ADORATO TOBY, TU COSA SOGNI?

ADORATO TOBY, TU COSA SOGNI?

Sei settimane fa a Toby, il nostro adorato Bedlington terrier, è stata diagnosticata una massa tumorale nell’addome con metastasi ai polmoni. Dato che Toby ha nove anni e il cancro è in uno stadio così avanzato, abbiamo deciso di risparmiargli un’operazione e la chemioterapia e passare direttamente alle cure palliative.

David Leavitt

Ci è stato detto che sarebbe morto nel giro di poche settimane, forse di giorni. Mentre sto scrivendo, sta bene, molto meglio rispetto al momento della diagnosi. Come percepisci il tempo? Percepisci il tempo? Pensi di doverci proteggere? Pensi che siamo noi a dover proteggere te? Se la tua risposta è sì a entrambe le domande, questo ti provoca angoscia esistenziale?

Quando andavamo allo stagno a vedere le anatre e tu abbaiavi, come le vedevi? Come amiche? Nemiche? Prede? (Di solito tu gli uccelli non li guardi nemmeno). E ora che le anatre sono partite e nello stagno non ce ne sono più, senti la loro mancanza?

Perché abbai quando l’automobile di un estraneo si ferma nel vialetto di casa, ma quando è la mia macchina a fermarsi nel vialetto non abbai? È perché riconosci il rumore del motore della mia macchina? O perché la mia macchina ha un odore tutto suo?

È per il ritmo dei miei passi quando mi avvicino alla porta? Cosa ti passa per la testa quando senti le parole «giro in macchina»? Cosa ti passa per la testa quando senti la parola «bocconcino»?

Perché quando sei nel nostro letto, dormi rivolto nella direzione opposta rispetto a noi? Come hai fatto a scoprire come si apre la maniglia della porta del bagno? Perché bevi l’acqua dal water anziché dalla tua ciotola? Pensi che il water sia una fonte?

Come fai a sapere quando manca un’ora al momento della pappa? Lo capisci dalla luce che cambia? Dal mio umore che cambia? Dalla posizione del sole e della luna che cambia? Com’è per te la sensazione di fame?

Perché sradichi sempre i gigli? È qualcosa che ha a che fare con i gigli in sé? È qualcosa che ha a che fare con il cane che c’è dall’altra parte della recinzione accanto a cui sono piantati i gigli? È qualcos’ altro? Capisci che la mia mente è dentro la testa?

Mi consideri assurdamente lungo? Ti consideri più proporzionato di me? Come percepisci l’età? Sai quanto sei invecchiato rispetto alla prima volta che ci siamo visti? Sai quanto sono invecchiato io rispetto alla prima volta che ci siamo visti?

Capisci che siamo destinati a invecchiare a velocità diverse? Ti confonde il fatto che, dopo essere stato più giovane di me per tutta la vita, adesso ti ritrovi a essere più vecchio di me? Ti sembro tragico? Comico? Volgare? Intelligente? Indolente? Noioso? Poco collaborativo? Affettuoso? Negligente? Patetico? Capisci cos’ è la morte?

Capisci che tra chi hai conosciuto, ci sono persone che rivedrai e altre che non vedrai più, in certi casi perché sono morte? Quando hai ucciso quello scoiattolo, hai capito di averlo ucciso?

Quando hai strappato dal tuo scoiattolo-giocattolo il meccanismo che produceva il suono, hai capito di non averlo ucciso? Ricordi tua madre? Perché quando c’è un temporale vai sempre a nasconderti dietro la sedia sul lato destro della stanza e mai dietro a quella che c’è a sinistra?

Cosa pensi quando vedi un altro cane? Dipende dal cane? Se sì, da quale aspetto del cane dipende se lo considererai un amico o un nemico? Ho ragione a supporre che non ti piacciano i cani neri? Questo fa di te un razzista?

