UNA VITA SPERICOLATA

UNA VITA SPERICOLATA

L’uomo è predisposto ad antropomorfizzare, ovvero ad attribuire qualità umane ai non umani. Succede anche con l’IA

Devo confessare che l’articolo di Corbellini e Mingardi sull’intelligenza artificiale, apparso sul Foglio il  giugno 2023, pur stimolante, mi appare muoversi in un’ottica sbagliata.

Scrivono gli autori; “Il vero problema, in altre parole, è la facilità con cui le persone antropomorfizzano o proiettano caratteristiche umane sulle nostre tecnologie, piuttosto che l’effettiva personalità (il corsivo è mio) delle macchine.”  

L’antropomorfizzare le macchine, al punto di attribuire loro una personalità, non è altro che una proiezione antropologica-culturale e psicologica presente in ogni epoca e latitudine. Non è dunque questo il problema. Semmai è vero il contrario: il pericolo è di robotizzare l’uomo. In altre parole il problema è riuscire a valutare l’effetto che la macchina può avere sull’uomo, in un’epoca che vede il predominio della tecnica e delle sue applicazioni.  Giustamente quindi gli autori si interrogano “ sulla possibilità che queste macchine diventino coscienti, autocoscienti, senzienti, minacciose per la sopravvivenza della specie”. Per me possibilità zero dal momento che le macchine non hanno ne potranno avere emozioni o sentimenti.

Ma proviamo a rovesciare lo schema, mettiamoci nella “testa” della Ameca (un umanoide robotico creato da Engineered  di turno): interrogata risponde attingendo ad uno scibile insondabile quanto il destino. L’informazione e la soluzione proposta dell’I.A. determinano il nostro conseguente agire nel mondo, forti di quello che appare un verdetto incontrovertibile, indiscutibile, elevato a verità assiomatica. Con la macchina possiamo stare sicuri perché l’errore è escluso, l’efficacia e assicurata, l’economicità pure: tutto funziona. La macchina pensa per noi, e con molta più efficienza e rapidità. Non ci resterà che aspettare ogni volta il vaticinio della Pizia e metterlo in pratica ubbidienti. Nessuna necessità di sapere, di interrogarsi, di farsi scrupoli o tormentarsi nell’incertezza.

Col tempo l’uomo che conosciamo sarà una specie destinata a estinguersi, per un naturale evolversi della specie: al suo posto un umanoide che aspira all’immortalità, indissolubilmente legato alla macchina da lui stesso creata. Le parole morale, etica, coscienza, anima non esisteranno più. La filosofia, il pensiero stesso, saranno arnesi inservibili, tutte riassunte in un’unica grande certezza: la felicità.  

A propositi del rapporto uomo-macchina, mi scrive il prof. Massimo Stevanella: “ Il pensiero e tutte le funzioni cognitive che rendono l’essere umano propriamente “umano” sono irriducibili al movimento degli impulsi elettrochimici del nostro cervello. La mente (anima?) non può mai essere equiparata a una “macchina” e va dunque collocata in una dimensione “altra” (metafisica?….) Le macchine, dunque, non potranno mai pensare, ma solo reagire a degli stimoli, senza possibilità di attribuire all’esperienza un “significato”, che rimane quindi una capacità del tutto umana. “ Ecco, così le cose vanno molto meglio. “Una vita spregiudicata”, cantava Vasco Rossi, fatta di sentimenti ed emozioni. Solo questa voglio vivere.    

