DISABILI, CASTIGO DEGLI DEI, SEGNO DEL DIAVOLO

7 Lug 2017 | 0 commenti

Identità sociale del disabile nel corso del tempo.

Da castigo degli Dei a diversamente abili: attualmente in questa definizione è racchiuso il paradigma di una speciale normalità, fatta di forze e criticità.

 

Riprendo l’articolo pubblicato sul sito stateofmind.it sul tema dei disabili. il 7 noovembre 2014 a firma di Vincenzo Amendolagine. Si tratta di una ricostruzione storica che ben documenta l’evoluzione del rapporto fra disabili e società, chiesa e istituzioni sanitarie. Non si salva nessuno!

L’identità sociale del disabile nel corso della storia dell’umanità è stata oggetto di alterni destini, che si sono concretizzati, spesso, in epiteti denigratori: da castigo degli dei presso la civiltà greco-romana ad espressione di forze malefiche e diaboliche nel medioevo, da giullare di corte nel Rinascimento a malato incurabile nell’Ottocento, davita che non merita di vivere durante il nazismo a diversa abilità nella società odierna. La storia recente è stata testimone di un cambiamento epocale, che ha visto affermati i diritti delle persone disabili nell’ambito dell’educazione, del lavoro e del tempo libero. Attualmente nella definizione di diversamente abile è racchiuso un paradigma innovativo, ovvero quello di una speciale normalità, che è fatta di punti di forza e di criticità.

Castigo degli dei, capro espiatorio, disonore della stirpe

Già in alcuni graffiti dell’epoca paleolitica compare la diversità fisica, a cui è attribuita un significato positivo, ossia di una molteplicità che connota la fenomenologia variegata della natura umana.

Nel pensiero greco, alimentato dall’agiografia del corpo perfetto, la disabilità suscita condanna e disprezzo. I maggiori filosofi greci dimostrano un ostracismo verso la diversità corporea. La città ideale di Platone, per esempio, deve essere abitata da individui perfetti, che generano figli sani. Egli prescrive un incremento degli accoppiamenti fra questi eletti per un fine riproduttivo, mentre auspica una morigeratezza di costumi fra i mostri, onde evitare che la bruttezza e l’indegnità fisica abbia un seguito generativo. Aristotele è dell’opinione che lo Stato deve impedire l’allevamento e la cura dei neonati deformi, che rappresentano uno sperpero di risorse ed energie.

Nelle prime società elleniche il disabile è ritenuto un capro espiatorio, che ha una funzione sociale ben codificata. Egli è frutto dell’ira degli dei e, quindi, viene al mondo come castigo divino. In pratica, quando gli dei hanno qualche controversia con gli umani, fanno sì che i prodotti generativi antropologici (lo sperma dell’uomo e il mestruo della donna) subiscono dei processi nocivi, che conducono alla generatività di mostri. La maggior parte di essi è giustiziata alla nascita. Alcuni, invece, sono allevati e destinati a diventare capri espiatori. In caso di carestie o di eventi naturali funesti, la popolazione sceglie, fra questi mostri lasciati in vita, il soggetto più repellente da immolare agli dei. La ritualità del sacrificio prevede una successione di eventi ben delineati. Il disabile è portato fuori dalle mura, bastonato sui genitali per sette volte e infine bruciato vivo sul rogo. In ultimo, si raccolgono le sue ceneri e si disperdono in mare, con l’obiettivo di placare la volontà degli dei (Stilo, 2013, pag. 10).

Un destino più benevolo attende i disabili che presentano un corpo non intaccato da mostruosità. Godono di un certo rispetto i ciechi e i pazzi. Secondo la mentalità comune, i ciechi non vedono quello che accade nel presente e, per questa ragione, percepiscono il tempo futuro e, quindi, sono in grado di predire gli accadimenti. I pazzi, nei loro deliri, sono capaci di parlare con gli dei, per cui non bisogna inimicarseli se si vuol godere della benevolenza divina.

