STORIE DI MALATI

STORIE DI MALATI

Rossella
Una donna siede paziente in una sala d’aspetto accanto a un pianoforte e a un grande albero dipinto su una tela. Parla con un uomo di bambini e parcheggi, tempo e cose da comprare. Si chiama Rossella, ha quarant’anni, i capelli corti e un vestito a fiori. Vive a Milano da dieci anni, da quando ha lasciato la Sicilia insieme a suo marito. Nel mezzo del corridoio dell’hospice Il tulipano, l’unità distaccata di cure palliative dell’ospedale Niguarda, a Milano, un’infermiera la conduce in una stanza anonima, con un tavolo da riunioni e delle sedie bianche. È un lunedì di fine gennaio.

“Mi sono curata per due anni”, dice, “ma ora ho smesso”. Alla fine del 2015, appena diventata madre per la prima volta, Rossella ha scoperto di avere un tumore. Per due anni ha fatto cicli di chemio e radioterapia, ma non hanno funzionato. “Un giorno arrivo in ospedale per un appuntamento con un medico. Freddo, come stesse leggendo i titoli dei programmi in tv, mi dice che per me non c’è più niente da fare”. Tornata a casa, la donna non riusciva a realizzare il senso di quelle parole. “Mi sono detta: loro hanno finito, ma io la malattia ce l’ho ancora. Che faccio? Ci sarà un percorso da fare, ci sarà un dopo”.

A poco a poco la sua vita è cambiata e si è riempita di attese. “Con mio marito facciamo finta che la malattia non ci sia, come una famiglia normale. Ce ne accorgiamo di notte, quando mi alzo perché sto male, o quando gli amici vanno di qua e di là, mentre io non posso”.

Ogni paziente coltiva la speranza di guarire, ma noi non possiamo alimentarla se non è reale

Una delle conseguenze di questa nuova vita, è che la coppia è rimasta sola. “Ho fatto una nuova amicizia grazie al tumore. Una donna che ce l’ha avuto e ha provato tutto questo. Gli altri amici sono spariti. A volte sono io che li chiamo. Per loro, starmi vicino è andare a mangiare fuori”.

Quando è stata ricoverata per la prima volta al Niguarda, Rossella ha chiesto un aiuto psicologico. Una squadra di professioniste ha cominciato a seguirla e la segue ancora oggi: “Il ‘non c’è niente da fare’ degli oncologi significa ‘stai per morire’. Quello delle psicologhe è arricchito da un milione di parole: ‘Cerca altre strade, preparati nella maniera giusta’. È questo che devi dire a una persona che sta male”.

Il problema è che a volte è difficile per gli stessi oncologi trovare le frasi giuste. “Spesso quando diciamo che le terapie non funzionano più, molti pazienti vivono la cosa come un abbandono. Ma anche per noi è un pugno allo stomaco, perché rapporti di mesi, a volte di anni, svaniscono in pochi minuti”, dice Andrea Ardizzoni, primario di oncologia al policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. “Ogni paziente coltiva la speranza di guarire, ma noi non possiamo alimentarla se non è reale. Quando suggeriamo di affidarsi a un palliativista non lo stiamo abbandonando, gli stiamo dicendo che è meglio affidarsi a chi ha competenze più adatte e specifiche”.

Dice Barbara Cozzolino, una delle psicologhe di Rossella: “Frasi come ‘reagisci, non mollare, dipende da te’ si sentono ripetere spesso nei casi di pazienti con una malattia non guaribile. E si pensa che se smettono di curarsi in fondo si stiano arrendendo. La terminologia bellica è molto diffusa. Ma noi dobbiamo aiutare le persone a individuare le loro priorità, i desideri da mettere in cima alla lista e capire insieme quanto si può fare. Altrimenti si finisce per non godersi il presente, con quanto di bello può esserci”.

Chiedo a Rossella come passa la giornate. “Sembra strano, ma non è che abbia tutto questo tempo. L’anno scorso facevo la spesa, andavo a prendere il bambino all’asilo. Quest’anno faccio tutto con fatica, sarà la chemio che mi ha tolto un sacco di forze. Dormo la gran parte della giornata”.

In ogni caso, non ha rimorsi: “Rifarei tutte le cure che mi hanno proposto, da capo, anche se non hanno portato a niente. Non ho mai messo in dubbio nulla. Anche se mi è dispiaciuto il distacco degli oncologi. Quando dicono ‘con te abbiamo finito’ ti gelano”.

