GILLO RACCONTA LA SUA AVVENTURA

GILLO RACCONTA LA SUA AVVENTURA

 

In fondo c’eravamo tutti convinti che fosse diventato immortale e che, in qualche modo, avesse trovato il segreto della vita eterna.

Poco più di un mese ci separa della morte di Gillo Dorfles. Avevamo in serbo di ricordarlo ancora in vita con questo articolo.Ma non gli dispiacerà leggersi da lassù in questa bella intervista, rilasciata da Gillo a Corrado Beldì nel febbraio del 2016. Buona lettura. 

(AP Photo/Alberto Pellaschiar)

“…. la data che abbiamo atteso di più, è quella di oggi: il 12 aprile 2016 Gillo Dorfles compie centosei anni. Non lo scriviamo in cifre per pudore, ma soprattutto perché non li dimostra affatto. Nato nel 1910, Dorfles è il gran giovane della Milano creativa, l’allegro fustigatore, l’amico di Fontana, il pittore senza macchia, il cantore del kitsch piccolo borghese, l’immancabile presenza alla Scala, l’uomo che ha attraversato il secolo breve con incredibile vigore, tra mille incontri che hanno dell’incredibile, da Italo Svevo alla redazione di Zero.

Quali sono i suoi primi ricordi di Milano?
Risalgono a più di 100 anni fa, effettivamente. Quando avevo tre anni e la mia bisnonna era proprietaria di quel palazzo con quattro colonne in corso Venezia, al numero 36. L’edificio era stato costruito dal mio prozio. Venivamo a trovarla da Trieste e restavamo ospiti a Milano per qualche giorno. Ricordo le passeggiate sulle sponde del Naviglio.

Cosa ricorda della Prima Guerra Mondiale?
Quando scoppiò la guerra avevo cinque anni. Ricordo il giorno in cui partimmo da Trieste, con mia mamma, per riparare a Genova. Tutta la città era imbandierata a festa, con drappi e stendardi asburgici, color giallo e nero. Da quel giorno, sono due colori che mi piacciono moltissimo!

Quando si è trasferito a Milano?
Sono arrivato nel 1928 per iscrivermi all’Università Statale, corso in Medicina e specializzazione in Psichiatria. Mi sono laureato però, per fortuna dei pazzi, non ho mai professato…

Ernesto Nathan Rogers

Com’era la Milano di allora?
Era una Milano molto più piccola, direi più famigliare. Solo successivamente Milano è diventata una metropoli, senza tuttavia diventare mai troppo aggressiva. Milano ha una sua eleganza. Un suo rispetto per le persone. Fin dal principio mi sono sentito a mio agio, grazie ai parenti ma soprattutto all’amicizia con Ernesto Nathan Rogers.

Conosceva Rogers fin dall’infanzia, vero?
Rogers era triestino e ci eravamo conosciuti da bambini: aveva solo un anno più di me. Il padre aveva trasferito la famiglia a Milano qualche anno prima. Grazie a lui conobbi subito il giro degli architetti milanesi a partire dai fondatori di BBPR, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peresutti, Gian Luigi Banfi e poi Luigi Figini e Gino Pollini.

Teatro Alla Scala, scorcio con palco reale

Che personalità aveva Rogers?
Era un uomo simpatico e molto, molto socievole. Aveva anche cercato di imparare a dipingere prendendo qualche lezione da Anselmo Bucci. Purtroppo Ernesto era piuttosto negato e per fortuna ha decise di dedicarsi anima e corpo all’architettura.

Lucio Fontana, di spalle nel suo studio a Milano

Come è entrata l’arte di Milano nella sua vita?
Innanzitutto andando al Cenacolo. Il Cenacolo è Milano. Poi ricordo che mi colpì moltissimo il Castello Sforzesco, non parlo delle collezioni ma dell’architettura. Però, soprattutto, sono stato molto fortunato perché conobbi subito Lucio Fontana e Fausto Melotti, tra i più importanti artisti della Milano tra le due guerre e non solo.

Lucio Fontana, concetto spaziale, la fine di Dio

Lucio Fontana è stato l’amico di una vita.
Ci vedevamo molto spesso. Quando lo conobbi studiava con Adolfo Wildt all’Accademia di Brera. Eravamo molto amici. Mi ha anche regalato tre quadri. Vede quello rosa? Anche quello nero nell’angolo. Fontana aveva una personalità molto esuberante: era l’esatto contrario di Fausto Melotti.

