CACANIA?

CACANIA?

Le discutibili tesi del matematico “impertinente e perfido”, come si definisce, Piergiorgio Odifreddi- Fra i tanti libri scritti, una critica matematica alla democrazia politica, in cui si afferma che la democrazia non esiste e non è mai esistita. Sul filo della ironia Odifreddi torna sulla uscita di Massimo Cacciari sul tema vaccini e ricorda la “insolita” editoria di Roberto Calasso, fondatore di Adelphi, deceduto in questi giorni. I due uniti, secondo Odifreddi, avrebbero reso traballanti le basi della scienza facendosi assertori di un “umanesimo nichilista”(?) derivato da Nietzsche.

Nei scorsi giorni la cronaca ha accomunato due intellettuali di rilievo del nostro Paese, il filosofo Massimo Cacciari e lo scrittore Roberto Calasso: il primo, per un suo improvvido intervento sul supposto totalitarismo delle misure anti-Covid, e il secondo, per la sua inaspettata morte, in coincidenza con la pubblicazione dei suoi due ultimi libri di memorie.

Piergiorgio Odifreddi

Benché casuale nei fatti, il collegamento tra Cacciari e Calasso è in realtà causale dal punto di vista culturale, e non solo perché il secondo è l’editore di una dozzina di libri del primo. Ad esempio, le vite di Cacciari e della casa editrice di Calasso affondano entrambe le loro origini nel pensiero di Nietzsche. Il primo ha dichiarato a un’intervistatrice del Corriere della Sera, che gli aveva domandato come mai non si fosse sposato e non avesse figli, che “bisogna aver letto Nietzsche per capire cosa significa dire di sì o essere padre” (whatever it means, commenterebbe il principe Carlo). Il secondo ha invece fondato, insieme a Bobi Bazlen, la casa editrice Adelphi proprio per pubblicare l’opera omnia di Nietzsche, rifiutata da Einaudi, e poi ha continuato a pubblicare “solo libri che ai due piacevano moltissimo”. Ora, non c’è bisogno di aver letto l’opera omnia di Nietzsche per sapere che uno dei suoi detti più memorabili e influenti per una certa cultura, che è appunto quella di Cacciari e Calasso, è: “Non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Detto altrimenti, la scienza non conta nulla, perché si basa appunto su fatti che non ci sarebbero, e conta solo l’umanesimo, che fornisce le interpretazioni chiamate “valori”. In particolare, le opere che i due intellettuali hanno scritto individualmente, e quelle che il secondo ha pubblicato editorialmente, costituiscono le “icone della legge” della religione antiscientista “alta” che impregna il mondo culturale italiano, e poi percola fino all’antiscientismo becero della massa di coloro che di libri non ne leggono nessuno, meno che mai quelli dell’Adelphi, ma trovano in Cacciari e Calasso la copertura per le loro superstizioni. Vedere, a riprova, l’uso che delle recenti uscite di Cacciari che è stato fatto sui social negazionisti del virus. Sia chiaro che non è qui in gioco la levatura culturale di Cacciari e Calasso.

Roberto Calasso (Photo by Elisabetta Villa/Getty Images)

Personalmente, io rimango ammirato sia dalla biblioteca del primo, che lui stesso ha mostrato in un episodio del programma La banda del Book di Rai5, facilmente reperibile su YouTube, sia dal catalogo dell’Adelphi, al quale io stesso ho attinto a mani basse nel corso degli anni. Il problema, a mio parere, non sta nel leggere i libri che Cacciari e Calasso hanno scritto o pubblicato, ma nel leggere solo quelli di quel genere, come fa una buona parte degli umanisti: cioè, nel credere che oltre all’umanesimo non ci sia nient’altro, o al massimo ci sia soltanto quella caricatura della scienza che alimenta una buona parte del (peraltro ristrettissimo) catalogo scientifico dell’Adelphi. L’astuzia editoriale di Calasso, che “infiniti addusse danni” alla cultura italiana, è stata di andare a cercare con il lanternino opere scientifiche borderline, che ben si sposassero con quelle dei filosofi e dei pensatori esoterici o new age che invece costituiscono il nocciolo duro delle pubblicazioni adelphiane.

Massimo Cacciari (AP Photo/Alberto Pellaschiar)

E così, mettendo fianco a fianco di ciarlatani come René Guénon o Elémire Zolla degli scienziati in libera uscita come il Pauli di Psiche e natura, il Capra del Tao della fisica, i Barrow e Tipler del Principio antropico o lo Zellini di La matematica degli dèi, l’Adelphi è riuscita a far passare l’immagine di una scienza con fondamenti metafisici traballanti e orientaleggianti, in perfetta sintonia con il pensiero indiano frequentato e praticato da Calasso stesso. Nella citata intervista televisiva Cacciari diceva di aver letto cinquanta volte L’uomo senza qualità di Musil. Ecco, se per un ingegnere l’Austria di un secolo fa era una Cacania, per le iniziali di Kaiser e König di Francesco Giuseppe, per uno scienziato anche l’Italia di oggi è una Cacania, per le iniziali di Cacciari e Calasso. Quest’ultimo giocò lui stesso più volte sulla propria iniziale nei titoli dei suoi libri, a partire da Ka, ma l’Italia rimane seriamente una Cacania culturale. E gli effetti si vedono e si sentono, purtroppo.

