UNA VOCE DEL PASSATO

UNA VOCE DEL PASSATO

Consegnare le chiavi di una stanza che contiene i tuoi ricordi a un filmmaker è un atto di coraggio e forse di abbandono. Lasciarsi riprendere mentre quella porta «mai varcata» si apre e le chiavi passano di mano suggella un patto. Joan Baez quel patto l’ha sottoscritto e, sostiene, non se n’è pentita. «Lì dentro c’era una miniera d’oro» dichiarerà, a film finito, Karen O’Connor, una delle tre registe di Joan Baez. I am a Noise, presentato nella sezione Panorama dell’ultima Berlinale, appena uscito nelle sale americane e, il 4 novembre, a Firenze ad aprire il Festival dei Popoli.

Centinaia di pagine di scritti e lettere, filmati e fotografie di famiglia, schizzi, registrazioni audio, sedute di psicoterapia e ipnosi comprese. Se la vita pubblica della musicista che ha incarnato la coscienza sociale di un Paese e la spinta contro culturale della generazione del dopoguerra appartiene a chi l’ha seguita in 60 anni di musica e battaglie politiche (quaranta album, quasi tutti gli onori musicali compreso, nel 2017, l’ingresso nella Rock & Roll Hall of Fame), la donna che Joan Didion, nel reportage scritto durante la Summer of Love del 1967 e contenuto in Verso Betlemme, definì «priva di astuzia», solo oggi, a 82 anni, ha scelto di consegnare al mondo aspetti inediti del suo privato e fragilità profonde: quel «su e giù» continuo con cui ha convissuto dall’adolescenza, «quando l’espressione attacco di panico non esisteva». Ma anche il sospetto («non ho le prove» confermerà) che il padre abbia molestato lei e la sorella Mimi quando erano bambine.

Joan Baez e Bob Dylan, agosto 1963 – Washington, DC, United States of America

Il film contiene una lettera scritta ai suoi genitori, in cui parla del «compito sconvolgente di ricordare». Quegli abusi in realtà non fanno parte dei suoi ricordi, sembrano basarsi su sensazioni più che su fatti.

«Non ho cercato di provare niente. E ho voluto aspettare che tutta la mia famiglia se ne fosse andata per parlare. Ne sarebbero stati devastati, come lo sono stata io. L’ho fatto a nome di tutte le persone che hanno vissuto esperienze simili, perché spesso sono marginalizzate, non vengono credute, e so che questo mio passo le aiuterà. Siamo state molto caute, non volevamo che questa rivelazione dominasse il film, fare sensazionalismo. Sentire la voce di mio padre registrata dire: “I love you” ancora mi spezza il cuore. Perché so che è vero, mi amava».

Come pensa reagirà chi lo conosceva quando vedrà il film?

«Credo che proverà orrore. Oppure troverà quelle scuse che si formulano in questi casi: “Era diventato pazzo”. Ma nel film si parla anche di perdono».

È sempre il desiderio di condivisione che l’ha spinta a parlare candidamente della sua fragilità?

«A 16 anni mi sembrava di essere l’unica al mondo a soffrire di qualcosa di sconosciuto. E più tardi mi è anche capitato di sentirmi schiacciata dal terrore prima di uno spettacolo. Allora chiedevo: “Spingetemi sul palco”. Una volta lì, me la cavavo».

Dopo due memoir aveva ancora desiderio di raccontare. Come si sente dopo avere rievocato ricordi dolorosi?

«Sollevata, felice che il risultato sia questo. Restava un grande periodo della vita ancora da esplorare, il primo memoir l’ho scritto quando avevo vent’anni, il secondo risale agli anni Ottanta».

Ha rappresentato un simbolo per i Sessanta e Settanta non solo in America. Come si convive con quella sensazione e come s’accetta il cambiamento?

«È così diverso quel tempo da quello in cui viviamo. Io allora ero come caduta dal cielo. Erano gli anni giusti, i decenni giusti. E ho avuto la fortuna di essere lì. Sono consapevole di quello che rappresento rispetto a quel periodo, e non solo per chi l’ha vissuto. Un ragazzo una volta mi ha detto: “Avrei davvero voluto vivere quella fase fantastica. Avevate tutto, la musica, la guerra in Vietnam (sorride). E avevate la glue” (letteralmente colla, in gergo è la capacità di creare una comunità intorno a un ideale, ndr). Aveva ragione. Qualcosa ci univa, c’era un senso di partecipazione che ora non vedo in America. Ci sono persone in gamba dappertutto, succedono un sacco di cose interessanti, ma non c’è più la consapevolezza di far parte di un movimento comune. Siamo stati ingannati dalla propaganda e dalle bugie, e non avrei mai creduto che questo potesse succedere in America».

È possibile smettere di essere una creatura politica?

«Impossibile. Ma non mi sento un’attivista. È un termine che fa subito pensare a qualcuno che scende in strada con una bandiera. Gli esseri umani sono più importanti del nazionalismo, più importanti di una bandiera. Allora ero abbastanza intelligente da sapere che We Shall Overcome (“ci riusciremo”, l’inno del movimento per i diritti civili, ndr) non si sarebbe realizzato, che io non lo avrei visto. Non puoi aspettarti che una marcia risolva tutto. Ma anche se ho lasciato le scene, continuo a ritrarre chi lavora per il cambiamento non violento (col progetto Mischief makers, joanbaezart.com, ndr)».

Non è più tempo per le grandi battaglie delle idee?

«Credo nelle piccole vittorie, che sono importanti per ridimensionare la grandi sconfitte. Lo scenario è cupo, ma ogni piccola organizzazione onesta può fare la differenza».

C’è un ritratto di Bob Dylan sopra il pianoforte nella sua casa di Woodside dove si apre il film. Su di lui, sul suo abbandono, aveva scritto la canzone «Diamond and Rust». Eppure nel film a un certo punto dice che eravate solo amici: un ridimensionamento?

«No (ride), non era così. Quando ho fatto il ritratto di Bob l’ho dipinto ascoltando la sua musica. Ricordo che, dopo aver versato una buona dose di lacrime, mi sono resa conto che in me non era rimasto alcun risentimento. Mi sento fortunata per averlo conosciuto bene, avere la sua musica, essere stata lì in quel periodo. È rimasta solo gratitudine. E Diamond and Rust è la cosa migliore che io abbia mai scritto».

Nel film parla senza rammarico anche della voce che cambia, della fatica per preservarla. Qual è stato il periodo più bello per la sua voce?

«Ce ne sono stati un paio. Proprio all’inizio — e quando riascolto i dischi mi stupisce molto quello che ero in grado di fare allora. E poi ce n’è stato un altro, verso la fine dei trent’anni. Quella con la voce è stata la vera battaglia della vita per me, e lasciare il tour una decisione sofferta, ma giusta. Di recente ho scoperto di avere una voce nuova (nel film la sua coach le chiede “dove l’hai trovata?”, e lei risponde: “Da qualche parte nel mio passato”, ndr). È molto più bassa di quella di un tempo, ma è una benedizione».

Non ha paura di avere rimpianti per aver lasciato il palcoscenico?

«No, ho smesso di scrivere canzoni anni fa. Ho capito che le parole non sarebbero più arrivate. E poi non sono sfaccendata, anzi non sono mai stata così impegnata come ora. Ho pubblicato un libro di disegni capovolti, si intitola Am I Pretty When I Fly?, “Sono carina quando volo?”, che rappresenta la conclusione di un processo: ritrarre il mondo capovolto, raddrizzarlo, e a quel punto provare a capire che cosa mi suggerisce. E sto scrivendo un libro di poesie».

