‘A NENNILLA

‘A NENNILLA

 

LE TEMERARIE USCITE DI LAURA CASTELLI, SOTTOSEGRETARIA  ALLE GAFFE IN UN GOVERNO DI IRRESISTIBILI GAFFEURS- A DISAGIO NEL PALAZZO E COI RAGIONAMENTI IN GENERE, HA SICURI TALENTI PER LA SCENEGGIATA NAPOLETANA. 

 

 

sallusti castelli a otto e mezzo 6

Un giorno gli storici ci spiegheranno perché gli italiani, esasperati dall’ antipatia dei competenti, in una domenica di malumore decisero di affidare l’aereo Italia all’equipaggio più pazzo del mondo. Il comandante Di Maio, il pilota automatico Conte e i responsabili dei disservizi di bordo, lo steward Toninelli e Laura Castelli, viceministra dell’ Economia per mancanza di prove.

LAURA CASTELLI

L’altra sera in tv la professoressa Gruber le ha fatto una domanda difficile, difficilissima: «State stampando le tessere elettroniche del reddito di cittadinanza?». Per superare l’ interrogazione, Castelli aveva studiato giorno e notte «L’ economia di zio Paperone», ma questa non la sapeva. Avrebbe potuto rifiutarsi di rispondere, invece ci ha provato lo stesso. Che momenti.

Sembrava Sordi quando all’ esame di francese gli chiedono di tradurre «Il giardino di mia zia», e lui, con lo sguardo terrorizzato e la voce a simulare una naturalezza inesistente, biascica: «Le jardin de ma sziii». La Gruber incalzava: «Quante sono le schede, cinque o sei milioni?» E Castelli: «Cinque milioni e mezzo circa». «Chi le sta stampando, il Poligrafico?» insisteva la commissione d’ esame. «Forse ve lo diremo presto». Appena qualcuno lo avrà detto a lei, avvertendola che non si può stampare qualcosa che il Parlamento non ha ancora deliberato. Era questa la risposta giusta, accidenti. Perché Toninelli dal primo banco non gliel’ha suggerita?

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera”

 

LADRO DI IDENTITA’

LADRO DI IDENTITA’

 

COME SI DIVENTA LADRI PER RUBARE INTIMITA’ E PENSIERI SULLA SCIA DI ODORI E PROFUMI– UN VUOTO INCOLMABILE SEPARA DAGLI ALTRI IL PROTAGONISTA DI QUESTO RACCONTO, FINO A QUANDO OLTRE ALL’IDENTITA’ RUBA  ANCHE……

 

Parte prima

Faccio il bibliotecario, sto sempre in mezzo a libri e polvere, ma non è il mio lavoro. Cioè, non sono tagliato. Olga, mia madre, ripeteva: non sei uomo di stare all’aperto o per mestieri di fatica, va bene questo qui. Ma seppellirmi fra i libri però….Mah, è andata così. Olga mi diceva anche che non ero fatto per le relazioni. O meglio per le relations, come pronunciava lei in un delizioso francese (faceva di mestiere la traduttrice). In effetti sono cresciuto timido e balbettante. Lei quando usciva non mi portava mai con sé. Seguita da una scia di profumo, si allacciava al braccio del suo compagno e mi relegava nella mia stanza a leggere. Anche nelle feste. Dalla mia stanza agli scantinati della biblioteca nazionale il passo fu breve e naturale. E’ andata così. Fare il bibliotecario ha un unico vantaggio che ho una giornata e due pomeriggi liberi per seguire quella che considero la mia vera vocazione: il ladro.

 

La casa è buia e isolata, l’ultima del quartiere che dal fiume sale fino alla collina. Sotto le foglie secche l’erba del giardino è ancor umida. E’ stato l’autunno più piovoso degli ultimi decenni hanno detto i meteorologi. Anche adesso il cielo è chiuso, un grigio perlaceo che non promette che pioggia. Le pareti di pietra della villetta esposte a nord sono ricamate di muschio e le grondaie agli angoli della casa corrose dalla ruggine. Sembra disabitata, ma non lo è. L’appostamento è stato lungo, ho annotato orari e abitudini. Tutto è stato pianificato, come al solito. Non sopporto imprevisti o contrattempi. Il lavoro di preparazione, quando è ben fatto, non li ammette. Dal basso arriva smorzato il rumore della città, voci lontane si rincorrono. Il lago appena si intravvede, scura fascia sotto l’orizzonte dei monti. Indugio nell’ombra. Non ho fretta di entrare, non c’è motivo, anzi questo è il momento più bello, in cui movimenti e respiro al minimo mi permettono di assaporare quella specie di pre orgasmo, che sotto forma di calore si diffonde per tutto il corpo. L’emozione diventa nelle gambe una vibrazione musicale, migliaia di globuli rossi sciamano per le vene, il desiderio evapora distillando sulla fronte piccole gocce di sudore.

 

Sono diventato ladro perché non c’è niente di più immediato e completo per conoscere la gente che entrare nelle loro case. Più di una confessione. Le case non sono fatte di pareti, ma di odori, cioè di vita. Ogni casa ha il suo odore, un miscuglio di particelle in combutta fra loro, in cui viviamo inconsapevolmente immersi. Una miscela inesauribile di effluvi, secrezioni, pulviscoli, esalazioni, miasmi, profumi. Chiusa e abbandonata, una casa perde per prima cosa l’impronta digitale odorosa, si trasforma in uno involucro vuoto per scarafaggi e ragnatele, spento, irriconoscibile e anonimo. Gli odori sono egualitari, parificano: le case dei ricchi non sono diverse da quelle dei poveri. Le differenze, quando ci sono,  si avvertono piuttosto fra case di campagne e di città, fra case vecchie e nuove, abitate da vecchi o giovani. O da persone sole, perché  in questo caso la gamma degli odori si semplifica. Su tutti predomina una sola nota olfattiva, che senti come sottofondo in cucina o in bagno, o in soggiorno, a volte anche sulle scale. E’ quella che chiamo impronta, una volta sentita non la dimentichi più, la associ ad un viso ad un nome per sempre. Per diventare intimo senza conoscere, senza  familiarità, sans relation, appunto, non mi serve sapere altro.