La prima volta che hai tirato fuori la soletta da una mia scarpa e l’hai lanciata all’altro capo della stanza, ti sei divertito a farlo? È perché quella prima volta ti sei divertito così tanto che da qual momento in poi l’hai fatto altre centinaia di volte? È corretto che io chiami «gioco» quel tuo tirare fuori le solette dalle mie scarpe? Posso dire agli altri: «Il mio cane si è inventato un gioco?». Perché tiri fuori le solette solo dalle mie scarpe sinistre?

Secondo te perché sogno spesso di fare le valigie all’ultimo momento? Perché spesso in quei sogni tu sei una delle cose che devo mettere in valigia? Perché in quei sogni quando salgo sul taxi per l’aeroporto, all’improvviso mi ricordo di essermi dimenticato di prendere qualcosa? Perché in quei sogni sei così spesso tu la cosa che ho dimenticato di prendere?

Perché nei miei sogni l’aeroporto è sempre Malpensa? Perché quando mi sveglio da quei sogni e ti vedo dormire accoccolato accanto a me, mi sento addolorato? Tu cosa sogni? Capisci cosa vuol dire «abbastanza»? Capisci cosa vuol dire «troppo»?

Capisci di essere malato? La prospettiva della tua morte ti spaventa quanto spaventa me? Come farò a vivere senza di te?

David Leavitt per “La Lettura – Corriere della Sera

ENNIO, MELODICO E TIMIDO

ENNIO, MELODICO E TIMIDO

Un mistero buffo circonda l’avventura popolare di Ennio Morricone, un complesso del talento che ha fatto strada al suo successo da rockstar. Ennio, lo splendido film di Giuseppe Tornatore, omaggio postumo, è un capolavoro per stile, profondità, larghezza delle testimonianze, durata (due ore e mezzo che scivolano senza pesantezza).

Racconta tutto il possibile e offre gli elementi per provare a svelare quel mistero buffo: spiega perché Morricone è diventato Morricone nonostante il suo carattere schivo, sornione e ironico. Nonostante il suo distacco apparente, quel senso quasi di inadeguatezza che ha provato per molto tempo, come se comporre musiche da film non fosse onorevole, soprattutto per non aver perseguito quello che il suo maestro Petrassi e i suoi colleghi dell’avanguardia musicale si sarebbero aspettati da lui. Alla fine, pur avendolo conosciuto abbastanza bene da almeno quarant’anni, ho capito che il segreto della sua musica nasce proprio da lì, da quel complesso.

Dal fatto di essere dotato di un talento smisurato per l’invenzione melodica, pur negandone l’importanza e il valore, dal grumo di sentimenti antagonisti, dal contrasto fra l’importanza assoluta, quasi religiosa, che ha avuto la musica nella sua vita e il realismo della vita professionale, abituata a affrontare i problemi quotidiani da quando, dopo la guerra, ha dovuto fare la gavetta per mangiare, suonando a 15 anni nei night come le Grotte del Piccione o nell’orchestra del Sistina. Il fare musica per vivere si è trasformato in bulimia professionale.

Morricone con Sergio Leone

Morricone è stato capace di fare 26 colonne sonore in un anno (1972). E ha scritto arrangiamenti a getto continuo: «Prendevo 20 mila lire a canzone più le royalties sulle vendite. Ero contento. La mia vita è stata segnata dalla paura di restare senza lavoro». Faceva tutto Ennio: per Vianello ha scritto e arrangiato anche un pezzo (non passato alla storia) che si intitolava Cicciona cha cha cha (ha preferito non firmarlo usando lo psedonimo Dan Savio).

Ma in tutti i lavori, anche quelli meno onorevoli e quelli che forse lo disturbavano di più, ricorreva alla sua arte nascosta, alla sua preparazione. Non tanto tempo fa mi aveva confessato: «Scrivevo arrangiamenti che potessero nascondere la mediocrità di certe melodie e rivelare le mie conoscenze tecniche».

