COSI’ LA PENSA GEPPETTO

COSI’ LA PENSA GEPPETTO

MARIO, ESCI DALLA MISCHIA, HAI TANTE ALTRE COSE DA FARE ! A POCHI GIORNI DALLE VOTAZIONI PER SOSTITUIRE MATTARELLA ARRIVA L’INVITO DI WALTER VELTRONI AL BUON SENSO E ALLA RESPONSABILITA’. SARA’ ASCOLTATO? COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

Il bravo Presidente Mattarella, nel momento di conferire l’incarico di formare il governo a Mario Draghi, a pochi mesi dalla fine del suo settennato, avrebbe dovuto stringere con l’ex banchiere un patto: tu formi il governo con la inedita formula che mi sono inventato, ma mi prometti che lo porterai avanti fino alla fine della legislatura, data la fiducia scontata dei partiti in pieno impasse. Decretare la fine della legislatura, perdurante pandemia e il PNRR, sarebbe stata una follia, mentre l’eccezionalità del momento sarebbe stata il naturale presupposto per l’inedita “ammucchiata”, come poi è avvenuto.

Si sarebbe trattato, da parte di Draghi, di una rinuncia preventiva nella corsa al Colle per spirito di servizio e realismo politico, qualità che non difettano all’uomo. Utili a evitare insidie e tranelli, puntualmente avvenuti.

Questo patto fra i due, evidentemente, non è avvenuto; i partiti nel frattempo si sono riavuti e ha ripreso fiato la stucchevole schermaglia di sempre, pompata dai giornali.   

Walter Veltroni

Walter Veltroni, poche sere fa a Otto e mezzo su La7, con acume ha così riassunto il problema: Quirinale e Governo vanno insieme, sono un combinato disposto politico, più che personale. Solo un largo accordo su una personalità di prestigio e fuori dalla mischia potrebbe garantire la necessaria stabilità del governo e visibilità europea all’Italia.

Senza di esso, lasciando cioè ai partiti e ai gruppi in Parlamento la libertà di scorrazzare in lungo e in largo, lo scenario che si aprirebbe sarebbe comunque disastroso.

Se Draghi va al Quirinale senza una convergenza dell’attuale maggioranza sul suo nome, le ripercussioni sul governo saranno immediate.

La candidatura di Berlusconi al Colle è un chiaro inciampo alle supposte aspirazioni di Draghi e un azzardo che se riuscisse manderebbe in frantumi il governo e aprirebbe la strada alla supremazia politica del centrodestra.

Mario Draghi

Se Draghi andasse al Quirinale, dopo la quarta votazione e con le preferenze di un “mucchio selvaggio”, non sarebbe più l’uomo autorevole e al di sopra delle parti che il delicato compito richiede, e non si capisce quale governo potrebbe succedergli, in grado di affrontare le emergenze sanitarie e economiche in cui siamo. Sarà difficile fare un nuovo governo a pochi mesi dalle elezioni politiche. Il nuovo Presidente della Repubblica non potrebbe che dare un incarico per il disbrigo degli affari correnti.

Le conclusioni sono facili: Draghi è opportuno stia a Palazzo Ghigi, per finire il suo lavoro, se glielo lasceranno fare.

Prima ne prenderà atto, sottraendosi ad un braccio di ferro mal dissimulato, meglio sarà per lui e per il Paese.

L’EUTANASIA DELL’OCCIDENTE

L’EUTANASIA DELL’OCCIDENTE

UNA FORZA OSCURA E SEGRETA CI PORTA ALLA DECADENZA TERMINALE- L’INIZIO E LA FINE DELLA VITA SONO STATI ESILIATI, RESI INDECENTI- HOUELLEBECQ, ULTIMO SCRITTORE CATTOLICO RIMASTO SENZA LUCI E SPERANZE-UNA CIVILTA’ MUORE PER STANCHEZZA E DISGUSTO DI SE’.

Vogliamo riscoprire quella strana moralità che ha santificato la vita fino alla sua ultima ora”. Queste parole di Michel Houellebecq spiegano la lotta che l’autore di “Annientare” ( uscito il 7 gennaio per La Nave di Teseo) sta conducendo contro l’eutanasia. Il tema incombe in tutti i suoi romanzi e i suoi ultimi interventi pubblici.

Prima un articolo sul Monde dopo l’eutanasia di Vincent Lambert. “Lo stato francese è riuscito a compiere l’impresa: uccidere Vincent Lambert”, ha scritto Houellebecq. “L’ospedale aveva altre cose a cui pensare che mantenere in vita degli handicappati”. Secondo Houellebecq, Lambert “non era in fin di vita, ma viveva in uno stato mentale particolare, del quale sarebbe onesto dire che non ne sappiamo praticamente nulla”. E ancora: “Mi è difficile liberarmi della fastidiosa impressione che Vincent Lambert sia morto per colpa di una mediatizzazione eccessiva, per essere diventato un simbolo suo malgrado; si trattava, per la ministra della Sanità, di farne un esempio. ‘ Di aprire una breccia’, come si dice, ‘ di fare evolvere le mentalità’”.

Poi un altro testo, lo scorso aprile, sul Figaro, quando l’assemblea francese discuteva una proposta sul suicidio assistito. E la rabbia di Houellebecq è aumentata di livello: “Ecco, dovrò essere molto esplicito: quando un paese – una società, una civiltà – arriva a legalizzare l’eutanasia, perde ai miei occhi ogni diritto al rispetto. Diventa quindi non solo legittimo, ma desiderabile distruggerlo; in modo che qualcos’altro – un altro paese, un’altra società, un’altra civiltà – abbia la possibilità di accadere”.