Il medico
Nato nel 2015, Il Tulipano è – come tutti gli hospice – una struttura dedicata alla cura dei pazienti con malattie in fasi avanzate che non rispondono più alle terapie: tumori, cardiopatie, pneumopatie e neuropatie, sclerosi laterali amiotrofiche (sla), aids. Alla fine degli anni novanta erano tre, mentre oggi sono 246. Il loro ruolo è fondamentale: non solo aiutano a lenire il dolore delle persone malate, ma assistono loro e i loro familiari anche dal punto di vista psicologico.

Per legge, la 38 del 2010, sono gratuiti e sono rivolti a tutti coloro che non possono ricevere le cure palliative in ambulatorio o a casa perché le condizioni fisiche non lo permettono o le famiglie non ce la fanno a gestire la situazione.

Il Tulipano è un luogo dove ci si ferma in una metropoli che corre, immerso nei viali alberati del parco Paolo Pini, in zona Affori. Ignazio Causarano è il medico responsabile. È un signore di sessant’anni con gli occhiali tondi, gentile e risoluto. “Mi fa arrabbiare quando dicono che l’hospice è il posto in cui si va a morire. Qui invece si viene a vivere, e lo si fa nelle migliori condizioni possibili”, dice.

 - Nick Veasey, Getty Images
Nick Veasey, Getty Images

“Le malattie gravi isolano le persone, troncano relazioni, amicizie. Noi lavoriamo per ridare un significato a ciò che la malattia interrompe”, dice il dottore. “Persone che avevano un ruolo, valori, fedi incrollabili vanno in crisi. Si chiedono che senso abbia la loro vita, in questo stato. La sofferenza fisica è un aspetto importante da affrontare, ma non possiamo tralasciare l’aspetto psicologico”.
Camminiamo per i corridoi. Non c’è il caos tipico di una corsia d’ospedale. Nelle sale dei medici c’è un brusio vivace, mentre in quelle dei pazienti, tutte singole, si sentono solo parole sottovoce.

Una porta a vetri divide le corsie dal giardino. È una giornata grigia, di notte è piovuto e l’erba è bagnata. “Qualcuno esprime il desiderio di essere aiutato ad alzarsi dal letto e di andare fuori, di sentire l’aria addosso”, racconta Causarano. “E noi lo aiutiamo, se le condizioni lo permettono. Così, se vuole, lo lasciamo anche fumare, o bere un bicchiere di vino. Ai familiari dico sempre: ‘Se oggi è una buona giornata, godiamocela!’. L’elemento improvviso è sempre dietro l’angolo”.

Nelle stanze dei pazienti si alternano persone di tutte le età, provenienza ed estrazione sociale. Con loro ci sono figli, genitori, partner. Tutti portano animali e oggetti di ogni tipo per ricreare un’atmosfera casalinga. All’interno della struttura c’è una sala di culto per tutte le religioni, mentre nel giardino c’è un gazebo di legno dov’è stato celebrato anche un matrimonio. Si fa di tutto perché un percorso di cui si sa l’esito ma non la tempistica prosegua senza sofferenze.

Causarano riflette spesso su cosa possa fare la differenza tra una buona e una cattiva morte, se ne esiste una, e dice: “Io non ho visto nessuno morire contento, ovvio. Ho visto persone pacificate, persone rassegnate. Persone incazzate nere e anche persone disperate, che lo rimangono nonostante tutto quello che noi possiamo fare”.

Gli chiedo se tutto questo si riflette in qualche modo sulla sua vita. “Per me, e per tutti noi qui, la morte è un processo atteso, non una lotta all’ultimo respiro. Ci dobbiamo porre il problema di come si muore, non del perché. Per esempio, è una sconfitta se il percorso verso la morte si lascia dietro situazioni irrisolte, un familiare scontento o un malato angosciato, nonostante i nostri interventi”.

Beatrice
Torno al Tulipano un giovedì mattina di febbraio, per incontrare Beatrice. Arriviamo nello stesso momento: è una donna di trentacinque anni con occhi vivaci dietro agli occhiali da vista, un vestito blu elettrico e un cane al guinzaglio. Massimo, il padre, è ricoverato qui da circa un mese a causa di un tumore. La sua stanza, che come le altre porta il nome di un fiore, si affaccia sugli alberi del parco. Ci sono un tavolo con delle sedie, sulla porta è appeso un disegno fatto da Massimo. Beatrice e la madre trascorrono tutta la giornata in questa stanza, in compagnia del loro cane. “È come se mi trovassi in un momento di sospensione”, dice Beatrice.