Ecco, così, la contaminazione, il ricorso al bagaglio di esperienze e conoscenze creative, in particolare quelle fatte con il gruppo sperimentale Nuova consonanza. Ecco l’uso di idee, di insegnamenti e studi profondi (da Stravinsky a Stockhausen) per salvare le banalità di canzoni semplici e popolari, idee che poi sono diventate il marchio Morricone: il barattolo che rotola nella canzone di Gianni Meccia, la macchina da scrivere e la bacinella d’acqua in Pinne fucile ed occhiali, il fischio che annuncia Pel di carota di Rita Pavone («un pezzo semplice e scemo» ce lo ha bollato un giorno), le discese e le risalite ardite dei fiati mescolati alle voci del coro che canta A-A-Abbronzatissima, le trombe che annunciano la magnifica cavalcata di Se telefonando, l’intro sinfonico che fa da apripista a «gira, il mondo gira» di Jimmy Fontana, quei clarinetti che mimano l’insistenza di un clacson in Go kart twist. Il giro di basso spezzato da tocchi dissonanti di pianoforte che introducono Sapore di sale.

Ed ecco il magic touch di tante colonne sonore diventate il monumento della sua carriera, spesso più importanti dei film stessi: l’urlo del coyote di Il buono, il brutto e il cattivo, lo schioccare della frusta dei film western, il piano stonato di Indagine su un cittadino. In ogni cosa che faceva delle tante che faceva c’era il segno di un genio popolare naturale, origine del suo successo e del suo cruccio esistenziale. La rappresentazione piena l’ho avuta una quindicina di anni fa, quando Morricone venne invitato all’Onu per eseguire una sua composizione, Voci dal silenzio, in ricordo dell’11 settembre. Un’occasione retorica, di cui andava orgoglioso. Il giorno dopo Ennio era atteso al Radio City Music hall per un programma tutto chiamato a soddisfare le richieste del pubblico, ascoltare le musiche famose dei suoi film.

Morricone con Clint Eastwood

E fu una serata grandiosa, di grandioso successo. Non solo, anche la prova a distanza ravvicinata di quanto il vero, autentico miglior Morricone fosse quello popolare, geniale, personale di C’era una volta in America o di Il brutto, il buono e il cattivo. Il Morricone amato, usato dalle rockstar come gli U2 e Springsteen che apriva i suoi concerti con la musica di C’era una volta in America, adulato dalle folle indistinte, anche quelle a distanza siderali dal suo mondo. Il Maestro che, proprio da quel giorno al Radio City, si è scoperto anche uomo di scena, iniziando un’avventura in crescendo, andando a dirigere e suonare le sue musiche sempre più richiesto, sempre più pagato, sempre più ammirato. 

Quando ha compiuto 90 anni, tre anni e mezzo fa, mi raccontò: «Ora basta, continuerò a fare concerti e, anche se sono pieno di copioni, lavorerò solo con Tornatore». L’ultimo lavoro è il suo monumento, il film Ennio che, per confermare la sua storia, pur essendo un documentario, sta riscuotendo un successo fuori misura.

Marco Molendini per Dagospia

TU VUO’ FA’ L’AMERICANO

TU VUO’ FA’ L’AMERICANO

In oltre 60 anni di carriera, l’uomo di spettacolo più eclettico e amato d’Italia è stato moltissime cose ma il suo primo amore, la radio, continua a essere quello più grande. Uomo di molti talenti, nato a Foggia nel 1937, Renzo Arbore è stato autore e conduttore radiofonico e televisivo, musicista, cantautore, attore, sceneggiatore, regista e scopritore di talenti strampalatissimi. Ha esordito in Radio al fianco di Gianni Boncompagni con “Bandiera gialla”. 

Con lui, in questo tempo difficile segnato dalle malattie, dal Covid e dalle necessità per tutti di tutelarsi anche attraverso la non prossimità fisica, imbastiamo una “A Tavola Con” a distanza e, nel desinare, del tutto immaginaria: una licenza possibile con un uomo di realtà e di fantasia, di senso e di invenzione.