“La possibilità di un’isola”, il romanzo del 2005, è strutturato in modo molto simile alla Bibbia e racconta la storia della setta elohimita, un nuovo movimento religioso che emerge in Europa occidentale all’inizio del XXI secolo e attrae fedeli con una promessa di immortalità attraverso la clonazione. Nel corso della narrazione, l’elohimismo cresce fino a diventare la più grande religione sul pianeta. Favorisce l’eutanasia come rimedio alle “mise – rie” della vecchiaia. “Il corpo invertito, deteriorato dei vecchi era tuttavia già oggetto di un disgusto unanime, e fu probabilmente la canicola dell’estate 2003, particolarmente micidiale in Francia, a provocare la prima presa di coscienza globale del fenomeno”. Nell’arco di due settimane, più di diecimila persone erano morte; alcune da sole nel loro appartamento, altre all’ospedale o in casa di riposo, ma tutte a ogni modo erano morte per mancanza di cure. “Nelle settimane che seguirono, lo stesso giornale pubblicò una serie di servizi atroci, illustrati da foto degne dei campi di concentramento, in cui si descriveva l’agonia dei vecchi ammassati nelle corsie d’ospedale, coperti soltanto da pannoloni, gementi tutto il giorno senza che nessuno venisse a reidratarli o a porgere loro un bicchiere d’acqua, mentre le infermiere tentavano invano di mettersi in contatto con le famiglie in vacanza e portavano via regolarmente i cadaveri per far posto ai nuovi arrivati. ‘ Scene indegne di un paese moderno’, scriveva il giornalista senza rendersi conto che esse erano la prova, per l’appunto, che la Francia stava diventando un paese moderno, che solo un paese autenticamente moderno era capace di trattare i vecchi come meri rifiuti, e che un simile disprezzo per gli anziani sarebbe stato inconcepibile in Africa o in un paese tradizionale dell’asia. L’indignazione affettata che quelle immagini suscitarono si attenuò rapidamente, e il diffondersi dell’eutanasia provocata – o, sempre più spesso, liberamente consentita – dove – va risolvere il problema nei decenni seguenti”.

Poi, nel 2010, con “La carta e il territorio”, Houellebecq racconta il fascino agghiacciante di Dignitas, la società svizzera che offre su catalogo la “morte dolce e serena”. “Suo padre era morto, era evidente, ormai da parecchi giorni, le sue ceneri dovevano già galleggiare sulle acque del lago di Zurigo. Informandosi su internet, aveva scoperto che Dignitas (questo il nome dell’organizzazione) era oggetto di una denuncia da parte di un’associazione ecologista locale. Non a causa delle sue attività, anzi, gli ecologisti in questione si rallegravano dell’esistenza di Dignitas, si dichiaravano persino completamente solidali con la sua lotta; ma la quantità di ceneri e di ossa umane che riversavano nelle acque del lago era secondo loro eccessiva, ed era responsabile del diffondersi di una specie di carpa brasiliana, arrivata di recente in Europa, a scapito del salmerino, e più generalmente dei pesci locali”.

La sede stessa era squallida. “Dignitas — Jed se ne rese conto arrivando davanti all’edificio, una cinquantina di metri più avanti — si trovava in un immobile di cemento bianco, di una irreprensibile banalità, molto Le Corbusier nella sua struttura trave-colonna che liberava la facciata e nella sua assenza di fioritura decorativa, un immobile identico insomma alle migliaia di immobili di cemento bianco che componevano le periferie semiresidenziali dovunque sulla superficie del globo”.

Houellebecq ha poi esteso il campo di lotta al “valore di mercato della sofferenza e della morte maggiore di quello del piacere e del sesso”. La morte rende molto bene: “Una eutanasia veniva fatturata in media cinquemila euro, quando la dose letale di pentobarbital sodico costava venti euro e una cremazione economica probabilmente non molto di più. Su un mercato in piena espansione, in cui la Svizzera era in una situazione di quasi monopolio, dovevano in effetti guadagnare un sacco di denaro”.

In “Annientare” il Belgio rimane in prima linea in questa pratica e i gruppi di intervento estraggono segretamente alcuni pazienti dagli ospedali, ma sono i mesi e i giorni prima della fine che danno a questo romanzo una svolta commovente. L’occi – dente sta ingrigindo e si avvia inesorabilmente verso la morte. Il corpo si rimpicciolisce, l’orizzonte si oscura, la vita è un triste ospedale; eppure è l’occasione per ricongiungersi con se stessi, con gli altri.

Siccome nessuno li guarda più i morenti, Houellebecq fa da loro megafono: “Si avvicinò alla barella: un uomo molto anziano con il viso emaciato, le mani intrecciate sul petto, respirava fiaccamente, sembrava quasi morto, ma Paul credette di sentire un leggero rantolo. Vicino all’ingresso, un’infermiera o un barelliere, che non riusciva a distinguere, era sprofondato in una poltrona, gli occhi inchiodati sullo schermo del cellulare”.

La crisi sanitaria da coronavirus non è citata in “Annientare”, ma la descrizione delle case di cura è profondamente ispirata a quello che abbiamo visto in tutta Europa: vecchi imprigionati, agonia senza sguardi, funerali anonimi… “Fino alla fine scriverò poesie, o anche solo pagine indignate contro l’eutanasia”, confessava giorni fa lo scrittore a Jean Birnbaum del Monde.

Lo fece fin dalle “Particelle elementari”, dove scriveva: “Da una parte il feto, piccola congerie di cellule in stato di differenziazione progressiva, che si vedeva gratificato di esistenza individuale autonoma solo a condizione di un determinato consenso sociale (assenza di tare genetiche invalidanti, accordo dei genitori). Dall’altra parte l’anziano, congerie di organi in stato di disgregamento costante, che non poteva fare realmente appello al proprio diritto alla sopravvivenza se non con la riserva di una coordinazione sufficiente delle sue funzioni organiche – introduzione del concetto di dignità umana. I problemi etici così posti dalle età estreme della vita ( l’aborto; poi, qualche decennio più tardi, l’eutanasia) dovevano pertanto costituire fattori di opposizione insuperabili tra due visioni del mondo, due antropologie in fondo radicalmente antagoniste”.

Houellebecq vi attaccava l’agnosticismo di principio che “doveva facilitare il trionfo ipocrita, progressivo e anche leggermente subdolo, dell’antropologia materialista. Mai apertamente evocati, i problemi del valore della vita umana si trovarono altresì esiliati dagli animi individuali; si può senza alcun dubbio affermare che essi contribuirono in buona parte, nel corso degli ultimi decenni della civiltà occidentale, a creare un clima complessivo di depressione, per non dire di masochismo”.

A Houellebecq piace frugare nel futuro. In “Sottomissione” ha raccontato l’islamizzazione della Francia, in “Serotonina” i gilet gialli, in “Particelle elementari” il nichilismo e nella “Carta e il territorio” un paese senza fabbriche che vive di turismo dalla Cina.

“Annientare” è ambientato nel 2027, domani. Agathe Novak-Lechevalier, docente all’università Paris-Nanterre e specialista di Houellebecq, al settimanale Le Point spiega: “‘ Annientare’ è un enorme incubo, la polverizzazione del mondo. Houellebecq ha sempre denunciato l’idea che le nostre società liberali ci considerino prodotti usa e getta, da trattare come rifiuti quando non sono più direttamente utili alla società. ‘ Annientare’ riprende le idee che sono state espresse sulla vicenda Vincent Lambert”.