È sempre stata multitasking?

«Essere multitasking mi ha salvato la vita, conosco il successo, la sua natura, ma non mi interessa».

Ha mai cercato di incorporare nella sua arte le radici messicane paterne, radici che da ragazza, rivela, erano causa di «un complesso di inferiorità»?

«Non quanto avrei dovuto. Ho certamente incorporato le radici scozzesi di mia madre. Tutte le mie prime canzoni erano ballate. Solo molto dopo ho inciso un album in spagnolo, ma fu una scelta politica, determinata dal colpo di Stato in Cile. Scrivere canzoni nella lingua del popolo cileno è stata la mia reazione».

Nel film parla apertamente di tutto, amori compresi. A che punto è?

(ride) «Quando mi sono sposata volevo essere la moglie perfetta. Mi immaginavo preparare la zuppa circondata da un sacco di bambini. Ma era una fantasia, perché la vita che facevo rendeva tutto impossibile. Dopo anni e molto lavoro su di me ho capito che non desidero trovare qualcuno. Sono felice come sto adesso».

La musica può ancora essere decisiva per il cambiamento sociale?

«Non ho mai smesso di crederci e ho sempre lavorato perché fosse così. Ma ho anche avuto la fortuna, di non prendermi troppo sul serio. È anche capitato che il gruppo mi dimenticasse, che il bus del tour partisse senza di me per uno dei miei concerti più importanti! Quando ho rivisto la scena nel film ho riso fino alle lacrime. Ma da allora è cambiato tutto: ora la difficoltà è trovare la piattaforma giusta per produrre vero cambiamento. Mia nipote, 19 anni, è musicista e studia i meccanismi della produzione a Miami. Mi ha detto: “Sto per pubblicare il mio primo singolo”. E io: “Ma come fai? Chi te lo produce?”. Lei: “È già su Spotify”. Lei sa che i consigli di sua nonna in questo campo ormai sono inutili».

Ascolta sempre musica?

«Un tempo ero una terribile snob. Pensavo che una vera canzone popolare fosse tale solo se ti era stata tramandata da tuo nonno. Ora ascolto i Gipsy King, l’opera, il pop arabo e alcuni dischi di musica classica che mi ha lasciato mia madre».

Nel film ammette, e noi confermiamo: «Sono in forma per la mia età».

«Mia madre aveva buone ossa, mio padre una bella pelle. E non mi sono mai drogata seriamente. Ho usato Quaalude (farmaco con azione sedativa e ipnotica, molto popolare negli anni Settanta, ndr) per un periodo, ma non ho mai preso la roba tosta. E poi, mi hanno fatto notare, che nei filmati d’archivio avevo sempre una mela in mano».

Paola Piacenza per Il Corriere della Sera

NASCE IL PRIMO ARCHIVIO DIGITALE DEL DISEGNO INFANTILE DI SCARABOCCHI E FUMETTI

NASCE IL PRIMO ARCHIVIO DIGITALE DEL DISEGNO INFANTILE DI SCARABOCCHI E FUMETTI

Se gli scarabocchi dei bambini non fossero solo dei fogli di carta pasticciati? Se i disegni infantili raccontassero le storie di chi li ha realizzati? Se dietro un’inesperta traccia grafica ci fosse scritto chi siamo, dove andiamo, come siamo arrivati qui? Che sia (almeno un po’) così è convinto Stefano Calabrese, ordinario di Semiotica del testo all’Università di Modena e Reggio Emilia.

«Il nostro sistema culturale — spiega il professore a “la Lettura” — ci ha abituato a parametrare lo sviluppo del cervello del corpo umano a quello della cultura; quindi partiamo culturalmente da Omero, per noi tutto comincia più o meno da lì. Invece le nostre aree visive si sviluppano molto prima con Homo erectus, che appare circa 1,8 milioni di anni fa restando a lungo, fino circa al Paleolitico superiore intorno ai 100 mila anni a. C., e che ha processato la realtà servendosi soprattutto delle aree visive: ha scattato “fotografie” dell’habitat in cui viveva per trarne vantaggi o preparare difese immunitarie».

Insomma, la parola è arrivata molto dopo, per cui la grammatica su cui abbiamo costruito il linguaggio verbale è la grammatica visiva: il linguaggio è nato su una base visiva. Un esempio? «In tutto il mondo “su” è buono e “giù” è cattivo; questa è una metafora che deriva dalla grammatica del linguaggio visivo». In tutto questo i bambini cosa c’entrano? «Hanno ereditato questa grammatica arcaica, perciò quando disegnano, fino a che noi non li civilizziamo, ed è necessario farlo beninteso, loro ci parlano con il linguaggio ancestrale».

Così un bambino di tre anni non racconta a parole, ma disegna e per farlo ricorre a un alfabeto ereditato da migliaia di anni, non adulterato dalla cultura di riferimento. «Guardare un disegno infantile significa aggirarsi in un’altra epoca. È come se vedessimo il mondo come lo si vedeva nel Paleolitico superiore».

Alla luce di ciò la nascita del primo Archivio digitale del disegno infantile — che verrà presentato il 12 novembre al Learning More Festival a Modena e inaugurato il 20 novembre al dipartimento di Educazione e scienze umane a Reggio Emilia — è un passaggio importante, fondamentale. «Sarà uno strumento per antropologi, psicologi, sociologi, studiosi. Abbiamo iniziato con settecento disegni raccolti in buona parte nella nostra regione. Per incrementare l’Archivio saranno contattate le sovrintendenze scolastiche di tutt’Italia. Vi confluiranno materiali da musei storici della scuola, come quello di Torino, e da raccolte internazionali, come quella di un maestro tedesco che negli anni Sessanta e Settanta nella zona della Baviera faceva disegnare tantissimo i bambini. L’Archivio diverrà una testimonianza dell’immaginario infantile di epoca in epoca, potremmo scoprire come concepivano ambiente, famiglia, relazioni, emozioni attraverso testimonianze di prima mano».

Guardare un disegno infantile significa per Calabrese aggirarsi in una «foresta arcaica». Nello scarabocchio di un bambino di due-tre anni c’è già una storia: «Il soggetto che disegna sé stesso in preda alla rabbia si rappresenta dall’interno non dall’esterno, mostra il proprio stato interiore. Il disegno racconta che è accaduto qualcosa, che c’è un soggetto, che ci sono una causa e un effetto. Raffigurare un vortice che si muove circolarmente in senso orario mostra il modo in cui, durante un picco di aggressività, il cortisolo rende i neuroni più attenti allo scatto in avanti: uno scribble, uno scarabocchio, è in questo caso una autentica radiografia della collera».

L’Archivio — nato in collaborazione con il Centro interdipartimentale di ricerca sulle Digital Humanities dell’Università di Modena e Reggio Emilia (Dhmore), il servizio comunale di Reggio Emilia «Officina Educativa» e l’agenzia didattica Future Education Modena — fa capo a un gruppo di ricerca coordinato da Calabrese e di cui fanno parte Valentina Conti, ricercatrice in Narratologia, e Ludovica Broglia, assegnista di ricerca. Il loro lavoro si fonda su criteri scientifici grazie a una rigorosa metadatazione attraverso tags, parole chiave, schedature. Spiega lo specialista: «L’idea è che uno studioso tra vent’anni possa, usando un tag, per esempio rosso, comparare tutte le situazioni in cui il rosso è presente; oppure taggando la parola casa vederne le rappresentazioni in fasce d’età e in epoche diverse». I disegni prodotti da bambini e adolescenti sono suddivisi in quattro categorie a seconda dell’età degli autori e del livello scolastico (Nido, 0-3 anni; Scuola dell’infanzia, 3-6; Scuola primaria, 6-11; e Scuola secondaria, 11-14).