Storica dell’arte contemporanea, ha vissuto per anni in Medio Oriente. È tornata a Milano per stare vicina ai genitori. “Eravamo una famiglia disfunzionale, ma questa situazione ci ha messi a dura prova e ha cambiato le cose”, racconta. “Avevo problemi più che altro con mia madre. La malattia ci ha fatto riavvicinare quando entrambe pensavamo che non fosse più possibile, e ha fatto riavvicinare lei a mio padre”.

Non è la prima volta che Beatrice si trova a fare i conti con una persona che sa di dover morire. “A maggio 2016, appena sono tornata in Italia, la situazione di mia zia, malata di cancro, è precipitata. Con lei abbiamo preso la scelta dell’assistenza domiciliare integrata. Dare alla persona malata la capacità di scegliere, in un momento in cui si sente impotente, è fondamentale”.

Ho abitato in paesi dove il peso dei privati nella sanità è tale che anche morire è una questione di classe.

All’inizio di gennaio 2018, quando il tumore del padre si è aggravato e si è capito che non c’era più niente da fare, Massimo e la famiglia hanno dovuto scegliere se ricevere le cure a casa o in un hospice . “Speravamo di rimanere a casa, ma viste le sue condizioni, l’hospice ci è sembrata la cosa migliore”, spiega Beatrice. “Qui ci è stato dato tempo di qualità. Possiamo fare delle cose insieme, confrontarci. Non tutti hanno la possibilità di salutare i propri cari, e la vita, dicendosi tutto quello che ci si voleva dire”.

C’è un aspetto che colpisce Beatrice. “La possibilità di poterlo fare in una struttura pubblica, senza pagare”, dice. “Ho abitato in paesi dove il peso dei privati nella sanità è tale che anche morire è una questione di classe. Chi può permettersi di morire bene muore bene. Gli altri no”.

Ci spostiamo nella sala comune per continuare a parlare senza disturbare. “Prima del Medio Oriente”, racconta Beatrice, “ho vissuto a lungo nel sudest asiatico e le persone che ho conosciuto mi hanno insegnato che la morte non è qualcosa che deve per forza interrompere le cose. Nel caso della mia famiglia, per esempio, le nostre relazioni familiari sono rinate, e mio padre sta pensando a una sorta di testamento ‘morale’ da lasciarci”.

Massimo, infatti, spera che i progetti di volontariato in Africa di cui si è occupato vadano avanti . “Il fatto di pensare che non si esaurisca tutto con lui lo aiuta moltissimo, in questo momento”, sorride Beatrice.

Carla
Il giorno dopo, di pomeriggio, incontro Carla. Parla al telefono nel corridoio del Tulipano. Mi ha dato appuntamento in una giornata complicata. La condizione di sua sorella Bianca, prima stabile, è peggiorata nel giro di poche ore. “È una montagna che è venuta giù e ci sta schiacciando tutti”, dice, “sta andando tutto così veloce”.

Capelli grigi tagliati corti e occhiali da vista appesi al collo, Carla vive a tre quarti d’ora di macchina da Milano, vicino all’aeroporto di Malpensa. Viene all’hospice tutti i giorni da un mese, dalla mattina alla sera: “Di me non m’importa. Se non fosse per la mia famiglia non me ne andrei mai da qui. Non voglio perdere neanche un minuto”. La voce decisa di Carla di tanto in tanto s’incrina: succede quando ripercorrere il suo rapporto con Bianca, le confidenze al telefono e i consigli che si sono scambiate per quarant’anni.

Rispetto al cognato Enrico, Carla dice di essere più razionale: “A mia sorella non nascondo la realtà, anche se è dolorosa. Loro due invece vivono in un mondo a parte, sono impenetrabili. Come se dicessero ‘sta succedendo ad altri, non a noi’. Si proteggono”.

Per far passare le lunghe ore di una giornata, le due sorelle giocano a carte. “Cerco di non far trasparire la mia sofferenza, altrimenti comincerebbe a preoccuparsi di cosa io e il marito faremo dopo la sua morte. Ma l’unica cosa a cui deve pensare è a star bene lei”.

 - Nick Veasey, Getty Images
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La prima volta che Carla è entrata nell’hospice, pur sapendo dove si trovava, ha avuto la sensazione di essere arrivata in un albergo. “È un posto intimo. C’è la sala da tè, il soggiorno e tutti sono dolcissimi. Mia sorella ha realizzato dov’era realmente solo poco tempo fa, appena si è potuta alzare dal letto. Ma va bene così. Cerchiamo di vivere gioiosamente quel che resta, senza complicazioni”.