TRUFFE DA SBARCO

TRUFFE DA SBARCO

La feroce satira di Marco Travaglio colpisce ancora

Se il guaio della Schlein è che non la capisce nessuno, quello di Meloni e Salvini è che li capiscono tutti. I loro annunci, promesse e slogan sono così semplici ed efficaci da risultare non solo facili da comprendere, ma anche difficili da dimenticare. E per loro è un bel casino, trattandosi di cazzate irrealizzabili, tantopiù quelle su un problema insolubile come quello dei migranti. Che al massimo si possono ridurre con un lungo, paziente e costoso lavoro di diplomazia e intelligence coi Paesi di provenienza, offrendo soldi in cambio di rimpatri e freni alle partenze (con la delicatezza tipica di quei regimi). Ma non fermare, almeno finché l’Occidente seguiterà a rapinarli e a usare quei Paesi come riserve di caccia per le proprie guerre per procura. Il blocco navale è facile da capire: peccato che non esista al mondo una flotta in grado di coprire l’intera costa nordafricana e, se mai esistesse, il suo arrivo in acque altrui sarebbe un atto di guerra. Infatti, finita la campagna elettorale, la Meloni ha smesso di parlarne. Ne parla ancora Salvini, che in campagna elettorale ci vive 365 giorni l’anno: continuerà a parlarne senza fare una mazza, che poi è la sua professione (ieri postava sui social un gattino morto). La Meloni aveva promesso di “inseguire gli scafisti in tutto il globo terracqueo”: siamo ansiosi di sapere quando parte, e per dove. Voleva anche spiegare ai partenti “i rischi che corrono”: potrebbe affiggere dei manifesti alla Garbatella. Intanto ha alzato a 30 anni la pena per gli scafisti e varato l’“omicidio nautico”, così imparano, tiè: purtroppo non se ne sono accorti e il nuovo reato si candida a produrre qualche processo in meno dell’oltraggio al Re. Il comandante della Guardia Costiera, Nicola Carlone, aveva anche proposto “pene più severe per chi si mette al timone dopo aver bevuto troppo”: si sa che i naufragi li provocano gli scafisti ubriachi (allo studio anche la prova del palloncino in mare aperto).

E così, fra decreti Sicurezza/cutro/flussi, commissari straordinari, guerre e paci con l’ue, la Francia e le Ong, sostituzioni etniche, complotti dalla Wagner, della Cina, di Macron, di Scholz e del Pd (come no), stragi in mare e karaoke sulla Canzone di Marinella, “svolta”, “cambio di passo”, “giro di vite”, “piano Mattei”, “piano rimpatri”, “porti chiusi”, “pugno di ferro”, “tavoli”, “cabine di regia”, “patti”, “assi” con i Paesi europei, africani e del globo terracqueo visti solo da giornali e tg, su su fino al mirabolante “memorandum con la Tunisia” dell’affidabilissimo Saied per “difendere i confini” dall’“invasione”, il governo anti-sbarchi ci ha regalato 120 mila sbarcati in nove mesi: più del doppio di quando governavano i pro-sbarchi. Se non fossero così impegnati, verrebbe da chiamare gli infermieri.

Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano

QUI E ORA

QUI E ORA

Dopo l’arsura che ha seccato persino la voce,

ecco la pioggia scendere dal cielo,

un refrigerio al cuore,

dolce musica,

come il buongiorno di un’amica.

Vorrei uscire, lo sguardo alla montagna,

inoltrarmi nel bosco col ritmo delle foglie appassite,

seguirle fra i ciottoli, nei mutevoli rigagnoli.

La pioggia lava e porta via, dissolve,

tutto è così, tutto sfugge.

Qui e ora dice il saggio, già,

ma se tutto è apparenza?

Se ciò che c’era non è più?

Sono fermo di fronte al mistero, come tutti,

solo un po’ più fresco, qui e ora.

NON ERA UN TRENO PER YUMA

NON ERA UN TRENO PER YUMA

Non era un treno per Yuma. Non trasportava banditi, e una banda non era in agguato lungo i binari per liberare il suo capo detenuto. Trasportava solamente operai stanchi dopo una giornata di lavoro; qualche studente stravaccato, cuffie alle orecchie; impiegati intenti a compulsare il telefonino. Seduta di fianco a me una anziana e grassa signora si assopiva di frequente, reclinando la testa, giusto il tempo di una mossa al burraco-line.

IL TRENO

Era un treno per Rivarolo, di quelli locali, anonimo e lento, simile a quelli che una volta si chiamavano littorine e attraversavano, a scartamento ridotto, campagne desolate. Altro che il treno per Foggia e i suoi Lanzichenecchi (bisogna accontentarsi, non sono mica Elkann, noblesse oblige).