Articolo di Piergiorgio Odifreddi per la Stampa

IL ROMPISCATOLE

IL ROMPISCATOLE

S’INDIGNA MA NON MOLLA. E’ L’INASCOLTATO CHE TUTTI ASCOLTANO, IL KEPLERO DELL’ “IO VE L’AVEVO DETTO”, L’HEGEL DEL “MA LO VOLETE CAPIRE? E CHE CAVOLO!” CRONACHE DALL’OFFENSIVA MEDIATICA DI MASSIMO CACCIARI

Massimo Cacciari, classe 1944, è filosofo, politico, ex sindaco di Venezia e opinionista (LaPresse)

La puttanata, ovvero la fenomenologia dello spirito

C’è un termine decisivo che permette di comprendere la vita di Massimo Cacciari, di accedere all’opera del filosofo e del politico. In pratica, dell’uomo. Questa parola è “puttanata”. “La riforma di Renzi, fatta così, è una puttanata”; “il reddito minimo è una grande puttanata”; “dire che con Salvini sarebbe stata un’ecatombe, è un esempio di puttanata”. La “puttanata” è la sua fenomenologia dello spirito. L’occasione per celebrarlo non è solo lo speciale anniversario del suo esercizio, “il trentennale delle cose che Cacciari dice da trent’anni” (su Twitter è una campagna e un sorriso). E’ in atto un’offensiva televisiva, cartacea, radiofonica strepitosa che lo vede protagonista e che va rigorosamente raccontata. Ed è chiaro che meriterebbe almeno le 782 pagine – anche su questo si è verificata una disputa tra intellettuali (sono 782 o 800?) – la stessa quantità di quel prezioso documento che è la sua tesi di laurea sulla Critica del Giudizio di Immanuel Kant. Dal 1967 è custodita all’università di Padova e sul frontespizio c’è la più valida testimonianza che Cacciari non si può non collocare insieme ai grandi della speculazione.

Massimo Cacciari da giovane

Un problema di estetica: mai con Veronica Lario

Il suo posto non è a “La Confessione” di Peter Gomez su La Nove, ma con i suoi antichi maestri Sergio Bettini, Dino Formaggio, Antonio Banfi, vero riferimento negli anni della formazione con il testo “I problemi di un’estetica filosofica”. E’ stato il suo libro da comodino prima del telecomando, molti anni prima che diventasse lui stesso un media. Cacciari è infatti la prima multipiattaforma, un esempio di integrazione carta-tv-radio-web perfettamente riuscita e su cui non si è mai espressa l’Agcom. In un intervallo di pochi giorni, il suo essere e tempo è stato sviscerato con una furia e una completezza che non ha precedenti. Si può solo restituire una brevissima sintesi. Su YouTube, dove è possibile recuperare l’audio, ha chiarito – e spera in maniera inequivocabile – che non c’è mai stato un flirt con Veronica Lario. Con la stessa fermezza ha rivelato, a Repubblica, che l’unica maglia di calcio che ha indossato è quella di Kakà e che la sua prima partita è stata Milan-Pro Patria: “Fu amore per il Milan”. Da Lilli Gruber ha commentato l’azione di Matteo Renzi: “Le sue minacce sono fuffa, fuffa, fuffa. Mi interessa sapere come saranno spesi i soldi del Recovery”. A Radio Cusano Campus ha avvisato che Giuseppe Conte “ama molto il potere” e che Mario Draghi “non può venire a dirigere questa baracca con una maggioranza tanto fragile”. E su Raitre, a “Cartabianca”, dite un po’ voi come non poteva perdere la pazienza. La domanda era sul Natale. Come lo passerà? E’ il più abusato dei dispositivi di scena, la domanda intimità che sempre trasforma Cacciari, l’esplosione della bomba a raggi gamma.

Non mi tingo i capelli, giuro!