La parte più difficile sono i continui alti e bassi della salute di Bianca, che hanno conseguenze sul suo umore e sulla sua voglia di stare con gli altri. “I medici la aiutano ad avere le energie sufficienti, così che possa credere ancora in qualcosa. Il rischio è quello di dirsi: ‘So che devo morire, e allora che mi frega se mi fai i massaggi o se mi curi il ginocchio’. A mia sorella continuo a ripetere che le deve interessare, perché quando sono con lei voglio che sia vigile, rilassata, in modo da poter chiacchierare serenamente. Almeno finché ce la fa”.

L’accademia di cure palliative
Da Milano vado a Bentivoglio, nell’area metropolitana di Bologna, per capire ancora meglio cosa rende queste strutture così importanti, per passare dalle parole dei pazienti a quelle di ricercatori e specialisti. Ci vado perché a Bentivoglio, oltre a un hospice che da quindici anni accoglie pazienti con malattie inguaribili, c’è anche l’accademia delle scienze di medicina palliativa.

Le strutture si trovano in un enorme spazio verde fuori del paese, a due passi dalla statale che collega Bologna e Ferrara. Le stanze dei pazienti hanno finestre grandi che danno sul prato. L’atmosfera ricorda quella di un campus americano, o inglese.

La direttrice è Daniela Celin. Le chiedo come funzionano gli hospice dal punto di vista economico. “Non credo che ne esista uno in pareggio di bilancio”, dice. “Il servizio sanitario nazionale copre solo una parte dei costi, circa il 65-70 per cento. È così in ogni regione. Il resto, per noi, arriva dalla fondazione Seragnoli, grazie alla raccolta fondi. L’hospice è una struttura assistenziale e di accoglienza, non necessariamente a fini remunerativi. Ecco perché non c’è molta competizione a cercare di aprirne altri”.

Nonostante siano stati fatti molti passi in avanti, i centri sono ancora pochi e distribuiti a macchia di leopardo sul territorio nazionale. Nella sola Lombardia, per esempio, sono più di sessanta, il doppio rispetto al numero complessivo di quelli presenti in Sicilia, Campania, Puglia, Sardegna, Basilicata e Calabria. Inoltre, secondo i dati della Federazione cure palliative, sono ancora poche le persone che scelgono di andarci: il 30 per cento dei malati di tumore, che sono a loro volta meno della metà di quelli che ne avrebbero bisogno e diritto. E questo perché, spiega il presidente della federazione Luca Moroni, “sono in molti a pensare che le cure palliative siano inutili o poco efficaci” e perché si crede che riguardino solo chi ha un cancro.

Un’altra criticità che riguarda gli hospice è la formazione dei medici e delle altre figure sanitarie: i corsi sulle cure palliative sono opzionali, e sono in programma solo in poche facoltà. La legge 38 del 2010 ha cercato di porre un rimedio a questa situazione dando alle università la possibilità di fare dei master, ma non sembra sufficiente.

“Il problema”, dice Monica Beccaro, responsabile dell’accademia di Bentivoglio, “è che le linee guida del ministero prevedono master diversi per i medici, per gli infermieri e per gli operatori sociosanitari, finendo per separare figure professionali che devono collaborare”. L’accademia di Bentivoglio è l’unica in Italia che organizza master in cui queste figure – oltre a fisioterapisti e psicologi – lavorano insieme.

La realtà, spesso, è che c’è ancora diffidenza verso la medicina palliativa. “Quando il paziente mette piede in un ospedale è come se entrasse in una specie di ciclo di produzione. E spesso viene sottoposto a una serie di esami inutili, per non dire invasivi”, dice Celin. “La cultura prevalente è quella di tentare di fare qualcosa anche contro le evidenze scientifiche. C’è la percezione, sbagliata, che la medicina palliativa sia qualcosa che non fa né bene né male, e per questo viene relegata alle ultime fasi della malattia”.

Oggi però la sfida per i palliativisti è la “presa in carico precoce”. E cioè la possibilità di assistere i malati che non rispondono più alle cure, ma che non hanno bisogno di un ricovero immediato. Aiutarli non solo nelle ultime fasi della loro vita, ma cominciare a costruire subito legami con gli operatori sanitari, e individuare la struttura più vicina dove essere assistiti, così come le cure più adatte. L’obiettivo è fare in modo che la qualità della loro vita non peggiori. Un obiettivo non da poco.