Il treno si snoda fra una stazioncina e l’altra, sembra indugiare, nonostante sia in ritardo e già il crepuscolo scende, fra campi di granturco, campagne incolte, facciate anonime di caseggiati popolari.

Una giornata noiosa, ripetitiva, ma poi giunto in prossimità di San Benigno il treno si ferma, le porte si aprono, una voce lo percorre: tutti giù!! La piccola folla si accalca sotto una vecchia pensilina, lo sguardo lungo i binari, a scrutare l’ostacolo. Eccolo! L’asta di un passaggio a livello svetta nel cielo, appoggiata alla linea elettrica. E’ blackout.

Opera di un automobilista ubriaco? Pare non sia la prima volta, dice il capotreno, che fa capire che i soccorsi saranno lunghi. A dire che il capolinea, la meta agognata, e lì a pochi chilometri.

Comincia un’attesa snervante, rotta dal suono dei telefonini e dal resoconto concitato di chi cerca un passaggio occasionale o familiare. Attorno al cippo distorto del fu passaggio a livello arrivano alcuni vigili del fuoco, un agente regola il traffico. Sembrano marionette immote, sopraffatte dalla perplessità e pervase da un’improvvisa inedia.

 

Davanti alla stazioncina ci sta una pensilina, qualcuno pensa a una alternativa dal ferro alla gomma. Ma i bus sono così rari!

“ Ritornando a Settimo, però, è possibile prendere una coincidenza che poi ci porta a Rivarolo” sento dire da una voce femminile. Una donna legge dal telefonino numeri, orari delle corse, fermate. E’ sicura, la voce di chi alla competenza unisce cortesia e affabilità. Scandisce: “il tempo è poco, se il bus è in ritardo o troviamo traffico non ce la faremo”. Guarda il display, poi noi, poi si ripete, come un mantra, per chiarezza, sottintende.

Si chiama Susanna, poco più di una ragazza, un poco macilenta e pallida. Indossa uno spolverino bianco, scarpe da tennis ai piedi. Accanto, incuriosita, c’è Claudia, che scopriamo poi essere una maestra. Una folta capellatura bianca che spicca.

A me va di tentarla, la sorte. Maria Angela che mi accompagna un poco infreddolita dalla sosta inattesa, è dubbiosa. Magari ha ragione lei, ma a me va lo stesso tentare. Come da ragazzo quando facevo l’autostop per portarmi verso la Riviera. Partiamo poco dopo per un’avventura nella notte su un bus di linea, mezzo vuoto, con un autista che prima recalcitra, deve rispettare l’orario, non può andare più forte, reclama. Poi contagiato dall’ansia che ci legge in volto, fila spedito fino alla fermata della coincidenza.

Siamo sul filo dei minuti, forse dei secondi: il bus è già passato? magari è in anticipo? o forse no, in genere sono in ritardo, ma questo succede a Torino non qui, le strade sono libere. Congetture che come farfalle notturne svolazzano intorno a noi. Siamo fermi come sospesi ai lati della strada, su una terra di nessuno delimitata dalla pensilina, mentre le auto passano, i guidatori rallentano per farci attraversare poi sfilano incuriositi. Ma scritte un poco ondeggianti di numeri e parole illuminate sul fontale del bus non se ne vedono.

Claudia, a questo punto, quasi fosse un’attrice consumata, tira fuori il piano B, sua sorella la Maga.

La chiama col telefonino. Detto fatto, un stringato resoconto, l’accordo sul luogo dove prenderci e un’esortazione a fare presto.

“Abita a Rivarolo, ci viene a prendere lei. Sorride: tutto a posto!” Ci guardiamo dubbiosi.

Susanna, che da un po’ si stropicciava nel dubbio, si rilassa, ora possiamo non sentirci più naufraghi dispersi, ogniuno assapora il rientro a casa, la cena in famiglia.

Si chiacchera, o meglio ne approfitto per domande un poco affrettate.

Susanna è sposata, ha fatto parecchi mestieri, attualmente è in uno studio di commercialisti importanti a Torino, va su e giù ogni giorno.

Claudia è misurata nei modi, minuta, un viso aperto su cui si apre di sovente il sorriso.

