venti minuti: criptici, ermetici. Totoisti: per me Totò resta un grande riferimento anche culturale. Un giorno, nel 1966, capitò Giulio Carlo Argan.

achille bonito oliva

Mi ascoltò, mi parlò con affetto e simpatia, tornò a Roma, chiamò Filiberto Menna, il primo critico d’ arte d’ avanguardia ad approdare in un grande quotidiano come Il Mattino e gli chiese di incontrarmi, giocando sul mio nome: “Si chiama Achille, se farà il critico d’ arte ci supererà tutti in velocità”. Menna credette in me, diventai con lui assistente ordinario di Storia dell’ arte a Salerno. Nel 1978 mi trasferii a Roma, grazie ad alcuni docenti che mi stimavano, ebbi ad Architettura l’ incarico di Istituzioni di storia dell’ arte. Venivano studenti da altre facoltà, le ritenevano le lezioni sul contemporaneo più avanzate del momento».

Un napoletano adottato da Roma…

«Io sono partenopeo e parte romano: sono stato concepito all’ hotel Massimo d’ Azeglio di Roma e lì risiedo da 50 anni».

Con Argan mantenne buoni rapporti?

«Eccellenti. Ho avuto il grande onore di proseguire la sua “Storia dell’ arte moderna” per Sansoni dal 1970 a oggi. Scelse me, non gli “Arganauti”, i critici legati a lui che si muovevano in gruppo».

Lei iniziò ad agire subito da solo. Perché?

achille bonito oliva«Per narcisismo, il motore ecologico della vita di tutti. La vanità è invece il suo Prêt-à-porter. Nel 1970, nel catalogo della mostra “Amore mio” a Montepulciano, nelle dieci pagine a mia disposizione proposi altrettante mie foto di Ugo Mulas con una lunga considerazione di Nietzsche sulla morte. Il critico come deuteragonista per creare un rapporto nuovo, di rispetto, non più da servo di scena con gli artisti che, lo dico da tempo, sono i miei nemici più intimi. L’ artista crea, il critico riflette».

Si vide a Roma nella mostra «Contemporanea» al parcheggio del Galoppatoio a villa Borghese nel 1973

«Fu merito di Graziella Lonardi Buontempo, con i suoi “Incontri internazionali d’ arte”, convincere la proprietà, Condotte d’ acqua, a concederci lo spazio progettato da Luigi Moretti.

Esposi Warhol, Rauschenberg. La sinistra dogmatica, legata all’ obbligo della mano pubblica, storse il naso: tutto nasceva da una struttura privata. Non ci scoraggiammo e fu un trionfo».

achille bonito olivaA proposito: quanto contò, nel rapporto arte-sinistra, la scomunica di Togliatti verso l’ astrattismo? «Scarabocchi», fu la sua storica definizione su «Rinascita».

«Il Pci, nel dopoguerra egemone in campo culturale, sosteneva il neofigurativo contro l’ astrattismo dileggiando, com’ era sua abitudine, gli avversari. Fu merito di Argan e di Bruno Zevi non ubbidire a simili diktat e capovolgere strutturalmente l’ approccio nelle università, nell’ arte e nell’ architettura».

Lei è il teorico della Transavanguardia. Cosa significa quel Trans?

bonito oliva franco angeli castellani e pino pascali

Un giovane Bonito Oliva con, fra gli altri, Franco Angeli e Pino Pascali

«Arte in transizione in un periodo di superamento dell’ arte concettuale, di crisi dell’ ideologia: nomadismo e meticciato culturale, superamento della divisione astrattismo-figurativo, radici elastiche. L’ artista non lavora più solo sull’ invenzione ma anche sulla citazione che così recupera sia l’ avanguardia che la tradizione. In più c’ è il ritorno del soggetto dopo il “noi” plurale assembleare del ’68».

Scelse cinque artisti per lanciare la Transavanguardia, oggi grandi star: Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria, Mimmo Paladino. Lei dava la linea?

«Ma no. Tutti operavano, e operano, nella loro assoluta libertà, rimettendo al centro del loro lavoro il genius loci, l’ identità. Ma, parafrasando Flaubert, la Transavanguardia c’ est moi. Il movimento ha avuto un successo mondiale con una grande espansione nel collezionismo europeo e americano».

bonito oliva visto dall'alto

Testa di Bonito Oliva

Soddisfazioni?