 

Ora, in questa casa, nell’odore che annuso immobile nella penombra del corridoio, sento che prevale quello femminile. Si può dire che una donna odora diversamente da un uomo, o non è politicamente corretto? Quello che avverto ora ha una nota dolciastra di liquidi fermentati con tracce di lacca e solvente. Nessuna presenza di  animali, né di piante, l’aria circola poco per queste stanze, poco il sole. Lo sento dal diaccio, dall’umidore appiccicoso sulle tende e sulle maniglie. Il riscaldamento è puntato al minimo. La proprietaria è una donna che vive sola e sta poco in casa, che rientra tardi la sera. Come lo so? Frutto dell’appostamento, certo, ma adesso mi basta guardare le persiane della terrazza, rimaste chiuse o il letto lasciato disfatto. . Scommetto che la federa del cuscino sarà macchiata di rossetto e il lino, scurito dall’uso e ricamato dai capelli caduti, avrà conservato il marchio della testa, come una Sindone domestica. Ma la stanza da letto me la riservo per ultima, come si conviene al sancta sanctorum. In genere non accendo la luce, non ne ho bisogno se seguo il mio istinto, la spinta delle emozioni. Non per non essere visto, ma perché mi piace percorrere a tentoni le stanze, ricostruirne l’arredo, sfiorarne gli oggetti, sparsi qua e là. Mi inoltro trepidante, un poco ansante, le suole di gomma sul parquet incerato mandano stridii  quasi impercettibili. Nella penombra intravvedo la sagoma dei mobili, un divano, alcune stampe appese alle pareti. Il ronzio del frigorifero che si avvia mi dice dov’è la cucina. Sono in un’ampia sala, con grandi finestre nascoste da veneziane. La parte notte sarà oltre quella porta alla mia sinistra. Mi chino nella penombra, vicino ad una poltrona stanno abbandonati un paio di stivali e un rialzo: la signora ha problemi ortopedici; mi spiego così il suo incedere quasi ondeggiante, quasi sghembo che avevo colto spiandola. Un altro tassello si sistemava al suo posto. Ero soddisfatto. Chi altri sapeva, oltre all’impercettibile dondolio, di quella gamba un poco più corta? Difetto di nascita, conseguenza di un trauma osseo, di  un’operazione? Chissà, forse lo avrei saputo nel corso della mia visita, per leggere l’intimità più profonda. Perché questo è il mio obiettivo. Mi rendo conto, sapete, che la visita di un ladro lascia sgomenti, non solo per quello che porta via, ma soprattutto perché ci fa sentire vulnerabili, per la profanazione indelebile che lascia. Io però non rubo e non lascio tracce, mai.  Entrare in contatto, confondermi per capire e compenetrarmi non possono essere confusi con un’intrusione violenta o una inammissibile ingerenza.  Su questo sono rigoroso con me stesso, non ammetto illazioni deontologiche. Non tocco nulla, nemmeno un ninnolo, non lascio segni del mio passaggio perché sono un ladro che non ruba. Voglio essere preciso: non rubo nulla di quanto di solito avviene: gioielli, orologi, del denaro, un quadro. No, porto via (più corretto porto dentro di me) ciò che passa inosservato, che le mie stesse vittime non vedono: un pezzo della loro vita. Ricordi e abitudini, vizi e virtù, fermati in una fotografia, riassunti  in un biglietto, nell’impronta di un letto sconvolto, in un bagno asettico e immacolato, in un baule abbandonato in un sottoscala, nei resti del cibo sul tavolo della cucina…. Se ora continuate a considerarmi un ladro, solo perché mi intrufolo, tale apparendo, in casa altrui, ebbene definitemi più propriamente ladro di identità.

 

Prima di dirvi in che cosa consiste rubare l’identità, permettetemi di dirvi come è nata questa vocazione (voi lo chiamerete vizio, ma sbagliate!). La mia è una necessità, questo lo avete capito, perché crescendo non mi riusciva di parlare con la gente, cioè per parlare parlavo, non balbettavo più come da bambino, poi ero più istruito della media, quindi avvantaggiato; ma le parole, se pronunciate da me, sembravano perdere di significato. Per quanti sforzi facessi era difficile che la gente mi prestasse attenzione, oppure sembrava non capire, o non prendermi sul serio, o tutt’è due le cose. Finii per concludere che vivevo in un posto in cui tutti parlavano ma nessuno ascoltava. Io avevo una galassia dentro di me, così grande che mi sembrava di scoppiare, più di quanto non mi succedeva quando Olga mi lasciava solo in casa. Ma questo mondo non interessava a nessuno. Mi venne l’idea che era colpa dei libri, che tutto ciò che era libresco era cattivo e maligno. Con questa fissazione mi crescevo solitario e triste. Un giorno, era lunedì di Pasquetta, Olga dopopranzo con il suo abito nuovo sfarfallò chissà dove. Avevo mangiato una fetta enorme di anguria e mi misi a pisciare senza slacciarmi. Il rivolo caldo mi scendeva lungo  le gambe. Ma non funzionava. Mi sentii sporco e solo come mai prima.  Allora lo tirai fuori e diressi il getto sui libri appoggiati sul letto, sentendomi leggero, leggero. Fu quella pisciata a cambiare il mio rapporto con gli altri e a decidere che il mio futuro sarebbe stato il futuro dissacrante di un irregolare. Immaginavo di sotterrare i libri in polverosi scantinati per pisciare su di essi e renderli illeggibili, in modo da far comprendere che la vita non sta fra le pagine di un libro, ma in ciò che diciamo e facciamo. La gente mi avrebbe capito e ammirato. Ma fuori del mondo dei libri? Restava sempre il problema di come farmi ascoltare, di come entrare in contatto con le persone. Olga mi venne involontariamente in aiuto. Un giorno che stava al telefono con un’amica, dopo un risata sguaiata, sbottò verso l’invisibile interlocutrice: ”bisogna osservare, osservare per poter capire le persone. Se no sbaglierai sempre e ti ritroverai sola, parbleau!”. Rimuginai per giorni quelle parole, avevano una morale che mi sfuggiva. Poi capii e mi dissi: per farti ascoltare non parlare di te, parla di loro. Questo pensiero mi illuminò la strada e ben presto affinai un occhio  di lince. Sviluppai cioè una inconsueta capacità di osservazione, presi ad interessarmi alle abitudini, ai tragitti e  agli orari della gente del mio palazzo, poi di quello di fronte, poi del quartiere. Ma non mi bastava. Allargai l’orizzonte e perfezionai il metodo. Così, senza un esplicito disegno, mi trovai alle prese con complicate indagini su quelle persone che attiravano la mia attenzione. Appostamenti,  pedinamenti, riscontri. Presi ad intrufolarmi negli ambienti che le mie vittime frequentavano, ad osservarle da vicino, quasi  a toccarle, a sentirne la voce se non i sussurri. Ma fu il potere dei profumi, della scia degli odori corporei, degli effluvi che arrivavano il mio olfatto inondando gli androni, filtrando dagli usci di casa, che sbaragliò ogni mio dubbio o resistenza. Iniziai le mie prime intrusioni, da inesperto. Il cuore impazziva, mi sentivo addosso gli occhi di tutti. Poi, una volta dentro, veniva la pace, l’estasi nell’affondare le mani nella biancheria intima, rovistare negli armadi e fiutare gli abiti appesi, mentre l’odore della naftalina invadeva la stanza; aprire le scarpiere e indovinare ogni piega del cuoio, saggiare con l’indice l’usura della suola e la deformazione della tomaia, così diverse, così personali; aprire le boccette di profumo, i sali da bagno, scrutare nella gelida atmosfera dei frigoriferi i resti dei cibi come fossero reperti anatomici; sfogliare la rubrica del telefono e sillabare i nomi più sottolineati o cancellati dall’uso; scovare in fondo al cassettone l’album delle fotografie, con l’immutabile ordine di apparizione: la serie in bianco e nero degli antenati, le foto dei figli, la famiglia al completo alla cresima e al matrimonio ….. Tutto ciò mi dava momenti di intensa, indicibile emozione, conobbi un mondo di sensazioni sconosciute così forti da farmi quasi piangere di gioia.

