da ninconanco | Ott 29, 2018 | Attualità, Attualità, Costume, Le parole degli altri
Marina Terragni
Ieri a Piazza Pulita si è parlato di Desirée. O meglio si è parlato di quasi tutto –degrado urbano, mercato della droga, quartiere San Lorenzo diviso tra salviniani e non salviniani, inerzia delle forze dell’ordine, quantum della manovra economica sul tema sicurezza, probabile imminente campagna elettorale per il sindaco di Roma- tranne che di Desirée.
Per “parlare di Desirée” non intendo parlare della sua famiglia disfunzionale, del fatto che venisse bullizzata a scuola per un suo lieve difetto fisico, della sua eventuale tossicodipendenza o che le stesse capitando o meno di prostituirsi in cambio di un po’ di pasticche, fatto eventualmente non sorprendente.
“Parlare di Desirée”, così come “parlare di Pamela”, o di Jessica ammazzata a Milano dall’uomo che le dava ospitalità, o di tante altre, significa parlare di ragazze martiri –nel senso etimologico di “testimoni”- della sessualità maschile violenta, dello stupro come dispositivo del dominio.
Le vittime di femminicidio sono sempre donne che hanno fatto una mossa di libertà: che si sottraggono a relazioni malate, che disubbidiscono, che non si fanno tutelare da un maschio-padrone, che non si chiudono in casa quando fa buio, o che semplicemente si fidano di uomini e non accettano la parte della preda.
Probabilmente Desirée si è fidata dei suoi aguzzini. E gli aguzzini hanno preso questa bambina senza padrone e l’hanno ridotta a cosa morta. Lo stupro è assassinio simbolico, è downgrade di una donna viva verso il non-umano. Qui all’assassinio simbolico è seguito l’assassinio reale, in una sequenza ancora non chiarita. Ma di che cosa si tratti è già chiarissimo: di violenza maschile, funzione del dominio. Su questo non servono ulteriori indagini.
Su un’altra cosa va detta la verità (oggi dire la verità contro ogni tentazione di correctness, come insegna il #metoo, è precisamente la cosa che abbiamo da fare): l’immigrazione sregolata comporta dei costi, e uno dei costi che vanno nominati è un carico ulteriore di rischio e di violenza per le donne.
Se è vero che il più della violenza avviene nell’ambito delle relazioni familiari, è vero anche che (dati Istat) in Italia il 40 per cento degli stupri viene commesso dall’8 per cento della popolazione, i cosiddetti “stranieri”, e questo è un fatto su cui ragionare.
In Svezia –nazione europea con il più alto tasso di violenza maschile- il 95,6 per cento degli stupri commessi tra il 2012 e il 2017 è stato a opera di stranieri, così come il 90 per cento delle violenze di gruppo.Gli autori degli stupri provengono prevalentemente dal Medio Oriente, dai paesi africani e dall’Afghanistan (studio Jonasson-Sanandaji-Springare). Nel dicembre 2017 a Malmö le donne sono scese in piazza protestare contro l’ondata di violenze. Il primo ministro svedese e leader del socialdemocratici Stefan Löfven ha parlato di un “grande problema di democrazia” per il Paese e di un “doppio tradimento” nei confronti delle donne.
Uno stupro è uno stupro è uno stupro, certo, chiunque lo commetta. Ma qui ci sono degli stupri in più. Qualunque discorso di accoglienza deve tenerne conto. Indire un corteo che rappresenta la San Lorenzo “solidale” mentre quella bambina attende ancora di essere sepolta non è una grande idea, soprattutto da un punto di vista femminista. Qualcuno potrebbe intendere che quella solidarietà è destinata ai clandestini spacciatori o ai mafiosi nigeriani (in prima linea anche nella tratta delle prostituite), e il malinteso procurerebbe solo altri problemi.
Il femminismo non è ancella della destra, ma nemmeno della sinistra, soprattutto di una sinistra confusa e distopica.
L’occasione casomai andrebbe colta per una riflessione sulla differenza sessuale nella migrazione e nell’accoglienza.