«La nomina a Grand’ Ufficiale della Repubblica e dei cinque artisti a Commendatori da parte del presidente Giorgio Napolitano dopo la mostra retrospettiva a palazzo Reale a Milano nel 2012 per il 150° anniversario dell’ unità d’ Italia. La consacrazione sul Colle più alto. Nel ’92 Mitterrand mi fece Chevalier des arts et des lettres e gli dissi, nella cerimonia: “Presidente, sono Cavaliere qui in Francia e pedone in Italia”. Per la verità, nel 2005 Carlo Azeglio Ciampi mi attribuì la medaglia d’ oro per la Cultura».

Lei fu il curatore della Biennale d’ arte di Venezia del 1993. La cita sempre

«I motivi ci sono. Era transnazionale, multidisciplinare: teatro, musica, arte, cinema. Nessun settorialismo. Organizzata in modo da sconfinare in tutta la città. Il visitatore la usava come una tv: cambiava canale. Nel senso che raggiungeva un’ altra parte di Venezia, tra i canali. Riuscii a esporre l’ avanguardia cinese oltre la Muraglia grazie al pragmatismo confuciano dell’ ambasciatore: professore, mi disse, vada da turista altrimenti le assegnano un interprete che la porta solo dagli artisti indicati dal ministero della Cultura.

Non ebbi problemi, portammo a Venezia opere e artisti, ai tempi era diverso, c’ era ancora Deng Xiaoping. Poi tolsi alla Serbia il padiglione della ex Jugoslavia. C’ era la guerra. Protestarono, ma organizzammo una mostra intitolata “Macchine della pace”. Poi il Leone d’ oro a Ernst Junger. E anche lì la sinistra ebbe da ridire. Ma Cacciari sfidò tutti: ne scrisse un appassionato elogio».

Ma un critico «è utile» alla società?

achille bonito oliva con francesco vezzoli

Bonito Oliva con Francesco Vezzoli

«Penso alla Metropolitana di Napoli, un progetto nato nel contesto del mio “Gli annali dell’ arte”. Ora chi prende la Metro a Napoli ha a disposizione 160 opere d’ arte con le stazioni firmate da archistar. Un matrimonio morganatico tra arte e architettura: perché l’ arte non è ornamento nell’ architettura ma è una struttura visiva nello spazio architettonico. Abbiamo creato il Museo Obbligatorio. Chi usa la metropolitana è “obbligato” a vedere arte e architettura contemporanee. I napoletani sono orgogliosi, ne hanno gran riguardo, non c’ è un solo segno di vandalismo: nemmeno uno Poi dicono di Napoli».

Lei è l’ unico critico presumibilmente del mondo ad essere apparso nudo per tre volte (1981, 1989, 2011) sulla copertina di «Frigidaire». Che voleva dire?

«Il critico messo a nudo dall’ arte. Non c’ era volontà di scandalizzare, me lo chiese anche Argan. Volevo dimostrare che il critico ha un corpo, anche culturale, che non deperisce. Ho un buon rapporto col mio corpo. E piaccio».

Ha avuto successo con le donne, nella vita?

«In questo senso sono un missionario. Perché viene da miss».

Tra trecento anni cosa vorrebbe che si scrivesse sulla sua tomba?

«Sono stato una spina nell’ occhio dell’ arte e della critica. Perché l’ occhio è l’ organo vitale sia dell’ arte che della critica».

Articolo di Paolo Conti per il Corriere della Sera

REPUBBLICHINE

REPUBBLICHINE

NUOVO ROMANZO DI GIAMPAOLO PANSA DEDICATO ALLE DONNE ARRUOLATE NELLE BRIGATE DELLA R.S.I. E SOPRAVVISSUTE ALLA GUERRA- “Vennero rapate, picchiate, stuprate ed esibite come trofei per aver scelto la parte sbagliata della storia o per la sola colpa di essere fidanzate di soldati fascisti.

Ai lettori il primo e il terzo capitolo del nuovo libro di Giampaolo Pansa, La repubblichina (Rizzoli, 240 pagine, 20 euro), da poco in libreria.

 

GIAMPAOLO PANSA LA REPUBBLICHINAÈ stata la pipì ad avvisarmi che era tutto vero e non si trattava soltanto di un incubo. Di solito non mi scappava mai, il mio sistema idraulico, lo chiamerò così, era robusto e molto giovane. Del resto, avevo appena ventuno anni e mi ero sempre curata di fare molta attività fisica. Ma alla fine di aprile del 1945 non fui capace di trattenerla, la maledetta pipì. Mi inondò le mutandine e poi iniziò a scendere lungo le gambe. E quella sensazione calda, di bagnato che mi sporcava, è rimasta incancellabile per un tempo infinito.

