IMAGINE PER SEMPRE

IMAGINE PER SEMPRE

Cinquant’anni fa usciva il capolavoro di John Lennon. Tra pacifismo e comunismo, l’inno dei popoli è ancora uno dei più ascoltati al mondo

Il 27 maggio del 1971 era un giovedì. Phil Spector, volpone del pop scomparso pochi mesi fa, si approcciò alla canzone con sapiente mestiere ma anche con rispetto. “Ho sempre pensato che fosse come l’inno nazionale”, avrebbe detto anni dopo il mitico produttore newyorchese. Uno studio di registrazione era stato allestito a Tittenhurst Park, vicino ad Ascot, la residenza da sogno dove John Lennon si era trasferito con Yoko Ono e dove la coppia visse un paio d’anni prima di traslocare in America, quell’America da cui Lennon non avrebbe mai più fatto ritorno in Inghilterra. In quella magnificente residenza, una specie di Downton Abbey con parchi e laghetto che sarebbe diventata poi la casa di Ringo Starr, Lennon lavorò negli Ascot Sound Studios alla registrazione del suo nuovo album. I Beatles si erano ufficialmente sciolti ormai da un anno, il primo – ottimo – disco da solista di Lennon, passato alla storia come l’album del “grido primario”, perché ispirato alle teorie dello psicologo statunitense Arthur Janov, era stato accolto abbastanza bene. Ma adesso l’ex Beatle voleva provare qualcosa di diverso. E quel giovedì entrò nello studio di registrazione con un paio di fidatissimi musicisti, Spector e Yoko Ono, per incidere quella che sarebbe diventata la sua canzone di maggiore successo, un brano che per fama e gloria avrebbe superato anche i suoi successi con i Beatles ( quello che mai riuscì a Paul Mccartney nella sua pur grandiosa carriera da solista). La canzone era “Imagine”, fu registrata in un giorno solo, quel giorno di maggio di cinquant’anni fa. Tranne gli archi, che vennero sovra incisi il 4 luglio successivo al Record Plant di New York City. Il mondo avrebbe conosciuto quel brano divenuta icona del Ventesimo secolo soltanto a ottobre quando l’album omonimo sarebbe stato pubblicato, ottenendo uno straordinario successo di pubblico, il più grande successo mai raggiunto da Lennon dopo i Beatles.

Yoko Ono e John Lennon

Le cronache parlano di una registrazione “rilassata e informale”, che ebbe inizio a metà mattinata e si protrasse fino all’ora di cena. Spector tentò di registrare la parte di piano di Lennon nella “stanza bianca” dove era il pianoforte a coda della coppia. Ma, dopo un’ora di prove, ci si rese conto che l’acustica della stanza non andava bene, e il produttore – che aveva già lavorato con i Beatles nel loro ultimo disco “Let it be” imbottendo di arrangiamenti altisonanti il sound del quartetto di Liverpool – abbandonò l’idea in favore dello studio. Vennero incise tre take del pezzo, e fu la seconda a essere scelta. Con Lennon suonavano due sue conoscenze. Il batterista era Alan White, affidabile session man che aveva lavorato alla Apple e aveva suonato con la Plastic Ono Band di Lennon. Al basso c’era il vecchio amico tedesco di John Klaus Voorman. I Beatles lo avevano conosciuto ad Amburgo, quando prima di diventare famosi suonavano nella città tedesca. Klaus era all’epoca fidanzato con Astrid Kirchherr ( morta l’anno scorso), la fotografa che suggerì ai ragazzi inglesi di adottare il celeberrimo caschetto. Voorman era un musicista ma anche un pittore. Disegnò lui la famosa copertina di “Revolver”, il disco del 1966 dei Beatles, un lavoro raffinato premiato con un Grammy. E suonò il basso in diversi dischi dei suoi vecchi amici di Liverpool, non solo Lennon ma anche Harrison e Starr.