Secondo uno studio della scienziata politica Valerie Hudson l’Unione europea sta accogliendo un numero sempre più alto di giovani maschi: il 73 per cento dei richiedenti asilo è composto da uomini. Circa l’87 per cento degli immigrati arrivati in Italia sono maschi di età compresa tra 18 e 34 anni, e quasi tutti sono arrivati da soli. Trend confermato dagli ultimi dati disponibili (Ministero dell’Interno): nel dicembre 2017 sono sbarcati 2.327 migranti, dei quali solo 255 donne; a gennaio 2018, su un totale di 4189 sbarcati le donne erano 600. In generale l’80-90 per cento dei crimini — con lievi differenze da Paese a Paese — è commesso da uomini giovani adulti. Favorire l’accoglienza delle donne comporterebbe molti vantaggi: per loro, anzitutto, ma anche per le comunità ospitanti, a cominciare dalle donne.
Un buon lavoro femminista potrebbe essere proprio questo: lavorare perché le donne migranti -profughe e migranti economiche- godano di una corsia preferenziale. Chiedere che si tenga conto della differenza sessuale nelle politiche di accoglienza e di integrazione.
Quelle donne fuggono da guerre che non hanno dichiarato, da situazioni economiche e politiche che non governano, sono spesso oggetto di violenza sessuale, di sfruttamento e di tratta. In cambio dell’accoglienza portano in dono tutto il loro desiderio intatto di libertà e di un mondo più giusto.
Differenza sessuale nell’accoglienza! Lo dobbiamo anche a Desirée.
Articolo di Marina Terragni, apparso sul suo blog (qui). Milanese, anima vagante, femminista, madre, giornalista, scrittrice (tra gli altri: “Vergine e piena di grazia”, “La scomparsa delle donne”, “Un gioco da ragazze”, e il recentissimo “Temporary Mother – Utero in affitto e mercato dei figli”). Tra le prime blogger italiane: il blog MaschileFemminile ora è diventato FemminileMaschile. Così-scrive- per rimettere le cose al loro posto.
da ninconanco | Ott 27, 2018 | Accademia, Letteratura, Racconti, Storie, Teatro e cinema
Impermeabile chiaro, cappello floscio a larghe tese, sigaretta all’angolo della bocca, volto corrucciato e l’inconfondibile sorriso a denti stretti, reso singolare dalla cicatrice sul labbro. Era lui o non era lui? Sam Spade in Italia, oggi?
Era appena sceso dalla chevrolet che silenziosamente si era fermata sulla piazza, lucida come appena uscita di fabbrica. Imbruniva, ma l’aria era ancora tiepida, nella festosa confusione dei turisti nessuno sembrava badargli. Fatti pochi passi e quasi di soppiatto si era infilato nella libreria internazionale, dove si era seduto nell’angolo bar, ordinando un whisky. Le braccia conserte, quasi a trattenere l’impermeabile chiaro, la fronte scoperta, ancora con il segno del cappello. Aveva conservato i capelli neri, solo la stempiatura era più profonda, cosa che gli dava maggiore autorevolezza.
Mi fermai davanti a lui: “ma lei è Sam Spade?.. Sì insomma Humphrey….” e lasciai la frase sospesa.
Mi guardò inespressivo, poi con un sorriso amaro dei suoi mi fa: “ma sì…, si metta seduto, è un giornalista?”
“No, un ammiratore, semmai.”
Una splendida Rita Hayworth
“Cosa vuole?” Si era fatto guardingo.
“Trovo strano, insolito che lei.. Qui a Roma non era mai venuto, neanche nei tempi migliori.”
“Sono qui per Mastorna, quell’idea che frulla in testa a Fellini…è stanco di Mastroianni.” La voce ha un velo di noia, poi riprende: “Audrey Hepburn ha insistito tanto, ama Fellini e l’Italia la donnina.”
“Questa è una notizia, ma per quale ruolo? Un duro come lei.”
Federico Fellini con Giulietta Masina
Sogghigna, aspira la sigaretta, poi beve un sorso. Indugia socchiudendo gli occhi.
“Un pilota d’aereo”-dice- “ma non conosco i particolari. So che precipita. Nemmeno una pagina di copione mi ha fatto vedere. Tutto qui? -gli domando- e lui, guardandomi con i suoi occhioni da bovino mansueto: no, tutto qui-mi risponde- toccandosi la fronte”.
“Non si è trovato bene con Fellini, mi pare.”
“Roma non mi piace, troppo caotica, preferisco Holmby Hills….Fellini è un grande regista, ma visionario “e improvvisatore, sarà difficile lavorare con lui.”