Della faccenda si accorse subito il partigiano incaricato di raparmi. Ringhiò: «Vedo che hai paura, troia fascista.

Te la sei fatta addosso, come se tu fossi una vecchia puttana rimasta al servizio di Mussolini. Ma non devi temere nulla. Non ci metterò molto a tagliarti i capelli. E poi, vedo che li hai corti. Invece le altre fasciste sul palco insieme a te hanno delle capigliature da dive del cinema. Con loro l’ affare sarà più complicato e mi prenderò delle belle soddisfazioni!». Fu allora che mi resi conto di stare in piazza del Cavallo, nel centro della mia città, Casale Monferrato.

Insieme ad altre sette donne, mi avevano spinta su una specie di palcoscenico costruito alla buona: quattro assi di legno e quattro cavalletti che reggevano a fatica i nostri corpi. E la folla raccolta intorno era lì per godersi lo spettacolo della nostra punizione.

Un pensiero mi colpì. Duro come uno schiaffo in piena faccia. Quante madri e quanti padri dei miei alunni mi stavano guardando? Come avrei potuto tornare a scuola e riprendere a insegnare dopo quello che mi stavano facendo? E così, mentre ai miei piedi si era formata una piccola pozzanghera di pipì, anche i miei occhi si inondarono di lacrime.

PUBBLICO SUPPLIZIO

giampaolo pansa

Giampaolo Pansa, giornalista e scrittore. La sua opera è un vero e proprio controcanto all’epopea resistenziale

Era il 2 maggio 1945, il fascismo repubblicano aveva perso la guerra, Mussolini era stato assassinato, in compagnia della sua morosa, la Claretta Petacci. I gerarchi più importanti, a cominciare dal segretario del partito, Alessandro Pavolini, li avevano fucilati tutti insieme nei dintorni di Como. Adesso era venuto il momento di rifarsi sui repubblichini senza importanza e soprattutto sulle repubblichine come la sottoscritta. Il partigiano che doveva raparmi fu di parola e non ci mise molto.

Lavorava con un rasoio vecchio come il cucco e con una macchinetta per tosare le pecore. Non era di certo un barbiere professionale. Mi procurò sulla nuca qualche ferita che iniziò a sanguinare. Fu il sangue, insieme alle lacrime e alla pipì, a obbligarmi ad aprire gli occhi. La tosatura era la mia punizione. E questo solo fatto doveva consolarmi. Parecchi dei miei camerati li avevano condotti sulla riva del Po rinchiusi in gabbioni di legno. E lì erano stati uccisi uno dopo l’ altro con colpi di rivoltella alla nuca. Dunque potevo ritenermi fortunata.

Mentre vedevo cadere sulle assi sconnesse del palco le ciocche dei miei capelli, mi domandai: «Perché sono qui? Che cosa ho fatto per meritarmi questa punizione e le urla rabbiose della gente che gode nell’ assistere al nostro supplizio?». In fondo, ero soltanto una maestra elementare, con l’ unica colpa di aver preso la tessera del Partito fascista repubblicano, un obbligo per poter avere una supplenza in qualche scuola di periferia e iniziare a insegnare.

repubblichini

Repubblichini in azione di rastrellamento  fra le montagne

Io, Teresa Bianchi, detta Tere, classe 1924, una ragazza di appena ventuno anni, non avevo mai combattuto per la Repubblica sociale. Mi ero limitata a fare il mio dovere di maestra elementare. E quando il nuovo regime di Mussolini stava per crollare sotto l’ avanzata degli americani e degli inglesi, avevo deciso di nascondermi. Dunque non avrei dovuto essere messa in prigione e poi su quel palco.

Ma adesso c’ ero e non potevo sfuggire al castigo deciso dai vincitori.

Prima di venire rapata, mi era rimasto il tempo di dare un’ occhiata alla folla che circondava l’ impalcatura del nostro supplizio. E riconobbi qualcuno dei tanti che inveivano contro di noi. In gran parte erano maschi non più giovanissimi, quarantenni o cinquantenni. Vidi un giocatore professionale di bocce che frequentava il dopolavoro dell’ Eternit ed era sempre stato un fascista convinto.

Accanto a lui stava un portalettere delle Poste centrali, un altro tifoso di Mussolini.