 

Un rumore mi distoglie dal torpore e la porta della camera da letto si spalanca. Sotto una vivida luce appare in pigiama, scarmigliata, il volto gonfio dal sonno. Mi colpiscono i suoi occhi pesti, lo sguardo sbarrato per la sorpresa. Il corpo è tozzo, i fianchi larghi sono scossi da un leggero tremore. Mentre mi getto su di lei tenta un’esclamazione di sorpresa, ma dalla gola le esce solo un farfugliamento doloroso. Le sono addosso, l’afferro per un braccio e la richiamo a me. La donna fa una strana piroetta, come una statuina di piombo sul suo perno, prima che la imprigioni fra le braccia. Ora lotta per divincolarsi, pienamente sveglia, cerca di allontanare dalla bocca la mia mano, tentando di mordermi. Il suo corpo è scosso da brividi e mentre la stringo quasi a soffocarla le sibilo: “Non è niente, non sono un ladro… non voglio farti male!” Il suo corpo si affloscia e si scioglie in singhiozzi. “Non voglio farti male.. calmati, andrà tutto bene!” le ripeto allentando impercettibilmente la presa perché respiri. La donna è ancora calda di letto, sento il peso dei suoi seni premere sull’avambraccio; l’afrore delle sue ascelle e il sentore del cuoio capelluto mi ricordano l’odore delle palestre o degli spogliatoi. Le sue braccia inerti oscillano come tentacoli spezzati. Le parlo con dolcezza, lentamente allento la presa sulla bocca, il suo respiro si fa più regolare: “calmati, non c’è pericolo… ti posso spiegare…” Cautamente la sospingo in camera da letto, la costringo a sedersi mentre chiudo la porta: siamo soli.

“Perché sei a casa?” le domando.(…..)

“Allora?” insisto. “Aspetti qualcuno?” chiedo sospettoso.

Mi risponde di no con un lieve dondolio delle testa. Non è un bello spettacolo, il pigiama informe nasconde ogni piega o protuberanza, sembra una sagoma sfondata. Le allungo la vestaglia. Si copre, rannicchiandosi sulla poltrona, senza osare guardarmi, si aggrappa ai braccioli, smarrita, incerta. Il viso è stanco e turbato, l’ovale leggermente allungato, le narici delicate, mi risulta quasi familiare. Somiglia ad una Alida Valli bionda, vecchia e imbruttita, tipo la Caduta degli angeli.

Mi accendo una sigaretta, controvoglia, i gesti consueti calmano, danno un senso di normalità. Guardo la stanza: la televisione in un angolo, una lattina di birra e un piatto con avanzi di cibo accanto al telefono, scatole di medicinali sparse sulle coperte, una rivista. La fisso fumando in silenzio, trattiene il respiro. Ricostruisco il suo rientro: Alida (ma come si chiama?) non usa la cucina, si spoglia, si strucca, rovista nel frigo e mangiucchia a letto prima che il sonno la prenda. La doccia solo la mattina per vincere l’inerzia, l’ipotensione arteriosa che infiacchisce e rallenta i movimenti. Caffè fuori, forte e amaro. Non s’era immaginata un risveglio come quello. Dal sonno gettata direttamente in un incubo. Mi immagino le domande angoscianti che non riuscivano a trovare dal suo cervello la strada per farsi sentire. E io, da dove comincio?…. E se esco, se la lascio senza dire una parola? In fondo non doveva essere lì. Non mi conosce, mi ha visto di spalle e in penombra, forse non saprebbe riconoscermi, ….. potrebbe pensare ad un incubo…. mi denuncerebbe?

“Perché sei a casa? non dovevi essere al lavoro?”, domando contrariato.

“Sono stata male, mi sono fatta sostituire a…” la frase rimane sospesa, risucchiata dal silenzio imbarazzato caduto nella stanza. L’Alida telefonista tira su col naso, mentre ciocche gialle di capelli le dividono la fronte, la vestaglia è finita appallottolata nel grembo e i grossi fianchi carnosi sembrano gemere nella poltrona troppo stretta.

Mi accorgo di essere sudato come quando da adolescente, seduti a tavola, Olga mi fissava ostile in silenzio davanti ad un piatto che non volevo mangiare. Mi viene il sospetto che la donna aspetti che succeda qualcosa, o magari aspetta qualcuno, magari il medico… già la malattia. E se viene una vicina di casa per chiedere un po’ di sale?… Che faccio, una strage per un pugno di sale? Era troppo tempo che ero lì, e se qualcuno avesse visto, magari chiamata la polizia?  Difficile pensare ad un amante che si intrufola di nascosto. Ma tutto tace là fuori, quasi sento il brusio delle foglie che cadono sotto le folate di vento. Ci mancava la pioggia, osservo: un fagotto sgualcito, informe. Questa donna risveglia gli stessi desideri di un soufflé di patate troppo gonfio e bruciacchiato. Mi scuoto dall’inerzia, troppi i rischi a rimanere lì, irrisoluto, il panico poteva riprenderla.. violazione di domicilio, scasso, violenza privata. Per il sequestro di persona qual è il requisito del codice, la costrizione protratta nel tempo..? boh.

Mi sforzo di assumere il tono convincente: “Non sono un ladro, non rubo, non sposto un capello… del mio passaggio non resta traccia alcuna, mai!”

Alida dei telefoni bianchi alza il viso per la prima volta, mi scruta in silenzio, indecisa e diffidente. Sento il suo guardo addosso, fissa le mie mani coperte da sottili guanti di pelle… Manca la maschera mi dico, poi facciamo Fantomas. Mi sento ridicolo e a disagio.

“.. e io dovrei crederti..?”- sbotta all’improvviso. L’aggancio non era ancora avvenuto, sento che é ancora ostile e anche incredula.

“Sì lo so, è difficile spiegarlo…”

“Che ci fai qui, allora?”

“Sono un ladro di identità”

“Cosa?”

“Un ladro di identità”- ribadisco con forza.

“Ma… cosa vuole dire… mi prendi in giro?”

Ora sono io confuso e farfuglio: “Così…, entro, curioso all’interno, vedo come vive la gente, di cosa si circonda… entro nell’intimità, insomma.”

Mi guarda stupita, senza parole, aggrotta la fronte nello sforzo di concentrarsi: “Allora non è la prima volta?”

“ No.. sì…sì, cioè da te è la prima volta,….”

“E poi?” mi chiede

“Poi cosa?”

“Cosa fai poi, entri e basta?”

“Sì, entro, ma esco pure, senza tracce, almeno fino a oggi, oggi è andata.. storta”

“E si che ne ho viste, ma questa…” riprende con la voce smarrita mentre si aggrappa spasmodica ai braccioli, quasi volesse spiccare un salto.

Devo tranquillizzarla: “ non ho mai torto un capello a nessuna, sono una persona pacifica e ben educata. Come cattolico ho il più sacro rispetto della persona”

“ Ma allora, non capisco. In casa mia, di soppiatto…”

Mi stringo nella spalle, dispiaciuto: “ si, lo so, ma ero convinto che tu non c’eri, non ci dovevi essere oggi…”

(….)

