BASTONE E CAROTA

28 Mag 2018 | 0 commenti

LA FALSA SICILIA DI CAMILLERI CHE NON SI SOPPORTA PIU’- NELLA RUBRICA Il bastone e la carota DAVIDE BRULLO STRONCA O ELOGIA IL LIBRO DELLA SETTIMANA-

Ora  è la volta di Gli esercizi di memoria di Andrea Camilleri e delle Opere di Leonardo Sciascia.

Davide Brullo, critico e poeta, dalla scrittura estrosa e immaginifica

Il bastoneL’effetto è proprio quello. Una palla di vetro. Dentro, in miniatura, c’è la città di Vigata. Se giri la palla cade una spruzzata di neve e si sente, radiodiffuso da un microfono, un tizio – Andrea Camilleri? Luca Zingaretti? I due, ormai, sono consustanziali – che dice Montalbano sono! Un souvenir. Ecco. I libri di Camilleri sono un souvenir. Sono l’idea piuttosto esotica e alquanto inautentica che, chessò, un americano di Dallas ha dell’Italia. Un borgo siciliano ricostruito a Cinecittà, in polistirolo, con qualche comparsa che getta là frasi in scombiccherato dialetto. I libri di Camilleri sono così. Palle di vetro. Due palle così. Esercizi di memoria, però, che dovrebbe essere l’agiografia di Andrea Camilleri con tanto di angelologia di Montalbano – i fan gradiranno sapere che “l’ispiratore del mio commissario Montalbano” è “un cugino di mio padre che io chiamavo zio Carmelo”, cioè Carmelo Camilleri, commissario della Pubblica Sicurezza, “fervente fascista”, che “usava metodi brutali e violenti” e che fu, per un fattaccio, ‘liquidato’ dal Mascelluto in persona, il Dux, Mussolini – ha qualcosa in più. Nella palla di vetro non c’è soltanto Vigata in miniatura. C’è pure lui, Camilleri, piccino piccino, seduto sulla poltrona del trombone, che sproloquia sulla sua vita, vecchio bisnonno bulimico di tempo perduto a cui occorre cucire la bocca. Dettato in italiano – evviva, non s’è letto dialetto più fittizio di quello ruminato da Montalbano – Esercizi di memoria è un florilegio di gossip dalla vita di Camilleri, forse si crede Lev Tolstoj, forse sogna di essere Henry Kissinger. In una vita piena di incontri ma scarsa di eventi, l’episodio più curioso riguarda il tran tran per recuperare le ceneri di Pirandello, il ritratto più bello è dedicato all’attore russo Pietro Sharoff, quello più ingeneroso cade sul cranio di Vincenzo Cardarelli. Quanto al resto, che Camilleri abbia in odio la montagna – la può affrontare solo dopo essersi bevuto “tutta la grappa dell’Alto Trentino” – ce ne frega un fico, e il dorso di ogni memoria è pepato di fastidiosa supponenza. Camilleri ci racconta che fu benedetto regista da Michelangelo Antonioni, che al Premio Flaiano lo scrittore Daniel Chavarría “incitava i votanti gridando a voce altissima: ‘votate Camilleri!’” – cosa che accadde, per l’ira di Ian McEwan – con levantina spudoratezza, con la falsa umiltà dei vigatesi. Il racconto dei rapporti con Eduardo De Filippo – che stimolano la salivazione del voyeur – è del tutto insipido, e l’incontro (mancato) con Luciano Liggio, il mafioso, ‘la primula rossa di Corleone’, sulla carta un ‘pezzo’ scintillante, si riduce a uno sketch piuttosto infelice. Eccolo, il punto. La scrittura di Camilleri, sempre, è una partita a bocce tra ottuagenari, un bignè al reparto geriatrico, ha il retrogusto della commedia all’italiana di serie B. Camilleri, per stare in quota cinematografica, non appartiene alla schiatta dei Pietro Germi o dei Vittorio De Sica, ma a quella dei Mariano Laurenti, con tutto il rispetto per Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda. Camilleri funziona perché è un modesto intrattenimento per gli italiani che sono notoriamente dei pessimi lettori e un ottimo souvenir per gli stranieri che pensano che l’Italia sia ‘pizza, mafia e mandolino’. Camilleri è uno scrittore che vuole il sorriso facile e la risata complice, non gl’importa la letteratura come disossamento della realtà, come carneficina dei luoghi comuni, come schianto e volo. Il vero scandalo è che nei ‘Meridiani’ Mondadori, la collana editoriale più nobile di questo Belpaese di cartongesso, Giovanni Verga sia rappresentato con due tomi e Andrea Camilleri con tre. Potere del denaro. Così, un pittore di modeste cartoline del Sud vince su Cézanne. Felici voi.