Infine una sarta al di là dei quaranta, con la fama di essere una lesbica senza pudore.

Aveva tentato di mettere le mani addosso anche a me.

Spasimava di avermi nel suo letto. Una volta mi aveva fermata proprio in piazza del Cavallo. Per dirmi, senza ritegno: «Tere, bella gioia, perché non provi il piacere di coricarti con un’ altra femmina?».

FALSE ACCUSE

Nel frattempo, il partigiano tosatore concluse il suo lavoro, tra le urla di giubilo di chi apprezzava lo spettacolo.

repubblica sociale musaChiesi a me stessa come mi sentivo. Ma a parte la pipì e il bruciore delle ferite sulla testa, non sentivo niente. Non provavo paura perché sapevo di non aver fatto nulla che comportasse la pena di morte. Anzi, mi scoprivo calma e pensavo: «Prima o poi i tuoi capelli cresceranno di nuovo e sarai la bella ragazza di sempre». Uno dei vantaggi di avere ventuno anni è proprio questo. Finalmente lo spettacolo terminò. E noi, donnacce del fascio, ci riportarono al carcere di via Leardi.

Era una prigione che dall’ esterno conoscevo bene. Durante l’ anno scolastico, ci passavo di fronte tutte le mattine quando a piedi raggiungevo l’ istituto delle magistrali, che stava in piazza Battisti. E non mi ero mai domandata come fosse all’ interno, nello spazio riservato ai detenuti. In città esisteva un altro carcere, il Solaro, vicino al Po. Il Leardi era destinato a chi era in attesa di essere processato. L’ altro a chi era già stato condannato. Perché mi trovavo rinchiusa in cella?

Me lo domandavo fin dal primo momento, poiché io ero stata soltanto una spettatrice della guerra civile. Invece, verso la fine di quel conflitto orrendo, ero stata indicata alla polizia partigiana di Milano, dove mi trovavo per motivi privati, come una terrorista nera. Era un’ accusa falsa, e più avanti lo dimostrerò. Chi mi aveva denunciata era un comunista della mia città.

partigiani con giuseppina ghersi stuprata e uccisa perche accusata di essere repubblichina

Giuseppina Ghersi, repubblichina, torturata e uccisa dai partigiani

Di lui sapevo soltanto questo. Però mi ero ripromessa di scoprire il suo nome, non appena la guerra tra italiani si fosse conclusa per davvero. Eppure questa accusa infondata mi aveva fatto trasferire da Milano a Casale, nella prigione di via Leardi. Quella era la mia residenza e lì dovevo essere condotta. C’ ero arrivata il pomeriggio del 29 aprile, dopo un viaggio durato ore tra uno scenario di rovine. Strade sconvolte e quasi impercorribili. Macerie dovunque. Il ponte pedonale sul Po ridotto a un moncherino dai tanti bombardamenti aerei americani. Uno spettacolo deprimente. Infine la mia città, che mi appariva in miseria.

Il carcere di via Leardi era stracolmo di fascisti detenuti, in gran parte maschi. Tuttavia le femmine non erano poche. Una sezione, di appena tre celle, risultava zeppa di donne di ogni età. Si andava dalle sessantenni alle ventenni come me. La sporcizia dominava. Esisteva una sola doccia riservata a noi femmine e spesso non funzionava oppure distribuiva soltanto acqua fredda.

Dormivamo in sei per ogni cella, su letti a castello con materassi consumati e ridotti a pagliericci unti e bisunti. Le liti erano continue. E non c’ era nessuna solidarietà politica. Eppure eravamo tutte fasciste. E quasi tutte appartenute a qualche formazione militare della Repubblica sociale. Io ero l’ unica a non aver mai abbandonato una divisa. Per questo motivo venni subito odiata dalle altre donne incarcerate.

mussolini repubblica di saloNon mi credevano quando spiegavo di essere una maestra elementare. Mi davano della bugiarda. Dicevano: «Non puoi essere soltanto un’ insegnante. Forse era una copertura per qualche ruolo nascosto nei servizi segreti del fascio repubblicano».

Poi la tosatura in piazza del Cavallo ci rese più solidali. Il ritorno nelle celle abolì ogni differenza tra di noi.

Compresi sino in fondo che la guerra civile era stata una trappola per le nostre esistenze così diverse. Si andava dalla vedova di un ufficiale delle Brigate nere ucciso dai partigiani a una maliarda che era stata l’ amante di un maggiore tedesco, alla redattrice del settimanale repubblicano della città. Infine a una quarantenne che aveva fatto il doppio gioco a vantaggio del fascio e si era infilata nel letto di qualche comandante partigiano troppo incauto.