Ci parla del suo lavoro di maestra, è stanca e aspetta impaziente la pensione. Non lo dice, ma si sente un poco superata dai tempi. La scuola è cambiata, scolari e famiglie non sono più gli stessi. Le cose stanno peggiorando nel campo educativo. Ma c’è da scommetterci che Claudia stia preparando qualcosa di nuovo e diverso, non sembra il tipo da appendere al chiodo la sua esperienza.

Mentre aspettiamo Claudia spiega che In realtà la “maga” è una consulente coniugale e familiare, una professionista socio-educativa che lavora nella formazione d’aiuto con la coppia e la famiglia.

 “Interviene in tutte le situazioni in cui c’è bisogno di ascolto, di empatia, di accoglienza e di riorganizzare le risorse dell’individuo, della coppia e della famiglia.”

L’ascolto incuriosito: “Non è dunque una “strizza cervelli”, né la cartomante che legge le mani o nei fondi di caffè”- sottolineo.

LA MAGA

“Eccola!” esclama Claudia, è arrivata la Maga.

Avanza a finestrini abbassati un’auto bianca, guidata da una esuberante signora di mezza età. Apre le porte prima ancora dell’arresto: “Su, su, che ci aspettano”, un breve sorriso a Claudia che ricambia con aria interrogativa. Chi ci aspetta? mi domando.

Ci affrettiamo a entrare, l’auto riprende la corsa, lascia il centro, nella campagna il buio già incombe. Dopo una distesa di mais, qualche casolare sperduto, la strada si addentra nella collina. La Maga ha una guida a strappi, incurante dei dossi e affronta le curve irrigidendo le braccia. Una folta e ricciuta capigliatura le nasconde il profilo.  In fondo alla strada si apre una vallata appena velata di umidità, la sponda di un lago si smoda contorta, non circola nessuno, solo i fari della nostra macchina fendono il buio.

Ci guardiamo stupiti, domandandoci sottovoce dove ci sta portando.

Ci guarda dallo specchietto retrovisore: “ ho una sorpresa per voi, un viaggio che nemmeno immaginate.”

“Ma a casa mi aspettano”, protesta Susanna.

Maria Angela mi guarda allarmata, poi fa un gesto come a dire: te l’avevo detto, io!

Sentiamo all’improvviso il fischio di un treno. Filiamo sotto un terrapieno su cui scorgiamo snodarsi delle rotaie. Al fondo, interrotte dallo sbuffo bianco di vapore, delle luci e delle ombre concitate.

“Siamo arrivati” dice la Maga, soddisfatta “anche questa è fatta”. Tira un sospiro di sollievo e il freno a mano.

La stazione è modesta, deve risalire agli anni sessanta del secolo scorso, ma il treno in sosta, formato da 12 carrozze, è illuminato come per una cerimonia imperiale.

Le carrozze sono lucide, con modanature in bronzo dorato, i finestrini sono degli oblò con vetri soffusi. Scende un uomo in uniforme, si presenta con sussiego; è il concierge. Dopo essersi presentato e dato il benvenuto, ci porge una busta sigillata di ceralacca col nostro nome a caratteri cubitali.

  

“Entrate prego” dice l’uomo “ vi aspettavamo, ora vi accompagno ai vostri posti”.

Entriamo ammutoliti e increduli. La Maga da fuori ci guarda ironica, incoraggiandoci con i gesti delle mani. Poi riparte.

Ci addentriamo nel lusso di un salone stile-sottolinea il concierge- dolce vita. Una melodia esotica fa da sottofondo. Vediamo alcuni camerieri inguantati attorno ad un bar carico di drinks e bollicine per un buffet di benvenuto. Segue una sala giochi per le carte e gli scacchi. In fondo si intravvede un pianista con papillon che vedendoci accenna a una melodia.

Le cabine sono suite con ogni comodità. Il concierge sta spiegando a Claudia estasiata che il divano si trasforma con un pulsante in letto matrimoniale.  “Un lusso curato ma non ostentato, che sembra essere qui da sempre”, scandisce compiaciuto.