Accanto alla volontà di dare importanza alla visual history c’è anche, da parte dello studioso, il proposito di reintrodurre il disegno nelle attività di apprendimento, metterlo all’interno nei programmi scolastici. «Il disegno è compatito, siamo vissuti in un contesto culturale che ha depresso l’immagine e favorito la parola. Nel nido e nella scuola dell’infanzia si ritiene che i bambini non abbiano capacità cognitive tali da passare a utensili di tipo verbale, allora li si fa disegnare. C’è ancora il pregiudizio del bel disegno, a noi, invece, non importa se un disegno è bello oppure no, l’importante è il disegno. È un linguaggio consustanziale ai bambini, non appreso, adamitico; uno strumento semiotico con cui riescono a esprimersi e trasmettere emozioni».

Non è un caso l’attenzione che oggi ha assunto il visual storytelling: l’avvento del digitale, della tecnologia informatica e del web ha messo in evidenza la facilità con cui ci relazioniamo al linguaggio visivo. «Fino a vent’anni fa, i test di neuro-imaging rilevavano un’attivazione delle aree occipitali della visione nel corso della lettura di testi verbali solo nel caso delle lingue ideogrammatiche orientali, mentre oggi i test di lettura sui media digitali rivelano la medesima attivazione cerebrale. Non leggiamo le parole, le guardiamo e poi le interpretiamo». E aggiunge: «La sperimentazione neuro-cognitivista dagli anni Novanta fornisce altre prove indubitabili di questa epocale riscoperta del linguaggio visivo, di cui gli emoji sono solo l’effetto di superficie».

Un altro esempio molto attuale viene dalle graphic novel, genere che ha conquistato in pochi anni una fetta importante del mercato del libro. «Abbiamo capito che per organizzare le nostre informazioni usiamo le narrazioni, di solito pensiamo alle narrazioni verbali ma oggi sono invece le narrazioni sequenziali ad avere un enorme successo. In Francia gran parte dell’alfabetizzazione passa da lì; i libri di testo nella scuola di primo e di secondo grado presentano graphic novel. L’immagine consente una comprensione e una memorizzazione migliori, attraverso i fumetti i ragazzi ricordano meglio».

Severino Colombo per La Lettura, Il corriere della Sera

UN MARE TUTTO FRESCO DI COLORI

UN MARE TUTTO FRESCO DI COLORI

A Perugia presso la Galleria nazionale dell’Umbria sono esposte fino a gennaio le opere raccolte in vita da Sandro Penna, poeta per vocazione, mercante per necessità. Pregevole esposizione con diversi capolavori della pittura italiana del ‘900.

Molti hanno negli occhi le foto della casa di Sandro Penna negli ultimi, faticosi anni della sua vita. Un cumulo di oggetti, un disordine inestricabile e un lettuccio su cui il poeta passava alla fine gran parte del tempo. Non tutti sanno che alle pareti, ma anche altrove nella casa, accatastate, accumulate, si trovavano opere di artisti importanti, raccolte nel corso del tempo dal poeta. Penna aveva fatto per anni, specie con il rarefarsi dell’ispirazione poetica, uno strano mestiere, che poi mestiere in senso stretto non era. Acquistava o si faceva donare dagli artisti tele, opere grafiche, litografie e poi rivendeva, specie nei momenti di necessità, alcuni di quegli oggetti d’arte, senza essere propriamente un mercante, né un critico, né un gallerista.

Sandro Penna nella sua casa

Penna viveva insomma nella casa, sempre più dissestata e disordinata, di via della Mola dei Fiorentini a Roma (a un frequentatore dei poeti del Novecento può venire in mente l’abitazione milanese sui Navigli di Alda Merini), immerso in una specie di museo privato di arte moderna, un museo disseminato tra gli oggetti della quotidianità più modesta. Si andava da Giovanni Fattori a molti significativi artisti del Novecento, tra cui alcuni di quelli più amati da Penna, come Filippo De Pisis, Franco Gentilini, Mario Mafai.

Così racconta l’incontro con il poeta, sul finire della sua vita, l’artista Cristiana Isoleri (1926-2022), che avrebbe poi collaborato con lui per alcuni libri: «È il 27 febbraio del 1975. Sono le sette di sera. Franco Simongini mi accompagna da Penna. Sono emozionata. Vorrei da lui delle poesie inedite per fare una mia cartella. Mi fa sedere sulla sua branda, disfatta, forse da sempre. Ci sono cumuli di cose usate, rifiuti dappertutto. Un sottile senso d’angoscia, un’emozione sempre più profonda, a poco a poco un’ammirazione per l’uomo, per la sua mancanza di pudore, per la sua assoluta onestà nell’offrirsi così scoperto fino in fondo nella sua solitudine e sofferenza. D’un tratto capisco in lui il rifiuto dei gesti quotidiani; l’inutilità dei gesti quotidiani. Cerca a lungo senza affanno, quasi assente; poi alcuni fogli sono nelle sue mani. Con la sua voce bellissima mi dice: “Queste sono le prime poesie che ho scritto, sono del 1924 e sono sue”».

Mario Mafai, Dopo la pioggia

Dopo la morte del poeta, avvenuta nella sua casa romana il 21 gennaio 1977 (era nato a Perugia il 12 giugno 1906), il critico d’arte Bruno Corà è chiamato a stilare un inventario delle opere lì custodite, prima che l’appartamento venga sgomberato, come disposto dal Comune di Roma. Si tratta di una collezione di tutto rispetto, certo rimanenza di un insieme più ampio di pezzi, via via alienati dal poeta. Ci sono nomi importanti del Novecento e nomi della scena artistica romana contemporanea, in particolare quelli della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo, con i quali Penna aveva stretto legami di amicizia e di intesa creativa: si possono ricordare ad esempio Franco Angeli, Tano Festa, Francesco Lo Savio, Mario Schifano. Di Angeli, in particolare, Penna possedeva un intenso acrilico su tela, intitolato Solo com’è lui, raffigurazione di un cane con sottolineatura cromatica rossa, che dialoga con la passione del poeta per i pastori tedeschi (come l’amata cagna chiamata la Battini) e che rimanda alla solitudine propria dell’artista e dello scrittore.