Lennon e Ono co- produssero la canzone. Anni dopo, John ammise che anche nella fase creativa c’era stato lo zampino della moglie giapponese, che a suo dire avrebbe meritato di essere accreditata come coautrice. Lennon definì la composizione di “Imagine” all’inizio del 1971, su un pianoforte Steinway nella sua camera da letto a Tittenhurst Park. In quella specie di reggia da milionari del Berkshire, Lennon tirò fuori quel testo che lui stesso avrebbe definito imparentato col manifesto del Partito comunista. Yoko era presente quando il marito partorì melodia, accordi e il grosso del testo di quella ballata al pianoforte in Do maggiore destinata a diventare uno dei più importanti brani del Novecento, forse “la canzone” per antonomasia del suo tempo. Nel solo Regno Unito, per avere un’idea, il 45 giri di “Imagine” ha venduto più di un milione e mezzo di copie.

Lennon invitava l’ascoltatore a immaginare un mondo diverso, libero dal materialismo e dall’edonismo ma anche dalla religione, un mondo senza paradiso, inferno, possesso e bisogni. Un’utopia socialisteggiante – per ammissione dello stesso autore – che risentiva del retaggio hippie del tempo e delle recenti battaglie pacifiste della coppia. L’arrangiamento soft rock, così essenziale, facilitava l’arrivo alle masse del messaggio dell’ex Beatle. Rispetto al pezzo politico dell’anno prima

“Working Class Hero”, c’è qui la forza del mainstream ad amplificare la portata del messaggio. Lennon a modo suo, sintetizzò così la faccenda: “Anti- religiosa, anti- nazionalistica, anti- convenzionale, anti- capitalista, ma poiché coperta di zucchero, la canzone viene accettata. Adesso capisco come bisogna fare. Dare i propri messaggi politici insieme a un po’ di miele”.

Il testo di “Imagine” ebbe diverse fonti di ispirazione. Alcune poesie di Yoko Ono incluse nel suo libro “Grapefruit” del 1964, ad esempio, suggestionarono Lennon. In particolare, quella riprodotta sul retro di copertina del vinile originale dell’album “Imagine”, intitolata “Cloud Piece”. I versi: “Imagine the clouds dripping, dig a hole in your garden to put them in” (“Immagina le nuvole gocciolanti, scava un buco nel tuo giardino per raccoglierle”). Ma non ci furono solo le liriche della moglie poetessa alla base dell’idea di “Imagine”. Nella celebre intervista del dicembre 1980 concessa a David Sheff per la rivista Playboy, poco prima di morire assassinato, Lennon disse che Dick Gregory aveva regalato a lui e Yoko un libro di preghiere cristiane, che gli ispirarono il concetto alla base della canzone: “Il concetto di preghiera positiva. Se puoi ‘ imma – ginare’ un mondo in pace, senza discriminazioni dettate dalla religione – non senza religione, ma senza quell’atteggiamento ‘ il mio Dio- è- più- grande- del- tuo- Dio’, allora può avverarsi. Una volta il Consiglio ecumenico delle Chiese mi chiamò e mi chiese: ‘ Possiamo usare il testo di Imagine e cambiarlo semplicemente in Imagine one religion al posto di no religion?’. Ciò mi dimostrò che non lo capivano affatto”. Le frasi anti- religiose sono costate alla canzone critiche ma d’altro canto il rapporto tra Lennon e i credenti aveva conosciuto già momenti molto complicati quando il Beatle aveva detto che il cristianesimo sarebbe scomparso e che lui e i suoi tre compagni di band erano più popolari di Gesù Cristo.