Articolo di Cristiano Barducci per Internazionale

INVOCAZIONI

INVOCAZIONI

Sembra difficilissimo passare per le fonti sonore del meridione italiano senza passare per i santi, che ancora oggi vivono nelle voci e nelle parole del posto. Stanno nella magia laica e nella tecnologia sacra, nella storia e nel mito, due parole che affossano questa parte d’Italia e continuano a essere pertinenti quanto ingenue. Anche se sempre più scollegati dai cristian (letteralmente “persone” in molti dialetti) alla base della loro iconografia, i santi stanno sempre nelle Evocazioni e invocazioni: s’intitola così l’album del musicista calabrese Davide Ambrogio, da Cataforìo, un piccolo paese dell’Aspromonte. E infatti qui ci sono sant’Andrea, santa Rusulia, san Rocco e san Michele.


Qui le origini sono importanti, per ragioni linguistiche ed etnomusicali, e perché indicano la direzione che Ambrogio – polistrumentista e compositore – persegue, lavorando tra la riproposizione e la reinterpretazione delle suggestioni popolari. La reinvenzione non fa parte del suo percorso, a differenza del lavoro di Mai Mai Mai tra Calabria e Lucania, dato che il disco di Ambrogio aderisce più al folk e una minore contaminazione artificiale (qui c’è ancora una natura del posto, e non è per forza un male), approdando a risultati interessanti in brani come Canto dal carcere, canzone sugli “scordati” che vivono in un “audace ibrido tra uno scantinato e un hotel”, che parte come Daniele Silvestri, discende da Giovanna Marini e poi opta per una digressione sonora fatta da una voce che restituisce l’esperienza dello spossessamento. ◆

Articolo di Chiara Durastanti per Internazionale

LA FORMA DELL’ANIMA

LA FORMA DELL’ANIMA

Hillman l’italiano. A 10 anni dalla morte dello psicoanalista, rivive lo studio sul Puer aeternus, genio italico traboccante di un desiderio che muove le cose del mondo

Lo psicanalista junghiano Ernst Bernhard, che visse per mezzo secolo a Roma ed ebbe tra i suoi pazienti e amici Cristina Campo e Federico Fellini, raccontava nel 1961 su Tempo Presente che i colleghi stranieri gli chiedevano spesso come potesse fare psicoterapia con gli italiani. Era certamente fatica sprecata, perché in Italia un’ombra, anzi l’ombra per eccellenza, incombeva indelebile e tiranna su uomini e donne, tutti eterni ragazzini impigliati nella rete della Grande Madre mediterranea e tutti, di conseguenza, segnati dal marchio del Puer aeternus, nel bene e nel male. Nel bene, per audacia, intuizione creativa, entusiasmo.

Nel male, per faciloneria, esibizionismo, inaffidabilità. La risposta di Bernhard la possiamo leggere nel suo grande classico, “Mitobiografia” (Adelphi), ma fu un altro junghiano eterodosso, James Hillman, a ribaltare la prospettiva sul tema in questione, attraverso i suoi studi sul Senex e sul Puer.

Non a caso, nel 1988 Hillman scelse di pubblicare prima di tutto in italiano la sua raccolta di “Saggi sul Puer”, ora riproposti dallo stesso editore di allora, Raffaello Cortina, in occasione del decennale della morte dell’autore. Quei saggi sono anche un omaggio voluto e un riconoscimento al “genio italiano”, che Hillman vedeva incarnato e determinato dall’influenza della figura del Puer. Non più visto come perenne vittima del “disordine nevrotico derivato dal complesso materno”, ma come figura “ricca di grazia e di seme”, traboccante di un desiderio che muove le cose del mondo.

James Hillman

Da Enea a San Francesco, da Cola di Rienzo a D’annunzio, da Leonardo a Puccini, l’influenza del Puer si traduce in ispirazione, diventa lievito delle idee e incoraggia l’attitudine a “spingere la vita oltre la vita stessa”, scrive Hillman. Beni inestimabili da apprezzare, non malattie da curare, secondo lui, che negli italiani Marsilio Ficino e Giambattista Vico riconosceva gli iniziatori del movimento di “conoscenza dell’anima”, precursore della psicologia e del “pensiero del cuore”. Hillman intitolò così una conferenza tenuta nel 1979, nella quale parlava delle vite di Dante e di Petrarca mutate per sempre solo per aver contemplato da lontano Beatrice e Laura. Da quegli “eventi del cuore” scaturì “la trasformazione di tutta la cultura occidentale, che nasceva come trasformazione estetica; era una trasformazione generata dalla Bellezza”. In nome di quella Bellezza maiuscola, Hillman non avrebbe mai smesso di approfondire e coltivare il suo amore per l’Italia, ma anche di stupirsi perché il tema della bellezza non ha mai veramente trovato cittadinanza nel mondo della psicologia e della psicoanalisi. Infine, ottantaduenne, scelse una città italiana carica di storia e di meraviglie, Ravenna, come il luogo perfetto da cui trarre ispirazione per dare forma compiuta alle sue idee sull’immagine come “forma dell’anima”, come via per arrivare all’anima stessa.