“Ma il meglio è nella carrozza ristorante, ogni piatto è preparato al momento secondo il menù che avrete scelto, e durante il pasto un cantastorie vi racconterà dell’incontro fra Oriente e Occidente, meglio delle Mille e una notte.

Mi assale un dubbio e dico: “ma non è per caso questo treno l’Orient Express ?”

Il concierge mi guarda stupito, alza i sopraccigli, storce la bocca: “Ma che domanda…non ha letto all’esterno la scritta?

“Ma dove siamo diretti?”- domanda timidamente Susanna.

“A beh, dipende, ci sono tre itinerari, nella busta è indicato il vostro, quello assegnato a ognuno di voi.” Poi con un lampo di malizia negli occhi soggiunge: tante destinazioni, nessuna destinazione”

Lo guardiamo muti e a disagio, la busta sembra pesarci nelle mani. Nessuno ha il coraggio di aprirla nè di ripetere: sì, ma dove siamo diretti?

Un fischio ci dice che il treno sta per partire. L’uomo ha una smorfia, come fosse spazientito, poi abbassando la voce e avvicinandosi, quasi recitasse una parte per l’ennesima replica, dice:

“Il vostro caso non fa eccezione. Consolatevi, alla fine siete dei privilegiati: avete visto, sentito, vi siete fatta un’idea più precisa di cosa si lascia. Non che questo conti gran che, mah…  Poi in fondo il posto non è così scomodo; questa è una vasta regione che non è stata ancora perfezionata, ne avrete semplicemente un anticipo”. Potrete continuare a viaggiare in comunanza di intenti e amicizia,…. fino alla prossima fermata, là dove non ci sono passaggi a livello.. Una fermata definitiva, per diventare parte di un cielo infinito e senza tempo.”

Seduto accanto al finestrino scruto nel buio. Fra di me penso: l’ultimo viaggio, peccato. Ho visto così poco, e capito ancora meno.

FAR CRESCERE I MIGLIORI SECONDO LUCA RICOLFI.

FAR CRESCERE I MIGLIORI SECONDO LUCA RICOLFI.

UNO NON VALE UNO, ONORE AL MERITO E’ LA VERA RIVOLUZIONE! LE RIFLESSIONI DI UN EX SOCIALISTA PROLETARIO, EX GIUSTIZIALISTA PENTITO, ORA INNAMORATO DI CALAMANDREI

La rivoluzione del merito” – l’ultimo libro di Luca Ricolfi – appena uscito in libreria per Rizzoli – dovrebbe già essere sulla scrivania di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Il libro racconta la storia della lotta contro il merito, e contiene anche, alla fine, una “modesta proposta” per istituire un generoso sistema di borse di studio per i ragazzi capaci e meritevoli ma poveri.

“La presidente del Consiglio”, racconta Ricolfi, “condivide l’idea lanciata dalla Fondazione Hume e ripresa nel mio saggio. E, a quel che ne so, è determinata a realizzarla fin dalla fine di questo anno scolastico”. Ricolfi è ossessionato dal problema del merito fin dai tempi delle riforme di Luigi Berlinguer, alla fine degli anni 90. “Ma ancora non riesco a darmi ragione del silenzio di tutte le forze politiche, a partire da quelle che si proclamano progressiste, per il destino dei ragazzi ‘bravi a scuola’ ma provenienti da famiglie modeste”.

Sociologo dotato dell’abilità di scrivere con chiarezza illuministica, Ricolfi è nato nel 1950, lo stesso anno in cui Piero Calamandrei, a Roma, pronunciò davanti a maestri e professori uno strepitoso discorso in difesa della scuola, raccontato nel primo capitolo del libro. Un discorso poco conosciuto, che parla dell’articolo 34 della Costituzione. Quello che recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi”. Secondo Calamandrei, “l’articolo più importante della Costituzione”. Di cui è necessario ricordare “il valore politico e sociale”. Perché solo attraverso il sostegno ai capaci e meritevoli la scuola può far crescere “i migliori”.

“I partiti progressisti hanno dimenticato la lezione di Calamandrei. Anzi hanno sconsideratamente tradito l’articolo 34 per abbracciare la bandiera del ‘diritto al successo formativo’, che ha danneggiato proprio le persone che ai progressisti dovrebbero stare più a cuore: le più umili”.