Lennon era particolarmente tagliato come compositore di “inni”. La sua “All you need is love”, incisa coi Beatles in mondovisione nel 1967, era diventata un inno dell’estate dell’amore, la sua “Give peace a chance” era diventata l’inno dei pacifisti americani contro la guerra in Vietnam. Con “Imagine”, Lennon compose quello che l’autore John Blaney descrisse un “inno umanista per il popolo”. Del resto, l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha dichiarato che in molti paesi del mondo la canzone gode dello stesso rispetto che viene riservato agli inni nazionali. Meno acclamato dai critici fu il video di accompagnamento del singolo, che ritraeva Lennon e Yoko Ono a Tittenhurst e che fu liquidato da un critico come il “più costoso filmino amatoriale di sempre”. Eppure le immagini di Yoko che apre le finestre mentre il marito con gli iconici occhiali da vista rotondi canta e suona il piano sono comunque entrate nell’immaginario collettivo mondiale.

Canzone “di sinistra”? Sì, in qualche modo. Ancora Lennon: “Imagine, che dice: ‘ Immagina che non esistano più religioni, nazioni, o politici’, è virtualmente il manifesto del Partito comunista, anche se io non sono particolarmente un comunista e non appartengo a nessun movimento politico”. Al New Musical Express il grande songwriter la spiegò così: “Non esiste un vero stato comunista al mondo; bisogna capirlo. Il socialismo del quale parlo io non è quello messo in atto da qualche sciocco russo o cinese”.

Il senso della canzone, con quel testo grondante utopia, sta in fondo proprio nell’idea che se un mondo migliore si può immaginare allora lo si può anche costruire. “Prima di tutto bisogna pensare a volare, poi si vola. Concepire l’idea è la prima mossa”, spiegò Lennon. Che ad Alberino Daniele Capisani nel 1977 spiegò la cosa in questi termini: “La parola ‘ sognatore’ (“dreamer” nel testo, ndr) in questo caso non ha niente a che fare con il mio vecchio modo di intendere la fantasia. In ‘ Imagine’ il sognatore è l’uomo che spera, non l’uomo che si illude”.

Il brano come detto fu uno straordinario successo commerciale. Ma non solo. “Ima – gine” assunse in effetti lo status di inno. La rivista Rolling Stone l’ha posizionata al terzo posto nella classifica dei migliori brani musicali di tutti i tempi, scrivendo ( dopo gli attentati dell’ 11 settembre): “Or – mai è impossibile ‘ immaginare’ un mondo senza ‘ Imagine’, e ne abbiamo bisogno più di quanto credessimo, ora più che mai”. Nel 2005 gli ascoltatori di Virgin Radio la votarono al primo posto tra le canzoni preferite, nello stesso anno la Canadian Broadcasting Corporation l’ha nominata la più grande canzone degli ultimi cento anni.

Nella sua discussa e dissacrante biografia di Lennon, Albert Goldman definì “Imagine” “afflitta da un accompagnamento di pianoforte noioso quanto le esercitazioni di uno studente di musica e una parte vocale debole quanto un coro dei quaccheri”. Il mondo è bello perché è vario, in fondo. Quel che è certo è che cinquant’anni dopo l’incisione, “Imagine” re – sta un caposaldo della cultura popolare, non solo della musica ( merita almeno una citazione l’utilizzo della canzone nei titoli di coda del bellissimo e purtroppo un po’ dimenticato film “Urla del silenzio” del 1984 sul genocidio cambogiano) , con oltre duecento cover e una quantità infinita di esecuzioni dal vivo. Vi si sono cimentati tra gli altri i Queen, Joan Baez, Madonna, David Bowie, Stevie Wonder, Neil Young, i Guns ‘ n Roses e Lady Gaga, tanto per dare un assaggio della trasversalità dell’in – fluenza del brano di Lennon, che in quel 1971 riuscì a creare qualcosa che fosse ancora più famosa e popolare di “Yester – day”, la canzone beatlesiana per antonomasia firmata per convenzione anche da lui con Paul Mccartney ma tutta quanta farina del sacco del socio, praticamente da solista. E poiché l’amico- partner- rivale era sempre nei pensieri di Lennon ( che in quello stesso album incise la famosa “How do you sleep?”, velenoso attacco esplicito a Mccartney), John nel 1971 scrisse una lettera aperta a Paul pubblicata su Melody Maker in cui diceva tra l’altro che “‘ Imagine’ è una ‘ Working class hero’ con lo zucchero per i conservatori come te!”. Anche questo è amore.