In “Annientare”, la famiglia è “l’ultimo polo residuo attorno a cui si organizza l’esistenza degli ultimi occidentali” e “la riproduzione artificiale e l’immigrazione erano i due mezzi utilizzati dalle società contemporanee per compensare i loro tassi di fertilità in calo”.

Houellebecq immagina una società dove la morte stessa è stata evacuata. La definisce “l’ultima indecenza” e fu presto concordato che “doveva essere nascosta il più possibile”. Le cerimonie funebri furono abbreviate – l’innovazione tecnica della cremazione permise di accelerare notevolmente le procedure – e le cose erano più o meno “sistemate”. “Negli strati più illuminati e progressisti della società, si era deciso di evitare anche il processo della morte. I ricoveri prolungati erano diventati l’eccezione, la decisione di eutanasia era generalmente presa in poche settimane, addirittura giorni. La dispersione delle ceneri veniva effettuata in modo anonimo, da un membro della famiglia quando c’era, o da un giovane impiegato dello studio notarile”.

Ma, avverte Houellebecq, il rischio è di finire in una distopia. “La nostra società ha un problema con la vecchiaia; un problema serio che poteva portarla all’autodistruzione. La vera ragione dell’eutanasia è che non sopportiamo i vecchi, non vogliamo nemmeno sapere che esistono, quindi li teniamo in posti speciali, fuori dalla vista degli altri esseri umani. Quasi tutte le persone oggi considerano che il valore di un essere umano diminuisce con l’aumentare dell’età”.

Come spiega Louis Betty nella sua monografia su Houellebecq “Without God”, da un punto di vista sociologico e fattuale “qualcosa in questa visione di decadenza sociale terminale è sicuramente esagerato, ma Houellebecq mette in scena la teoria della secolarizzazione come il declino sociale e istituzionale della tradizione europea, in particolare del cattolicesimo francese. Creando un universo dell’orrore materialista in cui il suicidio gode di un’ampia apologia culturale, il materialismo è la visione del mondo dominante e la libertà sessuale è quasi totale, Houellebecq esplora il declino della morale cattolica”. In questo senso, è l’ultimo grande scrittore cattolico del nostro tempo.

Una civiltà muore, dice Florent- Claude Labrouste, il protagonista di “Serotonina”, “senza preoccupazioni né pericoli né drammi e con pochissime carneficine; una civiltà muore solo di stanchezza, di disgusto di sé”.

La decadenza è lo sfondo di “Annientare”. Houellebecq la definisce “una forza oscura e segreta”, la cui natura poteva essere psicologica, sociologica o semplicemente biologica. “La doxa liberale persisteva nell’ignorare il problema nell’ingenua convinzione che il richiamo del profitto potesse sostituire qualsiasi altra motivazione umana e potesse da solo fornire l’energia mentale necessaria per mantenere un’organizzazione sociale complessa. Non sapevamo cosa fosse ma era terribilmente importante perché da essa dipendeva tutto il resto, la demografia come la fede religiosa, e in definitiva la volontà di vivere degli uomini e il futuro delle loro civiltà. Il concetto di decadenza poteva essere difficile da afferrare, ma era una realtà potente”. Lo stadio finale dell’autodeterminazione è l’autodistruzione.

Giulio Meotti per il Foglio Quotidiano

CURIOSITA’ VENEZIANE

CURIOSITA’ VENEZIANE

Da un vecchio libro, ancora in catalogo dopo svariate edizioni, propongo ai lettori alcune curiosità veneziane. Fra calli e rii, chiese e conventi, fondamenta e campielli, teatri e palazzi nobiliari, una rapida carrellata di costume, un salto a ritroso che riporta alla luce nomi, fatti, costumi, abitudini che hanno reso grande per secoli la Serenissima.

“Nasso da pare turco e da madre todesca, no posso essere che strambo” (nasco da padre turco e da madre tedesca, non posso che essere strambo). Così amava presentarsi un giovane scioperato che, trascurati gli studi di legge all’università Patavina, si godeva la rendita che il facoltoso padre gli assicurava. Si chiamava Giuseppe Tassini, era nato nel 1827, e alla morte del padre nel 1858 decise di mettere la testa a posto. Si laureava così a 33 anni e prendeva ad amministrare l’ingente patrimonio ereditato. Essendo nel frattempo maturata in lui la passione per la storia di Venezia, nel 1863 presso la premiata tipografia di Gio. Cecchini, in due volumi a ottavo piccolo, pubblicava Curiosità veneziane, uno stradario della città lagunare, arricchito da memorie archivistiche. Del libro sono state stampate parecchie edizioni; quella che mi sono trovato fra le mani è del 1990, per i tipi di Filippi editore in Venezia, dottamente prefata da Elio Zorzi, arricchita dalle note di Lino Moretti e da un prezioso dizionario dei vocaboli dialettali e delle abbreviature. Seguendo l’esortazione del fondatore, gli eredi della casa editrice Filippi ne continuano la tradizione in Calle del Paradiso, con immutato amore per Venezia. Per rendersene conto, basta scorrere il lungo catalogo che spazia dall’illustrazione iconografica della città, alla storia della Serenissima, alla cucina, al teatro, alla musica, alle tradizioni popolari dell’intero Veneto, per dire delle principali collane.   

In Curiosità veneziane non si tratta solo della conformazione topografica della città, già esposta nel ‘700 da Flaminio Correr, dall’abate Galliccioli, oppure, nel primo ‘800, da Antonio Cicogna, Giovan Battista Paganuzzi e poi da altri. Come giustamente nota Zorzi mai prima di Tassini Venezia era stata studiata e illustrata così a fondo. Tassini, rovistando inesausto-vero e proprio topo di biblioteca- ha avuto il merito di portare alla luce le copiose memorie manoscritte, custodite nelle chiese, in istituti di beneficenza, negli archivi delle corporazioni delle arti e dei mestieri, in ospizi, al catasto, al notariato, negli elenchi nobiliari e delle diverse magistrature, e non ultimo nell’immenso archivio della biblioteca Marciana.

Nota opportunamente Zorzi, sottolineando l’importanza dell’opera di Tassini: “L’indagine sull’origine dei nomi delle strade gli aveva offerto infatti l’opportunità di rifare, sia pure brevemente, la storia delle chiese, dei palazzi, delle famiglie, delle antiche istituzioni sociali e politiche dei veneziani, ma soprattutto… di pubblicare una messe vastissima di fatti di cronaca e di storia rimasti precedentemente inediti e ignorati, dal complesso dei quali veniva illuminata… la vita commista di eroismi e di turpitudini, di splendori e di miserie… cronaca pittoresca e complessa, nella quale s’alternano i fattacci di sangue e gli episodi di sublime pietà, le avventure salaci e i racconti di gesta gloriose” Tralasciando queste ultime, spesso enfatiche per i nostri gusti, voglio di seguito riportare fedelmente alcuni episodi che bene illustrano usi e costumi della Venezia fra ‘700 e ‘800. La spigolatura non segue rigorosamente l’ordine alfabetico del libro, ma è rispettato il rimando ai luoghi descritti. Il titolo e l’introduzione a commento sono miei.

