STRAPAROLE

STRAPAROLE

«Straparole» di Cesare Zavattini. La vita? È fatta di tutto quello che si tace. «Il niente non esiste»: fremono luoghi, presenze, volti, parole, ricordi.Ciò che forse emerge in Straparole è un connotato espressivo che tende al paradosso nel coniugare il visibile e l’invisibile, le parole e il silenzio, la coscienza del reale e la sua “inafferrabilità”.

Occasione davvero significativa è la ristampa, nelle edizioni Giunti di Firenze, di Straparole di Cesare Zavattini (libro uscito la prima volta da Bompiani nel 1967). La personalità di Zavattini ha un universo creativo impressionante tra immagine e scrittura, gesto e voce, autobiografia e racconto: in una reciprocità che attraversa cinema, letteratura, pittura.

Cesare Zavattini

Le pagine di Straparole si susseguono nell’urgenza, nella materia diaristica, considerando che nello storicismo e nei generi della cultura italiana il diario rimane in una rarità rispetto all’opera.
A confermare l’originalità e la diversità diaristica di Zavattini, valga qualche richiamo variamente esemplificativo. Carlo Bo pubblica nel 1945 Diario aperto e chiuso. C’è in queste pagine un alfabeto perdutamente interiore: il tempo esistenziale coincide con il tempo della lettura, lo sfondo seducente dei libri, le intermittenze, il tratto della nostalgia, lo scorrere del tempo.
Nell’orizzonte della letteratura femminile, un verso poetico di Cristina Campo può essere emblematico: «Ora tutta la vita è nel mio sguardo». Rispetto alla spazialità dei linguaggi, lo sguardo è inconscio, memoria, attesa, ciò che è stato amato, ciò che non è accaduto.
Ricordiamo infine l’ultima espressione de Il mestiere di vivere di Cesare Pavese: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
Zavattini, lungo le pagine, ha un solo modo di ribadire il suo connotato diaristico: «un tritume di nomi di fatti di pensieri», «tanto cartame». In un lascito profondo di umano, di cultura, di sorpresa, di stupore, Zavattini scrive la temporalità, l’eventicità della vita che appare e scompare: un fluire inesauribile nelle infinite pagine bianche, fuori da schemi, da astrazioni intellettuali.

Cesare Zavattini con Vittorio De Sica

«Il niente non esiste»: fremono luoghi, presenze, volti, parole, ricordi.
C’è una rinuncia al coordinamento della scrittura per una diretta espressione nell’atto vivente del tempo. Nell’orizzonte delle interpretazioni intellettuali, delle situazioni formalizzate, arriva Zavattini a scrivere: «Dateci almeno un errore da difendere».
Nel leggere Straparole, un po’ commuove ritrovare un’affinità con il titolo di un libro di Thomas Bernhard La cantina (pubblicato da Adelphi nel 1984). La cantina è il centro segreto delle voci, dei rimandi, dei tramandi perduti.
Certamente appaiono variamente nomi di riferimenti culturali (De Sica, Germi, Soldati, Rossellini, Ungaretti, Moravia…). Aspetti che hanno un riscontro, come nel cinema, in altre pubblicazioni. Nel connotato diaristico, la pagina è presa dall’intermittenza con il margine improvviso della ferialità. In un mese di novembre, sotto i portici, Zavattini racconta di vedere l’arciprete con la cotta bianca e la stola nera recarsi da una donna mancata. Si leva il basco in segno di raccoglimento. Scrive: «l’arciprete si voltò verso di me dal mezzo della strada e con la sua voce da salmo, gridò, perché era piuttosto lontano, in dialetto: Cesar, si muore, ricordati che si muore».
In un tratto di intima fugacità, Zavattini ferma il momento improvviso, seducente, senza fine delle figure femminili. Nei giorni uguali ai giorni, sono apparizioni.
Sotto un portone, Zavattini vide cadere un fazzoletto dal balcone. Corse a raccoglierlo e a riportarlo su per le scale. Incontra la fanciulla. Le scrisse una lettera «che non ho mai più scritto». Dopo un anno era sua moglie.
Nelle occasioni più diverse, osserva le ragazze che cominciano a uscire di casa, incipriate e si mettono «in mostra sulla strada». A una finestra, nota una ragazza che si ravviava i capelli. Scrive: «Nessuna curiosità mi prendeva, solo il rimpianto di non essere giovane per scrivere a quella fanciulla: ti amo».
Ciò che forse emerge in Straparole è un connotato espressivo che tende al paradosso nel coniugare il visibile e l’invisibile, le parole e il silenzio, la coscienza del reale e la sua “inafferrabilità”.
Zavattini stesso parla della dismisura dei suoi scritti («chino sul pozzo di un migliaio di pagine e più»). Dall’altra parte cade una sua osservazione: «La vita è fatta di quello che si tace». Oltre al dicibile, c’è l’area sconfinata del silenzio, dell’indicibile.
Ricordiamo anche le poesie di Zavattini nel dialetto di Luzzara, paese d’origine. Poesie ammirate da Pasolini. Si riconferma quel tratto dialettico tra il transito della vita e una percezione misteriosa. Quel funerale così povero «che non c’era neanche / il morto nella cassa». Una notte Dio entrò nella sua camera. Gli disse: «faccio sapere che non esisto».
Zavattini ha avuto una grande apertura nell’incontro, nel dialogo, nella corrispondenza. Mi inviò due lettere, battute a macchina. Cito uno stralcio che suggerisce l’orizzonte letterario, l’intuizione dei suoi autori amati: «Intuivo che Pirandello era uno dei pochi scrittori del Novecento partecipi della grande cultura europea, accanto a Joyce (che non ho letto), a Proust (che non letto questo anno) a Kafka ( di cui conosco solo la meravigliosa Metamorfosi) a Musil (che è qui sul comodino e non oso ancora cominciarlo). Ma non sono alibi questi, uno scrittore che si rispetti sa sempre quello che i maggiori hanno fatto, lo vede non sulle pagine ma nell’aria. Che cosa potrei leggere per sapere le idee di Pirandello sul cinema?».