Articolo di Salvo Toscano per il Foglio Quotidiano

BEATLES

BEATLES

A ottant’anni dalla sua nascita, Paul McCartney celebra John Lennon. Amici e rivali per sempre.

Forse davvero tutte le storie sono storie d’amore, come recita il celebre incipit di Robert McLiam Wilson. Certo lo è questa. La storia della coppia che segnò la più epocale svolta nella storia della musica popolare del Novecento. E chissà come sarebbe arrivata la coppia più bella del mondo a questo compleanno tondo, ottanta candeline sarebbero state il 9 ottobre per il signor John Winston, divenuto John Winston Ono per amore, nato nel 1940 quando i tedeschi cercavano di piegare l’Inghilterra a colpi di bombe. Chissà se lui e la sua “vecchia fidanzata” Paul sarebbero stati in una fase di down, magari condita da insulti cantati urbi et orbi, o piuttosto in un periodo di ritorno di fiamma, fatto di incontri privati e chiacchierate. Ne ebbero più d’uno, tra alti e bassi, incomprensioni e riavvicinamenti, come si conviene alle grandi passioni.

Per la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della nascita di John Lennon, Paul McCartney ha annunciato al mondo che pubblicherà un brano composto dai due vecchi soci, “Just fun”, per omaggiare il partner, ucciso quarant’anni fa a New York dallo squilibrato Mark David Chapman. Una notizia che ha scaldato i cuori dei beatlesiani doc quella dell’uscita di un pezzo Lennon-McCartney originale e inedito (l’ultima volta era successo nel 1995, col contributo di George Harrison e Ringo Starr). Un’ultima, ennesima puntata, di una lunga storia d’amore e di amicizia cominciata a Liverpool, nel Merseyside, nel 1957. All’epoca John Lennon aveva sedici anni, andava per i diciassette, suonava la chitarra da leader di una piccola band skiffle (il genere che andava per la maggiore nella Liverpool portuale dell’epoca), i Quarryman. Un amico comune, Ivan Vaughan, gli presentò il moretto mancino con gli occhi grandi, James Paul McCartney, classe 1942, due anni più giovane di John. Due anni, un nulla che nell’adolescenza però significa tanto per stabilire le gerarchie.

McCartney, innamorato della musica americana proprio come Lennon, aveva visto John e i suoi esibirsi in pubblico. Si propose per un “provino” voce e chitarra, eseguendo tra l’altro “Twenty flight rock”. John ne fu impressionato. E fu quel 6 luglio che tra i due ragazzini liverpudlians si accese una scintilla fatta di stima reciproca e senso di competizione, l’incontro di due mondi diversi, quasi perfettamente complementari, che fondendosi in uno generarono il songwriter perfetto, la formula più esplosiva nella storia della scrittura delle canzoni.

La morte delle rispettive madri nell’adolescenza fu un’esperienza comune che unì i due ragazzi. Julia, la madre di Lennon riapparsa dopo un periodo di allontanamento, fu investita da un ubriaco. Lennon nel 1968 le dedicò una struggente ballata. Mary, la madre di Paul, fu uccisa dal cancro. McCartney la ritrasse in “Let it be”, apparirgli come in sogno a invitarlo a non farsi abbattere dalle difficoltà.