Ci sono argomenti che con lui non andrebbero mai toccati. I capelli che si taglia da solo e che non si tinge (“vi sfido a dimostrarlo”). La famiglia che non può avere perché lui ha letto Nietzsche “e maturato la consapevolezza di non poter fare il padre”. Non è il Natale a irritarlo ma che gli venga chiesto cosa farà a Natale. “Ma cosa vuole che faccia? Un’orgia? Un comizio? Un assembramento a piazza San Marco, a Venezia? Cosa?”. E’ la prima volta che qui si dice e non si creda sia superfluo farlo. Esiste tra Venezia e Cacciari, sua città di nascita, una corrispondenza incurabile come quella fra Heidegger e la foresta nera. La sua casa di San Tomà è la sua vera hütte e non solo perché rifugio-capanna dei suoi trentamila libri. L’altra casa è a Milano, sui Navigli, dove, assicura lui, “non ci sono assembramenti. Io ci abito. Basta!”. Nel libertinaggio, nel suo cambiare opinione si specchia l’acqua storta della laguna. Non si riuscirà mai a illuminare Cacciari se non si mette in relazione con l’instabilità della gondola, con la mappa labirinto di San Marco. Il 19 maggio 1994, in un’intervista a Sette del Corriere della Sera, aveva dichiarato: “Stia tranquillo che al Maurizio Costanzo show non mi vedrà mai”. Cinque mesi dopo si presenta al Maurizio Costanzo show con questa frase: “Se mi consente una citazione: virtus ipsa praemium est”. Dario Borso che ha scritto “Il giovane Cacciari”, un libro tanto confuso quanto simpatico, è convinto che tutto sia cominciato in quel preciso momento. Ma è vero? Ci si può accontentare di questa analisi? Il padre Piero faceva il pediatra. La madre Ermenegilda Momo, detta Gilda, lo ha cresciuto a uova sbattute in calle del Vaporetto, vicino la scuola dei Caleghèri, i calzolai. Del fratello Paolo e perfino del nipote, Tommaso, falegname no global, entrambi comunisti, si è ragionato abbastanza sui giornali locali. Litigano spesso fra fratelli, ma anche fra padre e figlio e zio. Cosa aspettano invece i ricercatori, gli studiosi, a dirigersi al liceo Marco Polo, il liceo dove Cacciari ha studiato? E’ possibile compilare una piccola storia di Venezia che è anche la storia della generazione di Cacciari e di tutte le utopie abortite, ma che hanno generato libri e azzardi indimenticabili.

Come ti stronco l’Ulisse di Joyce

Il compagno di classe di Cacciari è stato quell’erudito di nome Cesare De Michelis, editore della Marsilio, fratello di Gianni e, a sua volta, direttore della rivista d’istituto Il Volto. Si tratta del primo foglio di combattimento che ha ospitato le idee dell’adolescente e la sua dispersa rubrica Die Brücke. Ma la notevole, ai fini di studio, è “I Contemporanei”. A 17 anni, su quella colonna, Cacciari aveva già stroncato l’Ulisse di James Joyce perché “viene a mancare la chiarezza, il discorso logico e subentra la confusione, il gusto della frase che crei musica. E’ la degenerazione della funzione sociale dell’arte”. E sorprende come nessun quotidiano ci abbia ancora pensato, come nessuno abbia ancora deciso di ripubblicare le prime pagine anastatiche dei periodici fondati da Cacciari e associati. “Quaderni rossi” con Asor Rosa, Panzieri, Tronti e Toni Negri. E poi “Progresso Veneto”. Il trimestrale di estetica e critica “Angelus Novus” (bis con De Michelis”) “Contropiano”, “Laboratorio Politico”. Da due di queste, Cacciari si è dimesso: “Il Volto” e “Angelus Novus”. Con le altre si è esaurito il rapporto come con il Pci, partito di cui è stato parlamentare e iscritto dal 1969 al 1983. Non lasciatevi ingannare. Dietro tutti gli errori del mondo, secondo Cacciari, c’è la malinconia del fallimento, il broncio di chi non vuole giustamente invecchiare perché “tremo all’idea che mi parta il cervello”. Da studente ha fatto volantinaggio a Porto Marghera e ha rivendicato che il “tema della salute non se lo inventano né i magistrati né i verdi ma la giovanissima classe operaia di Porto Marghera”. Quindi lui. E’ stato sindaco di Venezia per tre mandati, alcuni suggeriscono quattro (“Paolo Costa era ritenuto la prosecuzione di Cacciari”). Alle ultime elezioni comunali anziché Pier Paolo Baretta avrebbe scelto la giovane Monica Sambo. E si sa come è andata: se solo lo avessero ascoltato… Se la sua unità di misura sono i trent’anni, significa che bisogna tornare indietro agli anni Novanta e che il solo modo per scrivere qualcosa di profondo è, forse, setacciare il suo cammino.