Sandro Penna da giovane

Molti di quei pezzi appartenuti a Penna, assieme ad autografi e dattiloscritti di sue poesie e prose (ma non mancano le fotografie e la documentazione filmata, che ritrae Penna nel suo domicilio, mentre discorre di arte e di artisti), sono oggi esposti in una mostra a Perugia, presso la Galleria Nazionale dell’Umbria, intitolata Un mare tutto fresco di colore. Sandro Penna e le arti figurative, aperta fino al 14 gennaio. La mostra è a cura di Roberto Deidier, Tommaso Mozzati e Carla Scagliosi: Deidier e Mozzati sono anche curatori del catalogo, edito da Magonza. Ci sono tra l’altro vari ritratti del poeta collezionista, motivati proprio dai rapporti amicali stretti con artisti e anche con disegnatori d’eccezione, come Pier Paolo Pasolini, che gli dedica due raffigurazioni a penna su carta, non prive di una loro capacità di analisi introspettiva. I ritratti più impegnativi e artisticamente compiuti sono quelli di Orfeo Tamburi (Sandro Penna a Villa Borghese), di Carlo Levi (Ritratto di Sandro Penna), di Mario Mafai (Ritratto di Sandro Penna), per citarne alcuni. Ma si possono ricordare anche il disegno di Gabriele Mucchi che accompagna il volume delle Poesie uscito da Parenti nel 1939 e quello di Orfeo Tamburi che illustra gli Appunti, pubblicati dalle Edizioni della Meridiana nel 1950. Poi ci sono nella collezione i pezzi amati dal poeta, da lui prediletti e cercati, anche con insistenza, presso gli stessi artisti (che talvolta gliene facevano dono, anche con dediche), oppure acquistati in occasione di aste, dove Penna tuttavia non poteva permettersi l’esborso di grosse cifre. Così ricorda la puntata del collezionista-poeta a un’asta milanese, in zona Brera, un cronista di prestigio del «Corriere della Sera», Dino Buzzati (16-17 novembre 1962): «Simpaticamente notato, iersera, per i numerosi interventi, il poeta Sandro Penna, che fra l’altro si è aggiudicato dei “tagli” di Fontana per 320 mila e un evanescente disegnino di Morandi per la cifra, secondo me addirittura folle, di duecentosettanta. Seduto a fianco di Cardazzo, il quale con dei colpettini di gomito gli faceva capire se era il caso o no di arrischiare, Penna si faceva vivo spesso, ma con rialzi microscopici. “Centosettanta e uno, centosettanta e due…” faceva il dottor Sasso battitore. Sandro Penna alzava la mano. “Centonovanta e uno per il poeta, centonovanta e due…”. “No, no — rettificava Penna — io intendevo centosettantacinque”. “Non si può — replicava Sasso — per rialzare, centonovanta è il minimo”. “Allora niente”. E il poeta si richiudeva nel guscio».

Sandro Penna con Pier Paolo Pasolini

Si arriva così a parlare delle doti di intenditore di Penna. Lui diceva di sé di non essere un critico d’arte e si negava a ogni competenza specialistica, tenendosi fedele a un fondo di nonchalance che certamente lo caratterizzava. L’unico testo che scrisse su un artista è quello dedicato a Franco Gentilini, che non venne utilizzato e che rimase a lungo inedito. È di poco posteriore al 1953 e inizia così: «Non sono un critico, e tanto meno un critico d’arte. Amo molto i bei quadri, li colleziono con gioia, ma direi che in tutto questo non è estraneo il piacere sia del collezionare in genere sia del riuscire a portare a casa un oggetto che si spera di maggior valore di quello che ci è costato. Voglio dire, insomma, e il discorso lo lascio calare perché mi pare debba coinvolgere altre e altre persone oltre che me (se no non avrebbe alcuna importanza), voglio dire che se il mio amore per l’arte fosse puro io dovrei evidentemente appagarmi più di una visita a una galleria non del tutto deteriore che alla semplice vista della mia collezione (leggi: una brutta casa tutta tappezzata di quadri eterogenei accostati a casaccio, e per quale piacere solo un esperto freudiano direbbe)». Dopo questa premessa e dopo essersi giustificato per la sua «incapacità critica» e la sua mancanza di vocabolario tecnico, vantando invece un «infallibile gusto», di cui però rifugge dal dare una spiegazione letteraria, Penna, che certo non era uno scrittore-storico dell’arte alla Giovanni Testori, arriva comunque a stringere su Gentilini e su alcune sue opere. E fornisce ad esempio la descrizione di una tela ora in mostra a Perugia, proveniente da una collezione privata, vale a dire Torre di Pisa e biciclette. Ecco come vi si accosta il poeta: «Noi tenteremo soltanto, ormai, di scegliere il meglio, se ciò è lecito e possibile fare. Preferiamo, personalmente almeno, quei momenti in cui l’ironico si libera per noi di quel più di cattiveria e si colora invece di un misterioso lirismo. Pensiamo a un quadro dove sotto la fatidica Torre di Pisa è un triste muro morto e sotto ancora nel buio tutto un intreccio di ruote e biciclette e ruote, groviglio geometrico e popolaresco insieme, lontano dal freddo astratto, e dal patetico troppo caldo: s’indovina l’autore dentro un umile negozietto di cicli…».

L’olio su tela di Gentilini, visto e ammirato dal poeta, ha un’aura da pittura metafisica. E proprio tale pittura, di un Giorgio de Chirico in particolare, è quella che più intimamente sembra collegarsi alle atmosfere atemporali, enigmatiche, della poesia di Penna, al di là di certi tocchi di visività e colore. Pensiamo a un quadro come Mistero e malinconia di una strada, dipinto da de Chirico nel 1914. Penna deve averlo meditato e sentito depositare dentro di sé, a lungo. La sua poesia è spesso un discorso tessuto sul filo di quel mistero e di quella malinconia. A proposito, nella sua casa-magazzino Penna possedeva (è in mostra a Perugia) una sorta di omaggio di Mario Schifano a quell’opera di de Chirico: Attraverso una piazza, del 1972, tela emulsionata che riprende il soggetto del quadro dechirichiano. Del resto, delle atmosfere in comune tra Penna e grandi artisti del Novecento, come Carlo Carrà e de Chirico, si potrebbe discorrere a lungo. Basti qui accennare a un testo poetico di Penna, pubblicato in rivista nel 1945: «“Lasciami andare se già spunta l’alba”./ Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti/ capanni interminabili sul mare./ Fra gli anonimi e muti cubi anch’io/ cercavo una dimora? Il mare, il chiaro/ mare non mi voltò con la sua luce? Salva/ era soltanto la malinconia?/ L’alba mi riportò, stanca, una via».

Sembra la contropartita verbale di un’immagine metafisica, alla de Chirico appunto, non senza un’ambientazione marina alla Carrà. Questo perché i fotogrammi di Penna, al di là dell’ossessione del fanciullo e del tema omoerotico, sono immersi nel ricordo, sono scene sottratte al tempo e quindi fatte già memoria. Come in una pittura, come in un lampo di metafisica fissità.

Daniele Piccini, Corriere della Sera

LA CHIESA E IL SINODO

LA CHIESA E IL SINODO

I giornali italiani, forse perché presi della guerra fra Israele e i palestinesi di Hamas o perché intrigati dalla separazione della Giorgia Meloni dal suo farfallone amoroso, non hanno dedicato adeguato spazio al Sinodo dei Vescovi 2021-2023, sottovalutandone la portata.

Il Sinodo sulla sinodalità avrebbe dovuto concludersi nel 2023, preceduto da due anni dedicati all’“ascolto”, durante i quali ogni diocesi, ogni nazione e ogni continente avrebbe dovuto celebrare il proprio sinodo.

Per decisione di Papa Francesco il Sinodo sulla sinodalità si allunga e da evento si fa processo, concludendosi nel 2024. Cos’è successo, dato che nulla in Vaticano avviene per caso?