Una settimana dopo ci lasciarono andare e ritornammo in libertà. Per nascondere le teste rapate chiedemmo degli stracci. Il mio puzzava di muffa, ma non esisteva di meglio. Dunque ritornai a casa, dove mi aspettavano papà e mamma, con il cranio coperto da quella pezza di stoffa sporca. Mi lavai la testa non so dire quante volte, mescolando il sangue raggrumato con tanto sapone. Guardandomi allo specchio, vidi qualche ciuffo di capelli qua e là. E obbligai mia madre a tagliarli. Poi mi difesi con un grande fazzoletto come se fosse un turbante. E mi stesi sul letto cercando di dormire. Mi rividi in piazza del Cavallo e venni assalita dai brividi, arrivavano in successione, come raffiche di mitraglia. Comunque la guerra era finita anche per me. […]
mussolini a saloTORTURE PSICOLOGICHE

Ero appena stata rapata quando, una volta superato lo choc per quella punizione crudele, cominciai a riflettere sulla passione che avevo nutrito per il fascismo. E mi resi conto che, dopo tante sconfitte e delusioni, la mia adesione al Duce era ancora intatta. Se i partigiani che mi avevano punita in quel modo barbaro pensavano che avrei cambiato bandiera, si sbagliavano di grosso. Rimanevo sempre una ragazza del fascio, senza pentimenti né incertezze. Soprattutto a proposito della figura di Benito Mussolini.

Nel carcere di via Leardi, il partigiano che ci faceva la guardia un giorno ci raccontò sghignazzando lo scempio terribile di piazzale Loreto.

Con il cadavere del Duce appeso per i piedi e accanto a lui il corpo di Claretta Petacci.

Sempre quell’ idiota ci tenne a informarci che Claretta non indossava le mutandine poiché, prima di essere uccisa, era stata violentata da uno dei suoi boia. Soltanto una donna sconosciuta aveva mostrato il coraggio di chiuderle la gonna con una spilla da balia, evitandole quell’ ultimo oltraggio. Nell’ ascoltare inorridita quello che era accaduto alla signorina Petacci, domandai a me stessa in che modo mi sarei comportata se qualche ribelle mi avesse stuprata. Mi accorsi di essere invasa dalla paura e dallo schifo. Poi mi risposi: «Tenterei di difendermi con qualsiasi mezzo.

Ma alla fine non mi resterebbe che lasciarlo fare, offrendogli un corpo inerte come un cadavere».

Però i miei pensieri erano rivolti soprattutto alla figura di Benito Mussolini da vivo.

Mi era sempre apparso un padre inafferrabile, ma generoso, in grado di dedicarsi a ciascuno di noi.

mussolini in visita ai reparti di saloNESSUN PENTIMENTO

Non ero una fanatica del Duce, anche se lo amavo come si poteva amare un genitore impossibile da avvicinare, ma comunque presente nella vita di tutti i fascisti. Tuttavia non appartenevo alla schiera delle donne che spasimavano di accoppiarsi con lui. Anche in una città piccola come la nostra, ne conoscevo parecchie, di ogni età e di condizioni sociali molto diverse l’ una dall’ altra. C’ era la quarantenne che dichiarava di essere pronta a fornicare con Mussolini e invidiava la Claretta Petacci.

 Una nostra vicina di casa mi aveva confessato: «Ho sentito raccontare che Benito è un maschio davvero potente. Quando una bella donna bussa al suo studio di piazza Venezia, lui la fa entrare e la prende sul tappeto che sta di fronte alla scrivania. Vorrei donarmi al Duce nello stesso modo!». Avevo osservato: «Ma tu non sei sposata? Mi risulta di sì. Dunque hai un marito, fatti prendere da lui!». La vicina di casa mi aveva replicato: «Vuoi paragonare l’ uccello del Duce a quello di un marito qualunque? Non se ne parla neppure!».

Una signora che le voci del cortile descrivevano frigida come un blocco di ghiaccio mi confessò: «I maschi qualsiasi non mi mandano in calore. Soltanto Benito farebbe questo miracolo!». Infine c’ erano delle adolescenti attratte sessualmente dal proprio padre e immaginavano di sostituirlo con il capo del fascismo. Una di loro mi disse: «Vorrei essere al posto di Edda Mussolini, la figlia del Duce. Ma non credo che scoperebbe con lui.

mussolini in visita ai reparti di salo

Salò, Mussolini in visita alle truppe

Donna Rachele, la moglie del grande Benito, non esiterebbe ad ammazzarla!».