La Sinistra spara cazzate

Per un tempo, che non è poi tanto tempo, Cacciari è stato indicato come una soluzione, e non si può stabilire se definitiva, per la sinistra. Indro Montanelli lo voleva leader del Pds: “Una sinistra con Cacciari mi andrebbe bene”. Trent’anni dopo, sul Giornale di Montanelli, interrogato sul Pd, partito a cui ha creduto perché “questo è il tempo del Pd”, ha chiuso in malo modo i conti: “Da trent’anni la sinistra è un partito di vecchi catorci, da trent’anni spara cazzate. Hanno cambiato la flora (querce, margherite e ulivi) e la fauna. Il Pd, così com’è, deve sbaraccare”. Come non può piacere chi parla in questo modo? Spiega Guido Moltedo, il direttore di Ytali, una rivista internazionale, intelligente e veneziana, che “anche chi detesta Cacciari in realtà lo ammira. E’ l’antipatia che lo rende simpatico”. I libri li ha scritti, e davvero, e sarebbero la sua prima occupazione. Leggerli? Provateci. Qualcuno maligna che le traduzioni in inglese siano così belle addirittura più belle della versione in italiano. Da filosofo ha sempre demolito in maniera vasta e democratica e con la forza del suo lessico: “Ho vergogna di Salvini. Chi non si indigna è un pezzo di merda”. Il sogno di Cacciari è in verità demolire un altro Cacciari. E’ falso dire che rosica. A quel gigante che è stato Norberto Bobbio, ed erano gli anni di Berlusconi, gli anni in cui pure Bobbio, e sul Corriere, proponeva di “fermarlo democraticamente”, ha controbattuto: “Bobbio dice catalanate”. Intendeva Massimo Catalano, il pensatore di Quelli della Notte di Renzo Arbore. Quando i sindaci erano l’avvenire d’Italia, lui a Venezia, Bassolino a Napoli, Bianco a Catania, Orlando a Palermo, Rutelli a Roma, era a Cacciari che Massimo D’Alema si riferiva con l’espressione “sindaci cacicchi”. E l’impazzimento per lui doveva essere tale che ci fu chi lo paragonò addirittura al calciatore brasiliano Jair: “Le serpentine di Massimo seminano scompiglio sia fra gli avversari che fra i compagni”. In trent’anni, la destra lo ha sempre trattato da filosofo e la sinistra non lo ha mai sopportato perché con l’alibi del filosofo la impallina. Non ha mai nascosto di essere stato amico di Gianfranco Miglio e da trent’anni urla che la sinistra non sa dialogare con il capitale (come dargli torto) che ha dimenticato il Nord (verissimo). E’ in questa maniera che riesce a far dimenticare che la sinistra da trent’anni è lui. Con Giovanni Baget Bozzo avrebbe voluto fondare una rivista (ancora?). Un paragrafo lo merita la fondazione della facoltà di filosofia dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano insieme a Don Luigi Verzè perché “don Luigi ha fatto solo del bene”. Quando gli vogliono tirare fuori una cattiveria datata su Berlusconi (è del Cavaliere la battuta “sa che posso presentarla a mia moglie? Lei è più bello di Cacciari”) risponde: “Berlusconi non ha il profilo del criminale. Con le sue cene è stato solo un po’ cafone”. Ecco cosa ha detto invece, sempre in trent’anni, sui suoi compagni di strada. Prodi? “E’ un sociologo d’accatto. Di una banalità assoluta”. D’Alema? “E’ rimasto all’Ottocento”. Bersani? “Un tipino modesto”. Enrico Letta? “Uno debole”. Matteo Renzi? “E’ un capetto, un ducetto”. Di seguito quello che hanno detto di Cacciari i suoi ex compagni. Luciano Violante lo ha definito “un esteta della catastrofe”. D’Alema: “La foto di Cacciari è diventata sinonimo di disgrazia”. Premio menagramo. E con Walter Veltroni, mamma mia! Ha osato sfidare con la mostra del cinema di Roma quella di Venezia che era di Cacciari. La buona sorte ha voluto che non incrociassero le penne.

La politica mi annoia: uffa, che snob

Prima dell’effetto “io non sono stato comunista” che ha colpito molti di cui sopra, Cacciari aveva già consigliato di smitizzare Togliatti, Berlinguer. Di più. “Bisogna cancellare il ’68”. Per la verità aveva ingaggiato, e sul serio trent’anni fa, una interessantissima discussione intorno ai “tecnici” (vedete che alla fine ha ragione lui?) che ha coinvolto nientemeno che Pietro Ingrao. Allora il tecnico era ritenuto Cacciari mentre il politico era Ingrao che annusava già il tranello. Li legava solo il tennis. Cacciari appartiene ancora alla “sinistra tennistica” che è stata una corrente, ma politica: Aldo Natoli, Renzo Trivelli, Lucio Magri, Giuliano Amato, Stefano Rodotà. Uffa che snob. Ma non è questo il suo imperdonabile. Tra i suoi abbagli rimane infatti il “qui ci serve Montezemolo”. E come sarebbe stato bello se Cacciari avesse detto a Cacciari: “Ma cosa dice? Cosa dice!”. Nessuno lo ha mai visto guidare un’auto ed è un’altra caratteristica dei veneziani che sono uomini d’isola. Ci sono leggende sul suo loden, sulla sua cartella, da cui è inseparabile come Wittgenstein dal suo zaino. Ma ce ne sono pure sulle sue donne (“mai con le studentesse”). Nel 2000, quando venne sconfitto alle elezioni regionali da Giancarlo Galan, il Corriere titolò: “Cacciari tradito dalle donne”. La sua versione è radicalmente diversa e più credibile. “Da sindaco, dopo due mesi ero stanco. Volevo già lasciare. La politica mi stanca”. E si doveva giungere fino a qui per farvi partecipi di una verità compresa da Cacciari: “Io mi annoio”. “La società civile? Un esercito di infanti incapaci di arrangiarsi su qualsiasi vicenda umana e terrena. E io, da sindaco, rispondevo: ti faccio l’ordinanza, così smetti di rompermi le palle”. Lui si taglia i capelli da solo ma teme di rimanere solo con se stesso. Non vorrebbe vedere nessuno ma si mostra a milioni di italiani e da trent’anni ci consente, ogni dieci, di aggiornare, questo articolo su Cacciari che lo sapeva almeno da trent’anni. E’ l’inascoltato che tutti ascoltano. Cacciari è l’intramontabile rompiscatole di velluto.