Ravenna, mosaico Sant’.Apollinare in Classe

Il viaggio di Hillman in quella che era stata la capitale dell’impero romano d’occidente fu anche un modo per chiudere i conti con Jung, il quale nella stessa città aveva avuto sogni e visioni indelebili. Il resoconto del viaggio del 2008 e l’elaborazione successiva dei suoi frutti, avvenuta tre anni dopo, quando Hillman sapeva di avere poco tempo da vivere, sono diventati un libro originale e profondo. Si intitola “L’ultima immagine” (Rizzoli) ed è un testamento filosofico scritto in forma di dialogo con la bizantinista Silvia Ronchey, l’amica e collaboratrice di lunga data che aveva accompagnato Hillman nella visita a Ravenna e che poi lo aveva raggiunto nell’ottobre del 2011 a Thompson, nel Connecticut, per aiutarlo in extremis a portare a compimento il lavoro interrotto dalla malattia.

Ravenna, Sant’Apollinare in Classe

La consapevolezza della fine prossima fa risaltare il coraggio e la generosità di Hillman nel voler indicare a chi lo avrebbe letto la strada per rivolgersi all’immagine che nasce dal cuore come “presentazione” della verità, cercando di uscire dalla confusione e dall’inganno provocati dal diluvio delle “false immagini”, che invitano all’azione e non alla contemplazione e che sono destinate a non ricomporsi mai, come invece fanno mirabilmente le mille tessere dei mosaici ravennati. E’ ancora una volta l’Italia a regalare a Hillman il materiale di quell’estrema elaborazione. Rievocando la visione del mosaico dell’abside di Sant’Apollinare in Classe, il grande globo blu con la croce centrale, circondato dal verde e da figure di “pecore e santi, genti e natura”, Hillman vede all’opera l’unità del cosmo e la bellezza: l’istanza più potente, perché “evoca l’amore”.

Nicoletta Tiliacos per Il Foglio Quotidiano

In copertina, la basilica di Sant’Apollinare in Classe

GATTA CENERENTOLA

GATTA CENERENTOLA

La tradizione popolare nella voce della Gatta Cenerentola. Facce dispari. Dal conservatorio alla Nuova Compagnia: Fausta Vetere si racconta. Napoli un po’ingrata, l’amicizia con Pino Daniele e il canto, sempre.

Fausta Vetere è nata sopra la spiaggia di Mergellina, dove la Madonna di Piedigrotta in una notte di tempesta smarrì uno scarpino. La leggenda si fuse con la fiaba di Cenerentola, anzi della “Gatta Cenerentola”, come la intitolò Giambattista Basile e la rimodellò Roberto De Simone tre secoli e mezzo dopo. E Fausta, forse per destino di nascita, fece la Cenerentola sin dalla prima di quell’opera teatrale al Festival di Spoleto nel ’ 76. Anima storica della Nuova Compagnia di canto popolare, è lei l’emble – matica voce femminile della musica tradizionale campana. L’anno stesso della “Gatta” en – trava nella compagnia Corrado Sfogli, giovane virtuoso chitarrista: i due s’innamorarono e assieme avrebbero trascorso 44 anni fino alla morte di Corrado nel 2020. I tre figli di Fausta sono tutti musicisti, due per passione, uno per professione: Marco, già chitarrista del cantante canadese James Labrie, è membro della Pfm dal 2015.

Fausta Vetere, voce e anima della Nuova Compagnia di canto popolare

Fausta, quando le venne voglia di cantare?

Forse già nella pancia di mia madre sentendo cantare lei.

Aveva una voce bellissima che rimase inespressa: a quell’epo – ca la vita castigava un po’ le donne. Affinché ciò non si ripetesse con me, sin da piccola m’invo – gliò a cantare e a non aver paura del pubblico. La mia prima esibizione, chiamiamola così, avvenne un giorno che ci trovavamo in un parco di Milano. A un certo punto i miei non mi videro più, perché ero attorniata da un capannello di adulti a cui cantavo “Guagliona”. Poi fui selezionata per la trasmissione della Rai “Il nostro piccolo mondo” e persi un anno di scuola: dovendo andare in tv ogni giovedì saltavo la lezione di matematica. La professoressa insisté che fossi bocciata. Ma ne valse la pena.

E la scoperta della chitarra?