Melotti aveva una grande passione per la musica
Certamente: sua sorella Renata era musicista e anche il marito Gino Pollini suonava il violino. Fausto Melotti aveva vasti interessi ed era un uomo molto più sofisticato di Fontana. Insieme abbiamo visto tantissimi concerti. Fausto poi era attivissimo con la sua piccola industria di piastrelle di ceramica disegnate e prodotte da lui.

Dove andavate ad ascoltare musica?
Mi sono subito associato al Giardino ma soprattutto alla Società del Quartetto e poi ovviamente andavo alla Scala. Mio suocero Giuseppe Gallignani, compositore e direttore d’orchestra, nato a Faenza nel 1851, era direttore del Conservatorio di Milano, era stato molto amico di Verdi ed era amico fraterno di Arturo Toscanini. Morì quando mia moglie Lalla era molto giovane e Toscanini divenne il suo tutore. Con Lalla, diventai subito uno della famiglia e andavo spesso dai Toscanini nella casa di via Durini.

Che personalità aveva Arturo Toscanini?
Era un uomo molto gentile, Lalla era la sua figlioccia. Spesso andavamo a trovarlo all’Isolino di San Giovanni sul Lago Maggiore che era della loro famiglia. Si andava in motoscafo e si faceva il bagno nel lago. Erano delle bellissime estati.

Che ricordi aveva suo suocero di Giuseppe Verdi?
Certamente moltissimi episodi, è un po’ come se lo avessi conosciuto anch’io. In particolare aveva una enorme quantità di lettere scritte dal Maestro, lettere che poi mia moglie ha regalato al Conservatorio. Molte del tempo in cui Giuseppe Verdi era ancora a Parma. Peccato: ora nessuno le vede, invece se le avessimo conservate potrei fargliele leggere proprio qui, ora, su questo tavolo.

Che concerti ricorda di quegli anni?
Degli anni trenta ricordo il ciclo di concerti wagneriani diretti da Toscanini alla Scala, soprattutto I maestri cantori di Norimberga e poi il Sigfrido e Lohengrin. A quei tempi Richard Wagner era piuttosto di moda, diciamo in piena fioritura. Poi ricordo molto bene i concerti di Vladimir Horowitz non solo al Quartetto ma anche a casa Toscanini, per chiudere in bellezza delle belle cene in compagnia. Sempre con Verdi e Wagner al centro di ogni cosa.

H. Matisse: nudo disteso di schiena

Henry Matisse

Quali sono invece i due artisti visivi del Novecento di cui non si potrebbe proprio fare a meno?
Pablo Picasso e Henri Matisse. Sono stati i veri maestri. Tutti gli altri li hanno un po’ copiati, in un modo o nell’altro. Hanno messo fine, finalmente, alla pittura di ritratto e di paesaggio.

In quegli anni, si sentiva ancora l’influsso dei futuristi?
Non molto: Umberto Boccioni era morto negli anni della guerra e altri avevano cambiato pittura. Ho avuto modo di conoscere molto bene Fortunato Depero ma soprattutto Giulia Villa, la madre di Mario Sironi, una signora assai vivace che nella sua casa aveva moltissimi mobili futuristi. Ovviamente, ho conosciuto bene il vecchio Giacomo Balla.

Giacomo Balla

Cosa facevate la notte?
Si usciva molto ma spesso ci ritrovavamo proprio nello studio BBPR con Ernesto Rogers e gli altri. Era un po’ un punto di ritrovo dove si invitavano architetti, storici del design e letterati da tutta Europa. Ricordo Sigfried Giedion da Zurigo ed Herbert Read da Londra. In quegli anni, ho conosciuto anche Giuseppe Terragni.

Andavate anche per locali e trattorie?
Certamente! Ho sempre frequentato moltissimo Brera. Ricordo un ottimo ristorante in via San Simpliciano, che ora purtroppo non c’è più. Poi mi piacevano moltissimo le trattorie che affacciavano sul Naviglio, per delle belle serate in compagnia. Devo dire, tuttavia, che la vita notturna in quegli anni a Milano era piuttosto scadente.

Ora è cambiata, secondo lei?