BENZON, ovvero la vita mondana a Venezia

Venezia è sempre stata crocevia del bel mondo, artisti e musicisti, intellettuali. Sentite cosa ricorda Tassini a proposito di Giorgio Benzone, principe di Crema, che, persi i propri domini, nel 1426 divenne condottiero per la Repubblica, aggregandosi al Veneto patriziato. “A parlare dei tempi moderni [questa famiglia] produsse quel Vittore, gentile poeta, il quale premorì alla madre Marina, celebre per galanteria, e per aver dato soggetto alla graziosa canzone: La biondina in gondoleta. Marina Benzon nel suo palazzo a S. Benedetto.. era solita tenere fiorite adunanze, ove intervenivano i più distinti forestieri dell’epoca, quali Byron, Moore, Canova, Pindemonte, Arici,ecc.”

Celestia, ovvero lasciviam et sacrilegia.

“Dalle raspe (registro delle sentenze ndr) siamo accertati che nei secoli XIV e XV parecchie [monache] non solo accoglievano gli amanti nel proprio chiostro, ma si ritrovavano con loro nella villa di S.Elena in quel di Trevigi, oppure in qualche luogo del Padovano, ove explebant lasciviam et sacrilegia. Forse avveniva perché le monache a quei tempi, come insegnano i Diari del Priuli, sotto qualche pretesto, ottenevano dalla Santa Sede di riunirsi per uno o due mesi in famiglia, e si davano al bel tempo in modo che il Senato supplicò la Corte Romana di non concedere tali pericolose licenze….Esse nel principio del XVI secolo furono poste eziandio sotto il governo dei veneti patriarchi. Ma non si tosto cessarono gli scandali, poiché narrano i Diari del Sanudo che nell’anno 1509 la monache della Celestia ballarono tutta la notte con alcuni giovani patrizi al suono di pifferi e trombe….”

Calle e ponte della Donna onesta

Versione prima

“Secondo alcuni era qui domiciliata una leggiadra popolana, moglie d’un maestro spadaio. S’invaghì della medesima un giovane patrizio e, per aver modo d’introdursi in sua casa, commise allo spadaio una di quella piccole daghe, dette a quei tempi misericordie. Venuto dopo alquanti dì, sotto il pretesto di vedere se l’opera era compiuta, e trovata sola la donna, usolle violenza. Non volendo essa sopravvivere alla perdita del proprio onore, afferrò la stessa daga che il marito aveva approntato pel patrizio, e disperatamente si uccise”

Versione seconda (nota sotto la voce Amor degli Amici)

“Secondo quanto ha scritto G. Malgarotto nel Gazzettino dell’11 gennaio 1925,…. “la bella Santina, moglie dello spadaio Battista, non avrebbe fatto la fine di Lucrezia, ma il suo onore sarebbe stato salvato da un fedele amico del marito, Zuane bareter, che era stato insospettito dall’assiduità con la quale Marchetto Rizzo si recava a casa di Battista, proprio quando costui era assente, a prender notizie di un certo fuseto damascato che gli aveva ordinato. Sorpreso il Rizzo che stava per sopraffare la donna, Zuane lo colpì con quel fuseto e fu perciò bandito per mesi sei il 14 ottobre 1490..”

Giacomo, l’avventuriero per eccellenza

Non potevano mancare nell’opera i riferimenti al “famigerato” Giacomo Casanova, fuggito dai Piombi, in cui era stato rinchiuso il 25 luglio 1755.

Il luogo di nascita dell’avventuriero è San Samuele, noto ai tempi che furono come postribolo. E. Zorzi ricorda questo detto popolare sulla contrada: San Samuel/contrada picola/grand bordel/senza ponti/cative campane/omeni bechi/e done puttane.  

Nella Storia della mia vita, Casanova ricorda la “spaventosa prigione”, in cui venne richiuso, al buio, in mezzo a pulci e topi, senza che nessuno lo interrogasse e gli facesse precise accuse. Uscirà evadendo solo alla fine nell’ottobre del 1756.

Tassini ricorda una sua prodezza seduttiva: “Una sera di carnevale del 1745 un gentiluomo di casa Barbi e Giacomo Casanova, adocchiarono una bella popolana  che stava bevendo col marito e due amici…. Idearono tosto di averla ai loro voleri e, sotto colore di essere pubblici funzionari, imposero al marito e agli amici di seguirli, in nome del Consiglio dei X, fino all’isola di San Giorgio. Piantati colà quei poveri gonzi, ritornarono a Venezia, e ritrovarono a Rialto la donna che avevano lasciato a guardia d’alcuni loro compagni. Allora la condussero all’osteria delle Spade ove cenarono, e si diedero buon tempo per tutta la notte, dopo che la rimandarono a casa”

I felzi, ovvero i coperti delle gondole

“Delle gondole abbiamo ricordo fin dal 1094 in un diploma di Vitale Falier agli abitatori di Loreo (comune bassopolesano). Il nome gondola provenne da cymbula o da conca, o conchula, o della greche voci contos elas (breve barca). Da principio queste barchette erano semplici e modeste, ma nel secolo XVI, in cui giunsero a Venezia in numero di 10 mila, s’incominciarono ad adornare da poppa e da prora di due ferri ricurvi, guarniti di piccole punte, e si addobbarono di stoffe e broccati ricchi oltremisura. Allora il Magistrato alle Pompe, stimandosi tale lusso eccessivo, comandò che esse dovessero coprirsi di quel panno di lana ordinaria, chiamato rascia, e volle che il colore di detto panno fosse uniformemente nero. Alla fine del XVIII secolo, tolto il ferro da poppa, riformato quello da prora, e fattevi dell’aggiunte non più di lusso, ma di comodo, vennero portate le gondole a quella condizione in cui trovansi tuttora”.

Frezzaria

Nella Serenissima non c’era la leva obbligatoria, di vota in volta scendevano in battaglia i mercenari, marinai professionisti, condottieri di professione. Nonostante ciò, nobili e popolino, fin dal XIV secolo erano obbligati ad esercitarsi nel tiro.