Anche la cultura ebraica aborrisce il mostro: infatti, nell’antico testamento l’individuo che presenta qualche deformità fisica non può avvicinarsi a Dio e neanche compiere alcuna offerta votiva per invocare la sua indulgenza (Cario, 2014, pag. n.n.).

La civiltà romana eredita da quella greca il culto del bello e del corpo perfetto, archetipo di una supremazia che affermerà la sua potenza in tutto il mondo allora conosciuto. Per Seneca la disabilità può essere paragonata alla vita inutile. Nell’opinione popolare la mostruosità di un figlio è un disonore per l’intera stirpe. A tal riguardo, ogni nuovo nato subisce il rito dell’innalzamento al cielo, che indica che è stato accolto dalla sua famiglia, divenendo cittadino romano. In pratica, subito dopo la nascita l’infante è portato dal pater familias, che constatata la sua integrità fisica o morale (sono immorali i figli nati da relazioni extraconiugali), lo solleva in alto, presentandolo agli dei. Se questo non avviene il neonato subisce l’esposizione, ossia l’infante viene messo in un cumulo d’immondizie, fuori casa, e lasciato morire (Stilo, op. cit., pag. 8). Anche nella società romana il mutilato e lo storpio non possono accostarsi agli dei, a causa della loro indegnità fisica.

Diabolici, malvagi e giullari

Dopo la caduta dell’Impero romano, nel periodo medioevale, rimane lo stigma negativo che caratterizza la disabilità. La madre è ritenuta la principale responsabile della deformità del proprio figlio. In altre parole, la mostruosità del bambino partorito è uno specchio delle sue colpe, che possono andare dal semplice adulterio ad una relazione carnale con le forze malefiche e diaboliche. In questo caso il destino è segnato: entrambi bruciano sul rogo.

La Chiesa alimenta tale visione della disabilità, ovvero come frutto dell’intervento di forze diaboliche. Il papa Gregorio Magno è un convinto assertore di questa tesi, per cui si fa portatore del costrutto che in un corpo deforme non può esserci un’anima che abbia la grazia di Dio. Il vescovo Cesario di Arles afferma che la disabilità è frutto della lussuria, che induce a non rispettare con l’astinenza i giorni che devono essere dedicati al Signore, cioè le festività e il periodo della quaresima. Chi non si attiene a tale precetto corre il rischio di avere dei figli affetti da lebbra, epilessia e, quindi, posseduti dal demonio (Stilo, op. cit., pag. 14).

Ai disabili, però, è permesso girare, soprattutto in occasione delle festività religiose, per le città medievali con lo scopo di chiedere l’elemosina. Essi devono essere percepiti dai normali come un monito perenne che deve ricordare la triste sorte riservata a chi non rispetta i precetti della Chiesa, appesantendo quella situazione antropologica già fortemente ipotecata dal peccato originale e dalla cacciata dal paradiso.

In questo periodo assorge a spettro principale della punizione divina la peste. Essa è considerata il castigo meritato da chi ha commesso molti peccati, soprattutto di lussuria. C’è la convinzione che la lebbra sia una patologia a trasmissione sessuale e, onde evitare la sua diffusione, i malati devono essere riconoscibili.

Per tale ragione portano appesa al collo una campana che avverte del loro arrivo e una croce gialla, che troneggia sugli indumenti. Per tenerli lontani dalla città con l’obiettivo di evitare il contagio fisico e morale, sono costruiti i lazzaretti che li ospitano. In questa maniera si pongono le basi per quel discorso ideologico, destinato ad implementarsi nei periodi successivi, che ha il suo paradigma fondante nella separazione dei sani dai malati, ovvero nell’emarginare ogni diversità sociale (Foucault, 1998). In più di una circostanza i lebbrosi diventano capri espiatori. Famosa a questo riguardo è la congiura di cui furono accusati nel 1321 in Francia. In pratica, essi furono ritenuti responsabili di aver ordito la fine del regno francese, attuata disseminando la lebbra nei fiumi e nei pozzi di Francia.