Articolo di Stefano Crespi per Domenicale del Sole 24 Ore
I RICORDI IN TASCA

I RICORDI IN TASCA

LA ROMA DI PAOLA PITAGORA DEGLI ANNI DI POVERI MA BELLI- LA VITA E GLI AMORI DISSENNATI, GLI ARTISTI DI PIAZZA DEL POPOLO, LA DIASPORA ALLA FINE DEL ’68- ANCORA ESISTE QUALCHE NICCHIA DOVE SI SOPRAVVIVE FRA RIMPIANTI E ORGOGLIO

 

 

paola pitagora

Paola Pitagora

Roma capoccia e dalle mille chiese. Roma tradita e impasticciata. Roma del Foro “che portava e porta ancora il nome di Mussolini”, scrisse Remo Remotti in “Mamma Roma addio”, inno rivolto a una metropoli “puttanona, borghese e fascistoide”. Tuttavia si distinguono, nella città, sostanziose “nicchie di sopravvivenza”, afferma l’ attrice Paola Pitagora, nata a Parma e romana d’ adozione.

Da tempo abitante a Monteverde, Paola considera il suo quartiere bello e protettivo, ossigenato dai parchi e illuminato dal piccolo faro di cultura del Teatro Vascello, nel cui spazio si svolge quest’ intervista: «Alla guida del Vascello c’ è Manuela Kustermann, bravissima, e il suo pubblico è folto e multigenerazionale», segnala Pitagora.

renato mambor paola pitagora

Paola Pitagora con Renato Mambor

«Non solo il teatro fa un’ intensa programmazione ed è il centro di svariate iniziative, ma rappresenta un vivace punto d’ incontro nella zona: si può venire a leggere i giornali, a lavorare al computer». Emersa platealmente negli anni Sessanta grazie al film-capolavoro “I pugni in tasca” di Bellocchio e allo sceneggiato televisivo “I Promessi Sposi” di Bolchi, oggi Paola è una signora d’ indomita bellezza.

Bella come sanno esserlo, anche dopo i settanta, certe persone toste, coinvolte, battagliere e in prima linea nel dire, nel fare, nel ricordare e nell’ entusiasmarsi rammentando.

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Paola Pitagora con Tito Schipa

Una memoria piena non è percorsa solo da nostalgia e rimpianti, ma può vibrare di un orgoglioso “io c’ ero”. È questo l’ atteggiamento di Paola, la quale ti scruta con uno sguardo limpido e profondo in grado di riflettere una vita colma di sperienze e passioni.

Tra quelle giovanili ci sono stati il suo amore rovente e dissennato (per gli innumerevoli alti e bassi) con Renato Mambor, e la sua frequentazione della Scuola di Piazza del Popolo, cioè dell’ insieme di artisti provocanti, geniali e trasgressivi che scatenarono a Roma «una libera e gratuita creatività durata fino ai primi segni di esagerazione del Sessantotto», racconta Pitagora.

paola pitagora lou castel

Paola Pitagora con Lou Castel

Al ciclo fosco, spassoso e incandescente dei Sessanta, Paola dedicò il libro “Fiato d’ artista”, uscito per Sellerio nel 2001. «Quel diario si è tradotto in uno spettacolo ideato e diretto da mia figlia Evita Ciri e da Nicola Campiotti», riferisce. «Debutta qui al Vascello il 29 novembre, e con me in scena ci saranno agli attori Giulia Vecchio, nella parte di Paola da giovane, e Francesco Villano nel ruolo di Mambor.

Io interpreterò una sorta di collante mnemonico che lega le situazioni da loro evocate. Avrà dieci repliche e sarà l’ appuntamento-chiave di un’ ampia rassegna intitolata “Fiato d’ artista”. In corso fino al 9 dicembre, vuole ridar fiato a quell’ epoca straordinaria».

paola pitagora incantesimoIn che modo?

«Il programma include documentari, conferenze, un laboratorio di scrittura e due letture sceniche: una sul libro “Il Gioco dell’ Arte” di Agata Boetti, figlia dell’ artista Alighiero, e l’ altra su “Addio a Roma” della scrittrice Sandra Petrignani, che ripercorre gli eroici furori di quella fase».

Chi erano gli spericolati che l’ animavano, oltre a Mambor e a Boetti?

Mario Schifano

«Schifano, Kounellis, Angeli, Tacchi, Festa, Ceroli. Personaggi esplosivi nel loro impegno verso la costruzione di un’ arte nuova. Le gallerie di Plinio de Martiis e di Fabio Sargentini erano fucine di scoperte. Alla Gnam Palma Bucarelli mostrava le tele di Picasso, dall’ America giungeva la Pop Art, Fellini e Pasolini giravano i loro film, nei cinema si proiettava Godard e il Living Theatre conquistava Roma.