“Certo, che per voi, abituati con le Major, e la Warner cosa dice?”
“Ho la mia casa, oramai, la Santana Productions, faccio da me.”
Una lunga pausa, come cercando le parole: “invece mi è piaciuta Marina, la moglie..”
“Masina, ….Giulietta Masina, mister Bogart.”
“Ah, sì, Masina. Donna interessante, intensa….” Vuotò il bicchiere d’un sorso e con un cenno ne ordinò un altro. Ma lei non beve- mi guardò sorpreso- “prenda, prenda !..”
Poi riprese: “certo che lui sembra uscito da un rotocalco, … la chiamava con quella… in a cracked voice, come si dice in italiano..?”
“Non so, stridula, forse?”
Qui Bogart si animò per mimare la scena: “peperino piccolo piccolo, solo tu mi fai ridere. Per te sono pronto a fare le capriole… me lo immagino, così grosso com’è”. Preso il bicchiere Bogart ne bevve un lungo sorso, si asciugo le labbra, schioccando la lingua. Da vicino, sul suo naso trasparivano delle venuzze, un ricamo dell’età che il cerone avrebbe nascosto, mentre le borse attorno agli occhi calzavano col personaggio.
Con un tono di confidenza, mi feci più sotto: a proposito, “come andò in Congo, mentre girava La regina d’Africa? Veramente la troupe fu abbattuta dalla dissenteria, esclusi lei e Huston?”
Bogart scoppia in una risata che fa tintinnare il bicchiere oramai vuoto:”un mare di merda, per giorni, il set era ridotto ad una latrina. Ma il peggio venne quando il battello affondò nel fiume. Mi dissi che anche il film sarebbe affondato. E invece ebbi l’Oscar, soffiandolo a Brando…. Bei tempi!”
Nel portacenere contavo 7 mozziconi di sigarette. L’angolo bar era immerso in una nebbia sospesa a mezz’aria. Ogni tanto qualche colpo di tosse stizzosa scuoteva Bogart che, nonostante l’ ampio soprabito, appariva magro, di piccola statura, quasi rattrappito. Quell’uomo mandava dagli occhi lampi di stanco scetticismo, lì stava il suo fascino, e poi in quella delicatezza dell’ovale del viso allungato, insospettata per i sui modi da duro.
Mentre lo osservavo mi sembrò ripetesse come un ritornello, a mezza voce, qualcosa come “voglio tornare domani a Holmby Hills…. voglio tornare….”
Poi si alzò di scatto: “dovè il w.c.?”
Glielo indicai e si avviò col solito passo furtivo.
Avevo un sacco di cose da chiedergli ancora.
Ma non tornò, né lo vidi più. Volatilizzato, come in un sogno.
Sulla sedia era rimasto il suo cappello floscio, marca Stetson, 1940, il nome Humphrey inciso a fuoco sulla striscia di cuoio interna, che conservo ancora come una reliquia.
da ninconanco | Ott 25, 2018 | Accademia, Attualità, Le parole degli altri, Letteratura, Romanzi, Storie
JAMES SALTER: NASCOSTO DIETRO LE PAROLE ALLA RICERCA DI SE STESSO-ESCE BRUCIARE I GIORNI, ROMANZO TESTAMENTO DELLO SCRITTORE AMERICANO DI POCHI MAGISTRALI LIBRI
«Un romanzo che è in una certa misura, la storia di una vita: così il grande scrittore americano James Salter ha definito il suo Bruciare i giorni (in uscita per Guanda nella traduzione di Katia Bagnoli, pagg. 416, euro 20). Amato da Philip Roth, considerato un maestro da Richard Ford, elogiato da Julian Barnes, James Salter, morto a novant’ anni nel Giugno del 2015, ci consegna delle pagine di rara poesia. Negli Stati Uniti c’ è chi considera Bruciare i giorni come un memoir, chi una raccolta di racconti accomunati da una sola voce narrativa, chi il testamento di un uomo che ha cavalcato i cieli del 900 allo stesso modo in cui ha pilotato gli aerei da caccia nella Guerra di Corea.