Carmelo Caruso, Il Foglio quotidiano

NON L’HA PRESA CON FILOSOFIA

NON L’HA PRESA CON FILOSOFIA

Il filosofo Cacciari all’HuffPost: “Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così. In queste condizioni. Il governo non è stato ancora capace di articolare un discorso oltre lo state-tutti-a-casa. Io capisco i medici: è il loro mestiere. Il lavoro dei politici è diverso. Cosa stanno aspettando a darci un piano per la ripresa?”

Massimo Cacciari:

La condizione è instabile: “Leggo malissimo, scrivo con difficoltà, non mi concentro. È una situazione angosciante. Lasci stare le puttanate che raccontano i nani e i ballerini della televisione. Chi può stare bene a casa? Che fantasie idiote sono mai queste? Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così. In queste condizioni, la casa è un inferno”. Il filosofo Massimo Cacciari non è uno di quelli che l’hanno presa con filosofia. Anzi, detesta l’idea del pensiero addolcito in caramelle di saggezza da regalare a grandi e piccini per tranquillizzare le loro notti insonni. In più, appena timidamente accenni alle meditazioni sulla pandemia che stanno facendo alcuni suoi colleghi, per i quali il mercato non sarà più come prima, nemmeno lo stato sarà più come prima, sapessi poi l’uomo, e la donna, e le relazioni, e la natura, mette subito le cose in chiaro: “Senta, non ho nessuna voglia di far filosofia. Intesi? Questo è proprio un vizio da intellettuali alla moda: prendere qualsiasi cosa accada nel mondo e interpretarlo come una svolta della storia; immaginare cumuli di macerie ovunque e salirci sopra per annunciare che ‘è finito questo’, ‘è finito quello’, compiacendosi di essere i primi esegeti di una svolta epocale. Per carità”.

Per orientarsi nell’avvenire, Cacciari srotola nella conversazione la mappa del presente: “La storia non ha fini. Non ci attende la terra promessa, né il suo rovescio, che è la catastrofe. Questa crisi irrompe nel mezzo di un processo già in atto da tempo e ne accelera straordinariamente i tempi. Aumenta la velocità con cui il sistema tecnico-scientifico si muove verso il centro della scena del mondo, liquidando la funzione preminente della politica e riducendo la spazio dell’autonomia del politico. La tecnica e la politica diventano un tutt’uno. Non si può dare l’una senza l’altra. Basta guardare come stanno gestendo la crisi tutti i Paesi del mondo. I capi di stato e gli scienziati: gli uni accanto agli altri”.

Tutto è fermo tranne che la storia?
C’è chi pensa che l’arresto a cui ci ha obbligati il contagio sia un punto di svolta che può rifondare tutto, farci tornare sui nostri passi, immaginare un altro mondo possibile, costruire tutto daccapo. È un’illusione ottica. Siamo noi che ci siamo fermati, non i processi dentro cui siamo immersi da anni.

Non c’è niente di traumatico?
Il trauma è un evento imprevedibile che ci tormenta ripetendosi nell’inconscio. Un contagio globale, invece, era nell’ordine del possibile. E, soprattutto, non è un incubo. È la realtà. Per comprendere il capitalismo, è più utile leggere Schumpeter che Freud. Il capitalismo è crisi. È distruzione e creazione. È contraddizione: discontinuità nella continuità. È conflitto. Salti improvvisi, movimenti forsennati, squilibrio. Non ha niente della serena linea retta con cui molti si figurano il movimento della storia.

Lo potremmo paragonare all’undici settembre?
Non è un evento che va letto nel breve periodo: la paura di prendere l’aereo, come accadde allora, oppure la paura di avvicinarsi all’altro, come dicono alcuni ora. Ci sarà una strepitosa accelerazione verso il capitalismo politico e una riduzione ai minimi termini degli spazi di rappresentanza della democrazia tradizionale. Se i nostri sistemi liberali non saranno capaci di salire all’altezza delle sfide di questo tempo, riorganizzando la propria vita completamente, la pagheranno cara. Lo stato d’eccezione permanente spinge verso il decisionismo. Il modello cinese si potrebbe imporre su scala mondiale.

Può cambiare il segno della globalizzazione?
È un’ipotesi realistica. La globalizzazione è nata sotto la spinta degli Stati Uniti d’America. Oggi la Cina può diventare la nuova protagonista. È l’unico paese che si trova nella posizione di mettere in campo un colossale piano di ristrutturazione. Possiede parte del debito americano, e del nostro. Viceversa, nessun paese occidentale controlla il debito cinese. Ecco perché potremmo assistere a una grande svolta geopolitica.

Donald Trump

Perché usa il condizionale?
Perché la partita è aperta. I capitalismi politici sono diversi. C’è quello cinese, quello russo, quello americano. I caratteri sono molteplici. La competizione tra loro, violenta. La crisi accelererà anche il confronto tra di essi. Capiremo quali tra questi spazi imperiali ha le armi per affermarsi.