“ ..i capi contrada dovevano iscrivere tutti gli uomini del loro circondario dai 16 ai 35 anni, dividerli in schiere, e mandarli, una volta alla settimana, i plebei di festa, ed i nobili in altra giornata, a frecciare al bersaglio. Tali adunate si facevano al suono di apposita campana, essendo stabilito che il principale luogo dell’esercizio fosse la spiaggia del Lido…Pel trasporto stavano pronte verso mezzodì alla Piazzetta certe barche, ganzaroli appellate…. In seguito… incominciossi a trarre con schiopeti et archibugi, finchè, mutata affatto la maniera di guerreggiare, rimasero soltanto in vigore gli esercizi a fuoco, che specialmente dai bombardieri si facevano così al Lido, come in appositi punti della città”.

Venezia violenta

Il Consiglio dei X spesso doveva occuparsi di aggressioni e assassinamenti “che frequentemente succedevano allora in Venezia” ci dice il Tassini, per il quale le raspe erano una fonte inesauribile di notizie.

“..avendo un Antonio Filacanevo, d’accordo con Orsa Cantarella, condotto una figlia di costei, d’anni 8 circa, alla casa di un certo Fiore da Bologna in Pontem Fusoriorum (attuale Fuseri  n.d.r), colà le tolse il fiore verginale, non tamen explete (certamente espletato), e perciò con sentenza del 4 novembre 1440, venne condannato ad essere frustato da S. Marco a Rialto, a stare sei mesi in prigione, ed a pagare 100 lire di multa a favore della danneggiata”.

“Nel sagrà di Santa Marta venne colta il 15 giugno 1510 quella Adriana Misani, moglie d’Andrea Massario banditore, che era stata complice dell’uccisione del proprio marito, operata da Francesco figlio di Magro barbitonsore di S. Ternita, col quale manteneva amorosa corrispondenza. Essa venne condannata al supplizio della chela, per sentenza 11 luglio dell’anno medesimo, ma nell’undici ottobre successivo fuggì, né altro si seppe dei fatti suoi”.

“Era della chiesa di S.Fosca quel prete Agostino, che, solendo bestemmiare giocando, fu il 7 agosto 1542, secondo la cronaca del Balbo, posto in berlina fra due colonne di San Marco da terza a nona, chiuso il giorno seguente nella chela fino al termine di settembre, poscia condannato a compier l’anno nella Prigion Forte e finalmente bandito in perpetuo.” (chela o gabbia, quadrata, sporgente da una finestrella a metà del campanile di San Marco, ndr) 

“Leggasi che nel 1391 il pievano di S. Maurizio Giacomo Tanto, essendosi posto d’accordo con Tommaso Corner d’uccidere un prete.. lo condusse in quartas vini malvatici pro dicendis totidem missis, e colà, ajutato dal compagno, lo trucidò…. Tommaso Correr, assente, venne condannato a perpetuo bando, ed il pievano ad finiendam vitam suam incavea suspensa ad campanile S. Marci in pane e acqua. Avvenne che la matrigna di quest’ultimo, d’accordo coll’uffiziale di custodia, mandasse al condannato fugacias fabricatas, et pensatas cum nucibus, mandulis et zacari pulvere, ac fritellas, et alias confetiones, quibus produxit vitam in longum contra sententiam. L’uffiziale perciò perdette l’impiego, e buscossi un anno di ritenzione nei Pozzi.”

“Mantenendo Vincenzo Redosin, margariter (malgaro ndr), libidinosa tresca con Elisabetta Poli, d’anni 29, vedova, domiciliata i Calle del Zudìo, ed avendola colta la notte del 21 aprile 1761 fra gli amplessi d’un giovanotto, da lui molto ben conosciuto, la uccise, quantunque fosse gravida, a colpi di coltello, per cui chiamato a discolparsi e non comparso, ebbe sentenza di bando il 22 maggio dell’anno medesimo.”

Di come si amministrava la giustizia

Dai fatti delittuosi alla sentenza non passa mai molto tempo, essendo quella veneziana una giustizia rapida, seguita da esecuzione a volte stoltamente crudele al punto da sollevare indignazione e, come in questo brano, tumulto di popolo. Una giustizia che non guarda se si è patrizi o bottegai, o minori di età (distinzione quest’ultima presente oggi nel nostro codice penale, ma non prima dell’Illuminismo).

“Al ponte dei Miracoli avea bottega nel 1713 un caregheta (facitore di sedie, o careghe) che tenea per garzone Antonio Codoni, d’anni 16, nato a Caloneghe di Belluno. Quest’ultimo essendo stato una mattina svegliato dalla serva del proprio padrone forse prima del solito, le disse un mare di ingiurie, in pena delle quali, dopo una buona bastonatura, venne licenziato dal servigio. Desideroso perciò di vendicarsi con la serva, e contro il padrone, aspettò che la poveretta rimanesse sola in casa, se le scagliò addosso, e l’uccise, appropriandosi di oggetti di argenteria. Sopraggiunti al rumore i vicini e i birri, fu preso il feroce ragazzo, a condannato al capestro. Qui occorse uno strano incidente. Apprestavansi il 3 luglio 1713 in piazzetta S.Marco, fra le due colonne, gli strumenti dell’estremo supplizio, quando i barcajoli del prossimo traghetto fecero osservare al carnefice che il laccio era troppo lungo, al che questi rispondeva: <Allorchè dovrò farlo per voi, farollo a modo vostro>. Giungeva frattanto il reo, ed il carnefice ponevasi all’opera, ma il laccio veramente eccedeva in lunghezza, laonde il paziente, prima di morire, ebbe prolungati per lunga pezza i proprii tormenti. A tal vista i barcajoli incominciarono a tumultuare, e percossero il carnefice, nascendo un tafferuglio che, come attesa il Cod. 1596 Classe VII della Marciana, molta gente andò in acqua, fu persa molta roba, e stroppiate molte persone nel cader a terra una sopra l’altra, e molti ne morì affogati, che fu veramente una gran strage di popolo”.

“Essendo i patrizi Giovanni Bragadin, Daniel Venier e Francesco Bon andati di conserva il sabato santo del 1590 alla casa d’Adriana Formento, meretrice a S. Zuan Degolà al traghetto per mazo s. Marcuola, ed avendola trovata a desinare, la condussero in una camera, ed ivi, spogliatala per forza, la vollero, l’uno dopo l’altro, etiam con modi stravaganti, usare contro natura, ad onta della continua renitentia di detta donna così di pianto come di resistentia. Citati perciò, e non comparsi, furono banditi dal Consiglio dei X con sentenza del 1590.”