Andrea Camilleri, Esercizi di memoria, Rizzoli, pp.238, euro 18,00

Leonardo Sciascia, scrittore fra i massimi del ‘900. Fu anche deputato per il Partito Radicale

La carotaPer prima cosa, cincischiai con Gesualdo Bufalino. L’amico d’università, Sebastiano, di Noto – ora poeta poco noto – mi svezzò a Elio Vittorini. Ma io schifavo Vittorini. Piuttosto, m’intrufolai in Bufalino, trovando sentieri linguistici che mi parevano bellissimi. A uno che pubblica a sessant’anni il primo libro, con un incipit così, “O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto”, puoi, francamente, donare tutte le dita della mano destra, quelle che servono per scrivere. Poi tentai con Vincenzo Consoli (Il sorriso dell’ignoto marinaio) e fu un nì. Poi ci fu Stefano D’Arrigo, questa specie di James Joyce e di Herman Melville sullo Stretto, e l’innamoramento fu ingenuo e totale, prima per la Fera, poi per Horcynus Orca, infine per la viziosa Cima delle nobildonne. Della letteratura siciliana è adorabile l’insularità. Nel senso che è uno dei pochi luoghi al mondo che fa storia a sé, con micidiale concretezza, non ha bisogno di altre letteratura né di enciclopedici dettagli. Autarchia del genio. Dato per certo Pirandello, esaltato Giovanni Verga – i suoi racconti hanno una velocità rapace e modernissima, leggeteli, il duca della scrittura siciliana si pappa a colazione tutti i sedicenti scrittori di oggi – magnificato Federico De Roberto, alla fine s’inciampa, come nella più torbida delle eresie, in Leonardo Sciascia. Dal paradosso (Pirandello) al torvo (Verga), dal barocco (Bufalino) al glossolalico (D’Arrigo), in Sicilia c’è spazio pure per il cinismo voltairiano. Romanziere non geniale (ma La scomparsa di Majorana è di specchiata bellezza), fu uomo speciale, Sciascia. Leggerlo è il godimento dell’intelligenza: per questo lo zibaldone pubblicato come Nero su nero è caustico e corroborante. In un brano, ragiona sulla “vita di Tolstoj”, che “si svolge tutta sotto il segno della fuga. Fuga dalla condizione sociale ed economica in cui è nato. Fuga dal destino di scrittore. Fuga da se stesso. Fuga dalla vita”. Morto, per l’appunto, in fuga dalla famiglia, a 82 anni, nella stazione di Astopovo, Tolstoj ispira a Sciascia un pensiero stupendo. “Filarsela dalla vita, non esserci più. Non ha voluto altro, vivendo; non ha pensato ad altro. Ed è da questa estraneità che ha visto limpidamente la vita, che l’ha come ripetuta nelle sue pagine”. Lo scrittore è sempre in fuga, ed è da fuggiasco, fuggendo, che vede le cose, sempre irripetibili, dunque ripetute. Camilleri non è uno scrittore in fuga, è uno scrivano assiso sul trono di una gloria di latta, lattescente. Buon per lui. C’è così tanta letteratura in Sicilia che prima di approdare a Vigata avremo vissuto sette vite almeno.

Leonardo Sciascia, Opere, Bompiani, 2004

per l’Inkiesta.it. 

 

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