L’Europa è fuori gioco?
L’Europa è un microbo in questo scenario planetario. Il fatto che nemmeno di fronte a una situazione del genere abbia trovato la forza di reagire in maniera unitaria – dopo l’avvertimento della crisi dei debiti sovrani e dopo l’allarme della crisi migratoria – dimostra che non ha più cervello. L’Europa che si aggrappa alla difesa dell’avanzo commerciale tedesco, oppure all’autonomia di uno stato semi canaglia come l’Olanda, uscirà dalla crisi in una posizione ancora più subalterna, e si candida ad affidarsi alla benevolenza di questo o quell’altro impero.

Vacilla anche il suo europeismo?
Se le cose continueranno ad andare così, sarò costretto anch’io a piangere sulle mie giovanili utopie e metterci una croce sopra.

Ma allora perché ha giocato tutti i suoi risparmi su Conte, che è uno dei più deboli nella debole Europa?
Perché se Conte fallisse, perderei comunque tutto. Il paese si sfascerebbe. Andremmo a nuove elezioni. Lo spread schizzerebbe a seicento punti percentuali. Esploderebbero conflitti sociali laceranti. Ecco l’illusione di Renzi e Salvini: credere che sia il momento di tirar fuori Draghi. Sono fuori tempo. I Draghi nascono dalla catastrofe di questo governo e da un appello disperato di Mattarella. Ora, è il momento di prepararci a una manovra finanziaria tremenda, sul modello di quella fatta da Giuliano Amato negli anni novanta. Se non saremo in grado di farla, senza casini, franerà tutto.

Riaprire potrebbe aiutare?
Il governo non è stato ancora capace di articolare un discorso oltre lo state-tutti-a-casa. Io capisco i medici: è il loro mestiere. Il lavoro dei politici, però, è diverso. Dovrebbero disegnare uno scenario. Dire: “Adesso la situazione è questa. Ma noi abbiamo un piano per la ripresa. O, almeno, ci stiamo lavorando. Le modalità saranno le seguenti. Prima partirà questo. Poi, quello. Ovviamente, con tutte le misure di sicurezza necessarie”. Un paese non può sopravvivere a lungo se rimane chiuso. È la realtà. Si muore di coronavirus. Ma senza lavoro mi posso ammazzare. Cosa stiamo aspettando? Che non ci sia più un contagiato? Un morto? Che le rianimazioni siano vuote? Qual è l’orizzonte? Ecco cosa non è chiaro.

Giuseppe Conte e Xi Jinping

C’è chi ha detto che si è ricomposta la frattura tra popolo ed élite.
Che barzelletta è mai questa? È naturale che nella bufera ci sia affidi al comandante in capo. Ma lei pensa che gli italiani abbiano ritrovato improvvisamente la fiducia nella politica? Obbediscono perché glielo dicono i medici. Appena la situazione cambierà, anche solo di una virgola, quando i problemi saranno di nuovo di scelta politica ed economica, vedrà come tornerà lo scontro, vedrà.

Lei dov’è, ora?
A Milano.

Allora non ha potuto vedere il mare di nuovo blu della sua Venezia.
Però ho potuto sentire quelli che lo raccontano sospirando, e vorrebbero che la città fosse sempre così.

E cosa ne pensa?
Che, come vede, non c’è nessuna rottura nella storia. Le teste di cazzo sono rimaste proprio uguali, identiche a com’erano prima del Coronavirus.

DO CIACOLE CON CACCIARI

DO CIACOLE CON CACCIARI

DO CIACOLE CON CACCIARI–  L’ESASPERATO CONSERVATORISMO DELLA SINISTRA NEI RICORDI DEL FILOSOFO VENEZIANO- LA RIFORMA CREA DANNI ED E’ AUTORITARIA? BALLE! PER 40 ANNI ABBIAMO TENTATO DI CAMBIARE LA COSTITUZIONE E NON CI SIAMO RIUSCITI. LA STRADA DELLA GRANDE RIFORMA E’ COME UN CIMITERO COSTELLATO DAI NOSTRI FALLIMENTI-AL REFERENDUM VOTO SI’ PER RESPONSABILITA’. 

 

 

Professor Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all’opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all’ultimo sangue sul referendum?

«Devo essere sincero? C’erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant’anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella».cacciari

 Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?

«Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch’io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall’altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani.

 Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico ».

Di cosa avevate timore?

«Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori».

Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?

«Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all’economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell’Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica».

Come mai quell’idea non ha funzionato?cacciari1

«Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati.

Dibattiti tanti, convegni dell’istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia».

Per la paura comunista, dall’opposizione, di rafforzare l’esecutivo?

«Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l’esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico.

Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi».

Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?

«Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d’inchiesta all’americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un’autorità quasi da tribunato».

Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E’ questa la riforma che vorrebbe?

«Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E’ quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole».

Non è quello che denuncia Zagrebelsky?cacciari2

«E’ quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica? ».

E’ esattamente l’accusa che viene rivolta dal fronte del “no” alla riforma del Senato, non le pare?

«Esattamente proprio no. Manca l’autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d’atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n’era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell’Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant’anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche».

Quali?

«Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente».

E dunque per questo – mi ci metto anch’io – dovremmo stare zitti?

«Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra.

La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D’Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient’affatto federalisti .

 Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?

«Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale.renzi-bersani

 Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente ».

 Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?

«La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall’altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall’altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo? ».

Anche lei prigioniero del “non c’è alternativa”?