Fra i pittori Pino Pascali era molto amato e fungeva da cuore del gruppo. La sua morte prematura, nel ‘ 68 per un incidente in moto, fu la fine di tutto, la diaspora. Ebbe l’ effetto di un trauma devastante. Ci fu chi smise di dipingere, chi scappò da Roma».

Ha fatto solo nomi di artisti maschi. Non c’ erano pittrici?

«No, tranne Giosetta Fioroni, che dovette proclamarsi pittore per ragioni di mercato. Un collezionista si era rifiutato di comprare un suo quadro dopo aver saputo che era lei l’ autrice: non compro opere di una donna, aveva detto.

paola pitagora gianni morandi

Paola Pitagora con Gianni Morandi

Nella cerchia giravano fidanzate o ragazze rimorchiate di fresco che non lesinavano consensi: quegli artisti erano tutti piuttosto belli. Schifano aveva sempre compagne stupende, Angeli e Ceroli furono amati da donne di forte immagine come Marina Lante della Rovere e Daria Nicolodi».

Perché i Sessanta a Roma furono così frenetici e produttivi?

«Circolava l’ energia del dopoguerra. Un’ energia intellettuale, anche se adesso questo termine sembra dannato.

La nostra non era una élite di potere: eravamo poveri e matti, senza soldi né mercato».

Che ci faceva Paola in questa follia?

«Ero una pazza influenzata dai pazzi. Quel vortice mi attraeva come una calamita. Sono rimasta con Renato per un decennio. Quando lo conobbi avevo sedici anni. Ci siamo lasciati e ripresi un sacco di volte. Volevo far l’ attrice ma non mi aiutava il mio carattere tremendo, un misto di timidezza e aggressività.

paola pitagora 3Con quel mio modo di fare era difficile trovar lavoro. Nello spettacolo al Vascello ci sarà un momento in cui Giulia, l’ attrice che interpreta me da giovane, rifiuta di mettersi in bikini a un provino. Ero così: pudica, non disponibile, agguerrita. Una volta al Caffè Rosati incrocio il direttore della rivista Le Ore che mi avverte: stiamo impaginando un servizio che ti ritrae al mare, vuoi vederlo?

paola pitagora 2Vado in redazione con lui, e prima che possa fermarmi prendo le forbici e taglio in due la mia foto in costume da bagno, distruggendogli il servizio. Mi odiarono! Poi, per pura fortuna, Bellocchio mi scelse in un provino e mi lanciò».

Ha scritto nel suo libro che i centauri della Scuola Romana erano degli autodistruttivi totali.

«Vero: quegli artisti rincorrevano la morte. Mi sono salvata perché sono una donna e perché sono di Parma».

Com’ era da vedere Piazza del Popolo, in quel periodo?

«Troppo affollata di macchine.

Intorno all’ obelisco c’ era un enorme parcheggio. Automobili addossate l’ una all’ altra riempivano l’ intera area che ora è pedonale. Ogni tanto bisogna spezzare una lancia a favore dei cambiamenti positivi avvenuti nel nostro tempo!».

Si rendeva conto, la giovane Paola, di assistere a una rivoluzione dei linguaggi artistici?

«Non realmente. Bevevo nettare senza saperlo. Adesso capisco la forza di quella spinta. Tutto era fuori dagli schemi: le opere di Pascali erano visioni immense di mare e campi. Kounellis piazzò dodici cavalli vivi nella galleria L’ Attico.

 

Come facevo a immaginare che l’ arte fosse anche così? Eppure quella precarietà si basava su una poetica solida e preveggente: oggi guardo i ragazzi che camminano ipnotizzati dai cellulari e penso agli Uomini Statistici di Mambor».

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Articolo di Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica – Roma”

COLD WAR

COLD WAR

UN MAGICO FILM DI BELLE IMMAGINI SU UN AMORE TRAGICO, COMBATTUTO DA BARRIERE POLITICHE E PSICOLOGICHE

“Nella Polonia alle soglie degli anni Cinquanta, la giovanissima Zula viene scelta per far parte di una compagnia di danze e canti popolari. Tra lei e Wiktor, il direttore del coro, nasce un grande amore, ma nel ’52, nel corso di un’esibizione nella Berlino orientale, lui sconfina e lei non ha il coraggio di seguirlo. S’incontreranno di nuovo, nella Parigi della scena artistica, diversamente accompagnati, ancora innamorati. Ma stare insieme è impossibile, perché la loro felicità è perennemente ostacolata da barriere d’ogni tipo”.(Marianna Carpi, Mymovie.it (qui)

 

Come se non avessimo tutti nostalgia delle grandi storie d’amore in bianco e nero, del comunismo dei tempi di Stalin, della ricerca etnomusicale e del jazz parigino anni 50. Ah! Se non ci fossero i comunisti a salvare il cinema… Cold War (Zimna Wojna), scritto e diretto da Pawel Pawlikowski, premiato al Festival di Cannes per la regia e dai recenti EFA a Siviglia con cinque premi, film, regia, protagonista femminile, sceneggiatura, montaggio, forte candidato all’Oscar per il miglior film straniero, incorniciato in un rigoroso e luminoso schermo in bianco e nero, è una bellissima storia d’amour fou ai tempi della Guerra Fredda, tra il 1949 e il 1964, imperdibile per cinefili d’ogni età.