Una zia pianista, consigliata dall’amica Maria Calace concertista di mandolino, m’indirizzò al maestro Manlio Santanelli, che poi sarebbe diventato un drammaturgo. Quindi proseguii gli studi con il celebre Mario Gangi e mi diplomai in canto al Conservatorio.

Come si avvicinò alla tradizione popolare?

Grazie all’incontro con Roberto De Simone, nacque tutto con lui. Quando cominciai a studiare il patrimonio popolare fu uno choc: educata a essere un soprano belcantista, il canto spontaneo della tradizione mi era del tutto nuovo.

Qual è la differenza?

Nel belcanto c’è la rigorosa concezione della pulizia, nel canto popolare quella dell’emo – tività. Giravamo la Campania per studiare le feste tradizionali, dalla più triste del Venerdì Santo alla più gioiosa delle Lucerne, dedicata alla fertilità e ai raccolti. Scoprii che il canto si fonda sempre su un’esigenza precisa: una grazia ricevuta, il complimento a un uomo o a una donna, l’omaggio a una Madonna, l’inaugurazione di una casa.

Nella formazione della Nuova Compagnia di canto popolare si succedono nel tempo nomi come Carlo D’angiò, Eugenio Bennato, Peppe Barra, Patrizio Trampetti, Corrado Sfogli. L’anno scorso vi è stato assegnato il Premio Tenco. E’ raro che un gruppo musicale viva dopo più di cinquant’anni.

Per Napoli potremmo pure non esistere: resistiamo grazie a grossi sforzi personali, nessuno ci aiuta. Se promuovono una rassegna dove non ci sono i soldi, ci chiamano; se i soldi ci sono invece no. I miei musicisti sono costretti a suonare anche con altri gruppi per tirare avanti, sarebbe impossibile vivere solo dei nostri concerti. Sarà un destino: grandi successi della critica ma mai economici. Fu anche per l’impronta di De Simone. Quando c’invitavano a “Canzonissi – ma” minacciava: “Se ci andate vi lascio”. La musica popolare era una cosa sacra.

Lei non solo ha suonato con Pino Daniele, ma è stata assieme a Corrado tra i suoi migliori amici.

Parlavamo pochissimo di musica, molto delle nostre vite. Era costretto a vivere lontano da Napoli perché in città non sarebbe potuto uscire di casa: era braccato dal successo. Ci chiamava perché andassimo a trovarlo: si sentiva solo. Un giorno mi confidò che una volta, credo fosse il ’ 73 o ’ 74, venne a sentirci nella “Cantata dei pastori” alla Galleria Umberto. Poi sul palco si alternarono a suonare Edoardo Bennato, Tony Esposito… Pino era un ragazzo che s’era portato la chitarra e chiese agli organizzatori se poteva salire anche lui. Lo cacciarono.

Lei ascolta anche i Maneskin o soltanto villanelle?

Nuova compagnia teatro popolare

Il loro non è il mio genere ma la musica la ascolto tutta. Sono stati un fenomeno inatteso, molto bravi ma non eccezionali perché ci sono tanti gruppi rock allo stesso livello che hanno meno fortuna. I Maneskin sono entrati in quel Sanremo al momento giusto e con un tanto di trasgressione che bastava, ma è positivo che riavvicinino i giovani all’ascolto in un’epoca in cui la discografia non esiste più, sostituita da processi di velocissimo consumo.

Non le passa mai la voglia di cantare?

La musica è più di una patologia: farla è una felicità così grande che ti lascia solo quando chiudi gli occhi. E’ parte del presente, del passato e di me. Spero di far emozionare ancora qualcuno e che un giorno i miei nipoti siano fieri di questa nonna, giudicandola superlativa malgrado sia un po’ eccentrica.

Francesco Palmieri per Il Foglio Quotidiano

DOMENICO, ESTETA SELETTIVO

DOMENICO, ESTETA SELETTIVO

Domenico Gnoli

La mia lunga residenza sul Pianeta Terra mi regala continue sorprese. Una di queste, accaduta alla Fondazione Prada di Milano, carezza la forma di una veggenza (ovvero, l’intuizione larga sul nostro presente) attraverso un artista che raccontava quanto di più normale ci fosse nella giornata di una famiglia borghese negli anni Sessanta.

Domenico Gnoli (Roma , 1933 – New York, 1970) era un pittore con uno spiccato feticismo per il dettaglio dentro lo sguardo, artefice quasi algebrico di un close-up metafisico che lo avvicinava ai pezzi facili, ma mai scontati, di una tipica abitazione italiana. L’artista, con modi da biologo cellulare, dipingeva l’identikit poetico dei corpi: uomini e donne, giovani o adulti, osservati con la chirurgica visuale di una lente che ingrandiva al parossismo i dettagli di abiti sartoriali, camicie e colletti, scarpe in cuoio, cravatte, soprabiti, asole e risvolti ma anche pettinature di foggia scolaresca e ben modellata.