«No, io so cosa c’è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all’insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo? ».

Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?

«Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C’è una teoria della cosa, si chiama il “male minore”. D’altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele».

E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?

«Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all’effetto che avrebbe sull’opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel “no”: chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio».

Sta dicendo che rifiuta il “no”?

«Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del “no”, non il tono e l’impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni».

Dunque?

«Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana ».

Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia. Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?

«E’ inutile girarci intorno, è Milano che decide l’intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi».renzi1

E a sinistra?

«Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze».

Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l’Austria e con tutta l’Europa di mezzo?

«Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com’è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l’Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer ».

E’ colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?

«E’ colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l’identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente».

Intervista a cura di Ezio Mauro per La Repubblica

 

 

DO CIACOLE CON CACCIARI

Sono geloso di Massimo Cacciari

Pubblico il gustoso pezzo di Alfonso Berardinelli, apparso sul Foglio alcuni giorni fa. Conobbi Cacciari quando era sindaco di Venezia, poco prima che nel 1996 un disastroso incendio distruggesse il teatro La Fenice, triste episodio destinato a segnare la sua prima consiliatura. Qualcuno prese a chiamarlo corvo nero, per via dei capelli e barba corvini, indefettibili.

Massimo Cacciari, filosofo e politico veneziano

Massimo Cacciari, filosofo e politico veneziano

Fu durante una affollata assemblea politica, quando Cacciari, forte del seguito personale e annusando l’aria che tirava, pareva intenzionato a fare un suo movimento politico, affrancandosi dalla vecchia sinistra. Ma subito mi resi conto che Cacciari non aveva nessuna voglia di staccarsi dalla laguna. Troppo lavoro e troppo rischio. Cacciari mi è sempre stato simpatico perché vedevo in lui un irregolare, insofferente alle nomenclature e agli omaggi rituali a quel modo di fare che venne poi chiamato “politicamente corretto”. Strano che oggi sia proprio lui ad accusare Renzi di avere la vocazione del senza partito! Che Renzi abbia avuto il coraggio di fare ciò che a lui non riuscì?

Il ritratto che Berardinelli fa di Cacciari è gustoso, la penna è intrisa nel veleno quanto basta. Forse trascura un pregio di Cacciari: l’autoironia sotto traccia e lo sguardo cinico e romantico, ad un tempo, che il filosofo veneziano manda sul mondo, in cui si sente molto della sua natura di uomo lagunare, un poco stracco e caudale.      

Sono geloso di Massimo Cacciari, filosofo necessario a tutti.

Esistono in ogni momento culturale, che può durare un anno o dieci, certe figure di spicco da cui non si può prescindere, a cui non si sfugge, che non bisogna mancare, se si è interessati a capire l’aria del tempo, l’aria che tira, il tempo che fa, i sogni, i bisogni, le superstizioni e le manie di chi frequenta l’ambiente cultura.

Il critico Alfonso Berardinelli

Il critico Alfonso Berardinelli

In questi tempi o soltanto mesi, di vuoto, di confusione, di inutile affollamento, di mancanza di criteri e di valutazioni condivise e fondate, non si può evitare di considerare, almeno per qualche minuto, una figura da tempo nota, un tipo nato per trovarsi sempre in prima fila, ma che da alcuni mesi, a quanto pare, in prima fila è il solo a farsi veramente notare e di cui non si riesce a fare a meno. In politica, in filosofia, in teologia, in teologia politica, in qualunque arte, Massimo Cacciari non può mancare e colma sempre un vuoto. Gode di questo privilegio. Nonostante la sua perenne e misteriosa aria di superiorità, lui va dovunque. Anzi va dovunque proprio per questo: per la sua aria di superiorità. Come dire? Cacciari “fa superiorità”. Fa l’impressione di elevare il livello di cultura di qualunque talk-show con il suo semplice e fisico manifestarsi.

Quando non si sa chi invitare si invita Cacciari, quando non si sa chi intervistare si intervista Cacciari, quando non si sa chi premiare si premia Cacciari, quando non si sa di chi parlare (come me in questo caso) si parla di Cacciari, che è sempre a portata di mano e pronto a fare la sua parte.

Dovunque presente, “ubiquo ai casi” come il commissario Ingravallo di Carlo Emilio Gadda, factotum e naturale showman, Cacciari è la più bella maschera filosofico-politica che il carnevale di Venezia abbia regalato alla commedia mediatica italiana. Cacciari è appagante e gli si fanno volentieri i più ammirati complimenti, sicuri di non sbagliare. A fargli i complimenti ci si eleva.

In questi ultimi mesi l’apoteosi ha toccato limiti forse insuperabili. Da quando si è accesa in cielo la stella di un filosofo teologico-politico come Giorgio Agamben, con la sua recente ma scintillante fama internazionale, anche non volendo Cacciari è costretto a marciare in salita. Ma c’è sempre qualcuno che lo aiuta: a volte la televisione, a volte l’accademia. Senza mettere insieme queste due cose non c’è modo di recuperare lo spazio perduto. Se poi ci si aggiunge un poco di politica da professore televisivo, ci si può sentire ancora irresistibili.