Una sorte diversa, fra i disabili, è riservata ai gobbi e ai nani, che diventano giullari di corte, a cui spetta il compito di far divertire i nobili. Di essi si ha un grande rispetto: sono gli unici membri della corte che possono permettersi il lusso di dire quello che pensano anche al proprio re.

In quel tempo, i folli assumono il ruolo sociale di portatori dell’eredità satanica. Essi sono considerati il concentrato di tutte le nefandezze e le malvagità imputabili al genere umano. Ed è proprio per questa ragione che devono essere isolati dal resto del mondo. Si creano, così, i presupposti per quelle strutture di segregazione che diventeranno i manicomi.

La moltitudine dei folli comprende un’umanità variegata, che è fatta di mendicanti, vagabondi, nulla tenenti, disoccupati, sfaccendati, delinquenti, individui politicamente sospetti, eretici, donne di facili costumi, libertini… figlie disonorate, figli che sperperano il patrimonio (Stilo, op. cit., pag. 22).

Si delinea, così, la divisione medica – sociale – culturale fra patologie del corpo e patologie della mente, fra folli e savi. Le due categorie di pazienti trovano allocazione in strutture distinte. I manicomi si diffondono in tutta Europa. In alcuni di essi i pazienti sono racchiusi in gabbie e, pagando un piccolo obolo, possono essere osservati nelle loro stravaganze dal popolo.

L’ostracismo verso i disabili non conosce tregua. Nel catechismo tridentino del 1566 sono stabiliti i requisiti che consentono di diventare sacerdote. Fra le condizioni che non possono permettere di officiare messa è inserita l’indegnità, che deriva dall’essere pazzi, sanguinari, omicidi, bastardi… deformi e storpi. Infatti la deformazione ha qualcosa di ripugnante che può ostacolare l’amministrazione dei sacramenti (Stilo, op. cit., pag. 23).

Curabili – Incurabili, Produttivi – Improduttivi

Con l’illuminismo, la concezione della disabilità subisce una profonda trasformazione. In pratica, secondo Diderot, citato in Cario (2014, op. cit., pag. n.n.), la disabilità è sintonica con la non perfezione della natura e come tale è da considerarsi fisiologica.

In questo lasso di tempo si afferma in maniera preponderante la medicina, in quanto scienza esercitata da una parte di quella élite che detiene il potere, ovvero la borghesia.

La disabilità è medicalizzata e curata negli ospedali che, in numero crescente, sorgono in quel periodo. Essa viene classificata a seconda della sua curabilità, per cui i disabili sono divisi in due categorie, i curabili e gli incurabili. Fra questi ultimi rientrano i malati di mente, il cui destino è quello di essere internati per tutta la vita.
Relativamente alla disabilità psichica, Pinel, però, il fondatore della psichiatria moderna, ne sostiene la curabilità. Nel suo trattato del 1800 Trattato medico-filosofico sull’alienazione, citato in Stilo (op. cit., pag. 26), egli propone una cura della malattia mentale che prevede due strategie terapeutiche. La prima è l’allontamento del malato dal mondo esterno, la seconda è la cura psicologica che consiste nell’aiutare il paziente a non pensare alle sue idee bizzarre, distraendolo con altri interessi. In realtà questa terapia non è mai applicata, in quanto i disabili psichici continuano ad essere semplicemente allontanati dalla società, attraverso il ricovero coatto nei manicomi, dove non ricevono nessuna cura e assistenza.

A metà del settecento comincia la ristrutturazione dei processi produttivi che porta alla nascita, in Europa, delle prime industrie. L’introduzione delle macchine nella filiera produttiva, che avviene in maniera massiccia nell’Ottocento, fa sorgere i primi disabili fisici, la cui invalidità è causata proprio dall’utilizzo di questi nuovi mezzi industriali.