Piangeranno calde lacrime seguendo i due protagonisti del film, l’elegante Victor, compositore e ricercatore musicale, interpretato da Tomas Kot, e la sua musa, Zula, contadina dalla bella voce e dal gran carattere (“mio padre una notte mi prese per mia madre, il mio coltello gli fece capire la differenza”), interpretata dalla notevole e già premiatissima Joanna Kulig, che Pawlikowski ci fece scoprire in un ruolo minore in Ida.

 

Il regista insegue i suoi eroi, realmente innamorati l’una dell’altro, attraverso i loro spostamenti in una Polonia stalinista, a Berlino Est, nella Parigi anni 50 dei fuoriusciti, nella Jugoslavia titina, fino a uno sciagurato ritorno a casa. Ma insegue anche le loro divagazioni e ricerche musicali nel corso degli anni, dalla seria ricerca folklorica sul campo, agli inni a Stalin, dalla musica da film per un piccolo horror italiano (che film sarà? aiuto…), al jazz alla polacca di Komeda.

Non è tanto lo stalinismo a mettersi di traverso al loro amore, quanto la consapevolezza del dover scendere sempre a compromessi, soprattutto artistici. Come il ricostruire in Occidente la vita di Zula, sorta di Barbara Lass musicale. Barbara Lass, anzi Barbara Kwiatowska era un’attrice polacca che scese in Italia proprio nei primissimi anni ’60, cambiandosi nome, assieme al suo marito di allora, Roman Polanski. La Guerra Fredda del titolo sembra così uno sfondo piuttosto che il protagonista della vicenda. Forse una metafora del loro amore.

Due attori meravigliosi che sarà difficile scordare, una tenuta registica perfetta, come lo era per il precedente Ida, applaudito in tutto il mondo, ma anche un meticoloso e mostruoso lavoro sulla musica, fanno di questo Cold War uno dei migliori film dell’anno che si sta chiudendo. In sala dal 20 dicembre.

Articolo di Marco Giusti per “Dagosia”

 

PATTY RUGGENTE

PATTY RUGGENTE

 

LA RAGAZZA DEL PIPER NEI MITICI ANNI 70, LE NOTTATE ROMANE, GLI ARTISTI DELLA POP-ART, LE CANZONI DI DALLA E BATTISTI, LA FUGA A SAN FRANCISCO- IN QUESTA INTERVISTA PATTY PRAVO PARLA DEI SUOI ANNI RUGGENTI E DEI TANTI AMORI  

 

Nel momento in cui sto per congedarmi dalla sua casa romana le chiedo se posso farle una foto. Mi guarda con la circospezione di chi sembra appena scesa da un’ astronave; poi con gentilezza mi dice di attendere. Va in un’ altra stanza e torna con un paio di occhiali scuri. Le chiedo che bisogno aveva di metterli. Mi dice che non è un problema di sicurezza o di estetica. Semplicemente gli occhiali segnano il confine tra il fuori e il dentro. «Il buio è una condizione che amo. Contrasta con il chiaro del mio corpo. Fin da bambina prediligevo il nero».

Erano parecchi anni che non incrociavo Patty Pravo, non la sua voce – che è stata quasi sempre presente – ma la sua figura levigata, tenue, minuta, i suoi gesti che in scena accennano senza interferire, senza promuovere, in una specie di teatralità minimalista. Siede su un divano sotto un grande Tano Festa che la ritrae con un cappellone che sembra quello del lui dei Coniugi Arnolfini e che fa molto anni Settanta. Periodo pazzesco, sottolinea. La guardo e non riesco a trattenere il pensiero che sia una delle pochissime artiste che può vivere di rendita.

Ora è appena uscito un suo nuovo cd: «È un pezzo della mia storia », dice, «ma la mia storia ha molto altro dentro».

Tra tutti i grandi interpreti lei mi sembra la meno ossessionata dalla musica.

«Le attribuisco lo stesso valore che do al silenzio. Forse hanno bisogno l’ uno dell’ altra».

Cosa apprezza del silenzio?

«Aiuta ad autosospendersi dal mondo. Un esercizio di purificazione. Mi accade ogni tanto di desiderare il silenzio sotto qualunque forma si manifesti: un viaggio da sola, una sosta in un luogo sconosciuto o, magari, essere semplicemente davanti a un uomo che ti guarda e tace. Questo mi fa tornare alla mente un episodio ».

Quale?

Lucio Battisti

«Ormai adolescente a Venezia, dove sono nata e dove ho vissuto, incrociai una coppia piuttosto anziana. Procedeva lentamente. Non sapevo chi fossero. Lei guardandomi sorrise. Lui sembrava un Jimi Hendrix invecchiato: i capelli erano una torre scomposta di riccioli, la barba rada e il pizzo gli davano un’ aria mefistofelica. Lui era Ezra Pound e lei Olga Rudge, la compagna dell’ uomo che non parlava mai. Mangiammo un gelato. Ci rivedemmo un’ altra volta soltanto».

Cosa accadde?

«Nulla o almeno nulla di apparentemente significativo. Quella coppia che viveva alle Zattere e scendeva dall’ imbarcadero sembrava fuori dal tempo. Lui non parlò mai. Seppi in seguito che era stato un grande poeta. Ma allora avevo quattordici anni ed ero solo Nicoletta Strambelli. Conservai quel ricordo come una preziosa gemma veneziana».

Lasciò Venezia quando?