In realtà Salter ci racconta così tante vite che ad ogni pagina si è presi dallo stupore: non soltanto perché, come ha scritto John Irving «ogni frase è intima e discreta» ma perché scopriamo tanti volti sconosciuti dello scrittore americano: flaneur impenitente, che si sposta tra New York, Parigi e Roma, sceneggiatore teatrale e cinematografico, uno scrittore sempre in forse circa la propria arte. Tra queste pagine leggiamo i ricordi di una vita non comune: dal college, dove frequenta Jack Kerouac e Julian Becq, sino alla leggendaria West Point (accademia militare che «non formava il carattere, lo esaltava»), la vita da ufficiale e la guerra («per molti anni ebbi incubi realistici come materiali cinematografici d’ archivio»). Poi la Parigi degli anni ’50, «questa Parigi in cui ti svegliavi ammaccato dopo notti straordinarie, nottate indelebili, le tasche vuote, le ultime banconote sparse per il pavimento, e così i ricordi».
Diventa amico dello scrittore e drammaturgo Irvin Shaw («ci sono degli uomini che sembrano essersi impadroniti del tronco della vita, e lui era uno di questi»). Poi la Roma di Laura Betti, di Pasolini, di Moravia, di Fellini, di Zavattini («lo sceneggiatore più importante del Dopoguerra ma che era scoraggiato quando ripeteva sempre che il cinema aveva fallito»). Una Roma che Salter descrive come «una città di una decrepitezza senza pari, una città corrotta, fiorente nei secoli: niente che fosse stato così spesso tradito poteva conservare un briciolo di illusione».
Poi l’ incontro con Robert Redford, al quale Salter aveva proposto di interpretare una sceneggiatura, che lo presenta a Polanski. Un Polanski già raccontato mille volte, ma che Salter riesce a descrivere nel «dramma della monotonia di essere sempre e solo se stesso». Perché Salter è capace di andare oltre il (pre)giudizio perché, come scrive, «i poeti, gli scrittori, i saggi e le voci del loro tempo, formano un coro e l’ inno che condividono è lo stesso: grande e piccolo sono uniti, il bello vive, il resto muore, e niente ha senso a parte l’ amore e quel poco che il cuore conosce».
Testo di James Salter pubblicato da il Giornale
A Santa Monica ricordo, sotto la scogliera delimitata dalle palme, la breve schiera di case sulla spiaggia fra le quali ce n’ era una più grande, la riproduzione di una fattoria della Normandia, che era stata presa in affitto da Roman Polanski e Sharon Tate, la sua giovane moglie.
Avevo conosciuto Polanski tramite Robert Redford.
A poco più di trent’ anni, ma sembrava più giovane, Polanski era già famoso. Aveva una macchina piccola e veloce con un telefono allora una cosa innovativa , un grande appartamento e un’ aria di libertà dalla monotonia di essere sempre e solo se stesso. Con orgoglio, ma frettolosamente, mi mostrò le fotografie di Sharon, che non aveva ancora sposato. In lui c’ era qualcosa che attraeva e allo stesso tempo metteva in guardia; il suo sguardo sembrava sfiorare tante cose. Al di là dell’ astuzia e del candore, dava la strana impressione di non giocare mai sul serio, come se fosse sicuro che a un certo punto avrebbe incassato le fiches.
Era sopravvissuto, da bambino, all’ orrore del massacro e della guerra. Aveva visto una colonna di uomini portati via dal ghetto di Cracovia, condannati, suo padre tra loro, ed era corso al suo fianco come un vitello perché voleva seguirli. Suo padre prima lo ignorò e alla fine borbottò minaccioso: «Sparisci». Il bambino di dieci anni si fermò, ferito, e rimase a guardarli mentre lo abbandonavano alla vita, anche se, cosa sorprendente, sopravvisse anche il padre.
C’ era un prezzo da pagare per essere sfuggiti miracolosamente al genocidio e per la vita felice che seguì?
Non persi mai l’ ammirazione che avevo per la sua energia e il suo fascino, un fascino non acquisito, che scaturiva da una sorgente profonda, in aggiunta alla sua capacità di comandare. Non potevo immaginarlo incapace di rispondere a una domanda o di pensare in fretta. Aveva un istinto per le cose viscerali; nelle sue mani anche il materiale più comune diventava interessante.