Il basso profilo mantenuto sul piano informativo, anche dalla sala stampa vaticana, che non ha mancato però di informare sull’andamento delle diverse fasi, è da collegare alla scelta di Papa Francesco di evitare gli abbagli, le storture, le strumentalizzazioni della scena mediatica. “Ascoltare più che parlare”, insomma. E per ben ascoltare evitare il vocio frastornante e la superficialità dei social. Un processo profondo di rigenerazione e rinascita, non un flash che dura un attimo.

Per ricostruire i primi passi del cammino sinodale, ma soprattutto intravvederne le finalità e concrete ricadute, dobbiamo partire del corposo documento prodotto dai lavori dell’assemblea generale dei vescovi sinodali del giugno 2023, intitolato “Instrumentum laboris”.

UN SOLO ANIMO, UN SOLO CAMMINO

La pratica del sinodo è vecchia di secoli, ma venne istituita come struttura permanente da Paolo VI solo nel 1967, sollecitato a mantenere vivo lo spirito del Concilio Vaticano II.

Etimologicamente sinodo significa “insieme” e “via”, cioè camminare insieme. Nella cultura greco-romana era sinonimo di assemblea, riunione. Nella prassi cattolica serve per definire una riunione di vescovi o sacerdoti, appositamente convocati per deliberare in materia religiosa.

Quello ora convocato da Papa Francesco conta 364 partecipanti con diritto di voto e 464, esperti, laici, canonici, teologi, ecc. senza questo diritto.

In premessa, Instrumentum laboris riassume il percorso fatto dai vari sinodi locali, ma soprattutto non manca di tratteggiare senza infingimenti i problemi che affliggono il mondo attuale e la Chiesa:

“ Il percorso compiuto finora, e in particolare la tappa continentale, ha permesso di identificare e condividere anche le peculiarità delle situazioni che la Chiesa vive nelle diverse regioni del mondo: dalle troppe guerre che insanguinano il nostro pianeta e richiedono di rinnovare l’impegno per la costruzione di una pace giusta, alla minaccia rappresentata dai cambiamenti climatici con la conseguente priorità della cura per la casa comune; da un sistema economico che produce sfruttamento, disuguaglianza e “scarto” alla pressione omologante del colonialismo culturale che schiaccia le minoranze; dall’esperienza di subire la persecuzione sino al martirio a un’emigrazione che svuota progressivamente le comunità minacciandone la stessa sopravvivenza; dal crescente pluralismo culturale che marca ormai l’intero pianeta all’esperienza delle comunità cristiane che rappresentano minoranze sparute all’interno del Paese in cui vivono, fino a quella di fare i conti con una secolarizzazione sempre più spinta, e talora aggressiva, che sembra ritenere irrilevante l’esperienza religiosa, ma non per questo smette di avere sete della Buona Notizia del Vangelo. In molte regioni le Chiese sono profondamente colpite dalla crisi degli abusi: sessuali, di potere e di coscienza, economici e istituzionali. Si tratta di ferite aperte, le cui conseguenze non sono ancora state affrontate fino in fondo. Alla richiesta di perdono rivolta alle vittime delle sofferenze che ha causato, la Chiesa deve unire il crescente impegno di conversione e di riforma per evitare che situazioni analoghe possano ripetersi in futuro.”

Nonostante la scarsissima partecipazione alle assemblee (in USA non più dello 0,01% dei fedeli), il documento non manca di sottolineare alcuni aspetti positivi, che aprono alla speranza:

Poi abbiamo potuto toccare con mano la cattolicità della Chiesa, che, nelle differenze di età, sesso e condizione sociale, manifesta una straordinaria ricchezza di carismi e vocazioni ecclesiali e custodisce un tesoro di varietà di lingue, culture, espressioni liturgiche e tradizioni teologiche. Esse rappresentano il dono che ciascuna Chiesa locale offre a tutte le altre, e il dinamismo sinodale è un modo per metterle in relazione e valorizzarle senza schiacciarle nell’uniformità.”

Gli estensori dell’Instrumentum laboris  ci tengono a precisare che esso

 “non è un documento del Magistero della Chiesa, né il report di una indagine sociologica; non offre la formulazione di indicazioni operative, di traguardi e obiettivi, né la compiuta elaborazione di una visione teologica…. E’ quindi la prima tappa di un processo che non è ancora terminato, che espone le “ intuizioni” raccolte lungo la prima fase e soprattutto dal lavoro delle Assemblee continentali, articola alcune delle priorità emerse dall’ascolto del Popolo di Dio, ma non in forma di asserzioni o prese di posizione. Le esprime invece come domande rivolte all’Assemblea sinodale, che avrà il compito di operare un discernimento per identificare alcuni passi concreti per continuare a crescere come Chiesa sinodale, passi che sottoporrà poi al Santo Padre”.

Ma quali sono i segni distintivi che il Sinodo dovrà individuare in quanto caratteristici della nuova Chiesa sinodale? 

Con grande forza da tutti i continenti emerge la consapevolezza che una Chiesa sinodale si fonda sul riconoscimento della dignità comune derivante dal Battesimo, che rende coloro che lo ricevono figli e figlie di Dio, membri della sua famiglia, e quindi fratelli e sorelle in Cristo, abitati dall’unico Spirito e inviati a compiere una comune missione. Nel linguaggio di Paolo, «noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1Cor 12,13). Il Battesimo crea così una vera corresponsabilità tra i membri della Chiesa, che si manifesta nella partecipazione di tutti, con i carismi di ciascuno, alla missione e all’edificazione della comunità ecclesiale. Non si può comprendere una Chiesa sinodale se non nell’orizzonte della comunione che è sempre anche missione di annunciare e incarnare il Vangelo in ogni dimensione dell’esistenza umana. Comunione e missione si alimentano nella comune partecipazione all’Eucarestia che fa della Chiesa un corpo «ben compaginato e connesso» (Ef 4,16) in Cristo, in grado di camminare insieme verso il Regno.”

Il documento fa quindi una lunga e analitica descrizione sulle caratteristiche di questa nuova Chiesa, a cominciare dalle sue istituzioni, strutture e procedure.

“….in modo da costituire uno spazio in cui la comune dignità battesimale e la corresponsabilità nella missione siano non solo affermate, ma esercitate e praticate. In questo spazio, l’esercizio dell’autorità nella Chiesa è apprezzato come un dono e lo si vuole sempre più configurato come «un vero servizio, che le Sacre Scritture chiamano significativamente “diaconia” o ministero» (LG 24), sul modello di Gesù, che si è chinato a lavare i piedi ai suoi discepoli (cfr. Gv 13,1-11).”

La Chiesa sinodale “è una Chiesa dell’ascolto»…. l’ascolto degli eventi della storia e l’ascolto reciproco tra le persone e tra le comunità ecclesiali, dal livello locale a quello continentale e universale… L’ascolto dato e ricevuto ha uno spessore teologale ed ecclesiale, e non solo funzionale, sull’esempio di come Gesù ascoltava le persone che incontrava. Questo stile di ascolto è chiamato a segnare e trasformare tutte le relazioni che la comunità cristiana instaura tra i suoi membri, con le altre comunità di fede e con la società nel suo complesso, in particolare nei confronti di coloro la cui voce è più frequentemente ignorata.”

…… “una Chiesa sinodale desidera essere umile, e sa di dover chiedere perdono e di avere molto da imparare. Alcuni documenti raccolti lungo la prima fase hanno rilevato che il cammino sinodale è necessariamente penitenziale, riconoscendo che non sempre abbiamo vissuto la dimensione sinodale costitutiva della comunità ecclesiale. Il volto della Chiesa oggi porta i segni di gravi crisi di fiducia e di credibilità. In molti contesti, le crisi legate agli abusi sessuali, economici, di potere e di coscienza hanno spinto la Chiesa a un esigente esame di coscienza «perché, sotto l’azione dello Spirito Santo, non cessi di rinnovare se stessa» (LG 9), in un cammino di pentimento e di conversione che apre percorsi di riconciliazione, guarigione e giustizia.”

……Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’incontro e del dialogo. Nel cammino che abbiamo percorso, questo riguarda con particolare forza le relazioni con le altre Chiese e Comunità ecclesiali, alle quali siamo uniti dal vincolo dell’unico Battesimo. Lo Spirito, che è «principio di unità della Chiesa» (UR 2), è all’opera in queste Chiese e Comunità ecclesiali e ci invita a intraprendere percorsi di conoscenza reciproca, di condivisione e di costruzione di una vita comune.”

…… “Una Chiesa sinodale è chiamata a praticare la cultura dell’incontro e del dialogo con i credenti di altre religioni e con le culture e le società in cui è inserita, ma soprattutto tra le tante differenze che attraversano la Chiesa stessa. Questa Chiesa non ha paura della varietà di cui è portatrice, ma la valorizza senza costringerla all’uniformità. “

Vissuta in una diversità di contesti e culture, la sinodalità si rivela una dimensione costitutiva della Chiesa fin dalle sue origini, anche se ancora in via di compimento. Anzi, essa preme per essere attuata sempre più pienamente, esprimendo una chiamata radicale alla conversione, al cambiamento, alla preghiera e all’azione che è rivolta a tutti. In questo senso, una Chiesa sinodale è aperta, accogliente e abbraccia tutti…..  La chiamata radicale è quindi quella di costruire insieme, sinodalmente, una Chiesa attraente e concreta: una Chiesa in uscita, in cui tutti si sentano accolti.”

Comunione, missione, partecipazione: tre questioni prioritarie per la Chiesa sinodale

“Tre le parole chiave del Sinodo: comunione, missione, partecipazione….che nella vita della Chiesa sinodale non sono indipendenti l’uno dagli altri. Invece si articolano, alimentandosi e sostenendosi a vicenda. In questa chiave di integrazione vanno sempre pensate e presentate….La comunione non è un sociologico ritrovarsi come membri di un gruppo identitario…..L’assemblea sinodale non può essere intesa come rappresentativa e legislativa, in analogia a un organismo parlamentare, con le sue dinamiche di costruzione della maggioranza. …”

I vescovi estensori cono consapevoli che: “….nella concretezza della nostra realtà storica, custodire e promuovere la comunione richiede di farsi carico dell’incompiutezza nel riuscire a vivere l’unità nella diversità (cfr. 1Cor 12). La storia produce divisioni, che causano ferite da curare e richiedono di avviare percorsi di riconciliazione. In questo contesto, in nome del Vangelo quali legami vanno sviluppati, superando trincee e steccati, e quali ripari e protezioni vanno costruiti, e a tutela di chi? Quali divisioni sono infeconde? Quando la gradualità rende possibile il cammino verso la comunione compiuta?…. Dalla preoccupazione per la partecipazione nel senso integrale qui ricordato scaturisce la terza priorità emersa dalla tappa continentale: la questione dell’autorità, del suo senso e dello stile del suo esercizio all’interno di una Chiesa sinodale. In particolare, essa si pone nella linea di parametri di derivazione mondana, o in quella del servizio? “

FRA CRITICHE A PAURE: UN DIFFICILE DIALOGO

Non sono mancate le critiche alla impostazione del documento e del Sinodo provenienti anche da esponenti della stessa Chiesa cattolica.

Le critiche riguardano la conduzione del sinodo, la nomina dei vertici destinati alla direzione dell’evento, che dimostrerebbero la volontà di orientarlo al fine di predeterminarne gli esiti.

Al riguardo si sottolinea il piglio “imperativo di Papa Francesco (pontificato il suo che ha prodotto finora 53 motu proprio, più di quelli dei suoi due predecessori messi insieme) e il fatto che la sinodalità a senso unico starebbe impedendo una vera collegialità.

Su La nuova bussola quotidiana, un periodico di cattolici fondato da Riccardo Cascioli, si legge nell’articolo a firma di Stefano Fontana dal titolo I tre buchi neri del Sinodo che mettono in pericolo la Chiesa:

“Perfino i teologi più favorevoli al sinodo, come mons. Giacomo Canobbio, notano la contraddizione di un sinodo sulla sinodalità spinto avanti centralisticamente. Nel fascicolo in corso di “Studia Patavina”, Canobbio coglie “un’insidia anche nell’insegnamento/comportamento di Papa Francesco: da una parte vuole coinvolgere tutti nel processo sinodale, dall’altra è ancora lui a determinare i percorsi delle Conferenze episcopali, non ultima quella italiana”. Questa fretta di bruciare le tappe della sinodalità per via di imposizione getta un’ambigua luce politica su tutto il processo in corso e conferma che si tratta di una sinodalità decisa a priori e imposta.”

Nello stesso articolo, a proposito dell’attitudine all’ascolto posta a fondamento del Sinodo, si legge:  

Tutti vedono che si tratta di un ascolto viziato in quanto già orientato ad ascoltare questo e non quello. È anche un ascolto strumentale per condurre le cose dove si vuole che siano condotte. Oltre a ciò, l’atteggiamento dell’ascolto è compromesso da una confusione tra il sensus fidei dei fedeli e la categoria di popolo propria della relativa “teologia del popolo”. Questo problematico aggancio è stato più volte teorizzato da Francesco. Il sensus fidei, o “istinto dalla fede”, secondo Francesco avviene con il soffio dello Spirito e fa sì che i fedeli battezzati godano di una certa connaturalità con le realtà divine da cui deriva una saggezza nel discernimento. Su questo egli fonda la necessità dell’ascolto all’interno della Chiesa, per evitare verticismi e clericalismi. A ciò, poi, associa la teologia del popolo, in quanto una certa connaturale assistenza dello Spirito Santo ci sarebbe anche fuori della Chiesa, nel popolo in quanto popolo. Ecco perché l’ascolto deve rivolgersi anche ai lontani. Per popolo si intende l’umanità, il mondo, sicché ci sarebbe un parallelo tra la Chiesa e il mondo, una pariteticità nell’ascolto. L’idea è certamente conforme a tante correnti della teologia contemporanea ma non per questo (anzi) non desta preoccupazione. Il pericolo di pensare al popolo in senso sociologico è incombente e il passaggio a sostenere che nelle rivendicazioni Lgbt di oggi è presente il soffio dello Spirito è immediato. In queste basi il Sinodo trova un fondamento molto equivoco.”