Renzo Arbore – 84 anni, nominato da Sergio Mattarella Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica – ha al telefono la voce squillante, ironica e cortesemente affettuosa: «Ho fatto parte della giuria di Sanremo soltanto una volta, nel 1968: vinse Sergio Endrigo con “Canzone per te” e fu ospite Louis Armstrong. Fra i brani di Sanremo, ho amato tantissimo “E se domani”, che venne poi cantato da Mina e che considero una ballad degna di George Gershwin e di Cole Porter».

Arbore con Gianni Boncompagni alla radio

«Se ci fossimo potuti incontrare a Roma, dove l’avrei portata a mangiare?», si domanda stando perfettamente al gioco: «Penso che saremmo andati a pranzo in una osteria popolare: la Taverna Trilussa, a Trastevere. Io amo molto la cucina romana. Sono pugliese, ho vissuto tanto a Napoli, mi trovo a Roma da una vita. Mi piacciono queste tre tradizioni e apprezzo quella abruzzese. Domenica, a casa, mi sono preparato il ragù per la pasta e ho mangiato il gattò di patate. Sicuramente, a tavola a Trastevere le avrei proposto di prendere come antipasto delle animelle, che sono appunto di origine abruzzese. Niente vino, invece: non l’ho mai apprezzato tantissimo. E, poi, per trent’anni ho fatto la pubblicità alla birra…».

Arbore, De Crescenzo, Melato

Conversare con Renzo Arbore è come giocare a flipper, il biliardino elettrico importato dagli Stati Uniti che tanto ha contribuito a spezzare la monotonia dei ragazzi e delle ragazze nella provincia e nella città italiane: ogni parola rimbalza e produce un suono, ogni traiettoria verbale va veloce e cozza provocando un ricordo, ogni pallina scintillante gira, gira e gira ancora, fino ad accendere una suggestione e ad attivare una emozione.

Arbore – figlio di Giulio, odontoiatra, e di Giuseppina («mia madre era una Cafiero, un ramo laterale della famiglia di Carlo Cafiero, il grande anarchico che aveva rotto con Karl Marx e con Friedrich Engels ed era diventato sodale di Michail Bakunin») – dopo l’infanzia e l’adolescenza a Foggia («come tutti i ragazzi della borghesia meridionale, presi la maturità classica nel liceo della mia città») si trasferisce a Napoli per seguire le orme universitarie paterne. Frequenta per un anno la facoltà di medicina, che abbandona per iscriversi a giurisprudenza, con l’idea di diventare magistrato: «Alla fine mi sono laureato con una tesi di diritto privato sulle servitù prediali, ho impiegato più tempo del dovuto perché, come diceva mio padre, “stavo sempre appresso alla musica”, e non ho mai fatto l’esame per l’ammissione in magistratura».

Roberto Murolo

A Napoli diventa amico di Sergio Bruni e Roberto Murolo innamorandosi della canzone napoletana («uno dei fili rossi della mia vita è stata la riscoperta e la valorizzazione di quanto era caduto nel dimenticatoio, la mia adesione alla antica canzone napoletana è stata assoluta, in tanti perfino a Napoli allora non ci credevano più»), dirige il Circolo napoletano del jazz e frequenta il club aperto per i militari americani dall’Uso, la United States Service Organization, in Calata San Marco, vicino al porto, dove suona come clarinettista jazz: «La leggenda vuole che il ragazzo della canzone di Carosone “Tu vuo’ fa’ l’americano” fossi io. In effetti, io a Napoli stavo sempre al club dell’Uso, ero totalmente immerso nel jazz, portavo blue jeans quando nessuno sapeva cosa fossero, avevo camicie americane, indossavo impermeabili che acquistavo dai soldati».