In quanto a Sharon Tate, resta per me una specie di Era, l’ emblema del matrimonio. Pur non essendo una brava donna di casa, aveva il cuore puro e un corpo che era poesia. Si aveva la sensazione di poterne godere in tutti i modi in cui un uomo può godere di una donna, guardandola, parlandole, toccandola, e altro. Un anno dopo li vidi a Cannes, insieme, per l’ ultima volta. Lui faceva il giurato al Festival. Indossava uno smoking e una camicia bianca pieghettata. Lei aveva un impareggiabile abito da sera. Li aspettavamo in campagna per pranzo, ma non arrivarono mai.
Quando una notte, a Los Angeles, Sharon Tate fu uccisa insieme ad altre quattro persone senza alcun motivo, ci fu, in aggiunta all’ orrore e al disgusto, la vergogna. L’ America aveva massacrato una delle sue figlie innocenti. Era incomprensibile, Dio non lo consentiva. Forse Polanski, che in quel periodo era in Europa, aveva esagerato, aveva raggiunto una felicità troppo grande, e gli era stata tolta. Era morto anche il figlio non ancora nato; il karma paterno non sarebbe stato trasmesso. Per lui provavo la pena che si può provare per i re. La sua forza sfidava il dolore.
Pensavo alla camera da letto a Santa Monica. Era spaziosa, al secondo piano, di fronte al mare. Mi ero messo in un angolo. Il sole bruciava il pavimento. Il grande letto in cui Sharon e Roman avevano dormito era disfatto, le lenzuola spiegazzate, i cuscini in disordine. Nei cassetti della cabina armadio c’ erano finestrelle di vetro che consentivano di vedere in ognuno il colore delle camicie. Nel bellissimo bagno c’ erano dei disegni di Matisse.
Tra le cartine stradali, i biglietti da visita, i vecchi indirizzi il mondo perduto mai riordinato c’ è, lo so, una fotografia: il regista brillante, quasi demoniaco, su un divano con la ragazza alta e graziosa. Fu scattata una sera mentre cenavamo. Gli invidiavo la moglie. Adesso è difficile immaginare la donna che sarebbe diventata. Lei resta com’ era, come se in mezzo a tutti ci fosse stata questa creatura eccezionale, un po’ impacciata forse, ma senza macchia, che racchiudeva nella sua persona i tratti essenziali, il vero fulcro del paradiso per cui forse lui aveva contrattato.
Articolo di Gian Paolo Serino per il Giornale
da ninconanco | Ott 23, 2018 | Attualità, Attualità, Economia, Le parole degli altri, Politica, Società
RIMOSSO IL BELLETTO E LE RETORICHE MONDIALISTE, VOILA’ LA FRANCIA COLONIALISTA DURA A MORIRE- SECONDO QUESTO SORPRENDENTE ARTICOLO 14 STATI AFRICANI EX COLONIE SONO SOTTO IL GIOGO FRANCESE- ECCO DESCRITTO IL MONOPOLIO COMMERCIALE E IL CONTROLLO DELLA MONETA CHE ARRICCHISCONO I TRANSALPINI.
Si è tenuta a settembre a Roma una manifestazione politica piuttosto singolare. A scendere in piazza sono stati infatti solo giovani africani, emigrati da tempo in Italia e in altri paesi europei, seduti per protesta davanti all’ambasciata francese, in piazza Farnese, per contestare la politica africana della Francia di Emmanuel Macron.
A guidarli Mohamed Konare, originario della Costa d’Avorio, che si definisce «attivista panafricano» ed ha fondato un movimento politico che, per usare un termine corrente, potremmo definire sovranista.
L’obiettivo, come lui stesso afferma in una lunga intervista sul web (Byoblu), è di spiegare agli europei i metodi di tipo coloniale con i quali la Francia continua a comandare e depredare in Africa ben 14 Stati, un tempo sue colonie, diventate indipendenti negli anni 60, ma soltanto sulla carta.
Il franco coloniale
Il giogo francese su questi Paesi, sostiene Konare, è soprattutto economico e monetario, ed è congegnato in modo tale da garantire a Parigi un ferreo controllo della loro moneta, oltre a un monopolio esclusivo sulle ricche materie di cui abbondano (oro, uranio, petrolio, gas, cacao, caffè), con un risultato duplice: arricchire la Francia e le sue élites imprenditoriali da un lato, con uno smisurato trasferimento di ricchezza (circa 500 miliardi di dollari l’anno, secondo alcune stime); dall’altro lato. impoverire fino alla miseria i popoli indigeni, che sono così costretti a fuggire per fame verso l’Italia e l’Europa, in cerca di fortuna.