La difesa della cultura come strumento di emancipazione – un tempo centrale anche nella politica del Pci di Togliatti – è così rimasta politicamente orfana. “I progressisti l’hanno abbandonata, la destra non l’ha ancora raccolta”. La novità è che, a sinistra, la parola merito è diventata quasi una bestemmia, dopo essere stata messa al fianco di “istruzione” nel nome del ministero oggi guidato da Giuseppe Valditara. “Mentre è il discorso più di sinistra che si possa fare”. Né Elly Schlein, né nessun altro dei segretari precedenti del Pd, però, ha mai invitato Ricolfi a un incontro di partito. E’ stata piuttosto Giorgia Meloni a chiedergli di partecipare, nella primavera scorsa, alla convention di Fratelli d’Italia.

Di destra? No, Ricolfi si definisce al contrario “un uomo di sinistra”. In politica economica, addirittura “radicale”. “Io sono un sessantottino. La mia generazione è cresciuta nel mito della rivoluzione. E nemmeno io sono immune dal suo fascino. Certo, non ho mai pensato che il potere dovesse essere conquistato con la violenza, come predicavano gli estremisti degli anni Settanta. Ma, anche quando ho scelto il riformismo, sono rimasto fedele all’idea che, per cambiare davvero le cose, qualsiasi riforma deve essere radicale, decisa, senza mezze misure.

Luca Ricolfi

L’italia va rivoltata come un calzino. Tutto il resto è acqua fresca”. Il passato del Ricolfi rivoluzionario è poco noto. “Ero vicino al Psiup, allora guidato da Pino Ferraris. Ma lasciai nel 1971, quando, a una manifestazione, Lotta Continua e gli psiuppini se le diedero di santa ragione con le aste delle bandiere per prendere la testa del corteo. Così io salii sulla mia Fiat 850 e mi rifugiai in montagna, dove rimasi per circa un anno, scendendo solo a dare esami all’università. Per quasi un anno mi dedicai solamente a studiare i miti greci e a tradurre (malissimo) la Einbahnstrasse di Walter Benjamin. Di quel tipo di politica lì, di quella competizione senza senso fra gruppetti extraparlamentari, non volli saperne più niente”.

Seppur sessantottino, Ricolfi è stato in polemica anche con la propria generazione, a cui oggi imputa la responsabilità di aver contribuito alla distruzione del merito. “Credevo che per fare la rivoluzione fosse necessario studiare. Non puoi cambiare il mondo, dicevo, se prima non fai lo sforzo di conoscerlo a fondo. La mia generazione tendeva invece a credere che anche l’istruzione fosse uno strumento del dominio di classe. Di qui l’idea degli esami collettivi e del voto politico. Che detestavo non perché i miei compagni, senza studiare, prendessero gli stessi voti che prendevamo noi, studiando. No. Quello che odiavo davvero è che poi non sapessero nulla neanche di Marx, di cui si riempivano in continuazione la bocca”.

Il corpo a corpo più drammatico del libro lo ingaggia con don Lorenzo Milani. Eroe del suo tempo e ancora oggi icona del progressismo. “In ‘Lettera a una professoressa’ è evidente il suo disprezzo per la cultura alta, in particolare quella umanistica, vissuta semplicemente come uno strumento di oppressione borghese. Ma in don Milani c’era ancora un elemento che poi nei suoi epigoni è sparito del tutto. Il valore dello studio, e del tempo pieno per i ragazzi in difficoltà. Nella scuola di Barbiana non c’erano vacanze. Si stava in classe tutto il giorno. Anche nel fine settimana. Per questo ritengo necessario distinguere don Milani dal ‘donmilanismo’. Nel primo, c’è parecchio da rifiutare ma anche qualcosa da custodire. Nel secondo, c’è solo la rinuncia a trasmettere la cultura alta ai figli delle classi basse”.