Arbore e Frassica a L’altra domenica

Dopo Napoli, Roma. «A proposito di Roma – dice Arbore – in questo nostro pranzo immaginario, io prenderei come primo i bucatini alla gricia, anche se a casa cucino sovente gli spaghetti alla carbonara. Consiglierei anche a lei di assaggiare questo piatto o, in alternativa, una amatriciana». Roma, dunque. «A Roma, all’inizio, vivevo in una misera pensioncina di via Rasella. Poi, con i primi guadagni, sono andato a convivere in appartamenti con studenti e artisti. Con le poche lire che avevo in tasca, ogni giorno compravo giornali e periodici: l’Unità, l’Avanti, Rinascita, Mondo Operaio, La Discussione, la Voce Repubblicana, il Popolo. Ho sempre avuto grande passione per la cultura politica. Non sono mai stato di sinistra. Sono sempre stato liberale: mi hanno segnato gli americani che ho visto liberare il Sud e che ho conosciuto nei locali notturni di Napoli».

«Il Festival di Sanremo del 1986? La leggenda vuole che lo avessi vinto io con “Il clarinetto”. In effetti, quel sabato sera di tanti anni fa, qualcosa di particolare accadde. Glielo racconto. Io, allora, scrivevo di musica sul Corriere della Sera e sul Radiocorriere TV. Per questa ragione avevo accesso alla sala stampa. Mi ero appena esibito sul palco. Non conoscevo ancora la classifica. Entrai una prima volta in sala stampa e, intorno a me, calò un silenzio di tomba: “Il clarinetto” era in testa. In quel silenzio, avvertii una sorta di gelosia non benevola da parte dei colleghi giornalisti. Poco dopo, tornai una seconda volta: ero sceso, in classifica, alla seconda posizione e venni accolto da un applauso fortissimo dai colleghi. Non ho mai saputo veramente che cosa fosse capitato. Presi però allegramente il secondo posto. Fu preferibile così: io ero reduce dal successo clamoroso di “Quelli della notte”. Ero già molto contento di avere rilanciato la canzone umoristica che, dai tempi di Renato Carosone, era stata accantonata dal Festival di Sanremo e dalla radio».

Roma è stata dunque l’approdo e il baricentro di una vita e di una professione che hanno unito la provincia e la città, l’Italia e il mondo: «Devo dirle che una delle mie maggiori soddisfazioni è la longevità dell’Orchestra Italiana che con i suoi sedici musicisti, a parte lo stop forzato della pandemia, in trent’anni ha tenuto 1.500 concerti, in Italia ma soprattutto all’estero», dice con quella particolare intonazione della voce che, nonostante sia permeata di emotività, non scade mai nei buoni sentimenti, ma che sta in equilibrio fra sentimenti buoni e leggerezza, ironia e pensiero ponderato.

Renzo Arbore con Orchestra italiana

Invece, il secondo piatto del nostro pranzo immaginario non può che essere, alla Taverna Trilussa, solidamente romano-romano: «Ah, guardi, di secondo io avrei sicuramente ordinato una coda alla vaccinara». Ma, a parte la licenza gastronomica in questo caso romanocentrica, i gusti di Renzo Arbore sono sempre andati verso la coniugazione delle differenze, l’incontro fra le alterità, la cordialità informata fra gli sconosciuti: «In effetti – spiega – la mia piccola missione è stata quella di fare conoscere chi non si conosceva. Mi sono spesso chiesto perché una persona di Agrigento non dovesse conoscere una persona di Asti. Una di Potenza una di Modena. O una di Cosenza una di Treviso. Ho provato a farlo, con meccanismi di racconto diversi, nell’“Altra domenica”, a “Indietro tutta” e a “Quelli della notte”. L’ho fatto anche con l’individuazione di alcuni talenti che, da regionali, potevano diventare universali: nel 1978 ho visto esibirsi in una piccola rassegna di Fiuggi Roberto Benigni e l’ho fatto diventare, nell’“Altra domenica”, l’autore di geniali, strampalate e lunari recensioni cinematografiche». La dimensione identitaria né greve né sterile né parodistica emerge anche nel racconto delle amicizie e degli amori che non ci sono più. E, ora, la voce di Arbore per la prima volta prima si increspa e poi, lievemente, si incrina. Perché anche lui conosce le parole di Osip Mandel’stam: «Ho imparato la scienza degli addii, nel piangere notturno, a testa nuda»: «Le tre persone che mi mancano di più sono Gianni Boncompagni, Luciano De Crescenzo e Mariangela Melato. Boncompagni era profondamente toscano, anzi aretino. De Crescenzo aveva una leggerezza napoletana delicata e divertente. Mariangela mi ha insegnato la dignità, lo studio, il gusto: il suo era un vero codice milanese».