Lucio Dalla

« A diciassette anni andai a Londra. Chiesi il permesso a mia nonna, con la quale vivevo. Ho avuto un rapporto fantastico con lei. Capiva perfettamente le mie esigenze. Un giorno le raccontai che avevo fatto l’ amore con un ragazzo. Si preoccupò solo che non fossi restata incinta. Le dissi che a Londra avrei imparato l’ inglese. Partii animata dalle migliori intenzioni scolastiche».

E invece?

«Mi trovai mescolata a un gruppo di persone che praticava musica, gente attratta dai locali che allora cominciavano a esplodere con le note dei Beatles e i concerti dei Moody Blues e degli Yardbirds. Fu elettrizzante. Venivo da otto anni di conservatorio. Mi ripromettevo una carriera da pianista o, meglio ancora, di direttore d’ orchestra. Mi ritrovai nello ballo e nello sballo. Qualcuno a Londra mi parlò del Piper, il locale che avevano aperto a Roma, decisi che valeva la pena andarci. Con un maggiolino lasciammo in tre l’ Inghilterra. Dopo una settimana arrivammo a Roma».

La sua intenzione era di cantare?

«Non avevo idea di che cosa avrei fatto. Conoscevo la musica, sapevo ballare e anche cantare. Ma nessuno era ad attendermi per un provino»

Dunque?

«La fortuna volle che al Piper trovassi Arbore e Boncompagni che cercavano spunti per la loro trasmissione Fui notata e raccontai dei miei trascorsi musicali. Mi presentarono al proprietario del Piper, Alberigo Crocetta, il quale volle sentire come cantavo.

Un’opera di Tano Festa

Non avevo tecnica, né esperienza. Restò colpito dal timbro della voce e dall’ intonazione. La prima canzone che registrai fu la cover cantata da Sonny & Cher. La traduzione fu di Gianni Boncompagni e la intitolò Imprevedibilmente, divenne subito un grande successo. Eravamo alla fine del 1966».

Che Roma frequentava?

« La città di eterno aveva la frenesia notturna. Il confine con l’ alba si spostava ogni notte sempre un po’ più in là. Ero giovane e bella, con la sensazione che ogni cosa era nelle mie mani e potevo disporne. Frequentavo gli artisti. Tano Festa, Franco Angeli e Mario Schifano. Nel 1966 Mario viveva in un loft di Campo de’ Fiori. Era una casa atelier, piena di tele accatastate. E spesso colma di gente strafatta. Fu lì che una sera si presentarono i Rolling Stones, che nessuno ancora conosceva, almeno in Italia».

Che ricordo ne ha?

Mario Schifano

«Eravamo tutti su di giri. In quel momento non mi resi certo conto che avrebbero rivoluzionato il modo di fare spettacolo rock. Roma se ne fregava dei miti a loro insaputa. Vivevamo sotto il segno del caso e dell’ improvvisazione. Pensi che una notte uscita dal Piper un amico mi disse “Nico”, perché allora mi chiamavano ancora Nico, “vieni che c’ è un tale nella mia macchina che vuole vedere Roma di notte”. Chi è? chiesi. Vieni, è una sorpresa».

Chi era?

«Jimi Hendrix venuto a Roma per un paio di concerti. Salii sulla Cinquecento e vidi quest’ uomo avvolto da una sciarpa di piume. Ci salutammo. Sorrise. Salii a fatica nel dietro della macchina. Lui si voltò. Sembrava un uccello dalle grandi ali. Avvertivo il fumo stordente di una canna. Fu a quel punto che Marozzi, il mio amico, partì sgommando verso la notte».

Dove andaste?

«Non c’ era una meta. In quei giorni cercavano il bandito Vallanzasca. Ci fermarono a un posto di blocco. Nessuno di noi tre somigliava al “bel René”. E fu una fortuna».

EZRA POUND

Ezra Pound

Dopo il successo di ” Ragazzo triste” come cambiò la sua vita?

«Non credo che cambiò di molto. Nel frattempo ero diventata “la ragazza del Piper”. Nonostante la visibilità improvvisa, con i miei desideri e trasgressioni ero sempre io. Mi innamorai di un musicista. Fu la prima volta che mi sentii davvero coinvolta. Era Gordon Faggetter, batterista dei Cyan Three. Realizzai un altro paio di cover che ebbero successo: Qui e là e Se perdo te. Partecipai a qualche programma televisivo e poi arrivò, come un colpo di tuono, La bambola. Fu un botto pazzesco».

È vero che all’ inizio detestava quel brano?

«Lo trovavo pieno di stereotipi. Alla fine mi convinsi a cantarlo perché il messaggio vero parlava di una donna che si ribella alla condizione di essere solo un bell’ oggetto. Il pubblico femminile ha molto amato questa canzone che, tra l’ altro, ha venduto nel mondo milioni di dischi».

Era il 1968 quando la cantò la prima volta?

«Sì, un anno speciale».

Per molti cantanti cominciò un periodo complicato, segnato da processi politici e accuse varie.

«Ma non subito, l’ aria divenne irrespirabile qualche anno dopo. Per fortuna io avevo già lasciato l’ Italia per la California. Anche se qualcuno tra i giornalisti dotati di meno fantasia non mi aveva risparmiato l’ accusa di fare canzoni destrorse. Del resto qualcosa di analogo era accaduto con Lucio Battisti».

Conosceva bene Battisti?

«Certo, il ragazzo più spontaneo che abbia mai incontrato. Un giorno all’ aeroporto, sentii uno urlare “A Nicole’, ma quanto l’ hai pagato quel cappotto?”. Era Lucio che indossava esattamente lo stesso soprabito. Era fatto così. E se non gli stavi bene ti sfanculava con la rapidità di un cobra. La sua musica è stata geniale e pop come nessun’ altra in Italia».