McCartney si unì alla band, portò in dote qualche tempo dopo uno sbarbatello ancora più piccolo di lui, ma tanto bravo con la chitarra da sapere eseguire un assolo. Si chiamava George Harrison. Nel frattempo, però, qualcosa di grosso stava accadendo. John e Paul si erano messi a scrivere canzoni. A Lennon, che aveva una lieve dislessia, veniva quasi naturale inventare parole tutte sue per rimpiazzare i testi che faticava a memorizzare. Dapprima i ragazzi scribacchiarono qualche canzoncina ognuno per conto proprio. Poi, la leggenda vuole che un giorno, a casa di Paul, McCartney fece ascoltare a Lennon un rock and roll di sua creazione, con un testo super-adolescenziale: era “I saw her standing there”. E sempre la leggenda vuole che il primo verso cantato dal ragazzo mancino fosse “She was just seventeen, never been a beauty queen” (aveva solo diciassette anni, non era mai stata una reginetta di bellezza). E che a quel punto Lennon, con la sua faccia un po’ così e l’autorità del socio più vecchio, abbia storto il naso proponendo all’amico di cambiarla: “She was just seventeen, you know what I mean” (aveva solo diciassette anni, sai cosa intendo). Quel verso ammiccante convinse Paul. E nacque così il particolare metodo di collaborazione targato Lennon-McCartney. Non un paroliere e un musicista, ma due autori a tutto tondo che per lo più lavoravano così: uno dei due proponeva l’impianto del brano, l’altro lo aiutava a completarlo e migliorarlo portando il suo contributo. Spesso, componendo “eyeball in the eyeball”, palle degli occhi nelle palle degli occhi, avrebbero raccontato anni dopo i due, ricordando i pomeriggi a casa di Paul, non lontano da Penny Lane, come quello in cui vide la luce “She loves you”, che i due giovanotti fecero ascoltare eccitatissimi al padre di McCartney. “Bella, ma perché quello ‘yeah yeah’ così americano? Non potreste dire ‘yes’?”, obiettò McCartney senior.

Fu più o meno così che John e Paul divennero Lennon-McCartney. Firmarono tutte le loro canzoni con i Beatles, anche quelle che erano tutta farina del sacco di uno dei due e su cui l’altro socio non aveva messo mano. Come “Yesterday”, che solo anni e anni dopo Paul ottenne di vedere firmata almeno ”McCartney Lennon”. Amici, soci e genitori di una infinita serie di capolavori, John e Paul cementarono nei primi anni dei Beatles quell’amore fraterno che era fatto però anche di spirito competitivo. Se all’inizio la leadership di Lennon appariva più o meno evidente, bastò pochissimo al più giovane cigno per affiancarsi all’amico in una posizione paritaria, salvo divenire negli ultimi anni della band il motore principale del quartetto. Diversi, diversissimi, i due si completavano alla perfezione. Ironico, tagliente, istrionico ma pigro e un po’ indolente Lennon. Perfezionista e pignolo McCartney, con quell’innata vocazione alla melodia e al romanticismo ma capace anche di scatenarsi (con risultati eccelsi) sul rock, terreno più congeniale al socio. Si ammiravano a vicenda, pur dicendoselo il meno possibile. Racconta McCartney che solo una volta Lennon gli fece un complimento per una sua canzone, “Here there and everywhere”, la delicata ballata inserita nell’album del quartetto “Revolver”, anno 1966.

La collaborazione in certi casi lascia perfettamente riconoscibile il contributo dell’uno e dell’altro. Come in “We can work it out”, dove alle strofe ottimiste e propositive di Paul (“possiamo risolvere la situazione”, ripete a oltranza), fanno da controcanto (e in controtempo) gli incisi di Lennon: “La vita è molto breve e non c’è tempo per litigare”. O in “Michelle”, che a tutti pareva farina del sacco di Paul ma il cui celeberrimo inciso “I love you I love you I love you” fu composto da Lennon per completare la canzone “francese” incompiuta dell’amico, che a John piaceva tanto.