“Un ladro di identità….? Cosa vuole dire?, direi uno spione, piuttosto, uno che si intromette dove non dovrebbe, piuttosto!”

Decisi di ignorarne i toni, ora taglienti. Andava spiegata meglio la cosa, con pazienza, in fondo era una intuizione, non potevo darla per scontata. “C’è una vita visibile che appartiene a tutti e una invisibile che è solo nostra. E’ su quest’ultima che cerco di entrare, non è facile, credimi. Vuole dire stendere sul mondo uno sguardo compassionevole, entrare nell’intimità, condividere gli stessi vizi e passioni, vedere le stesse mete, fare gli stessi sforzi…” .

“ Piano, piano… quante parole… quello che conta, il risultato, è che tu profani le case come un ladro, ma lo sai che commetti un reato?.. grave!” Non riusciva a dare alla sua voce un tono severo corrispondente alla gravità delle parole. “ Un ladro di identità, chi ci potrebbe credere?… ma non ti basta la tua?”

Che domanda!, cosa rispondere? come faceva a non capire? C’era lo sfogo ma anche una sottile irrisione nel modo con cui mi si rivolgeva. Non è che provava gusto nel definirmi ladro? Sembrava diversa, il colore giallastro del viso è mutato in un rossore diffuso di eccitazione. Cerco di spiegare all’Angelo caduto dal letto che penetrare nell’intimo di una casa è come un atto erotico, immergersi nelle profondità delle vita di sconosciuti è come possederli. Qui con gesti compiaciuti calco le parole, quasi a materializzarle, a fargliele vedere: “L’intruso osserva i resti, la patina  in cui le abitudini si sono depositate, inavvertitamente, inesorabilmente, fino a dare il vero colore e il giusto tono a tutto… (pausa di sospensione e sospiro) è come svelarvi a voi stessi, in fondo”  .

Un’ombra offusca lo sguardo della donna, che trae il respiro e si umetta le labbra: “… e poi, quali identità? Al più potrai vedere un campionario di miserie umane, le cose peggiori di noi…” e accompagna la frase con un largo gesto della mano, indicando la stanza. Fa un sogghigno amaro, una sospensione dolorosa nel viso…

“Il peggio, dici? E perché il peggio? Un vino buono non ha il fondo, con gli scarti e il torbido? La vita è diversa? Le croste di sudiciume che ci portiamo addosso o che si accumulano nelle nostre case ci appartengono forse di meno? Marcano meglio dei nostri passi ogni nostra abitudine”

“Sì- ribatte irridente e sarcastica- Pollicino lasciava le molliche, noi la merda…. Per ritrovare la tua strada segui la tua puzza, è questo che vuoi dire? Disgustoso! Ruota la testa, meccanicamente attratta dal chiaro della finestra, poi sogghigna come con sé stessa e riprende snervata: ”…. e chissà che tu non abbia ragione”

Cosa potevo ribattere? Non avevo mai visto la cosa da quel punto di vista, ma solo dal mio. Avverto solo ora l’aria viziata della stanza, quel che resta sospeso dei sudori notturni, l’acido odore degli avanzi. Mi muovo per spalancare la finestra, mi fermo, ondeggio indeciso, devo uscire, andarmene. Non c’è motivo…..

“ Io vado!” dico con decisione.

Mi guarda come se non avesse capito: “ come vai?”

“Sì, è stato un incidente, mi scuso con lei, le mie intenzioni erano, sono… buone, insomma non è successo niente, possiamo dimenticare.”

Rovescia la testa, poi scuote le mani e sogghigna: “Ora sei passato al lei, sento. Prima mi strangoli quasi e ora mi dai del lei”

“La finisca, l’ironia è fuori luogo qui! Conviene a tutti chiuderla qui.”

“Troppo comodo” replica gelida, serrando le braccia indispettita.

“Mi dispiace…”

“ Entri forzando la porta, mi svegli, mi spaventi a morte….”

“Mi dispiace, mi dispiace”- la supplico, ma non sente, presa com’è dell’irritazione.

“… mi maltratti e ora non è successo niente!.. niente?”

(….)

“Troppo comodo”, riprende buttando la vestaglia sul letto, alzandosi e girando nervosamente per la camera. Solo ora noto la leggera zoppia, quel particolare, il solo, che aveva attirata la mia attenzione su una donna come tante. Sono i particolari che rovinano… Ma ora basta indugiare. Esco dalla stanza, mi avvio nel corridoio deciso a uscire per farla finita. Sento i suoi passi rincorrermi, sbuffa di rabbia.

“ Il ladro di identità… di identità, pensate! O piuttosto un guardone impotente, un maniaco che fruga nelle case come un maiale nella merda!… La voce della donna alterata dalla rabbia e affannosa rimbomba alle mie spalle, nel buio corridoio, quasi venisse da un altoparlante. “ Ma cosa sai tu della vita, di cosa muove i destini?”

Mi raggiunge e supera, poi accende il lampadario, affannata, mi osserva sarcastica sotto il fiotto improvviso di luce, si accosta alla parete e assume aria di sfida: “ prenditi tutto, dai! Porta via almeno qualcosa..”

La guardo senza replicare, interdetto, la sorpasso, ma mi si para davanti, si appoggia allo stipite della porta di ingresso: “ Il ladro gentiluomo, non un ladruncolo qualsiasi, cosa credete? Aveva ora preso una voce rauca e tagliente e modi sguaiati. Eccola, l’Alida imbruttita e incazzata. Mi sembra appunto un film, ma senza la seduzione della scena.

“Si faccia da parte e la smetta! Non serve a nessuno inasprire la cose”.

“Inasprire le cose? Senti.. senti, come ad esempio?”

“Se lei pensa di denunciarmi si metterà nei guai, l’avverto?”

Ride istericamente, rovesciando la testa, il nero dei capelli che gli svolazzano attorno. Il pigiama si apre svelando il solco dei seni, la voce ora rauca e tagliente:  “Non mi sembri in grado di fare minacce…. ladro! Mi guarda fisso negli occhi sfidandomi. “… e poi non è questo che voglio!”

“Cosa vuole, allora?”

“Non puoi andartene così!”

“Che cosa vuole dire?” esasperato tento di farla da parte.

Ma lei resiste, calma: “Mi devi qualcosa in cambio del silenzio”

“Cos’è un ricatto? Ridicolo!”

“No, niente ricatto…. Solo solidarietà, cum passione non lo dicevi tu prima?”

“Non sa quello che dice, mi lasci passare”

Si erge sulla schiena, si ravviva i capelli, sembra più imponente. Sembra un’altra, più sicura. I suoi lineamenti si sono distesi, l’iride alla luce rivela pagliuzze verdi nocciola e le labbra ben disegnate hanno perso di legnosità. Mi faccio indietro, guardingo, in attesa.

“Perché non ci sediamo in cucina e ci beviamo un caffè? Intanto facciamo entrare un po’ d’aria e di luce.