Non appartenevo a questo tipo di donne. Il mio unico interesse era tutto rivolto alla patria in guerra. Avevo iniziato a seguirne le sorti nel 1940, all’ età di 16 anni. L’ Italia si era gettata nel conflitto mondiale nel giugno di quell’ anno. Mi resi conto di essere felice di questa decisione. Anche se ero rammaricata che il Duce arrivasse secondo dopo Hitler. La Germania nazista era in guerra sin dal 1939 e il 14 giugno 1940 aveva conquistato Parigi. Questo autorizzava i serpentelli ebrei a sostenere che il fascismo avesse accoltellato la Francia alla schiena.

L’ Italia di quell’ anno aveva visto grandi manifestazioni di consenso per l’ inizio del conflitto. Anch’ io ero andata in piazza, indossando la divisa di giovane italiana: camicia bianca e gonna nera. Mi consideravo molto elegante. Avevo una figura slanciata e un bel volto da ragazza ardente.

Tanto da suscitare l’ attenzione di parecchi maschi presenti in piazza Castello, ben più adulti di me. Qualcuno mi aveva rivolto delle proposte un tantino oscene. Ma li avevo spediti a casa dalle mogli.

Nel 1941 avevo compiuto 17 anni ed ero orgogliosa della supremazia dell’ Asse, l’ alleanza fra l’ Italia fascista e la Germania nazista. Mussolini e Hitler stavano vincendo su tutti i fronti. L’ aviazione tedesca aveva iniziato a bombardare l’ Inghilterra. La flotta aerea del Reich era la più potente in Europa. Lo riconosceva lo stesso governo britannico. Le grandi città inglesi non erano in grado di difendersi. Gli mancavano persino i rifugi antiaerei. E i civili erano costretti a ripararsi nelle gallerie della metropolitana.

STRAGE SILENZIOSA

Il 16 aprile 1941 ci fu un’ ennesima incursione su Londra. Più di cinquecento bombardieri tedeschi, suddivisi in otto ondate, colpirono per otto ore la capitale inglese e uccisero 2.000 civili. Nonostante la censura imposta dal governo di Mussolini, sapevamo tutto di tutti. Dai grandi quotidiani qualcosa trapelava sempre. Anche la radio di regime, la potente Eiar, ci faceva comprendere che cosa stesse avvenendo. Infine c’ era l’ ascolto di Radio Londra, parlo della sezione italiana.

Era proibito e comportava sanzioni pesanti. Ma erano in tanti quelli che non badavano al divieto. Inoltre devo ricordare i Film Luce, i notiziari trasmessi nei cinema. Anche loro erano una fonte indiretta di notizie. Non mostravano mai i cadaveri degli inglesi, ma offrivano un ritratto della guerra dove l’ Italia fascista appariva vittoriosa, insieme alla Germania di Hitler. Che cosa pensavo di tutti questi morti? Dicevo ai miei genitori: «È la guerra!».

Mio padre mi rimbeccava: «Prima o poi gli inglesi inizieranno a bombardare l’ Italia. Non pensi a questo rischio, Tere?». Io alzavo le spalle: «Se avverrà, resisteremo. Le guerre rafforzano le nazioni». E lo dissi di nuovo quando nel dicembre del 1941, dopo l’ attacco giapponese a Pearl Harbor, anche gli Stati Uniti affiancarono la Gran Bretagna. Mi sentivo rassicurata da quello che vedevo nei Film Luce, proiettati in tutte le sale. E non avevo nessun dubbio su chi avrebbe vinto quel duello mondiale.

Andavo di continuo al cinema e confesso che il film in programmazione mi interessava meno del Luce. Di solito gli spettatori lo consideravano un intervallo noioso. Invece a me piaceva. Non mi sembravano pellicole di propaganda, anzi le consideravo una testimonianza vera della nostra guerra. Mi esaltavo o mi intristivo a seconda di quanto raccontavano.

Un giorno mi domandai che decisione avrei preso se fossi stata un maschio e non una ragazza. Non ebbi nessuna incertezza. Mi sarei arruolato subito, in un reparto di volontari destinato al fronte. Quando lo confessai a mio padre, lui si rabbuiò: «Non avresti paura di morire o di restare mutilata?». Gli replicai: «Penso di no. Le guerre sono sempre pericolose. Ma se la patria ti chiama, non si deve fingere di essere sordi alla sua richiesta di aiuto!».