A proposito di pop lei ha fatto molte apparizioni a Sanremo. Non strideva la sua immagine anarchica con quella convenzionale del Festival?

«Effettivamente sono stati parecchi i Sanremo cui ho partecipato. Cominciai nel 1970 cantando in coppia con Little Tony La spada nel cuore. Non so cosa dirle. Amo frequentare i luoghi più diversi senza rinunciare alla mia immagine. Oltretutto, se dieci milioni di persone ti ascoltano, che fai gli dici andate a cagare?».

Luigi Tenco è stato un po’ il confine tra questi due volti di Sanremo. C’ è una foto che la ritrae con lui e Lucio Dalla. Ne ha un ricordo?

«Dalla lo conobbi che avevo 14 anni. A Venezia. Un artista generosissimo. Diventammo amici. Una sera a Roma, credo fosse luglio, faceva un caldo spaventoso. Uscimmo dall’ albergo io in shorts e lui in mutande e ciabatte. Una visione orrenda anche se divertente. Era l’ uomo più peloso che avessi mai visto. La gente ci guardava come fossimo due appena usciti da una seduta psichiatrica. Per un momento pensai che coppia saremmo stati: la bella e la bestia».

PATTY PRAVO

Nicoletta Strambelli a Venezia prima di diventare Patty Pravo

Quanto a Tenco?

« Di lui è stato detto tutto. Bisognerebbe tacere. Era fragile e affascinante. Ed è giusto che molti ancora oggi lo ricordino con ammirazione ».

Perché decise di lasciare l’ Italia?

« Troppo stress. E poi era finita la storia con Roger. Problemi con la mia casa discografica e soprattutto il successo di Pensiero stupendo invece di moltiplicare le energie me le ridusse ai minimi termini. Qualcuno insinuò che era colpa della droga».

Era vero?

«Per un decennio ci ho dato dentro con le sostanze: soprattutto fumo, anfetamine, acidi. Ma non era quello che mi stava demotivando. Decisi di staccare. Troppa tensione, troppa visibilità. Volai in California: a San Francisco. Non era più la città degli hippie, ma conservava un grande senso di libertà. Avevo deciso di sparire per un po’ e lì, tranne alcuni amici musicisti, non mi conosceva nessuno. E nessuno si interessava a me».

Le capitò di incrociare o frequentare Ferlinghetti?

Veduta di San Francisco

« Mai. Sapevo che aveva una libreria piuttosto famosa nel centro di San Francisco. E che era uno degli ultimi esponenti della Beat Generation. Peccato. Ma in quel periodo avevo occhi solo per Rimbaud. Ero stregata da quel giovane che di punto in bianco lascia tutto e se ne va in Africa a fare il mercante d’ armi. Mi piacciono le vite degli scrittori e degli artisti che alle fottute lingue dei critici oppongono il decoroso silenzio».

Però la sua vita è stata abbastanza rumorosa.

«Forse per contrasto a questo rumore ogni tanto mi rifugio nel silenzio».

Una vita anche costellata da tanti amori.

«Non mi sono mai tirata indietro».

Cinque matrimoni, ho letto.

sanremo patty pravo

«Mariti, amanti e qualche amico vero. Un amico che mi manca è Sergio Bardotti».

Scrisse per lei “Se perdo te”.

«È stato un grande: nella musica e nell’ amicizia. Quando abitavo al Pantheon capitava che la notte andassimo a sederci sugli scalini della fontana. Restavamo a volte fino all’ alba. Certe mattine intorno alle cinque vedevamo passare Giulio Andreotti. Era solo e credo che andasse in chiesa, prima di recarsi a lavoro.

Sostava un attimo davanti a noi e ci chiedeva come state. E noi, sorridendo: mai stati meglio, presidente. Era quella Roma, dove la sera tardi incontravi Fellini che tornava da una cena: “Ti devi far crescere le tette”, mi diceva. Era quella Roma di cui si è persa traccia. Troppo cambiata, troppo irriconoscibile. Così poco cinicamente confidenziale».

Cosa cambierebbe oggi nella sua vita?

« Mi fa venire in mente La cambio io la vita che, una mia canzone ma anche il titolo del libro autobiografico. Non so cosa cambierei. Perché quando il mutamento arriva io sono già un passo oltre. Ho girato il mondo. A volte senza conoscere nulla: un albergo, un concerto, un pasto, una notte e poi via.

A volte emozionandomi per l’ irripetibilità di certi luoghi: i deserti dell’ Africa e dell’ Asia, i volti di certe popolazioni, la bellezza discreta di alcuni villaggi. La concezione del tempo e dello spazio che non è la stessa ovunque. Lontana da tutto ma vicina al mio cuore. Cambiare ma senza la retorica del cambiare. Lo so è difficile. E poi non mi piace guardarmi indietro. Mi piace pensare che ogni storia è la mia storia».

PATTY PRAVO COVER

Articolo di Antonio Gnoli per la Repubblica

 

I TRE SOGNI DELL’AFRICA

I TRE SOGNI DELL’AFRICA

“Il futuro del pianeta si giocherà in larga misura nel continente africano e questa svolta costituirà il principale evento economico, culturale e filosofico del XXI secolo.” Nella bella intervista al filosofo e politologo Achille Mbembe si parla dei problemi dell’immigrazione, agitati come spauracchio dai populismi, del neo colonialismo di Francia e Inghilterra “detriti del passato che rallentano il nostro sviluppo”, della Cina che per prima ha capito in che direzione va la storia.  