Parte seconda

La cucina è fredda e buia. La luce azzurra del fornello getta bagliori lividi sul volto della donna, impenetrabile, chiuso. Sembra lontana col pensiero e meccanicamente mi versa il caffè nella tazzina. Il silenzio fra noi è innaturale, come la scena di noi due, uno di fronte all’altra.
E’ lei a parlare finalmente: ” Mi devi aiutare”
“Cioè, cosa vuole?” faccio freddo, quasi ostile
“Sono malata…”
“E allora…?” replico indifferente.
“Sono malata grave.” e sull’aggettivo grave la sua voce si scurisce affievolendo.
(……)
Mi guarda con una intensità nel cui fondo scorgo la paura.
“Grave?” chiedo posando la tazzina e fissandone il fondo. Non per cortesia o imbarazzo, è una attenzione vera, adesso.
Appoggia la braccia al tavolo e si sorregge la testa fra le mani, strofinandosi a lungo gli occhi. Ora è lei in imbarazzo, come se fosse trattenuta dal pudore, dal non riuscire a trovare le parole giuste. Non c’è nulla di teatrale ora nel volto seminascosto della donna, nelle linee deformate del corpo, in quella materialità corporea sfatta. Solo il pudore evitava che il suo viso si trasformasse in una maschera di sofferenza.
“Ho un cancro” mi dice atona, poi rapida, prima che possa replicare, aggiunge: ” ho metastasi dappertutto. Ho poche settimane di vita…”
“Mi dispiace” riesco a dire, e mi paiono le parole più inutile e sceme mai dette da me.
Sospira e rialza la testa, gli occhi affossati, due occhiaie vuote, quasi due buchi spenti. Stende le mani sulla tavola fra di noi, cercando un appiglio, oscillano impercettibilmente come tentacoli senza punti di appoggio. “Mi dispiace” ripeto abbassando la voce. Mi chino verso di lei, le fermo le braccia, ma è solo un attimo, istintivamente mi ritiro quasi avessi fatto un gesto inopportuno, invasa la sua intimità. Ora non sono più gli odori ad attrarmi, ma il tono delle parole della donna, quei suoi gesti, tutto ciò che non trovava parole e finiva fra di noi in un silenzio doloroso e sospeso.
” Ti ho mentito prima. Non è stata una indisposizione improvvisa a farmi rimanere a casa. Non riesco più ad andare, non ce la faccio…. Qui la sua voce si incrina in una sospensione dolorosa, poi riprende: non mi piace farmi vedere così al lavoro…. e poi a che serve, oramai. Non ho nessuno….” Mi guarda come a cercare incoraggiamento, mi limito a guardarla…
(….)
“Sono i giorni più brutti. La chemio non fa effetto, né le flebo.” Osserva il mio sobbalzo allarmato. Capisce e riprende :“ No, no… è domani, a giorni alterni viene un’infermiera. Ma non la farò venire più, non serve. E’ meglio questa” e indica una bottiglia di cognac iniziata sulla credenza.
“I giorni più brutti- riprende quasi come parlando a se stessa. Sento che ricaccia le lacrime in gola, le riprendo le mani, sono gelide, tremanti, vuole parlare, sfogarsi. Si china e si avvicina, abbassando la voce: ” sai, sento di notte il male che mi divora, che avanza. Lo fa silenziosamente, dove passa qualcosa si chiude, come un una casa in cui poco per volta si spengono le luci. Mi inghiotte poco per volta, per farlo mi ottunde, mi stordisce, mi soffoca con dolcezza.  .”
“Dove ce l’hai?” le chiedo stringendole le mani.
“Alla testa”, inesorabile, inoperabile.”
“Mi spiace, veramente!” le sussurro. L’idea di lasciare quella casa è svanita, ma nello stesso tempo mi sento terribilmente fuori posto, incapace di fare o dire qualcosa di utile che….”
“Mi devi uccidere!” La sua voce era tornata chiara, il tono quasi stentoreo. Ho un soprassalto: ” Come hai detto?… Ucciderti? Io?”
“Non posso sopportare quello che mi si prepara, non ne ho il coraggio… mi devi uccidere!”
“Io!, io ucciderti? Ma è assurdo!”
“Sì, tu! Non ho nessuno, nessuno a cui chiederlo” La sua voce si era incrinata per l’angoscia.
“Ma io non sono un assassino”- insorgo, ritirando le mani e alzandomi di scatto.
“Me lo devi” mi dice fissandomi con forza- “non ti ho chiamato io, sei tu che sei venuto!”
“E’ allora, che c’entra questo?” protesto.
“C’entra, le cose non succedono mai a caso, vorrà pure dire qualcosa che tu… insomma perché proprio me, ed adesso… tu pensa  sia la mano della Provvidenza, dato che sei credente”.
“Bella Provvidenza! Non essere blasfema. Sei ammattita- sbotto, poi mi pento e borbotto delle scuse.
Mi guarda inespressiva, sento il suo sguardo perso oltre le mie spalle, il suo cervello, quella testa malata, già sembra incepparsi, già sembra staccarla dalla vita. Ho come un brivido, che nascondo con un gesto di fastidio, quasi l’avessi con me. La donna si accende una sigaretta, aspira il fumo in silenzio, assaporandolo profondamente, poi accompagna cogli occhi i sottili fili dipanarsi verso l’alto. Vuole riordinare le idee, rilassarsi un poco. Prende il cognac e beve avidamente, facendo cenno di servirmi, poi si alza e passeggia nella cucina. Mi fissa poi attacca:
” Assassinio, dici? Non esagerare… nel mio caso. Un aiuto non è un assassinio, è un atto di solidarietà. Poi, anche tecnicamente, visto che ti rimorde la coscienza di cristiano, cattolico e romano, sopprimere una non-vita come la mia non è un assassinio, al massimo è anticipare un evento inevitabile, …. Oppure, no!, sbaglio, non è questo il problema per te, mio ladro gentiluomo. Per te il problema è che non tolleri che mi prenda la libertà di una bella morte, l’arbitrio di decidere quando il sipario deve calare….”
(….)
Sogghigna, aspira nervosa, prende un’espressione paziente: “Già il solito problema del peccato. dell’arroganza che perde l’uomo, ecc.ecc. Ma cosa ti chiedo? in fondo… se non un atto di umanità, estremo. Vogliamo chiamarlo un atto d’amore verso l’altro? Ebbene, come sia sia, un atto così non può confondersi con la violenza,con un a.s.s.a.s.s.i.n.i.o, come dici tu…. C’è forse più umanità in chi assiste inerte al dolore che sale da chi soffre?, al disfacimento della mente e dell’anima, oppure in chi con un soffio d’amore spegne una dolorosa agonia?”
“Non possiamo decidere sulla vita e sulla morte, sono cose troppo serie, cose tremende!”
scuoto decisamente la testa, metto i palmi della mani avanti, come a volere fermare le sue parole.
“Il male è tremendo!” -mi urla addossandosi- la crudeltà è tremenda… a volte gli uomini sono tremendi….” Piange senza singhiozzi, le lacrime scendono e le rigano il volto come in un film muto, se non fosse stato per il sibilo doloroso che le esce dalle labbra livide.
La commozione mi schiaccia, ho le spalle al muro, il suo dolore mi pesa sul petto come a soffocarmi. Non vedo vie d’uscita…. Scappare? Dileguarsi? Ora, come ? Ora non più… io….niente, che bella fine…. ladro di identità, c’era da ridere.. ora tutta la casa e lei mi sarebbero rimaste addosso, mi avrebbero scavato dentro. Qualunque difesa ora non serviva, mi sentivo inerme, riesco solo a confessarle la verità del mio rifiuto: “non so nemmeno come ti chiami…. non è un fatto di principio, e… che non ne avrei il coraggio!”
La donna mi sorride, poi fa un gesto blando di dileggio: “Credimi, ci va più coraggio per entrare e rubare in casa altrui…. In quanto ai principi riservali per dopo, per te, dubito che ti verranno utili, mah…

[….]