L’industria delle tinte e credulità popolare

“I tintori si divideva in tre classi: di sete, fustagni, e tele, facendo grandissimo traffico coll’Olanda, Fiume, Levante, Turchia. Lo scarlatto ed il chermesino di Venezia godevano una rinomanza universale. I secreti delle tinture erano cos’ meravigliosamente mantenuti da originare una singolarissima usanza. Le leggi ordinavano le stagioni nella quali si dovevano comporre le misture per lo scarlatto. Siccome si doveva distrarre il pubblico dal por mente alla fabbricazione di tale tintura, solevasi spacciare qualche favola che mettesse paura al popolo. Ora aggiravasi in que’ contorni un fantasima bianco, ora un omaccione con un cappellone, ora un gigante con il lanternino in mano. Ecco come si introduce la parola scarlatto, per indicare un timore senza fondamento. In questa guisa la credulità umana veniva messa a contributo dall’industria”

I pizzicagnoli veneziani

I fast food dell’epoca, nei dedali della trafficata e popolosa città lagunare, trovarono l’ambiente ideale per propagarsi.

Si legge nella enciclopedia Treccani: “La febbrile attività di mercanti, mediatori, piccoli negozianti, gente comune affaccendati a Rialto o in piazza S. Marco colpiva fortemente l’immaginazione degli stranieri che giungevano in città. Un centro popolato presupponeva scambi di merci e di ricchezza, nonché una vasta area di consumi, tra i più svariati, da quelli primari – gli alimenti e i tessuti meno pregiati – a quelli considerati di lusso – sete e preziosi, opere d’arte e spezie orientali; tra questi estremi vi era un’ampia gamma di domanda di beni e servizi, stimolata dalla presenza di uomini e capitali in un medesimo, circoscritto, luogo. A Venezia – osserva verso il 1685 il francese G. Burnet – “c’è una ricchezza incredibile e una grande abbondanza di ogni cosa”.

In quanto alla qualità, fatevi voi un’idea, leggendo quanto riporta Tassini: “ Chiamavasi, e chiamansi tuttora furatole alcune bottegucce simili a quelle dei pizzicagnoli, ove vendesi pesce fritto ed altri camangiari, ad uso della poveraglia. Deriva del vocabolo furatola o da foro, essendo tali bottegucce altrettanti piccoli fori, o stanzini, a pian terreno; o dal barbarico furabola, che secondo il Ducange, equivale a tenebrae, essendo le medesime oscure e annerite dal fumo; o finalmente a furari (rubare) per le frodi e le ruberie, che vi si commettevano, punite in antico con multa, e perdita di esercizio…. I Furatoleri non potevano vendere alcun genere riservato al Luganegheri (da luganega, cioè salciccia, e più in generale carne insaccata, ndr), né condire i cibi con cacio, onto sotil, ed altro grasso. Chiunque dei medesimi avesse osato di vendere vino, anche al minuto,…non solo perdeva il vino, e pagava 40 ducati di multa, ma bandivasi eziando da Venezia, e dal Dogado per un anno. Se gli impiegati tenevano furatola, perdevano il posto; i preti poi, se la tenevano in casa, divenivano incapaci d’ogni beneficio ecclesiastico; e se fuori casa, incorrevano in pena pecuniaria, non pagando la quale, potevano essere incarcerati”.

MI SONO RAFFREDDATO

MI SONO RAFFREDDATO

Ci siamo anche noi, i raffreddati vecchia maniera. Una minoranza mal vista.

E’strano: viviamo in una società sempre più attenta a dare diritti e voce a tutti, eppure c’è una minoranza fra noi che oggi non è riconosciuta, è ignorata come se non esistesse, condannata al silenzio e all’invisibilità. Sto parlando di chi ha la tosse, la febbre o il raffreddore – ma non ha il Covid. Esistono: essi vivono, e tossiscono insieme a noi. Sono ancora meno dei negativi ( altra minoranza in via d’estinzione), ma nessuno ne parla. Conosco personalmente gente con sintomi, che s’è fatta il tampone ( badate bene: il molecolare!) certa di risultare positiva, e invece no: è solo influenzata, “alla vecchia maniera”. Il virologo Silvestri afferma che il Covid si sta “raffreddorizzando”, ma nel frattempo esiste ancora il raffreddore “come una volta”, quello tradizionale, reazionario, analogico, “della nonna” insomma; anzi i casi di raffreddamento non pandemico sono in aumento date le finestre aperte per far uscire il Covid – ed entrare l’aria fredda e umida. Il mio primo pensiero per l’entrante 2022 va a loro malaticci, o meglio a tutti noi: dopo due anni spesi a lottare per il sacrosanto diritto alla salute, nel nuovo anno cercherei di spendere un po’ di energia collettiva anche per un sano diritto ad ammalarsi. Ammalarsi in santa pace, senza doversi autodenunciare, mettersi in fila, registrarsi, burocraticizzarsi insomma – che uno già sta male, ci manca solo la burocrazia. Negli ultimi due anni ogni starnuto è stato percepito come uno tsunami, ogni colpo di tosse un meteorite, ogni linea di febbre l’equivalente di una macchia scura su una lastra ai polmoni; e via tracciando ogni “etciù”, ogni “coofcoof”, persino ogni schiarimento di voce. Ci bastava avere il naso che colava per biasimare il nostro stile di vita e provare un senso di colpa cosmico verso la collettività – nean – che fossimo evasori fiscali o mandanti di stragi. Risultato: negli ultimi due anni tutti a ostentare salute e benessere, “BENE!” risponde isterica la gente quando adesso gli chiedi come sta, nessuno che risponda più con quegli assai più credibili “insomma” o “si tira avanti” per paura di finire isolato ai domiciliari in quarantena coatta; e a essere minata è finita la salute mentale di questi “bene- stanti”.

Nel nuovo anno auguro a tutti noi di poterci svegliare con il mal di testa e dolori dappertutto e non per questo essere friendzonati dalla società per quattordici giorni; auguro a me stesso e a ciascuno di voi di non dover chiamare i propri contatti stretti nelle ultime 72 ore solo per aver starnutito; auguro a tutti di poter essere sereni, anzi di più, del tutto indifferenti, quando una persona che abbiamo visto l’altro ieri oggi ha 38 di febbre. Mi/ ci auguro di non fare più caso al vicino che tossisce, all’invitato con la raucedine, al collega con una brutta cera. Godiamoci i nostri mal di schiena, i nostri brividi, la nostra stanchezza immotivata, senza ulteriori ansie, remore o beghe. Torniamo a stare male, per tornare a stare bene.