In quanto irresistibile, Cacciari mesi fa è stato anche premiato come eminente filologo classico all’Università di Bologna: proprio lui che manca della probità e dell’umiltà indispensabili al filologo, dato che riesce a malapena a distinguere fra quello che hanno scritto i filosofi letti un momento prima e quello che ha pensato lui di testa sua. Come filosofo, Cacciari prevalentemente cita o criptocita. Di solito lui cita senza precisare la fonte, nello stile del “pastiche” involontario.

Ma oltre che filologo classico, Cacciari è anche critico militante, critico di poesia contemporanea: è stato invitato a Milano a presentare l’opera poetica completa di Giovanni Raboni, appena uscita da Einaudi. Il che dimostra a quale grado di miserevole irrilevanza pubblica è arrivato lo specifico mestiere di critico letterario. Il critico letterario nessuno lo vuole, fa tristezza.

Dal punto di vista della resa televisiva Cacciari, che da Venezia, sua polis, non si muove, può contare su altri vantaggi. Non è lì in studio a confondersi con gli altri invitati. Lui compare e campeggia su tutti manifestandosi dal maxischermo. Non è una furbizia. Procurarsi vantaggi sugli altri gli viene naturale. Come quando parla di filosofia, procede per istinto, non ha neppure bisogno di pensarci.

In questo periodo uno come lui ha un inciampo: è Matteo Renzi. Infatti Cacciari ha dichiarato (scendendo di livello) che detesta Renzi. Ha capito bene che quel “ganzetto” toscano è impermeabile alla filosofia e quindi al suo magnetismo di filosofo insondabile, tipico e per antonomasia. Renzi non è un decisionista teologico-politico alla Carl Schmitt (su cui Cacciari gli farebbe volentieri una lezione), è invece un decisionista pratico, che per decidere fa prima a parlare che a pensare.

A Cacciari va comunque riconosciuto un primato. Come icona e parodia dell’intelligenza ha raggiunto la perfezione. A settant’anni ha una bellissima capigliatura nera e soprattutto una barba da filosofo greco sempre ugualmente nera da quarant’anni, che funziona da maschera. Il vero volto di Cacciari, il suo volto intero, nessuno può dire di conoscerlo. Quella barba è buia e fitta come una selva di citazioni. In ogni discussione, poi, si mostra impaziente e annoiato. Inclina il viso, alza il sopracciglio. Noi italiani troviamo irresistibili le maschere. Guai a chi non ne indossa una. Per avere un’identità chiara bisogna essere mascherati. La folta e imponente barba di Marx, i folti e tragici baffi di Nietzsche devono avere suggestionato molto il giovane Cacciari, che ha deciso di farne uso anche lui. Con il viso così celato, il filosofo con il piede in due o tre staffe acquista il vantaggio di esibire il suo io senza svelarlo. In un tale filosofo l’io che parla è simultaneamente esibito e abolito. E’ un Io superiore che si autotrascende ogni volta che appare.

Rispetto a un individuo così notevole e che tutti notano, gli altri intellettuali italiani, nessuno escluso, sembrano schivi e appartati, discreti, gentili e poco visibili. Perfino Eco, Sanguineti e Arbasino, nel confronto fisico con Cacciari non ce l’hanno fatta. Le sue carte vincenti, le ragioni per cui si comprano i suoi libri senza riuscire a leggerli (nessuno è mai stato capace di recensirli), sono le carte che in Italia hanno il massimo punteggio: la politica (uno spettacolo e un vizio nazionale) e la filosofia (un ipnotico feticcio). Cacciari parla di piccola politica come se parlasse filosoficamente di una Grande politica, che nel nostro piccolo paese non c’è mai stata. Sì, va detto, qualche volta Cacciari esprime pareri politici sensati, che però avevamo già sentito parlando con il vicino di casa o con il tassista. La cosa ovvia lui non la dice come se fosse ovvia per tutti, ma come se fosse ovvia solo per lui che la dice e l’ha capita prima. Il quid che rende unica la recita del nostro uomo è questo solo tono, questo solo tema: “Io ho capito in anticipo quello che voi non capite neppure in ritardo. Perciò che ci sto a fare io qui con voi?”. Eppure sta lì. Non se ne va. Anzi torna. E’ sempre pronto a tornare. Basta chiamarlo.

In conclusione. Sono forse geloso di Cacciari? Non me ne ero accorto, ma forse chissà. Chi ci tiene, lo pensi. Perché a me no e a lui sì? Già, perché no? Se mi invitano in tv (raramente è successo) dico di no. Non mi ci sento, non vengo bene. Se mi volessero premiare come filologo, direi di no perché non sono un filologo. Lui non è un filologo, però si fa premiare come se lo fosse. Se mi avessero invitato a presentare le poesie di Raboni, avrei detto di no, perché come critico letterario potevo anche criticarlo. Cacciari ha detto di sì, anche se Raboni non lo aveva mai letto. Chissà che cosa è riuscito a dire. Avrà parlato di Raboni come Heidegger parlava di Hölderlin, altri argomenti non ne conosce.

Sembrare severi, amare il “pensiero negativo” e dire sempre di sì. Ah, questo è il segreto.

Contact Us