Delicatezza, divertimento, dignità, studio, gusto. Il 28 marzo del 2006 Renzo Arbore ha tenuto all’Istituto italiano di cultura di New York una lectio magistralis, in un incontro organizzato insieme alla New York University, che ancora adesso lui rivendica con orgoglio: «Sono contro le storture create dall’ossequio eccessivo al mercato. E lo dico da liberale. La televisione che si fa violenta, sobillatrice e menzognera per aumentare a tutti i costi gli ascolti. I giornali che inseguono le tirature con gli scontri e i pettegolezzi. Il cinema che con la volgarità ricerca il successo al botteghino. Queste cose non mi piacciono. Purtroppo funzionano, ma invece di arricchire il pubblico, lo impoveriscono. Non vanno bene. Non fanno bene. Naturalmente ci sono delle eccezioni. Alcune in casa Rai. E, una delle più significative, è rappresentata da Radio Rai, che per me rimane il primo amore a cui si resta sempre affezionati. Devo riconoscere che, attraverso i nuovi prodotti tecnologici come l’utilizzo dei video e la connessione a internet e grazie ad alcuni bravi talenti, Radio Rai è una mia beniamina».

Ricomponiamo con la dimensione del gioco le amarezze della vita e la serietà delle cose: in fondo, lui ha fatto così in tante occasioni: «Mi chiede che cosa prenderei di dolce, in questo nostro pranzo immaginario? A me piacciono la pastiera napoletana e il panettone milanese. Ma, da quando sono invecchiato, i medici mi chiedono di mangiare i dolci con grande moderazione anche nei miei sogni. E, poi, niente più whiskino. Al massimo un amaro. E, alla fine, sì certo, un caffè», conclude Renzo Arbore, italiano del Novecento che con le canzoni e gli scherzi, il divertimento e il pensiero è riuscito in fondo a sciogliere il nodo di Eduardo De Filippo, del «Ah… si putesse dicere / chell’ c’ ’o core dice; / quant’ sarria felice / si t’ ’o sapesse dì! / E si putesse sentere/ chello c’ ’o core sente, / dicisse: “Eternamente / Voglio restà cu te!”».

Articolo di Paolo BRICCO Il Sole 24 Ore

L’IO NARRANTE

L’IO NARRANTE

Ho scritto su queste pagine la mia ammirazione per la cosiddetta generazione Alpha (sarebbero quelli nati nel XXI secolo, per chi, come me, faticasse a orientarsi) travolta in pieno dalla pandemia. Grazie a loro ci siamo salvati. Anziché pensare che il Covid li avrebbe risparmiati comunque dalle conseguenze più gravi, e che il viurs era un guaio soprattutto per adulti e anziani, si sono prima chiusi in casa e poi vaccinati. Per noi, e perché questo disastro finisse prima possibile. In questi due anni abbiamo visto menti eccezionali vorticare su se stesse, intelligenze prodigiose affannarsi, sbavare fiele. Cervelli che sembravano lavorare solo per mantenere la macchina accesa. Come un motore immobile, che produce solo gas di scarico. E poi abbiamo visto persone, la stragrande maggioranza, esercitare una forma superiore di ragionamento, quello basato sull’empatia. Persone che non si sono occupate solo del proprio cervello e delle sue strabilianti prestazioni, ma degli altri, della comunità. Vogliamo ringraziarli, questi ragazzi e ragazze, anziché prenderli a
manganellate in testa? Vogliamo cercare di capire come stanno prima che sia troppo tardi, dal momento che, prevedibilmente, i ricorsi a cure psichiatriche si stanno già moltiplicando? Per questa ragione, e perché non so fare nient’altro, ho deciso di proporre a Elisabetta Sgarbi, e alla casa editrice La Nave di Teseo, una collana di romanzi under 20. E a questo giornale di aiutarmi a lanciarla.