Mohamed Konare
A questo sfruttamento sistematico della Francia, dice Konare, è giunto il momento di dire basta: «Manifesteremo davanti a tutte le ambasciate francesi in Europa e non solo, con l’obiettivo ambizioso, oggi quasi utopico, di giungere alla creazione degli Stati uniti d’Africa, dove i 14 Stati, che sono ancora sotto il giogo francese, diventino veramente sovrani, liberi di usare le loro risorse naturali per lo sviluppo delle economie locali, e non per arricchire sempre più la Francia parassitaria di Macron e i governi burattini da lei insediati in Africa».
Il perno attorno al quale ruota l’intero sistema del controllo francese sui 14 Paesi africani è il franco coloniale, detto franco Cfa, moneta che la Francia impose alle sue colonie nel 1945, subito dopo l’accordo di Bretton Woods, che regolò il sistema monetario dopo la Seconda guerra mondiale. In origine l’acronimo Cfa stava per «Colonie francesi d’Africa», ma negli anni Sessanta, a seguito del riconoscimento dell’indipendenza delle colonie francesi deciso da Charles De Gaulle, il suo significato è cambiato: «Comunità finanziaria africana».
Un riconoscimento puramente formale della fine del regime coloniale, in quanto il franco Cfa ha conservato tutti i vincoli ferrei e giugulatori che aveva fin dall’inizio sulle economie locali. Stiamo parlando di 14 Stati dell’area subsahariana e del Centro Africa, con una popolazione di circa 160 milioni di unità, per i quali la moneta ufficiale è il franco Cfa, coniata e stampata in Francia, paese che ne ha stabilito tutte le caratteristiche e ne detiene il monopolio.
Ecco il loro elenco: Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo.
Il primo vincolo del franco Cfa consiste nell’obbligo per i 14 Paesi che ne fanno uso di depositare il 50% delle loro riserve monetarie presso il Tesoro francese. In pratica, quando uno dei 14 Paesi del franco Cfa esporta verso un paese diverso dalla Francia, e incassa dollari o euro, ha l’obbligo di trasferire il 50% di questo incasso presso la Banca di Francia.
Macron all’ONU
In origine la quota da trasferire in Francia era pari al 100% dell’incasso, poi è scesa al 65% (riforma del 1973, dopo la fine delle colonie), infine al 50% dal 2005. Così, per esempio, se il Camerun, previo un esplicito permesso francese, esporta vestiti confezionati verso gli Stati Uniti per un valore di 50mila dollari, deve trasferirne 25 mila alla Banca centrale francese.
Un sistema al quale non sfugge neppure un soldo, in quanto gli accordi monetari sul franco Cfa prevedono che vi siano rappresentati dello Stato francese, con diritto di veto, sia nei consigli d’amministrazione che in quelli di sorveglianza delle istituzioni finanziarie delle 14 ex colonie.
Grazie a questo trasferimento di ricchezza monetaria, la Francia gestisce a suo piacimento il 50% delle valute estere delle 14 ex colonie, investendoli massicciamente in titoli di Stato emessi dal proprio Tesoro, grazie ai quali ha potuto finanziare per decenni una spesa pubblica generosa, sovente ignara dei vincoli di Maastricht.
E Konare, nell’intervista sul web, ricorda che quando Angela Merkel ha chiesto ai vari governi francesi di depositare il 50% delle riserve delle 14 ex colonie presso la Bce, invece che presso la Banca centrale francese, la risposta è sempre stata un secco no.
Tra i numerosi vincoli imposti dagli accordi sul franco Cfa, vi è anche il «primo diritto» per la Francia di comprare qualsiasi risorsa naturale scoperta nelle sue ex colonie. Da qui il controllo di Parigi su materie prime di enorme valore strategico: uranio, oro, petrolio, gas, caffè, cacao. Soltanto dopo un esplicito «non interesse francese», scatta il permesso di cercare un altro compratore. Ma attenzione: i maggiori asset economici di tutte le 14 ex colonie sono in mano a francesi che si sono insediati da tempo in Africa, diventando miliardari a palate (su tutti, Vincent Bolloré e Martin Bouygues
Articolo di Tino Oldani per “Italia Oggi”
da ninconanco | Ott 21, 2018 | Attualità, Attualità, Le parole degli altri, Salute, Società
Ansia, panico, paura abbattono la qualità di vita di sempre più persone (il 30% della popolazione occidentale, secondo l’OMS), manifestandosi all’improvviso oppure con un crescendo lento. Per fortuna esistono soluzioni gentili che possono liberarci dalla “paura di avere paura”, sprigionando una potente energia di cambiamento.