Amici e rivali, Lennon e McCartney arrivarono alla fine dell’avventura dei Beatles in un clima di liti e incomprensioni, che sfociò negli anni successivi allo scioglimento della band in clamorosi screzi pubblici. Paul inserì dei versi in una sua canzone da solista che Lennon comprese essere rivolti a lui e alla moglie Yoko Ono. John non gradì e reagì a modo suo, inserendo nell’album “Imagine” la spietata “How do you sleep”, in cui senza giri di parole attaccava durissimamente l’ex socio, dicendogli tra l’altro che l’unica cosa che aveva fatto era “Yesterday” e che la sua musica post Beatles alle orecchie di Lennon suonava come robaccia da filodiffusione nei supermercati. Cose da Lennon (ma Harrison suonò la chitarra nel brano, lo strascico delle liti da scioglimento era notevole).

L’amore è amore, però. E tutto perdona. Paul riuscì a superarla. Lennon diede una mano a modo suo, andando in tv a dire, rispondendo a una domanda su “How do you sleep”: “Se non posso fare una litigata col mio migliore amico, con chi posso farlo?”. E così, seppur dopo un po’ di tempo, pace fu. La coppia si ritrovò in California. McCartney e la moglie raggiunsero Lennon che si trovava in studio di registrazione, tra cocaina ed eccessi. Suonarono insieme, come ai bei tempi. Parlarono, si ritrovarono. Riallacciarono un rapporto che proseguì a spizzichi e bocconi: si telefonavano e quando Paul si trovava a New York, dove Lennon si era trasferito, i due trascorrevano

L’incontro di due mondi diversi, perfettamente complementari, che fondendosi in uno generarono il songwriter perfetto

Non un paroliere e un musicista, ma due autori a tutto tondo che per lo più lavoravano aiutandosi l’un l’altro

Arrivarono alla fine dell’avventura dei Beatles in un clima di liti e incomprensioni, che sfociò nello scioglimento della band

E’ una canzone “di una mia vecchia fidanzata di nome Paul”, disse John prima di attaccare il riff di “I saw her standing there”

qualche ora insieme. Una sera, mentre erano con le mogli al Dakota hotel, casa di Lennon, in tv un presentatore disse che offriva qualche migliaio di dollari ai Beatles se si fossero presentati in studio per una reunion. I due pensarono di andare, poi cambiarono idea. Peccato.

Mai e poi mai, anche quando un oceano li separò per anni, per John e Paul fu possibile scindere quell’ideale simbiosi che in qualche modo li rendeva una sola cosa. E sempre, negli anni del loro lavoro da solisti, a entrambi sembrò mancare qualcosa dell’ex alter ego. Quando nel 1974 Lennon salì a sorpresa sul palco del Madison Square Garden dove si stava esibendo Elton John per il giorno del Ringraziamento, la folla esplose in un delirio. Dopo “Lucy in the sky with diamonds” e “Whatever gets you thru the night”, Lennon si avvicinò al microfono e disse che lui ed Elton avrebbero eseguito un ultimo brano. E’ una canzone “di una mia vecchia fidanzata di nome Paul”, disse John prima di attaccare il riff evergreen di “I saw her standing there”, la canzone a cui da ragazzo aveva cambiato quel primo verso.

Paul ricambiò l’omaggio anni dopo, quando Lennon fu ucciso. La “vecchia fidanzata” scrisse una canzone per lui, “Here today”, un immaginario dialogo tra i due vecchi amici. Paul la esegue ancora in tutti i suoi concerti. Qualche volta gli scappa anche una mezza lacrimuccia. Racconta di sognarlo ancora il suo amico John. Chiacchierano come ai vecchi tempi. Continuano a parlarsi, da sessantatré anni. Come quel giorno di luglio del 1957 a Liverpool. La loro Liverpool. Quando McCartney trent’anni fa, nel 1990, suonò con la sua band nella sua città, all’improvviso, un po’ a sorpresa, disse che era il momento per un tributo a qualcuno che “noi amiamo”. Attaccò un medley memorabile, in sequenza “Strawberry fields forever”, “Help” (lenta, come l’aveva composta Lennon prima di accelerarla in studio) e “Give peace a chance”. Lennon, dieci anni dopo la sua morte, sembrò vivere sul palco accanto all’amico-rivale quel giorno nel Merseyside. Perché se tutte le storie sono storie d’amore, ce ne sono alcune che non finiscono mai.