Nel 1942 festeggiai il diciottesimo compleanno. A distanza di un anno, sulla scena di questa seconda guerra mondiale stava cambiando quasi tutto. Cominciai a rendermi conto di una verità terribile: l’ Italia non avrebbe mai vinto la guerra. Lo compresi dalle difficoltà incontrate in Russia dal corpo di spedizione italiana: l’ Armir, 230.000 giovani destinati a una sconfitta sicura all’ inizio del 1943. E tutto mi fu chiaro leggendo sul settimanale cittadino i necrologi dei tanti militari caduti su troppi fronti. Il giornale usciva il venerdì. I miei genitori non dimenticavano mai di acquistarlo.

Era un foglio povero, quattro pagine stampate su carta autarchica. Grigio, di un grigiore imposto dalla propaganda del regime e dalla censura di guerra. Compilato da sedicenti giornalisti che, in realtà, mi apparivano dei pigri scritturali agli ordini del fascio locale. Costoro mettevano insieme una serie di articoli che agli occhi di una ragazza fascista come ero io non valevano nulla: reticenti o bugiardi. Le loro cronache erano come specchi oscurati dalle menzogne o dai silenzi.

donne fasciste repubblichineE dunque non riflettevano quasi nulla della vita di Casale e del Monferrato e degli esseri umani che vi abitavano.

Tranne quello che appariva in una sola pagina, dalle colonne riservate agli annunci funebri. Con i nomi, i volti e le storie dei caduti in guerra.

Avevo sentito dire che il regime intendeva vietare la pubblicazione di questi necrologi, merce proibita poiché rivelavano la verità sull’ Italia alle prese con un conflitto durissimo. Ma nessuna dittatura era perfetta, almeno in casa nostra.

Mio padre mi pregava di leggerli ad alta voce. Ecco la fine del colonnello comandante del Sesto Alpini, caduto sul fronte russo. Ecco il tenente medico di complemento del Primo Battaglione Guastatori, morto nel Mediterraneo, lo annunciano la moglie Elena con la piccola Carla.

Mio padre chiedeva: «Ma non era il medico condotto del paese dove sta la zia Angiolina? Un bravo dottore, simpatico e buono». Morto anche il maestro elementare della scuola rurale di Pontestura, caduto in Africa settentrionale. Morti undici soldati di un battaglione di Camicie nere, giovanotti dei paesi del Monferrato, ammazzati sul fronte greco albanese. E poi il ragazzo che lavorava nel primo garage della città, scomparso dentro un sommergibile al largo di Gibilterra. E ancora il figlio, il nipote, il fratello, il moroso di altre donne di Casale e del Monferrato.

donne durante la seconda guerra mondialeTutti presenti alle bandiere, tutti presenti nei ranghi, nomi buoni soltanto per la giornata degli eroi. Morti. Troppi morti. Sempre più morti. Destinati a decomporsi in terra e in polvere, in qualche parte del mondo, dove Mussolini aveva deciso che andassero a morire. In questo modo cominciai a schiarirmi le idee. Divennero del tutto chiare quando giunse il tempo delle privazioni. Iniziò a scarseggiare la gomma, non soltanto per le ruote delle automobili, ma anche per quelle delle biciclette. Poi toccò alla benzina, alla carta, compresa quella igienica. I quotidiani e i settimanali ridussero le pagine.

Sparirono i liquori, con un’ unica eccezione: il vino. Il tabacco per le sigarette diventò sempre più raro. Lo stesso il cuoio per le scarpe e la stoffa per gli abiti. Il caffè fu sostituito dall’ orzo. E il tesseramento annonario divenne sempre più rigido. Con l’ esplosione del mercato nero.

Ma in tutto questo bordello, io avevo un solo obiettivo: arrivare al diploma magistrale. Lo conquistai nel luglio del 1943, all’ età di diciannove anni. Mentre gli angloamericani sbarcavano in Sicilia. Un evento decisivo per la storia d’ Italia. Però nulla poteva distrarmi. Mi sentivo felice di essere diventata una maestra. E quasi non mi accorsi che nel frattempo l’ Italia, la nostra patria, era stata invasa dalle truppe del nemico.