La storia di Annamaria Veronesi ne è un esempio. Medico, pur lavorando con successo viveva nel timore di non farcela e cercava di dare sempre di più, tenendo ogni cosa sotto controllo.
Poi sono arrivati gli attacchi di panico. Aveva 40 anni. Oggi ne ha 59, e qui ci racconta come ne è uscita diventando un’altra donna. Ha un motto: “Anche tu lo puoi fare”. Ecco la sua storia.
Fuori copione
Tutto iniziò nel 2002 quando, in autostrada con mio marito per un weekend al mare, il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. Mi mancava l’aria, sudavo, credevo di morire. Una, due, tre soste in autogrill non bastarono a calmarmi: se tornavo in macchina, tutto ricominciava. Facemmo dietrotrofront verso casa.
Poi non successe più nulla e mi sembrava di stare bene, ma dopo 20 giorni su un aereo ebbi un altro attacco, peggiore del primo: era come soffrire di vertigini e trovarsi sul cornicione di un palazzo al trentesimo piano. Con un terrore che ti prende senza preavviso, dura un paio di interminabili minuti e poi se ne va, lasciandoti con la paura che possa tornare ancora.
Ed è proprio questa paura della paura a paralizzarti la vita, limitandoti sul piano sociale, lavorativo, affettivo. Una schiavitù spesso tenuta nascosta persino a se stessi, sperando che non torni più. Invece la prima cosa da fare è chiedere aiuto.
Scopri chi sei
Quando decisi di rivolgermi a un amico neurologo mi sentivo in preda a un controsenso: ero un medico affermato, una donna estroversa, con mille cose da fare. Perché proprio a me? Cosa aveva innescato questa bomba atomica nella roccaforte delle mie sicurezze? Non volevo prendere psicofarmaci perché temevo che mi avrebbero tolto il controllo sulla mente.
Però avevo una bimba piccola, che non doveva crescere condizionata dal mio problema. Così dissi al neurologo che volevo curarmi ma non “impasticcarmi” e lui mi indirizzò verso una psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Questo mi aiutò ad accettare l’idea di assumere degli ansiolitici e l’accoppiata psicologa-farmaci mi portò in una condizione di sufficiente tranquillità per iniziare a occuparmi veramente di me.
Iniziai a guardarmi dentro e scoprii che c’era un’altra donna, nel profondo di me, davanti cui mi ero tappata gli occhi, le orecchie e, soprattutto, il cuore. Era una donna fragile, delicata, insicura e tenera. Tutto il contrario di quella con cui mi ero sempre identificata.
Primo: non scappare
La mia bravura fu quella di non scappare, di osservare e riconoscere che, da troppi anni, stavo vivendo un copione non mio: mi ero lasciata condizionare dalle aspettative dei miei genitori, di mio marito, dal nostro status sociale. Gli attacchi di panico quindi non erano una malattia ma un segnale forte della necessità di cambiare.
Ora so che è molto comune: persone efficienti, a furia di controllare che tutto vada bene e sia perfetto, si dimenticano dei loro reali bisogni. E non capiscono che l’unico territorio su cui puoi esercitare il controllo non è all’esterno, ma dentro di te. Ma puoi farlo solo se ti conosci nel profondo.
E quando inizi a stare bene non devi interrompere il cammino: è il momento in cui spiccare il grande salto. Io l’ho fatto. A 47 anni ho cambiato lavoro, ho chiesto la separazione. E quando la psicoterapia si è conclusa, mi sono detta che non avrei più chiuso gli occhi di fronte a me stessa. Per questo ho iniziato a meditare
Medito ergo sum
All’inizio ho frequentato dei gruppi che meditavano recitando un mantra: ripetevo, ripetevo, ma dentro di me non cambiava nulla. Poi ho provato le meditazioni di Deepak Chopra e infine sono approdata alla mindfulness secondo la tradizione del monaco vientamita Thich Nhat Hanh.