Pier Vittorio Tondelli

Nel 1985, lo ricorderete, Pier Vittorio Tondelli lanciò il progetto Under 25. Con due articoli pubblicati su Linus. «Scaveremo nei weekend, nelle sottoccupazioni, nei doppi lavori. Andremo presso i ladri di polli, i giovani artisti incantati, scenderemo sulle strade provinciali e comunali, incontreremo finalmente una marea di giovani improduttivi e selvatici, incazzati e morbidi, ubriaconi e struggenti». Si rivolge a loro, agli scarti come lui stesso le definisce. È una chiamata alla quale segue una spiegazione su quello che si aspetta da loro: «Scrivete non di ogni cosa che volete, ma di quello che fate. Astenetevi dai giudizi sul mondo in generale (ci sono già i filosofi, i politologi, gli scienziati ecc.), piuttosto raccontate storie che si possano oralmente riassumere in cinque minuti. Raccontate i vostri viaggi, le persone che avete incontrato all’estero, descrivete di chi vi siete innamorati, immaginatevi un lieto fine o una conclusione tragica, non fate piagnistei sulla vostra condizione e la famiglia e la scuola e i professori, ma provate a farli diventare dei personaggi e, quindi, a farli esprimere con dialoghi, tic, modi di dire. Descrivete la vostra città, esercitatevi a fare degli schizzi descrittivi su quel che vedete dalla finestra, dall’autobus, dall’automobile. Raccontate le vostre angosce senza reticenze piccolo borghesi, anzi «spandendo il sale sulla ferita». Dite quello che non va e quello che sognate attraverso la creazione di un “io narrante” che non deve, per forza di cose, essere in tutto e per tutto simile a voi. Iniziate a fingere, a dire bugie, a creare sulla carta qualcosa che parta dal vostro mondo, ma che diventi poi il mondo di tutti, nel senso che tutti noi che leggiamo possiamo comprenderlo». Scovò abbastanza scrittori e scrittrici da farne tre antologie Under 25. Tra loro, Silvia Ballestra, Giuseppe Culicchia, Gabriele Romagnoli, Andrea Canobbio, Romolo Bugaro. Rispetto ai consigli di Tondelli ho poco altro da dire, né intendo occupare il suo posto (quest’ultima frase, pleonastica, è a beneficio della frangia rintontiti sui social, ai quali è sempre meglio specificare con chiarezza, anche se questo, ovviamente, non eviterà che pavlovianamente mi insultino). La collana si chiamerà Tuffi e pubblicherà tre, quattro romanzi l’anno. Chi ha meno di 20 anni e un romanzo, o un racconto da cui partire, può mandarlo a me, presso la casa editrice La Nave di Teseo. E io lo leggo e, se mi interessa, chiamo. Facilissimo. Accanto a me ci sarà, come sempre, l’associazione Piccoli Maestri. Con loro – gli scrittori e le scrittrici con cui da dieci anni vado in giro per le scuole a parlare di libri – ragionerò sulle storie che mi manderete. Molti mi dicono che è una follia, che 20 anni sono troppo pochi per sapere scrivere un romanzo. Io penso di no.

Elena Stancanelli, La Stampa

O LA BORSA O LA VITA

O LA BORSA O LA VITA

Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo e attuale presidente del ppe, è un europeista con i fiocchi e ieri mattina ha illuminato un problema importante che riguarda il conflitto in Ucraina. “In questa guerra – ha detto – tutto è reale: la follia, la crudeltà di Putin, le vittime ucraine, le bombe che cadono su Kiev. Solo le vostre sanzioni sono immaginarie. Quei governi dell’UE che hanno bloccato decisioni difficili (Germania, Ungheria, Italia) hanno perso l’onore”.