Infine, a proposito della c.d. democratizzazione della Chiesa nell’articolo si riprende l’opinione del già citato Giacomo Canobbio:

 “Immaginare che la verifica [sic!] del sensus fidelium non apra le porte a forme di democratizzazione della Chiesa significa cadere in una forma di spiritualizzazione della vita ecclesiale”. Se la sinodalità – dice ancora Canobbio – vuole tradursi in decisioni in un Sinodo, “non si potranno mettere da parte esperienze mutuabili dalle società democratiche”. Dal suo punto di vista ha ragione: se la democrazia verifica (sic!) il sensus fidelium, allora la Chiesa deve essere democratica. Oggi le decisioni dei sinodi sono messe nelle mani del vescovo o del papa, ma la prospettiva è di una nuova sinodalità, nella quale le decisioni dei sinodi, assunte democraticamente, non dovranno più rimandare al papa o al vescovo perché in questo caso si ricadrebbe nel clericalismo; “se tocca ancora a lui [il papa] a dire l’ultima parola, si rischia di preparare la strada a nuovi verticismi”. Il voto democratico attesterebbe la presenza dello Spirito Santo nelle decisioni sinodali. Una radicale promozione della democrazia procedurale moderna, fatta risalire nientemeno che alle esigenze dell’Incarnazione, ma in realtà si tratta di storicismo. Legittimo chiedersi se la Chiesa che uscirà dal Sinodo sulla sinodalità sarà ancora la Chiesa cattolica. L’allarme è altissimo, anche se a dirlo sono in pochi.”

Ogni cambiamento è scomodo, spesso osteggiato, ancora di più frainteso. Dalla risposta alle innumerevoli domande che il Sinodo si pone sapremo quale sarà il futuro della Chiesa e con essa di noi tutti, credenti o meno.

OGNI SFUMATURA UNA STORIA

OGNI SFUMATURA UNA STORIA

Stoffe e romanzi di Lisa Corti, Nostra Signora del design tessile. “Lawrence Osborne sa dire l’indicibile. Somerset Maugham da leggere all’infinito”. L’Eritrea, il “fratellino” Matisse e l’ispirazione in ogni dettaglio.

Passare una mattina con Lisa Corti – Nostra Signora del design tessile, Dama della stampa stilizzata, Pioniera dei fiori, dei caftani e delle righe che conquistò le pagine di Life – significa scoprire che il romanzo è lei. E allora non puoi che caderne in balia, non puoi che ascoltarla in lieta ebetudine, occhio scotto, vittima d’incantesimo, ritrovandoti a fare incetta di incipit uno migliore dell’altro, con l’imbarazzo poi di doverli scegliere. Così – vinto – ammetti che forse è meglio non scegliere, meglio non centellinare, anzi, al contrario, quale cautela? Bisogna assecondarla, lasciarsi andare e divorare tutto, proprio come si divorano certe pagine che leggiamo e ci consegnano a mondi sconosciuti, e semmai sciorinarli, questi incipit fenomenali, e farli correre come una manciata di dadi, restituire questa generosità alla scommessa del racconto, esattamente come fa lei che, mentre parla tra le mura amiche della sua factory a Milano quartiere Porta Venezia (“c’è ancora il mutuo,” notifica sorridendo), stende su un tavolone, per la gioia degli occhi, un mezzaro via l’altro. Il mezzaro – si apprende – è un telo multifunzione che può essere usato appeso, steso come un copriletto oppure a terra (vale anche come tappeto) ma è soprattutto la sintesi tessile di una biografia, di un romanzo che comincia in Eritrea nel 1936, quattro anni prima che lei nascesse, quando i suoi genitori si trasferirono a Keren, “un giardino di manghi e agrumi circondato di terra rossa a milleseicento metri sul livello del mare”. Un romanzo che fa un passaggio in India in piena coerenza narrativa – “Bombay e Asmara sono sullo stesso parallelo” – e racconta un pezzo delle sfilate parigine degli anni Sessanta. “Nel 1966…” racconta Lisa Corti (mentre a te sovviene che il 1966, quel 1966, è lo stesso anno in cui Bob Dylan svolta elettricamente alla Royal Albert Hall ed esce Il buono, il brutto e il cattivo, giusto per definire il pattern mitologico dell’annata), “…nel 1966”, prosegue, “facevo le sfilate di Dior, ma quando mi proposero un contratto non lo firmai, non mi interessava per niente”. E infatti quel romanzo arriva fino a oggi e fino a qui, a Milano, via Lecco, in un emporio in centro che sembra una casa al mare.

Con Katherine Mansfield parlavo, sentivo un’affinità che andava oltre la pagina”. “Quando leggi William Somerset

Maugham è come se ce l’avessi seduto davanti. Vorresti solo chiedergli di restare lì, a intrattenerti all’infinito. Per conto mio, Il velo dipinto avrebbe potuto non finire mai”.

“Graham Greene bravo ma rigidino. Nonostante questo l’ho letto tutto”.

“Raymond Chandler è magia, dalla prima all’ultima pagina.”

“I libri li scelgo in base a quel che è scritto sul retrocopertina, ma solo se sono alla disperazione”.

“Mai impazzita per Georges Simenon”.

Ancora: “La perfezione non mi interessa, non mi è mai interessata”.

“A Camilla Cederna piacevano molto i miei vestiti, ma lo sa? Non so tenere un ago in mano”.

E soprattutto: “Non ho bisogno di vederli: io, i colori, li sento”.

“Lawrence Osborne è uno scrittore perché sa dire l’indicibile”.

Anche il lessico cospira a rafforzare la sensazione che Lisa Corti sia una donnaromanzo coi suoi bei diesis forsteriani (è tutto un citar piantagioni di tabacco, piantagioni di arachidi, il “color camelia”, l’india fatale) e quando parla del primo marito Neno Corti ecco che l’effetto, se possibile, si amplifica: aristocratico milanese, Visconti da parte di madre, “sbarcò da un mercantile che aveva viaggiato in Cina e in India” e si innamorò di lei e di Keren. Grande appassionato di “lampade di giada”, aveva alloggiato nella sua casa molti oggetti preziosi – casa detta “i tre tucul” (in brutale sintesi: trulli, ma eritrei; Neno li aveva collegati con tre bracci di muratura così da renderli un’unica residenza con cortile). E così, “portati dai suoi viaggi fiabeschi”, in quelle stanze “pendevano i velluti” ed erano ospitate “preziosissime ceramiche”, insomma, una wunderhaus con vista su imperiosi sicomori, eminenti baobab e la vasta calma del fiume Anseba, “un fiume enorme, bianchissimo. Neno lo vidi la prima volta in chiesa, io avevo un grande cappello ed ero vicino all’acquasantiera e lui mi guardava. Non seppi fare altro che scappare, aveva tredici anni più di me. I miei mi rassicurarono, quello era un tizio a posto, conosciuto, una persona per bene, uno studioso d’arte. Leggeva sempre libri sulle ceramiche e le porcellane. Ci sposammo a Milano, quando venimmo in Italia, nel 1961. Fu allo scoppio della guerra d’indipendenza eritrea”. Fino a quel momento, un’infanzia felice e tanti colori, una gamma infinita, il codice Pantone della natura viva. “Quell’esperienza fu determinante. Mi ha formato. Ha forgiato il mio modo di guardare alle cose. Nel frattempo, però, non solo natura: mi appassionai fin da giovane alla lettura, e la lettura mi ha fatto compagnia per tutta la vita. Leggevo quel che si leggeva a scuola. Nelle librerie di Asmara – lo ricordo con vividezza – trovai La storia di Elsa Morante, che mi piacque moltissimo. Poi Primo Levi, Italo Calvino. Insomma, quello che leggevano i miei coetanei in Italia, né più né meno. La letteratura mi ha sempre nutrito, ha fatto bene al mio lavoro e alla mia vita. Sempre stata una lettrice”.