…..vedrai sarà semplice e rapido. Quanto è labile il confine fra vita e morte. Ti farò vedere come si fa, ho pensato a tutto… poi potrai uscire, tranquillo, pulito e dire a te stesso che questa volta non solo hai rubata una identità, ma addirittura un vita

 

ZEROCALCARE

ZEROCALCARE

 

ARMADILLO POP-PUNK- RABBIA E DISAGIO DEI TRENTENNI DI OGGI, RECLUSI IN CASA COME IN UN RIFUGIO, NEI FUMETTI DI ZEROCALCARE, AL SECOLO MICHELE RECK- I FUMETTI MIGLIORI? QUELLI INFLUENZATI DAL DOLORE.

 

È un piccolo – grande evento la mostra, la prima personale, che il museo Maxxi di Roma dedica a Zerocalcare, che non è solo uno degli autori di fumetti più importanti del nostro paese ma anche una tra le figure più interessanti e complesse della scena culturale di oggi. Il progetto ripercorre infatti  tutti gli anni del suo lavoro, da sempre legato alla scena underground, portavoce sensibile e consapevole della sua generazione.

Vengono  esposti poster, un’ampia selezione di illustrazioni, copertine di dischi,  tavole originale dei suoi nove libri, magliette, loghi, etichette e un lavoro site specific disegnato dall’artista per l’occasione. CI sono i racconti a sfondo autobiografico, da cui  emerge un ritratto lucido e tagliente della sua generazione, una generazione nata agiata che ha visto trasformare i diritti conquistati dai propri padri in privilegi per pochi, ma anche storie tratte dalla vita quotidiana, racconti riferiti ai movimenti di protesta, ai fatti di cronaca e politica, dalle numerose aggressioni dei gruppi neofascisti degli ultimi anni, alle manifestazioni antirazziste, alle battaglie per i diritti civili.

La Sede del Maxxi a Roma, progetto di Zaha Hadid

Colpiscono in particolare i diversi i resoconti di fatti di cronaca nazionale e internazionale, nati da esperienze personali e di viaggio. Si parte dal G8 di Genova del 2001 per arrivare al 2014 quando Zerocalcare si è recato a Kobane, dove i curdi resistono agli attacchi dell’ISIS e ha raccontato la loro storia di resistenza nel libro Kobane Calling. Questi e altri racconti sono testimonianze vissute e raccontate in prima persona con lo spirito del reportage ma con l’esito di un diario intimo scritto da un viaggiatore del nostro tempo.

“Zerocalcare. Scavare fossati, nutrire coccodrilli” Roma, Museo Maxxi Fino al 10 Marzo 2019

 

 

UOMO E SPAZIO

UOMO E SPAZIO

MESSAGGI UMANI NELLO SPAZIO- PER CHI E’ APPASSIONATO DI ASTRONOMIA ECCO LA STORIA DELLE SONDE MANDATE OLTRE IL NOSTRO SISTEMA SOLARE 

Le sonde delle missioni inviate nel Sistema Solare esterno, quindi da Giove in poi, a meno che non debbano entrare in orbita attorno a uno dei giganti gassosi (come Cassini per Saturno o Juno per Giove) molto probabilmente sono destinate a uscire dall’eliosfera e entrare nello spazio interstellare. L’unica cosa che potrebbe fermarle è l’urto con un corpo celeste nel passaggio attraverso la Fascia di Kuiper (zona di corpi rocciosi, qualche cometa a breve periodo e pianeti nani, da cui proviene anche Plutone) o la Nube di Oort (la zona di provenienza della maggior parte delle comete e probabilmente ciò che rimane della nebulosa di detriti da cui si originò il Sistema Solare), ma è molto poco probabile che ciò avvenga.

Con eliosfera si intende quella zona di spazio prima della Nube di Oort, esteso intorno al sole per circa 100 UA, (Unità Astronomiche, la distanza media Terra-Sole), in cui le radiazioni magnetiche del vento solare sono abbastanza potenti da bloccare quelle che si trovano nel resto dello spazio. Al di là del limite dell’eliosfera, detto eliopausa, si entra nello spazio interstellare vero e proprio, dove il vento solare non è più distinguibile da quello interstellare che permea tutta la galassia (e forse tutto il cosmo).

 

Sono quattro le sonde attualmente dirette verso lo spazio interstellare: le sonde gemelle Pioneer 10 e 11, dell’omonimo programma, lanciate rispettivamente il 3 marzo 1972 e il 6 aprile 1976 e le sonde gemelle del programma Voyager, 1 e 2, lanciate il 5 settembre e il 20 agosto 1977. Pioneer 10 è ora rivolta in direzione di Aldebaraan, nella costellazione del Toro, Pioneer 11 è diretta verso la costellazione dell’Aquila, Voyager 1 verso l’Ofiuco e Voyager 2 verso Andromeda (la costellazione, non la galassia). Non si esclude la possibilità che anche la sonda New Horizons, una volta completato il suo compito all’interno della Fascia di Kuiper, venga inviata a sua volta indirizzata verso lo spazio interstellare.

Tutte e cinque, al loro interno, trasportano la testimonianza dell’esistenza della specie umana, qualora le sonde alla deriva vengano recuperate da altre forme di vita intelligenti in grado di decifrare ciò che noi abbiamo inviato nello spazio.

 

New Horizons è quella in cui questo messaggio è meno decifrabile da forme aliene e più filoamericano, poiché al suo interno vi sono due bandiere a stelle e strisce, due monete e un francobollo USA del 1991 con la scritta “Plutone: non ancora esplorato” (la missione New Horizons aveva proprio quell’obbiettivo), però contiene anche, su un CD-ROM, gli oltre 400.000 nomi degli aderenti al progetto e parte delle ceneri dello scopritore di Plutone, Clyde Tombaugh. New Horizons è quindi la prima sonda a portare nel Sistema Solare esterno una persona (anche se morta).

 

 

Le due sonde gemelle Pioneer 10 e 11 avevano l’obbiettivo principale di studiare Giove, che raggiunsero nel dicembre del 1973 e del 1974 (ricordiamo che partirono a più di un anno di distanza), poi la seconda fu dirottata verso Saturno, a cui arrivò nel dicembre del 1979. Alla fine della loro missione furono fatte dirigere, a strumenti e motori spenti e con traiettoria rettilinea, verso l’esterno del sistema solare. Sono entrambe delle sonde considerate “morte”, perché dalla terra non si riescono più a ricevere loro dati. Il Pioneer 11, in realtà, fin dal 1985, quindi addirittura prima che la sua missione primaria finisse, era stata costretta all’utilizzo delle batterie di riserva per via di un guasto a quella principale, e si spense dieci anni dopo. Il Pioneer 10, invece, ha continuato a inviarci segnali fino al 23 gennaio 2003. Il tentativo successivo di contatto, avvenuto il 7 febbraio, fallì. La sonda però si era sicuri avesse già oltrepassato Nettuno.