Poiché sono un medico, non una religiosa, avevo bisogno di concretezza, di un addestramento sistematico che mi aiutasse a sviluppare consapevolezza e padronanza sulle mie reazioni emotive. In due mesi, sotto la guida di un’insegnante, ho imparato a “ricentrarmi” in qualsiasi situazione, prendendo coscienza delle mie emozioni e dei miei pensieri senza farmi trascinare via. Mi ha permesso di accogliere tutto ciò che c’è in me – anche la paura – senza paura.
Attraversare il ponte
La prova del nove è stata ricominciare a viaggiare. Ho deciso di andare a New York con mia figlia e abbiamo prenotato il volo. A qualche giorno dalla partenza, notando la preoccupazione che saliva, semplicemente l’ho osservata e mi sono detta: io non sono più la donna di prima! In effetti, tutto è filato liscio.
Poi c’è stata la camminata sul ponte tibetano! Soffro di vertigini, figuratevi avanzare sospesa nel vuoto. Eppure ho attraversato lo spazio tra paura e coraggio. Dopo i primi 50 metri ho iniziato a praticare la meditazione camminata: lentamente, un passo dopo l’altro, tenevo tutta l’attenzione nella pianta dei piedi, ascoltando le sensazioni del corpo. Un’ora e mezza per andare e tornare… Ma l’ho fatto!
Consigli dal cuore
Le pazienti mi chiamano “la dottoressa del cuore” ed è parlando al vostro cuore che vi assicuro: la paura è il più forte richiamo ad ascoltarci. Ne uscirete non combattendola, ma abbracciandola. Non fuggendola, ma osservandola così come si presenta, con quel volto terribile che non vorreste mai vedere.
È lei il fantasma che scatena terrore. Ma come ogni fantasma si presenta al buio. E svanisce quando lo inondi di luce. Con la meditazione di consapevolezza il processo si fa veloce e gentile: impari ad entrare in contatto con le tue ferite senza dolore. Ti senti più vicina a te stessa così come sei e scopri che puoi prendere ogni tua parte per mano e insegnarle ad andare avanti con amore. Un passo dopo l’altro. Insieme.
CONSIGLI CONSAPEVOLI
Ecco cosa Annamaria Veronesi suggerisce a chi vuole superare ansia, panico e paura
1- Riconosci il problema. Molti lo nascondo agli altri, per vergogna, ma soprattutto lo nascondono a se stessi pensando che, magari, domani passerà. Ebbene, non è così.
Quando il segnale scatta, è importante ascoltarlo. E non prenderlo come un sintomo di squilibrio mentale: è uno squilibrio esistenziale quello che va sanato. Il tuo corpo, per fortuna, ti sollecita a farlo.
2 – Non pensare di poter fare da soli. Chiedi aiuto. A una terapeuta e a un insegnante di meditazione: se sono validi, assieme ti traghetteranno verso la nuova te stessa.
3 – Non fermarti. Due nemici del percorso sono il dubbio (“Ce la farò mai?”) e l’illusione di essere arrivata (“Ora sto bene, non c’è bisogno di cambiare”). Quando si manifestano, non farti condizionare e non fermarti.
ANSIA STRESS
4 – Mai dire “ormai”. Ho pazienti trentacinquenni che mi dicono: “Ormai… cosa ci vuoi fare?”. In realtà la parola “ormai” per noi non esiste: come il respiro, la nostra vita ricomincia in ogni momento. Quindi, indipendentemente dall’età, il momento giusto per cambiare è proprio ADESSO.
5 – Sii costante. I risultati sono proporzionali alla costanza: per questo medito appena mi sveglio, tutti i giorni. Poi mi lavo, mi vesto ed esco dotata degli strumenti che mi consentiranno di essere me stessa in ogni occasione.
6 – Non pensare di non aver tempo. Molti mi dicono: “Adesso non ho tempo per queste cose!”. Ebbene: è una scusa autoboicottante. Io mi alzo 20 minuti prima e, quando tutti dormono, trovo la miglior condizione di silenzio e calma per sedermi, ascoltare la mia mente, accogliere ciò che si manifesta e, con un sorriso, lasciarlo andare.
Grazia Pallagrosi per “www.iodonna.it”