Saverio Raimondo, Il Foglio Quotidiano

LA MISSIONE DI VIRGINIA

LA MISSIONE DI VIRGINIA

Una nuova biografia pubblicata da Adelphi della leggendaria contessa di Castiglione, spia di Cavour nel letto dei potenti. Sorpresa: era anaffettiva, bellissima ma senza fascino.

Bella era bella Virginia Verasis di Castiglione, anzi bellissima, divina creatura fin da bambina. E sapeva di esserlo, il suo amor proprio non avrebbe tollerato qualcosa di meno. Era così dannatamente vero che sua madre considerò la sua reputazione di adolescente “un affar serio”. Era astuta, anche: dotata di un sicuro istinto per l’ascesa mondana e di un vero talento per la simulazione. Avrebbe potuto essere una grande interprete, fece l’attrice nella vita spaziando dalla commedia al melodramma. Certamente è stata la prima celebrità nel senso moderno del termine. Una che voleva “essere famosa per essere famosa”. Ossessionata dal culto della propria immagine e capace di crearsene una, lavorando la propria icona con i mezzi offerti da un’arte allora in ascesa: la fotografia. I parigini avrebbero pagato volentieri il biglietto per vederla con uno dei suoi favolosi costumi e i giornali potevano attribuirle qualunque indecenza.

Lo racconta Benedetta Craveri in una nuova biografia, pubblicata da Adelphi, che arricchisce la sua straordinaria collezione di ritratti di grandi dame con La Contessa – Virginia Verasis di Castiglione, una storia della Castiglione, la spia che Cavour mise nel letto di Napoleone III, rivisitata grazie alla scoperta di nuovi documenti, diari e corrispondenze di chi le fu vicino e – soprattutto – grazie alle lettere che scrisse lei stessa in una lingua meticcia, italo- francese, al suo solo amico, il principe Giuseppe Poniatowsky, con il quale aveva stretto un patto di complicità ai tempi della sua missione a Parigi. “Duemila pagine di straordinario monologo epistolare”, in cui la Contessa si racconta “all’unica persona con cui poté essere se stessa”.

Eccoci dunque dentro un sontuoso affresco d’epoca, dove la storia europea si intreccia con la vita, con il costume, con la mentalità e con la psicologia dei protagonisti. Tenendo sempre al centro lei, Virginia, Nini, Ninny, Bisisi, Nicchia. La ragazzina di provincia, fiorentina- spezzina, figlia di un diplomatico già deputato del Parlamento subalpino e amico di Massimo D’azeglio, che vediamo farsi largo nei salotti di Firenze, la città più gaia, sostenuta dalla benevolenza di Lady e Lord Holland, ministro del Regno Unito presso il granduca di Toscana. Aveva imparato rapidamente le lingue e a dodici anni padroneggiava il francese, l’inglese e il tedesco; a quindici era già nelle cronache mondane. Quando conquistò Torino, dove giunse nel 1854, sposa diciassettenne del conte di Castiglione, più anziano di lei di undici anni e devoto suddito d’amore, la severa aristocrazia sabauda si affollava a teatro sotto il suo palco per ammirarla. Per il debutto a corte, dove fu accolta grazie ai buoni uffici di Massimo D’azeglio, la nobiltà saliva sulle sedie per poter assistere al suo incedere. Un fenomeno, la cometa di un’epoca. La tappa successiva sarà Parigi, dove Virginia giunse nel 1856 e dove divenne diva mondana, ideatrice di pirotecniche uscite in elaborate mise: abiti eccentrici e parrucche incipriate, cariche di piume e di perle, che fecero di lei una celebrità sempre presente sui giornali. Una meraviglia italiana talvolta velenosamente criticata per cattivo gusto, ma in fondo avvolta da un’aura di ammirato stupore. Qualcosa di cui non si potrebbe capire l’importanza – scrive acutamente Benedetta Craveri – senza considerare che all’epoca del Secondo Impero la moda, il trucco, l’artificio, il travestimento rappresentavano, “non diversamente dalla letteratura”, “un processo artistico che estetizzava la natura, la ‘ ornava’, sottraendo l’uomo alla sua animalità”. La Contessa era insomma lo spirito del tempo: la persona giusta nel posto e al momento giusto.

Contessa di Castiglione

Conquistò Parigi in meno di un mese e la sua irresistibile ascesa la spinse – come si sa – tra le braccia dell’imperatore parvenu, quello che si era messo la corona in testa con un colpo di stato, che invano cercava la legittimazione dell’aristocrazia europea e che, per l’Italia, dove la sua famiglia aveva trovato rifugio, aveva un occhio di riguardo. Erano fatti per incontrarsi, dunque, forse anche perché lui era già in età, aveva cinquant’anni, mentre lei ne aveva solo diciannove: nelle corrispondenze e nei diari, infatti, lo avrebbe sempre chiamato sprezzantemente il Vecchio.

Se al primo incontro lei fu intimidita, e lui la trovò “bella ma priva di esprit”, al secondo giro fece colpo. Si incontrarono sulle scale, la Contessa andava al ballo che l’imperatore stava lasciando. Lui disse: “Arrivate assai tardi, signora”. E lei: “Siete voi, Sire, che andate via assai presto”.

Napoleone III aveva intorno una corte giovane e gaudente, democratica e populista, dall’identità “sommaria e raccogliticcia”. Sua moglie, Eugenia de Montijo, era una grande di Spagna sposata per amore e al momento distratta dalla sua prima maternità. Del resto, era tutt’altro tipo di signora: romantica, utopista, poco interessata al sesso. Quando arrivò Virginia, dal matrimonio, lui non aveva ancora avuto un’amante titolare. Poi ne avrebbe avute altre, ma la Contessa era così provocatoria e incline allo spettacolo da suscitare sicuro imbarazzo. Si capì che l’affare era fatto durante una festa, quando i due si allontanarono in barca, con l’imperatore ai remi, verso un isolotto boscoso dal quale lei tornò spiegazzata. L’imperatrice avrebbe provveduto a farla sorvegliare e brigato nel tempo per favorire l’insediamento di un’altra amante ufficiale, tanto l’italienne le parve politicamente pericolosa e socialmente eccessiva.