Pur spenti, i Pioneer sono le prime sonde con un messaggio per altri eventuali abitatori dello spazio. Su entrambe, infatti, montata sul supporto delle antenne, rivolta all’interno in modo da non venire rovinata dall’esposizione ai raggi, si trova una placca di 22 x 15 cm con incisi dei simboli che indichino a chiunque le trovi la provenienza delle due sonde. In totale sono 5.

La più importante, in alto, è quello in realtà più difficile da spiegare, perché raffigura l’onda generata dall’elettrone di un atomo di idrogeno da spin up a spin down, che viene indicata con la cifra binaria 1. La figura è universale, perché l’idrogeno si trova ovunque nell’universo e in tutto l’universo l’onda generata da queste condizioni è uguale, e sulla placca viene utilizzata come unità di misura (i numeri espressi in codice binario) sia di dimensione (la lunghezza dell’onda è di 21 cm) che di tempo (la frequenza è di 1420 MHz, con un periodo di circa 0,7 ns).

In basso si trova uno schema del Sistema Solare, con espressa la distanza di ogni pianeta dal Sole, dove l’unità però corrisponde a 1/10 la distanza fra il Sole e Mercurio. È interessante notare come in questo schema l’unico pianeta dotato di anelli sia Saturno, poiché quelli di Urano e Nettuno non erano ancora stati scoperti, e ci sia anche Plutone, che al tempo era ancora considerato il nono pianeta del Sistema Solare. Una freccia inoltre indica la traiettoria compiuta dalle sonde (anche se sulla Pioneer 11 risulta essere errata in quanto fu poi modificata).

Sopra il Sistema Solare si vede una raggera con quindici rette cha partono da un punto. Esse indicano la posizione del Sole rispetto a quattordici pulsar (i numeri accanto a loro indicano i loro periodi, in modo da permettere di riconoscerle dovunque nello spazio), in modo che la posizione possa essere triangolata anche da luoghi dell’universo dove non tutte sono visibili. La quindicesima linea, la più lunga, che sfora anche nel disegno accanto, indica invece la distanza del Sistema Solare dal centro della Galassia.

A destra si trovano due disegni sovrapposti. In primo piano vi sono due figure umane nude, una maschile e l’altra femminile. All’inizio il disegno voleva che si tenessero per mano, poi venne il dubbio che gli alieni potessero scambiarli per un corpo unico quindi furono divisi. Accanto a loro, il numero 8 in codice binario (1000) ne indica l’altezza media (8 x 21 cm = 168 cm). La mano destra dell’uomo è sollevata in un saluto di pace mostrando, se anche il gesto non fosse compreso, il pollice opponibile e con quali giunture si muovano gli arti. Questa figura scatenò alcune vivaci critiche da parte soprattutto a causa della nudità dei soggetti. Un giornale addirittura la censurò e il Los Angeles Times ricevette numerose lettere in cui la NASA veniva accusata di usare i soldi americani per spedire oscenità nello spazio. Alcuni circoli femministi invece puntarono il dito contro il fatto che, se l’uomo salutava, la donna era ferma con le braccia lungo i fianchi. Dietro le due figure umane si trova il profilo della stessa sonda Pioneer, in modo che le dimensioni degli esseri umani possano essere ricavate anche per confronto.

 

 

Le sonde gemelle Voyager 1 e 2 furono progettate per esplorare Giove e Saturno. Lanciate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, raggiunsero il gigante gassoso compiendo il flyby la prima il 5 marzo e la seconda il 9 luglio del 1979. Il 12 novembre dell’anno successivo Voyager 1 effettuò il flyby di Saturno, poi fu inviata verso lo spazio profondo, come prevedeva la missione. Quando invece, nel 26 agosto del 1981, fu Voyager 2 a compiere la manovra, gli astronomi si accorsero che i pianeti di Urano e Nettuno si trovavano in una congiunzione astrale estremamente favorevole, perciò la sonda fu dirottata a studiarli entrambi. Effettuò il flyby di Urano il 24 gennaio 1986 e tre anni e mezzo dopo, il 25 agosto 1989, quello di Nettuno. Ad oggi, Voyager 2 è l’unica sonda ad aver visitato di due giganti freddi del Sistema Solare esterno. Scattò anche le foto di Plutone più ravvicinate fino al flyby di New Horizon.

L’11 dicembre 2007 Voyager 2 supera l’impatto con l’assenza del vento solare. Voyager 1 l’aveva fatto tre anni prima ma gli astronomi non avevano potuto stabilirlo con certezza a causa del rilevatore non funzionante. Nel 25 agosto 2012 la sonda Voyager 1 diviene ufficialmente il primo oggetto umano nello spazio interstellare ma non si hanno più sue notizie. Questo fino al 4 dicembre 2017, quando la sonda riesce a riorientare la propria antenna verso la Terra e a mandare un segnale e, dopo 37 anni di silenzio, da 21 miliardi di km, la Terra le fa riaccendere i motori per correggere la propria rotta. Tutt’e due le sonde Voyager perciò sono ancora “vive” e continuano a mandare dati, nonostante l’età e la distanza, informandoci su quel pezzo di cosmo a cui nemmeno speravamo di arrivare. Voyager 1 è inoltre l’oggetto artificiale più lontano da noi. in seconda posizione si trova ancora Pioneer 10, ma Voyager 2 dovrebbe superarla nel 2023.

 

 

Anche in Voyager 1 e 2 si trova un manufatto che testimonia l’esistenza dell’essere umano nel cosmo. È molto più complesso e completo rispetto alla placca dei Pioneer e si trova all’interno delle sonde. Si tratta di un disco per grammofono di 30 cm di diametro in rame placcato d’oro, che però funziona come un CD-ROM. Sulla sua superficie, infatti, le istruzioni permettono di decodificare non solo dei suoni, ma anche delle immagini.

Sulla copertina del disco vi sono le stesse immagini che si trovavano sulla placca dei Pioneer, con l’esclusione oltre che della forma e della rotta della sonda, dei due corpi nudi. Infatti, le critiche sulla precedente esperienza convinsero la NASA a impedire che fossero riportate, sia sulla copertina che nelle immagini all’interno del disco, figure nude. Al loro posto vi sono le istruzioni necessarie a leggere il disco, sia come sonoro che come immagini, con prospetto frontale e laterale sulla fattura e la disposizione della puntina sul disco, la frequenza a cui dovrebbe essere fatto girare e i riscontri che gli alieni dovrebbero avere delle figure iniziali in caso di decifrazione corretta.