La mostra (dal 27 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022) si presenta come una retrospettiva che riunisce più di 100 opere realizzate da Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) dal 1949 al 1969 e altrettanti disegni. Una sezione cronologica e documentaria con materiali storici, fotografie e altre testimonianze contribuisce a ricostruire il percorso biografico e artistico di Gnoli a più di cinquant’anni dalla sua scomparsa. La ricerca alla base del progetto concepito da Germano Celant è stata sviluppata in collaborazione con gli archivi dell’artista a Roma e Maiorca, custodi della storia personale e professionale di Gnoli. “Mi servo sempre di elementi dati e semplici, non voglio aggiungere o sottrarre nulla. Non ho neppure avuto mai voglia di deformare: io isolo e rappresento.” Domenico Gnoli

Poi, come un biologo appassionato di interior design, faceva il detective discreto sui complementi d’arredo: letti, divani, poltrone e tavoli, tovaglie, pavimenti e carte da parati, mantenendo il profilo lenticolare di una retina selettiva e gulliveriana, pronta ad ingrandire la natura domestica, creando l’idea fiabesca di un luogo dominato da oggetti incombenti e virali, come se la mela gigante di Magritte fosse uscita dalla camera per invadere le abitudini ritmiche di una società consumistica.

Durante gli anni Cinquanta il giovane Gnoli frequentò Parigi, Londra e New York, sperimentando la pittura tra contesti diversi, agganciandosi al teatro (costumi, scenografie, locandine, manifesti), giocando con gli esiti grafici dell’illustrazione, inventando storie oniriche e mondi con tracce fantasy. Fino al 1963 le pitture risentivano della cultura informale su cui si stava formando la generazione del Dopoguerra. Negli anni Cinquanta i soggetti erano aridi come deserti, sabbiosi e arcaici come archeologie del presente, giotteschi nella radice, drammaturgici nei colori di una terra che grondava il sangue dei morti. Poi arrivò il 1964, l’anno della Pop Art alla Biennale di Venezia, il momento in cui si stava disegnando un nuovo sguardo sul mondo. In quel frangente, mentre il colore ammorbidiva impasti e trame, le tele prendevano la luce calda degli interni domestici, una patina accogliente e familiare che accendeva l’occhio sulle piccole certezze di una borghesia lavoratrice e ottimista, segnata dalla violenza ma cicatrizzata per far crescere la pelle giovane del futuro.

La sua visione era archetipica e straniante, stella solitaria in un firmamento culturale che tendeva verso l’omologazione di generi e temi. Gnoli inventò la prima forma di un POP BORGHESE che mai si era visto finora.

Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia producevano le ragioni di una Pop Art detonante, proiettata verso la socialità del mondo esterno: le vetrine illuminate e le merci sugli scaffali (Andy Warhol e gli altri a New York), i feticci disintegrati della vita urbana (il Nouveau Réalisme in Francia), il feticismo erotico tra merci, corpi e mass media (Londra con la generazione di Richard Hamilton, Allen Jones, Peter Blake…), fino alla memoria artistica nel ciclo del presente (Roma con Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli…). In questo firmamento di stelle lisergiche spiccava Gnoli con le sue storie da interni familiari, con la sua morbidezza realistica e classicamente silenziosa, contraddizione risolta tra un dipingere nel solco della Storia e un approccio fotografico da outsider laterale.

Domenico Gnoli è vissuto troppo poco ma ha prodotto con un nitore selettivo da maestro di cerimonie estetiche, lasciando un patrimonio che indica molteplici direzioni dell’arte più attuale. Basti pensare al gigantesco serbatoio di opere digitali con tecnologia NFT, un ambito ancora oscillatorio in cui il feticismo ossessivo per i dettagli, sia organici che inorganici, incarna la natura di una generazione geneticamente sintetizzata. Gli autori digitali sembrano il prodotto binario di un genoma culturale che rende Gnoli il più veggente tra i pittori della sua generazione. Un visionario borghese che intuiva gli esiti del consumismo estremo, rifugiandosi nel caldo tepore di una casa accogliente, fuori dal caos militante, oltre le mode istantanee e le ideologie rivoluzionarie, nella morbida protezione di un divano davanti al camino. Possibilmente con un abito sartoriale addosso.

Articolo di Gianluca Marziani per Dagospia

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