Vittorio Emanuele II

Ormai la missione era in corso. La Contessa, che prima di lasciare Torino aveva ceduto a Vittorio Emanuele II, nominato nelle sue carte come “il Porco re” per la brutalità animalesca che esercitava in modo seriale, era stata arruolata da Cavour “nei ranghi della diplomazia” e invitata “a conqueter e a sedurre, ove d’uopo”. Il prezzo pattuito per le informazioni sottratte all’imperatore ( ma questo, mentre annunciava l’avvenuto ingaggio in una lettera al ministro degli esteri Cibrario, Cavour non lo diceva) era un incarico diplomatico di prestigio per il padre di lei, considerato “un imbecille” ma promosso con l’avallo del re. Insomma tutti avevano un tornaconto in quella complessa partita che – vista in prospettiva, dall’alto – aveva il suo grande obiettivo politico: ottenere l’appoggio della Francia in ragione del comune intento di sgretolare l’ordine europeo stabilito con il congresso di Vienna dopo la disfatta di Napoleone. E porre così la questione delle autonomie nazionali. La questione dell’Italia.

Visto dal basso, invece, tutto suonava piuttosto greve, come da missive inviate la fiduciario di Cavour alla Contessa: “Fatevi bionda, bionda come un campo di grano. E’ necessario, siamo intesi?”. Oppure: “Ricordatevi di tirar fuori il verme dal naso del Vecchio” ( il curioso esercizio sul verme si deve alla mala traduzione di una frase idiomatica francese, che significa spillare informazioni). In fondo, lo sapevamo che questo era stato il compito della contessa di Castiglione e che l’impresa univa interessi di famiglia (la carriera del padre) e questioni di stato. La bellissima Contessa fu usata e poi scaricata quando divenne imbarazzante per tutti. Quello che non conoscevamo, e che questo libro ci svela, è la versione di Virginia.

Non ci sono documenti di pugno della Contessa al tempo della missione e dunque sul suo primo soggiorno a Parigi parlano i contemporanei, tratteggiando il ritratto di una giovane donna tanto bella quanto antipatica. Un’incarnazione del “piacere aristocratico di rendersi sgradevoli”, allora definito da Baudelaire. Un “narciso femmina in adorazione davanti alla propria beltà, senza tenerezza, senza dolcezza nel carattere, ambiziosa senza grazia, sprezzante senza motivo …” e via dicendo, secondo il conte di Fleury. Per madame Carette, dama di Palazzo, era “una bellezza definitiva, fuori del tempo”, ma ” il fascino incredibilmente non c’era. Il bel viso era sempre atteggiato a un’espressione di alterigia, di durezza, che faceva pensare a quelle divinità che gli antichi cercavano di placare con i sacrifici”. Magnifica la descrizione della festa dove Virginia si presentò vestita da dama di cuori, con una chiara allusione alla sua capacità di incatenarli. L’amante dell’uomo più potente del momento non poteva che suscitare malignità. La sorpresa, leggendo le carte di Virginia, è che i maligni non erano poi tanto lontani dal vero: l’unica cosa che sembrava interessarla veramente era il potere che esercitava sugli altri attraverso la bellezza e, al massimo del delirio d’onnipotenza, il suo buon uso per tenere in scacco il mondo. Quando questa forza magnetica cedeva, la Contessa precipitava nel vuoto, nella rabbia, nella malinconia, nello spleen.

Napoleone III

Nel backstage della diva ci sono le angustie di una signora anaffettiva: dietro l’attrice c’era una donna bisognosa dell’adorazione continua per la quale aveva sviluppato una specie di dipendenza fanciullesca, infantile. Era spinta dalla costante necessità di verificare le sue capacità seduttive, perfino con il figlio bambino. Teneva una contabilità amorosa da dongiovanni, adottando un cifrario per annotare il grado di intimità concesso a questo o a quello. Il sesso era un gioco senza importanza, si dava con indifferenza, come una divinità; la freddezza era insieme la sua forza e la sua fragilità estrema. Perché non poteva fare a meno del calore altrui, dell’ammirazione e delle lusinghe. Visse nel culto di sé che, col tempo, l’avrebbe resa patetica. Non riuscì ad accogliere l’affetto dei pochi che l’amarono: il marito, di cui si stancò nel giro di un anno; il figlio, che finì per rivoltarsi contro di lei; o il principe La Tour d’auvergne, il diplomatico francese che usò per tenere sulla corda Napoleone III quando, caduta in disgrazia, dovette lasciare Parigi. Il principe l’amava e con lei aveva stabilito una profonda confidenza: “Tu sei me”. Si sarebbe preso cura di lei e del bambino, visto che ormai si stava separando da Castiglione, in cambio chiedeva una sola cosa, proprio quella che lei non poteva dare: essere corrisposto. “Amare non vuol dire umiliarsi”, le scriveva, “si può confessarlo senza vergogna a qualcuno che vi ama. Tu invece se fossi innamorata non lo diresti…”.

Ma la Contessa era sempre altrove, presa da piani di rivalsa e progetti di conquista un po’ maniacali. Al tempo della relazione con La Tour d’auvergne, le premeva ristabilire il flusso di informazioni che l’imperatore le aveva fornito e che si era interrotto con lo sfratto da Parigi: quello che le avrebbe permesso di continuare ad accedere a speculazioni finanziarie per garantirsi l’indipendenza economica. Per questo era disposta a spingersi al limite del ricatto (usare le lettere che aveva ricevuto da lui) ed era indignata dalla proposta di risarcimento che le era giunta: una liquidazione di appena seimila franchi. Forse Virginia non aveva cuore, ma aveva certamente audacia e fiuto per l’intrigo. Li usò per la cospirazione politica, per procurarsi denaro speculando in Borsa, per ottenere fama e attenzioni. Nei limiti delle condizioni sociali e culturali del tempo, fare l’amante di un uomo potente era uno dei pochi modi con i quali una donna poteva influenzare i grandi traffici del mondo. E questa era la sua ambizione, l’altra metà delle cose. La Contessa, che credeva nell’Italia e nella sua libertà personale, non fu peggiore degli uomini che la usarono. Pagò il prezzo (imperdonabile) di conoscerne le debolezze più intime.

Appaiono ridicoli i potenti che si piegano alle sue grazie. Rimasta vedova a soli trent’anni, Virginia intuì di non avere ancora troppo tempo davanti e giocò la carta del re d’italia, il noto predatore sessuale di cui aveva subito la prepotenza da ragazza e con il quale aveva poi mantenuto rapporti occasionali. Seppe tenergli testa, subissandolo di continue pressanti richieste e obbligandolo a trattarla da signora. Davanti a lei, Vittorio Emanuele si piegò in goffe movenze galanti: “L’infelice Padrone bacia le mani alla carissima Nicchia, 28 luglio 1867”. Oppure: “Signora contessa Verasis, stasera mi avete lasciato senza fiato per l’emozione”.

Annamaria Guadagni per il Foglio Quotidiano

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