 

Estratti dal libro di Giampaolo Pansa, ”la Repubblichina” (Rizzoli) pubblicati da ”la Verità

 

https://www.youtube.com/watch?v=xlwqpKfBqpA

SE CI SEI BATTI UN COLPO

SE CI SEI BATTI UN COLPO

 

Arrivano nella vita dei momenti in cui le situazioni più ingarbugliate possono essere risolte con poche, calibrate decisioni. Così è anche in politica, se si intende per politica la sintesi creativa dei bisogni collettivi. COSI’ LA PENSA GEPPETTO

 

Il problema dei migranti e la crisi della UE sono i temi emergenti che ci porteremo verosibilmente irrisolti fino alle importanti elezioni europee del 2019. Allora, essi saranno ulteriormente aggravati, o percepiti tali, e coloro che hanno interesse a ingigantire i problemi e a seminare paura faranno cappotto. Intanto i vertici europei si susseguono, ma i problemi lì rimangono, e il dialogo è fra sordi, quando non trascende in dileggi livorosi o accuse reciproche.

Eppure basterebbe dare attuazione a tre azioni strategiche, pure prospettate, per ridare fiato ai movimenti in favore dell’Europa e contenere le spinte nazionaliste e populiste.

  • FRONTIERA EUROPA– Juncker, presidente della Commissione europea, ha proposto la costituzione di una vera e propria polizia di frontiera, forte di 10 mila agenti. Nei fatti si tratterebbe del superamento dello sciagurato accordo di Dublino (Berlusconi premier). Peccato che non esiste un limes europeo, ma solo quello degli Stati aderenti. Conservando gli Stati aderenti le proprie frontiere abbiamo impedito la nascita di una sola frontiera U.E., diversamente che negli USA. La proposta Junker sarebbe, comunque, un primo passo verso la nascita giuridica di una frontiera europea, finalmente sicura, fatto questo dalla forte valenza psicologica e politica.  Inoltre, l’indebolimento dei confini nazionali avrebbe come conseguenza inevitabile quella di considerare altrettanto inattuali e perniciosi i “confini” economici e fiscali che hanno differenziato gli Stati U.E. Una bella risposta contro le spinte disgregatici di coloro che pensano che i singoli Stati, nella globalizzazione, possano fare da soli. O per rivedere regole come quella (tanto per dirne una) che permette a Dublino (legittimamente) di tassare Facebook, Google e compagnia bella all’1%. O ai paesi di Visegrad di continuare a lucrare fondi comunitari e a voltare la testa dall’altra parte quando si tratta di dividere i sacrifici o di esigere il rispetto sostanziale delle regole democratiche.
  • MONEY– Il bilancio federale Usa è circa il 25% del Pil americano, quello della UE l’1%, ciò rende ininfluente l’apporto dell’Europa ai piani di sviluppo e ammodernamento, senza i quali il vecchio continente sarà destinato a contare poco o niente. Un esempio dall’assenza dell’Europa è il Medio Oriente e l’Africa, due aree strategiche nel lungo periodo. Non solo siamo esclusi da ogni possibilità diplomatica di risoluzione dei conflitti, ma rischiamo di non essere nemmeno più partner economici: la Cina ha investito 60 miliardi e altrettanti ne ha preannunciati, l’U.E. solamente 3,5, una miseria.
  • PIU’ EUROPA– La signora Merkel vuole chiudere in bellezza la sua lunga e prestigiosa carriera politica? Se la risposta fosse affermativa non le resterebbe che assumere la presidenza della Commissione europea e da lì cambiare radicalmente questa Europa asfittica, evanescente e incompiuta. La sua guida vorrebbe dire che la Germania finalmente si assume responsabilità e direzione della U.E. nel ruolo storico che sola può svolgere, in linea con gli ideali di Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, per rimanere in Germania. Vorrà farlo? Magari proponendo una Costituzione europea dove le libertà fondamentali, le istituzioni, l’economia, le finanze, il lavoro, la politica estera, ecc. possano essere solennemente codificate e condivise, chi ci sta ci sta? Si può, anzi si deve, trasformare un mercato in una patria comune! Avrà il coraggio e la statura, anche etica, per farlo?  Sarebbe una ventata di novità e una carica di energia per i sostenitori della vera integrazione del Continente e una scoppola sonora ai tanti scomposti, ma non meno esiziali, antieuropeisti e populisti. Magari, visto che di elezioni europee si tratta, i partiti che voglio più Europa potrebbero affiancare al proprio simbolo un simbolo comune.    

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