Il numero sempre crescente di individui che presentano problematiche visive o menomazioni ortopediche cambia la percezione sociale della disabilità. In pratica, essa è ritenuta una condizione da dover curare, studiando tutti gli ausili che possono permettere a questi soggetti di ritornare ad essere attivi e, quindi, nuovamente utilizzati nelle industrie. Laddove questo non può avvenire, i nuovi disabili sono condannati ad una condizione di marginalizzazione sociale.

Scemi di guerra e la vita che non merita di vivere

La fine della prima guerra mondiale produce un elevatissimo numero di disabili. Otto milioni di invalidi, mutilati, ciechi e pazzi, i cosiddetti scemi di guerra (Stilo, op. cit., pag. 34). La disabilità assume una connotazione sociale differente, ovvero viene vista come una condizione da rispettare e a cui dover rimediare, anche attraverso aiuti economici.

Messaggio pubblicitarioDurante il periodo hitleriano si assiste ad una regressione ideologica. Il nazismo definisce la disabilità come la vita che non merita di vivere e si rende protagonista di una distruzione di massa dei disabili, in particolar modo di quelli che presentano deficit mentali (Friedlander, 1997).

Alla fine degli anni Trenta è promulgato il Decreto Ministeriale sull’obbligo di dichiarazione dei neonati deformi (Stilo, op. cit., pag. 36). Secondo questa legge, chiunque fra il personale sanitario è a conoscenza della nascita o dell’esistenza di disabili affetti da patologie psicofisiche ha l’obbligo di segnalarli ad un Comitato Nazista, creato a tale scopo. Questi minori sono ricoverati nei reparti di eutanasia infantile, che si trovavano presso ogni ospedale, dove sono lasciati morire di fame oppure uccisi attraverso la sperimentazione di nuovi e potenti farmaci o avvelenati mediante l’utilizzo massiccio di morfina e barbiturici. Per i disabili adulti il destino è segnato già da lungo tempo: il campo di concentramento, a cui segue la camera a gas.

Diversamente abili – portatori di diritti inalienabili

Dagli anni 70 del secolo scorso, la considerazione della disabilità ha subito una vera e propria metamorfosi. In Italia, per esempio, sono state approvate delle leggi che hanno mutato la percezione sociale della disabilità, ovvero da malattia – menomazione a diversa normalità. In altri termini, i soggetti disabili, alla luce delle nuove normative, sono divenuti portatori di diritti, piuttosto che oggetti di assistenza di stampo pietistico.

A questo riguardo sono da menzionare:

  • La legge 180 del 1978: è la normativa che ha chiuso gli ospedali psichiatrici, disciplinando i trattamenti sanitari nell’ambito della disabilità mentale (Giberti e Rossi, 1983);
  • La legge 517 del 1977, che ha aperto le scuole ai diversamente abili, promuovendo l’integrazione e creando la figura dell’insegnante di sostegno (Piazza, 1996);
  • La legge 104 del 1992, che ha sostenuto i diritti delle persone disabili lungo l’intero ciclo di vita, implementando gli strumenti per favorire l’integrazione scolastica, sociale e lavorativa (G. U. 15 aprile 1994, n. 87).

In ambito internazionale la maggiore rivoluzione è stata compiuta dalla Organizzazione Mondiale della Salute che ha redatto l’ICF nel 2001. Esso non è altro che la classificazione del funzionamento, della disabilità e della salute dell’individuo. Secondo il paradigma bio-psico-sociale, che è alla base di tale documento, la persona disabile ha risorse e potenzialità che possono estrinsecarsi o rimanere latenti, a seconda dell’ambiente in cui vive. In altre parole, il contesto può fungere da barriera, ostacolando il manifestarsi di queste risorse possedute, oppure essere un facilitatore, che incoraggia l’espressione di queste potenzialità. In ragione di ciò la disabilità è intesa come uno stato di salute in un ambiente non favorevole (OMS, 2002).


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2014/11/identita-sociale-disabile/

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