Che non disdegna il kindle: a casa sua, poco distante dalla factory e in un certo senso quasi indistinguibile dalla factory – ne è un prolungamento, stesso identico profumo – la aspetta un tablet gremito di libri. Non meno di quanto lo siano le bianchissime mensole: da un lato i romanzi, dall’altro i libri fotografici, coi tomi d’arte che l’hanno guidata e ispirata. Tra gli uni e gli altri, una foto di Ugo Mulas che la ritrae giovanissima e fotomodella, sottile e sdraiata mentre sbircia faccia in giù tra le fenditure di una scultura di Cascella a Villar Perosa; e poi un’altra, un velo amaranto in testa e un cane in braccio, vaga somiglianza con Kirsten Dunst ma lei – lei Lisa Corti – molto più bella. Del resto lo è anche oggi, che ha 83 anni e tutta un’artiglieria di occhiali con catenella mentre sbircia la propria libreria e indossa, con un’eleganza così naturale da sembrare inevitabile, un gilet maschile indiano double face – la chiacchierata comincia con la face amaranto e face Chinese dress. Kimono, i colori del Giappone. Japanese pattern. Iranian textiles. Molti volumoni di fotografie sottolineati e chiosati. E poi Arabesque.

“Sì, Matisse è stato il mio fratellino, il mio riferimento costante, la mia ispirazione. Vede? Le atmosfere mediterranee, la luce, gli azzurri. Li ho portati nel mio lavoro”. Dalle pagine di ogni libro fanno capolino linguette colorate, lembi di Post-it, alette versicolori che sbucano – ogni segno, un’idea, ogni idea, un nizam. Oriental flower. Ritratti di Steve Mccurry. Textiles of India. Decorative art from the Ottoman Empire.

Poi Marguerite Duras, L’amante della Cina del nord. E l’inseparabile Lawrence Osborne. “Ero amica di Roberto Calasso e me l’ha fatto conoscere lui. E’ una scoperta che mi ha appassionata. E se uno mi piace, io sono la classica che legge l’opera omnia. Sa cosa credo, pensando agli scrittori che prediligo? Che io abbia sempre bisogno, quando leggo, di sentire il mistero”. Gli Osborne ci sono tutti. Nella polvere. Cacciatori nel buio. Bangkok. L’estate dei fantasmi. E Il regno di vetro – “forse quello che mi è piaciuto meno”. Poi si divaga e si torna a parlare dell’eritrea, della giovinezza, ricordi come atti d’amore ma senza liricizzazione, amare l’eritrea senza il mal d’eritrea, anche questo è il romanzo in lei – i capitoli si succedono e non si rileggono: “Ci ripenso, certo. Ma come una componente della mia vita, senza alcuna nostalgia. La mia vita è qui, è questa”, ribadisce seduta nello studio dove lavora, un’ansa di chiarità a ridosso della sala ininterrottamente lisacortiana in ogni dettaglio, sala nella quale campeggia un cavallo curvilineo, massiccio e lucido di Angelo Barcella – forma pura, egizia o africana.

La coerenza narrativa che Lisa Corti incarna e che la circonda ovunque lei si trovi ti porta a leggerla come predestinata alla vita che ha fatto, a questa letteratura di colori, a questa prosa floreale che sono i suoi tessuti, prosa che non degenera mai nella leziosità o nell’esuberanza esotica – tutto, nelle sue produzioni, sembra essere così leale. Il passato l’ha plasmata, ma il presente la ispira. “E tutto vuol dire tutto. Dettagli, cose. Oggetti. Anche il bottone della giacca di un’amica. Oppure… adesso la faccio ridere. Una sera stavo guardando ‘Montalbano’”. Appassionata di Camilleri? “No, troppo sornione. Se proprio devo, preferisco Gianrico Carofiglio. Dicevo: vedo Montalbano che siede alla sua scrivania e, di sfondo, alle sue spalle, una parete con dei colori. Mi sono subito piaciuti. La fantasia mi ha incuriosito, così l’ho fotografata e ci ho pensato tutta la notte. Ancora mi succede, sa? Quando le idee si impossessano di me, non dormo. La mattina dopo, sveglia presto e mi sono messa al lavoro”.

Sembra sapere sempre quello che vuole. Ma da una che si è sposata a vent’anni, a ventuno ha fatto una figlia e a ventidue si è chiesta “e adesso?” (se l’è chiesto e ha subito risposto) non ci si può aspettare altro. Poi c’è la libertà, certo. C’è l’imprevedibile. Com’era quella delle mucche e dell’organza? “Al mercato, tra le mucche, vedo questo grande bancone. Sotto non ci guardava nessuno, ma c’erano alcuni rotoli di tessuto di organza.

I colori… Ricordo ancora i colori! Mi cavavano gli occhi tanto erano belli, vivi, intensi. Così comprai venti metri di ognuno. Me li sono portati in Italia e, studiandoli, ho capito che mettere un giallo insieme a un verde e poi circondarlo con un rosso poteva essere stupendo. Nuvola e materia. Ho cominciato a fare questi mandala… E mi sono resa conto che la mia forma era il mandala. Poi i fiori. Le dirò, a me interessava molto il tessile per l’arredamento, più che i vestiti. E l’india è stata importantissima. In un anno ci andai quattro volte. La prima fu come un ritorno. Mi sentii come un pesce che ritrova la sua acqua. C’era mia figlia con me, e tutti quei dentisti – mi ero aggregata all’ultimo momento a un viaggio organizzato dal mio amico Antonio Monroy. Da quel momento tutto ha preso una forma nuova. Le vede le mie stoffe?”, dice mentre le sfoglia come un libro. “Sono tutte stampate con blocchi di legno, a mano. Un fiore può arrivare ad avere nove colori, una lavorazione dopo l’altra. E non ne vengono mai due uguali. A volte la differenza la fa anche solo l’umidità dell’aria”.

La singolarità è valore in sé. E Lisa Corti è un giudizio chiaro dopo l’altro, mai troppe perifrasi anche quando parla di romanzi. Quando un autore non le piace, non gli dà opportunità. O ci si incontra, o no. Rilegge poco. “Ma La montagna incantata, però, sì. Forse rileggerò anche la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli”. Snocciola, una dopo l’altra, le sue legittime sentenze da lettrice. “Emmanuel Carrère: L’avversario è il migliore, una storia incredibile. I baffi, invece, non mi è piaciuto. La verità sul caso Harry Quebert non mi ha lasciato nulla, ma sa cosa vuol dire nulla? Un po’ come Elena Ferrante. Ne ho letto qualche pagina, ma niente, non è riuscita a trattenermi”. Poi indugia su Tempo di uccidere di Flaiano. “Questo sì che è un capolavoro. Che ambientazione secca, piena di vuoti”. Sbirciando, una sorpresa: Eredità di Lilli Gruber. “Mi interessa”, sorride. “Ne ho letto metà. Le storie di famiglia mi interessano sempre”. Come La saga dei Cazalet. “Che dal punto di vista della scrittura non sarebbe nelle mie corde, ma li ho letti volentieri, uno via l’altro, diciamo che vanno da soli…”. Altro punto morto: Danubio di Claudio Magris. “Non l’ho mai finito. Per un po’ ho pensato che l’avrei ripreso, ma non so, adesso non credo. Questo, invece, lo rileggerò sicuramente”. Si tratta niente meno che de La scoperta di Troia di Heinrich Schliemann.

Al momento del congedo, sulla porta, dopo un’escursione semantica tra tutte le possibili sfumature dell’amaranto, gran finale identitario: “Forse sono una lettrice di superficie. Ma sono senza dubbio una lettrice”.

Marco Archetti Il Foglio Quotidiano

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