La ricchezza di materie prime e la crescita demografica spingono il continente. Autonomia dai lacci coloniali, relazioni con la Cina, autocoscienza del proprio ruolo internazionale sono per Achille Mbembe, teorico del Postcolonialismo, le strade per la rinascita.

Sistemi democratici poco solidi, guerre civili, estremismo religioso, primavere arabe che non hanno prodotto i risultati sperati, dipendenza economica. Il filosofo e politologo camerunense Achille Mbembe, tra i più autorevoli esperti di studi postcoloniali, non nega i problemi che l’Africa deve affrontare ancora oggi e che spingono parte della popolazione a fuggire. Ma, è sicuro, «il mio continente si rialzerà, prima di quanto molti si aspettino».

Docente a Johannesburg dopo la formazione alla Sorbona di Parigi e l’ insegnamento in atenei prestigiosi come la Columbia University di New York, Mbembe analizza con «la Lettura» il ruolo dell’Africa nell’attuale scacchiere geopolitico e in quello del futuro. Acquisire piena autonomia sciogliendo definitivamente i lacci coloniali, costruire un’alleanza con la Cina, concepirsi in relazione con il mondo, andando oltre la pur legittima rivendicazione dell’identità africana, sono le linee guida della possibile rinascita. Il filosofo ne parla in occasione della pubblicazione in italiano, per Meltemi, del suo saggio Emergere dalla lunga notte. Studio sull’Africa decolonizzata e in attesa che esca a marzo, per Laterza, la traduzione di Politiques de l’inimitié (La Découverte, 2016).

Oltre mezzo secolo dopo la decolonizzazione, l’Africa è ancora immersa nella «lunga notte»?

«L’alba potrebbe essere ancora lontana, ma il futuro non è segnato. La stessa percezione dell’Africa non è più solo quella di un focolaio di problemi irrisolvibili, ma di un laboratorio planetario. Il nostro continente è l’ultimo deposito di una ricchezza non sfruttata: minerali nel sottosuolo, piante e animali, acqua, sole, tutte le forme di energia sotto la crosta terrestre. Senza contare la rivoluzione demografica. In meno di trent’anni l’Africa rappresenterà il 26,6% della popolazione mondiale. Il futuro del pianeta si giocherà in larga misura nel nostro continente e questa svolta costituirà il principale evento economico, culturale e filosofico del XXI secolo. Dobbiamo accompagnarlo perché andrà a beneficio di tutta l’umanità. Solo l’Europa lo considera una minaccia».

Si vedono già segni di rinascita?

«Ovunque vada nel continente africano, sono testimone dell’emergere di una nuova coscienza storica e decolonizzata, specie tra le giovani generazioni. Si basa sulla convinzione che la storia non è una ripetizione. Non ci serve imitare gli altri. Molti di noi ora credono che, con l’auto-organizzazione e piccole aperture, si possa cambiare la direzione dei prossimi 25-30 anni».

Quanto alla memoria della colonizzazione, in «Emergere dalla lunga notte» lei osserva che l’atteggiamento delle potenze europee è stato «una miscela di laissez-faire, di indifferenza, di volontà di non saperne nulla e di prontezza nel disfarsi delle proprie responsabilità». Che cosa dovrebbero fare oggi?

«L’Europa non sarà mai in grado di restituire quanto ci ha sottratto. Noi vivremo con questa perdita. L’Europa, da parte sua, deve assumersi la responsabilità dei suoi atti, di quella parte oscura di storia condivisa di cui ha cercato di disfarsi. Per tessere nuovi legami, bisogna onorare la verità. Dovremmo imparare a ricordare insieme. La strada non è ritirarsi in sé stessi, ma contribuire al sorgere di un mondo in cui potremmo tutti abitare».

L’Europa si sta ritirando in sé stessa? In «Politiques de l’inimitié» lei ricorda che non è più un «centro di gravità» del mondo.

«Il contributo dell’Europa alla storia è stato oneroso, ma di grande valore. Ora non è più il luogo a cui rivolgersi per reinventare il mondo. Rimarrà un enorme archivio per chi vuole arrancare tra i detriti del passato».

Oggi uno dei temi più delicati in Europa è la gestione dei migranti dall’Africa. Come va affrontato?

«L’Europa progetta di trasformare il continente africano in un gigantesco Bantustan (i territori della Repubblica Sudafricana assegnati alle etnie nere nell’epoca dell’apartheid, ndr). Ora sta legando il cosiddetto “aiuto allo sviluppo” a condizioni inaccettabili. Corrompe i despoti africani. Li incoraggia a trattenere i migranti in campi improvvisati prima che siano deportati o abbandonati nel deserto. È come se i confini europei si fossero spostati in territorio africano: nel deserto del Sahara; in Marocco, Libia e Algeria, dove si è riattivato un secolare razzismo contro i neri; in Niger dove il governo francese ha istituito centri di smistamento per separare quei corpi che vale la pena considerare rifugiati e quelli che appartengono alla categoria criminalizzata dei migranti economici. La guardia costiera spagnola è sull’isola di Gorée in Senegal e pattuglia le coste. Questo “spostamento” del confine nei luoghi di origine della migrazione è politicamente e moralmente inaccettabile».

Perché prevale questa linea?