Toscano Di Salvo , Il Foglio Quotidiano

I miti non possono steccare

I miti non possono steccare

Il quartetto negli anni d'oro del rock

I Beatles negli anni d’oro del rock

Il Mito è un morto vivente, ma non lo sa. Quando lo sa, sparisce, lascia foto e ricordi, uno stuolo di biografi ne alimentano il mito. Il Mito sa di non avere una biografia, ma un destino, e il destino, come diceva Walt Whitman, non può essere narrato, ma cantato. Allora, se ancora in vita, il Mito sparisce, perché sa di essere oramai un dettaglio, rifiutato dalla potente sintesi che il mito fa, oramai oggetto e non soggetto, patronimico scritto con la minuscola.

Queste cose nessuno le ha dette a Paul McCartney, l’unico dei Beatles ancora in circolazione. Oramai settantenne, si è presentato alla cerimonia di apertura delle olimpiadi londinesi, steccando dolorosamente.

Non hanno ancora inventato il botulino per le corde vocali e su twitter una fans disparata implora: per favore, ritirati!

Ottimo consiglio, ogni apparizione, magari magistrale e addolcita dai rimpianti fra palco e platea, non può aggiungere nulla, anzi sicuramente sottrae. E’ quanto è successo in questi giorni, sotto il cielo innaffiato di Barolo, per il Menestrello americano della seconda metà del 900, Bob Dylan; chi c’è stato non lo ha riconosciuto. Difetto di chi assisteva o dell’assistito?

Il mito non tollera aggettivi diminutivi, non tollera nemmeno aggettivi. Il mito ti vuole morto, perché sui morti si ricama meglio e le vaste pianure del tempo sono le praterie dei scrittori di polso e dei baritoni, per dirla gaddianamente (Carlo Emilio Gadda, non Mahatma Ghandi).

Il Mito, se ancora vivente,  c’è senza esserci,  amministra senza fare, asseconda nascondendosi.

Così da avvantaggiarsene fin che sta in mezzo a noi, non essendo interessato a quel al di là dove il mito già l’ha collocato. Magari un disco ogni tanto, un libro giovanile uscito da un baule, una registrazione creduta perduta, tutte cose queste assai corroboranti, e perciò redditizie per il Mito e per il mito.

Gli esempi non mancano, pensate a quella furbona di Mina che dal suo lago svizzero ogni tanto gorgheggia; i suoi articoli sulla Stampa ogni sabato sembravano dei necrologi, poverella non per colpa sua, ma per dato oggettivo. Per sollevare le vendite del giornale, il direttore non poteva che chiudere la mitologica rubrica, pur essendo di sicuro persona devota al Mito (non sto parlando dell’automobile della Fiat).

Pensate a quanto sarebbe utile se il vero senso del mito potesse prendere il sopravvento, entrare nella cultura delle masse, materialisticamente dialettiche, ispirare le classi dirigenti, dialetticamente ammassate o ammucchiate.

Pensate ai politici, a quelli che da trenta anni siedono ininterrottamente in Parlamento e ingombrano le reti televisive: eroici ed indefessi, Miti viventi, appunto.

Potessero sparire,  non esserci per essere nel mito, ritirati, non più al governo, ma solo evocati come i santi, illuminati, dopo tante tenebre, solo dai lumini dei tabernacoli o delle edicole.

In un solo colpo risolto il problema del ricambio generazionale. Ammàzzatelo! … la forza del mito!

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