DonaldTusk

Pochi minuti dopo, un altro europeista, Dmytro Kuleba, ministro degli esteri ucraino,ha invitato gli stati Uniti a usare la loro influenza sui “paesi europei esitanti” che si oppongono al bando della Russia dal sistema di pagamenti Swift (il sistema che gestisce la quasi totalità delle transazioni finanziarie del mondo). Il tutto nelle stesse ore in cui il principale indice del mercato azionario russo, il Moex, all’indomani delle “durissime sanzioni”, ha fatto registrare un rimbalzo pari al 20 per cento. Sotto molti punti di vista, l’aggressione russa in Ucraina ha mostrato con chiarezza i limiti che incontrano le società aperte di fronte a ogni conflitto armato. Da una parte c’è un’autocrazia disposta a usare tutte le armi a disposizione.

Dmytro Kubela

Dall’altra parte, no. Chiedere di fare di più però non significa non aver fatto nulla. E dinanzi all’escalation della Russia esiste un modo non autodistruttivo per descrivere l’atteggiamento adottato dai paesi occidentali: riconoscere ciò che è stato fatto finora e provare a capire in che modo cosa non è stato fatto finora con un po’ di coraggio potrebbe essere fatto davvero. Non è poco, per esempio, avere un’Europa unita che vota all’unanimità per le sanzioni contro la Russia (lo ha fatto anche l’Ungheria). Non è poco, per esempio, non avere rilevanti cavalli di Troia della Russia nei grandi paesi europei (persino la Lega è a favore delle sanzioni). Non è poco, per esempio, avere una Nato disposta ad armare l’esercito ucraino (ieri l’Italia ha autorizzato la cessione di mezzi e materiali di equipaggiamento militare di protezione all’ucraina). Non è poco, per esempio, essere riusciti, come ha segnalato ieri il primo ministro inglese Boris Johnson, ad aver portato “i paesi che insieme costituiscono circa la metà dell’economia mondiale a massimizzare la pressione economica su un paese che rappresenta appena il 2 per cento dell’economia mondiale”. Mettere a fuoco ciò che è stato fatto non impedisce però di ragionare su ciò che ancora non è stato fatto. E per riuscire, come ha detto ancora Johnson, a costruire “una missione spietata per spremere la Russia pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno e settimana dopo settimana” ci sono almeno due ordini di problemi che meritano di essere affrontati anche dall’Italia. Il primo, Mario Draghi lo ha sviscerato ieri in Parlamento e riguarda la volontà di fare tutto ciò che è necessario per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia (più trivelle, più Gnl, persino più carbone: non si può contemporaneamente dichiarare guerra assoluta ai combustibili fossili e impedire alla Russia di fare guerra all’ucraina). Il secondo riguarda invece ciò che il governo non sembra avere intenzione di fare: andare fino in fondo nella promozione di sanzioni molto dure nei confronti della Russia. Enrico Letta, segretario del Pd, ieri ha detto che “le sanzioni devono essere le più dure possibili per mettere in ginocchio la Russia”. E non sposare fino in fondo questa linea, anche bloccando gli scambi commerciale con la Russia, anche espellendo le banche russe dal sistema Swift, significa non capire un dato di realtà evidente: se Putin non pagherà un dazio pesante, ogni possibile scelta futura dettata dal nazionalismo sarà stata sdoganata. Dove non passano le merci passano gli eserciti, diceva il grande economista francese Frédéric Bastiat.

Claudio Cerasa, direttore del Foglio

Ma quando passano gli eserciti bloccare le merci diventa l’unico modo per evitare di dover usare un esercito per fermare l’esercito aggressore. Che aspettiamo?

Claudio Cerasa, Il Foglio Quotidiano

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