«In Europa assistiamo a una forte svolta isolazionista accompagnata da bugie e discorsi di paura. In parte hanno a che fare con l’ignoranza, in parte con il puro razzismo. Ancora più decisiva è l’annessione di categorie come la sicurezza, i rischi, le minacce e l’incertezza nel discorso della finanza e dell’economia, come fossero beni che possono essere scambiati. La paura fa parte di questa nuova economia speculativa, viene comprata e venduta. Questo suo incorporamento sia nei linguaggi culturali pubblici sia nell’economia produce quel tipo di politica viscerale che molti chiamano populismo. Forse abbiamo raggiunto il punto in cui la più grande minaccia alla democrazia è il capitalismo senza regole. L’Europa non può continuare a fomentare il caos in Africa e sperare di essere risparmiata dalle conseguenze. Ciò che viene chiamato “migrazione” o “crisi dei rifugiati” è in parte conseguenza delle politiche europee in Africa».

Lei è molto critico con la Francia: sostiene che non si è mai liberata delle categorie coloniali.

«Ci sono innumerevoli esempi, a cominciare dal sostegno che offre ad alcuni tra i tiranni più brutali, cinici e corrotti d’Africa. A questo si aggiunge la presenza di basi militari in numerose ex colonie. Potrei menzionare anche il franco Cfa (la valuta utilizzata da 14 Paesi africani, in passato legata al franco francese e oggi all’euro, ndr): uno strumento di stupro economico ed estorsione finanziaria. La politica africana francese ha, sin dai tempi coloniali, una combinazione di mercantilismo, militarismo e paternalismo razzista. Non cambierà fino a quando gli africani non si ribelleranno».

Theresa May ha compiuto un viaggio nell’Africa subsahariana per rinnovare le partnership dopo la Brexit. Il referendum ha cambiato i rapporti?

«La Gran Bretagna è stata una potenza imperiale. Grazie a Dio non ha più le risorse per colonizzare nessuno. E mentre acquisisce lo status di un nano, di una piccola e disorientata nazione insulare che soffre di sbornia coloniale, il resto del mondo non si ferma ad aspettare. La storia è piena di ex potenze diventate insignificanti, consumate dalla meschinità e dal bigottismo».

La Cina è invece il primo partner commerciale dell’Africa e ha assicurato anche collaborazione militare. Si rischia una forma di «neocolonialismo»?

«Il razzismo verso la popolazione nera ingolfa diverse parti del mondo, dunque l’Africa deve trovare in sé le risorse per sollevarsi. La più grande sfida è aprirsi a sé stessa, trasformarsi in uno spazio di scambio e circolazione, eliminando i vecchi confini coloniali. Per farlo è importante costruire le infrastrutture. La Cina è l’unico Paese al mondo disposto a contribuire con massicci investimenti in strade, autostrade, ferrovie. E questo ovviamente è vantaggioso per il nostro continente. La Cina ha capito che, a medio e lungo termine, la sua ascesa verso l’egemonia mondiale dipenderà dall’accesso alla ricchezza dell’Africa. Da un punto di vista geopolitico, uno dei cambiamenti chiave del XXI secolo sarà che l’Africa diventerà gradualmente una questione cinese, proprio come la Cina diventerà una questione africana».

Donald Trump ha annunciato una riduzione delle truppe nel vostro continente. Le relazioni Africa-Stati Uniti sono cambiate sotto la sua presidenza?

«C’è una diaspora africana potenzialmente influente negli Usa ma, sia durante la guerra fredda sia con Obama, l’America è stata un giocatore insignificante nel nostro continente. Ne ha un’idea antiquata e distorta».

A proposito di diaspora, lei propone la nozione di «afropolitismo» al posto di quella di «afrocentrismo». Che cosa vuol dire in termini pratici?

«Ci sono varie rappresentazioni dell’Africa. Alcune, forgiate nel crogiolo della schiavitù, della conquista coloniale, del brutale sfruttamento, hanno cancellato l’Africa: un continente fuori dalla storia. Ecco, abbiamo perso troppo tempo a confutare questi punti di vista. Non c’è un angolo del mondo che non abbia la sua parte di presenza africana e, allo stesso tempo, non c’è un angolo di Africa in cui il mondo e l’eredità dei non africani non sia presente. Il nostro è un continente mondiale piuttosto che tagliato fuori, è la quintessenza del movimento e della circolazione. Questo è ciò che ho chiamato afropolitismo. Ed è dal nuovo punto di vista del pianeta che dobbiamo riprogettare il discorso sull’Africa».

Non è utopistico oggi che si rialzano i muri?

«Non abbiamo altra scelta che creare un contro immaginario. Eravamo abituati a pensare in termini di locale, nazione-stato, regione. Ma, nonostante l’ attuale spinta a risorgere, alla fine lo Stato nazionale diventerà inadeguato a risolvere i problemi. Un numero senza precedenti di esseri umani è sempre più coinvolto all’interno di tecnologie complesse, su scala planetaria. La questione chiave sarà piuttosto se la nostra civiltà tecnologica, energetica e ad alta intensità di carbonio sarà la migliore garanzia per la sopravvivenza. In questo contesto, è il futuro stesso della vita, della Terra, dell’uomo e di altre specie a diventare il centro di ogni re-immaginazione delle relazioni internazionali, della democrazia, dell’umano nei nostri tempi».

Articolo di Alessia RASTRELLI, apparso su La Lettura del 18 novembre 2018 

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