E invece Meloni sarebbe una rivoluzionaria autentica? “A suo modo, credo sia una donna radicale. Anche in politica economica. Il suo chiodo fisso è l’occupazione. L’idea della flat tax non la entusiasma. Credo che, finché potrà, eviterà di applicarla nelle sue versioni iper-liberiste. Per una ragione semplice: in fondo, lei è una vera keynesiana”. Ma è davvero rivoluzionario essere keynesiani, in Italia? “No, se si commette l’errore di confondere l’intervento pubblico con l’assistenzialismo, che è quello che in Italia è sempre andato di moda. Ma il fine delle politiche keynesiane, si dimentica spesso, non è la spesa pubblica in sé: è l’investimento pubblico per raggiungere la piena occupazione, creare lavoro. E su questo sono in piena sintonia con Meloni: nessun aumento salariale, nessun Reddito di cittadinanza, nessun sussidio, potrà mai avere, dentro una famiglia, l’impatto che ha uno stipendio in più”.

Delle conseguenze della propria radicalità, Luca Ricolfi si rimprovera una sola cosa: “Il libro che ho scritto su Tangentopoli, ‘L’ultimo Parlamento’. Rigoroso nei numeri, ma così ferocemente giustizialista che oggi mi vergogno di averlo scritto. Non perché il fine non fosse sacrosanto: rinnovare il sistema politico italiano in profondità. Ma perché oggi so che nessun fine può essere distinto dai mezzi che si adoperano per raggiungerlo. E i mezzi usati da Di Pietro e dal pool di Mani pulite furono (dico oggi) non degni di un paese civile, per non dire mostruosi”.

Solo quando parla dei valori culturali Ricolfi sente di potersi allontanare dalla parola radicale. “Su questo piano non nascondo di essere conservatore”. La società opulenta e permissiva ha creato ben poco di buono, secondo Ricolfi. “Per esempio, è stato un errore – in nome di una falsa inclusività – sbarazzarsi della trasmissione del sapere, che la scuola aveva garantito in passato. Come è stato sbagliato, in nome della sovranità assoluta dell’io, liberarsi completamente del senso del pudore. Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto. Attraverso i social è stata abolita l’intimità. Oggi è quasi vietato starsene per i fatti propri. La timidezza e l’introversione sono state bandite dal modo di essere uomini e donne”. Ma anche nell’educazione sentimentale sono stati fatti danni. “Abbiamo fatto molto male a demonizzare le nostre tradizioni culturali. C’era in esse un patrimonio di gesti, di codici di comportamento, di approcci tra uomo e donna senza i quali, oggi, in assenza di qualsiasi altro codice, più facilmente si precipita nella violenza e nella prevaricazione. Fino ad arrivare all’estremo dello stupro di gruppo. Com’è accaduto nel recente caso di Palermo”.

Si dovrebbero recuperare allora le culture antiche? “Non penso né che si possa, né che sia giusto farlo. Io sono per andare avanti, ma custodendo il buono che c’è – anzi che c’era – nel mondo che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ad esempio: la trasmissione della cultura, la capacità di differire la gratificazione, il rispetto dei ruoli, l’esercizio dell’autorità nell’educazione dei figli. Più in generale, l’accettazione del limite, che è il vero nucleo della visione conservatrice del mondo, da Edmund Burke a Roger Scruton, da Raymond Aron a Simone Weil”.

In Italia, però, i conservatori hanno un handicap. “Nel nostro paese non si scontrano in realtà due grandi visioni del mondo. Ma ne esiste solo una: quella progressista. E’ la sinistra che conduce le battaglie di civiltà: afferma diritti, combatte privilegi, sempre in nome di un’idea più alta. La destra non fa altro che reagire a questa spinta. Rintuzzare gli eccessi. Scalpitare per non essere soffocata. La destra non ha un’idea di mondo alternativa a quello progressista. Si limita a schierarsi contro. Passando spesso per reazionaria, oscurantista, appunto perché non oppone a un’idea di mondo un’altra idea di mondo, ma si limita a reagire all’unica idea in campo. Ecco in cosa consiste la vera egemonia culturale della sinistra. Non il potere. Non le poltrone. Non i ruoli. Ma un’idea di civiltà”.

Intervista a cura di Nicola Mirenzi, Il Foglio Quotidiano

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