Le immagini selezionate sono 155, rappresentanti delle diversità della natura e della vita della Terra, oltre che delle molteplici culture dell’umanità. I saluti dell’umanità, che sono sia visibili come scritte che ascoltabili in sonoro, sono registrati in 55 lingue diverse, fra cui anche l’accadico, il sumero, il greco antico e il latino. Successivamente inizia la parte dedicata ai suoni del pianeta Terra, naturali come lo stormire delle foglie, il canto degli uccelli e quello delle balene, il vento, i tuoni e le onde, oppure umani, come il vagito dei bambini e il pianto umano. In questa raccolta è racchiusa una selezione musicale dei brani ritenuti i più rappresentativi dei diversi Paesi del mondo, fra cui la Quinta Sinfonia di Beethoven, Jonny B. Goode di Chuck Berry, il canto notturno degli indiani Navajo e i brani della tradizione orientale. La sezione dedicata solo alla musica dura 90 minuti. Vi è infine il messaggio del presidente americano Jimmy Carter «Questo è un regalo di un piccolo e distante pianeta, un frammento dei nostri suoni, della nostra scienza, delle nostre immagini, della nostra musica, dei nostri pensieri e sentimenti. Stiamo cercando di sopravvivere ai nostri tempi, così da poter vivere fino ai vostri.»

La probabilità che queste prove giungano effettivamente fino a forme di vita aliene intelligenti è infinitesimale e questi lanci sono più un simbolo che un effettivo tentativo di comunicare. Però sono una prova, la prova inconfutabile che l’umanità non accetta di essere limitata nella scoperta del cosmo e che l’homo sapiens esploratore si è evoluto nell’homo sapiens sidereus (definizione data da alcuni giornali scientifici agli uomini che puntano alle stelle).

Pictures credits: agopax, spazio-tempo-luce-energia, phys. org, Lunar Legacies, Wikimedia Commons, Evryeye Tech, Rivista Studio, Redbubble, Centro Meteo Italiano

Articolo di   BEATRICE BERSANI  per wearestudents.it

 

PORTAMI VIA LA MEMORIA E NON SARO’ MAI VECCHIO

PORTAMI VIA LA MEMORIA E NON SARO’ MAI VECCHIO

Noi non siamo chi crediamo di essere. L’equivoco rapporto con la verità.

Il 25 novembre al Torino Film Festival «I nomi del signor Sulcic», nuovo film di Elisabetta Sgarbi: storia di carte false e identità scambiate. «Dentro ci sono riferimenti alla mia vita». Un omaggio di Magris e Pressburger.

Una giovane ricercatrice dell’università di Ferrara si presenta alla sinagoga di Trieste. Cerca notizie di una certa Sara Rojc. Il rabbino la indirizza al cimitero ebraico, il cui custode la accompagna su una tomba. Sara è morta nel 1992. L’uomo congeda la ragazza con alcune vecchie foto, un passaporto dell’ultima guerra, una confidenza («Credevo sarei morto senza esaudire l’ultimo desiderio di Sara, mi aveva detto di dare queste cose al primo che fosse venuto a chiedere di lei») e un avvertimento: «Cosa cerca? Risvegliare la memoria non è sempre un bene». Per qualcuno però a volte è necessario. È così che comincia I nomi del signor Sulcic, il nuovo film di Elisabetta Sgarbi scritto con Eugenio Lio e prodotto con Rai Cinema, in distribuzione da febbraio ma in anteprima domenica 25 novembre nella sezione Festa mobile del Torino Film Festival. Nel cast, tra gli altri, Lucka Pockaj, Elena Radonicich, Roberto Herlitzka, ma soprattutto un Gabriele Levada che di mestiere non farebbe l’attore bensì il valligiano sul Po — già presente nella trilogia firmata Sgarbi sugli Uomini del Delta — e tuttavia dotato di un carisma naturale talmente potente che venti secondi di un suo primo piano in silenzio, chiusi con un «andiamo», basterebbero da soli a tirarti dentro la trama: un viaggio non solo nella memoria e nella storia di una famiglia, per scoprire che niente è quello che sembrava e fare i conti — anche noi spettatori, in fondo — con tutte le volte in cui diamo per scontato che quanto sappiamo di noi sia vero. Perché è la storia che ci è stata sempre raccontata e ci ha fatto dimenticare che noi in quella storia non c’eravamo, e che la nostra conoscenza è fatta di parole tramandate: le quali potrebbero non avere nulla a che vedere con la verità. E allora le andiamo dietro, alla giovane ricercatrice. Eccola con Irena Ruppel, una donna misteriosa che sembra parlare solo sloveno, ma essere anche l’unica a capire tutto. Dal momento in cui il viaggio le conduce in una casa sul Po, quella di Gabriele. Al quale Irena non dice nulla salvo andarsene dopo avergli lasciato scritto il suo nome, e il nome di un posto sull’Isonzo appena di là dal confine e cioè Tolmin — prima della guerra Tolmezzo — e una parola: «Grazie». Quanto basta perché Gabriele di lì a poco parta a sua volta seguendo un filo che attraverso Trieste, Lubiana, Tolmin lo porterà a ricostruire una storia di nazisti, spie, carte false, identità cambiate, vite reinventate. «I nomi del signor Sulcic — dice la regista — assomigliano a quei sogni di superficie di cui parla Freud, che prendono pezzi della vita reale e li trasfigurano alla luce di paure più profonde. Nel film compaiono chiari riferimenti alla mia vita: le fotografie dei miei nonni, le case dell’Ariosto di via Giuoco del Pallone a Ferrara, che erano di mia madre, la casa di Ro Ferrarese dei miei genitori, i nomi di alcuni personaggi come Elena Cavallini. E anche persone reali: Gabriele Levada, Claudio Candiani e Giorgio Moretti sono davvero allevatori che vivono in una valle remota del Delta. Ma tutto viene trasfigurato in una storia che stravolge la verità». Come in un sogno con dentro altri sogni.

Giorgio Pressburger, regista, scrittore e grande animatore culturale

Per esempio quello in cui compaiono uno struggente Giorgio Pressburger (alla cui memoria, oltre che ai genitori di Elisabetta Sgarbi, il film è dedicato: «Penso che non ce la farò — dice stanchissimo — a finire la scuola») e Claudio Magris, che qui si ritrova adulto su un banco di scuola con l’amico, a citare come fosse un suo tema per la maestra quella che in realtà è una frase del vangelo di Filippo: «I nomi sono un grande inganno, perché distolgono dalla verità. I nomi sono nel mondo per confondere a meno che non si conosca già la verità». Che poi è, quello del rapporto con la verità e di chi siamo noi, il tema essenziale del film. Pieno di riferimenti per immagini (il Valerio Zurlini de La prima notte di quiete) e citazioni come quella in cui Herlitzka, il «custode delle memorie» della Sinagoga di Trieste, tra un salmo e l’altro infila un passo di Non luogo a procedere di Magris. La più bella è in realtà una frase che, confida Elisabetta Sgarbi, ripeteva sempre suo padre Giuseppe: «Portami via la memoria e non sarò mai vecchio».

Articolo apparso su La Lettura del18 Nov 2018 a firma di PAOLO FOSCHINI

Elisabetta Sgarbi dirige la Casa editrice La Nave di Teseo (qui), fondata nel 2015 con Umberto Eco . E’ autrice di numerosi filmati fra i quali degni di nota: la trilogia Uomini del Delta, La lingua dei furfanti, sul Romanino, Il pianto della statua, Quiproquo, Il castello del Catajo.

Contact Us