Giacomo Balla: compenetrazione irridescente

Beh, certamente è migliorata… Che ricordi ha della Seconda Guerra Mondiale?
Lasciammo da Milano per rifugiarci nelle nostre campagne, in un borgo vicino a Volterra. Passai tutta la guerra in campagna. Ci furono vittime e feriti perché il villaggio fu bombardato e distrutto per due volte: prima dai tedeschi, che lo conquistarono e stabilirono il comando militare in una parte della nostra casa, poi dagli inglesi che presero posto negli stessi locali. Alla fine della guerra il villaggio era completamente scoperchiato. Mio padre, che era ingegnere, riavviò una fornace abbandonata e contribuì a ricostruirlo. Allora, finalmente, tornammo a Milano.

Gualtiero Marchesi

Come è cambiata Milano nel dopoguerra?
Finalmente è diventata una metropoli e non più solo una brigata lombarda. Dal punto di vista artistico, Milano ha presto superato un gusto un po’ rétro per la pittura fin de siècle e post impressionista. Penso ad Arturo Tosi e Alberto Salietti, che in fin dei conti erano dei pittori mediocri, eppure piacevano molto alle famiglie borghesi.

Cosa le piaceva o le piace mangiare?
Guardi, io sono sempre stato molto ghiotto e mangio tutto, ad esempio mangerò con molto piacere quello che mi ha portato (n.d.r. salame e cioccolatini). Ieri sera ho cenato con Gualtiero Marchesi (morto nel dicembre del 2017 ndr) e gli ho raccontato che mi piace molto la pastasciutta con lo zafferano. Dice che presto mi inviterà a cena da lui…

Dove andavate in quegli anni la sera e cosa vi piaceva bere?
Si andava molto per gallerie ma il vero porto di ritrovo era il bar Jamaica, sempre in compagnia. Si bevevano diverse cose a seconda delle occasioni. Io ho sempre preferito il vino, in particolare mi piace molto il Cannonau, un vino della Sardegna che ha una personalità molto specifica. Ne vuole un bicchierino?

Perché no. Però non vorrei esagerare…
Ecco qui, si serva. Avanti: non è pericoloso… Un gusto molto personale, vero? Vuole anche del liquore?

Ad esempio? Cosa potrebbe offrirmi?

Bar Jamaica e scorcio di via Brera

Non so, io talvolta bevo whisky o Slivovitz, un ottimo liquore jugoslavo, un’acquavite ricavata dalle susine…

Magari più tardi, grazie! Ho un’altra curiosità ora: cosa farebbe se avesse ancora 25 anni?
Con modestia rifarei quello che ho fatto, una vita compiuta e divertente in cui ho cercato di seguire l’eclettismo, facendo cose diverse l’una dall’altra. Rifarei una laurea in Psichiatria e mi iscriverei a un corso di nudo, per imparare il disegno dal vero.

Se potesse fare un viaggio all’estero, dove andrebbe?
Vorrei rivedere i musei di New York. Ora al Guggenheim c’è appena stata una grande mostra di Alberto Burri. Grande artista. Il suo cretto è stato un momento rivoluzionario della storia dell’arte. Poi vorrei tornare alla National Gallery di Londra. Che bella collezione!

Museo Guggenheim N.Y.

Se potesse rubare un quadro in un museo di Milano che ama particolarmente, quale si porterebbe a casa?
Senz’altro andrei dritto dritto all’Accademia di Brera. Certo che poi sarei molto indeciso e forse dovrei rubarli tutti!

Milano, lungo il naviglio Martesana

Se avesse la bacchetta magica, cosa cambierebbe di Milano?
Non cambierei moltissimo: Milano resta sempre una città di grande fascino. Certo, secondo me bisognerebbe ripristinare ed allargare i Navigli, per renderli navigabili nel modo più completo. Toglierli è stata una grande sciocchezza. Il sistema dei Navigli possono essere una rete idrica formidabile, dalla Martesana fino a Porta Ticinese e poi al Lambro e al Naviglio pavese. Si immagina lei quante attività potrebbero affacciarsi sull’acqua. Pensi ai vantaggi per i trasporti e alle gite in vaporetto!

Che legame ha con la religione?
Non se ne può parlare in modo approfondito in un incontro colloquiale, tuttavia devo dire che ho sempre avuto un interesse culturale per la religione. Nel periodo di guerra ero stato anche organista la domenica mattina in una chiesa nelle campagne di Volterra e così ho anche imparato un mucchio di cose sulla liturgia. C’era un coro molto approssimativo ed io suonavo negli intervalli. Il parroco, che da quelle parti chiamano pievano, era fascista e mi invitava sempre a pranzo. Quando gli alleati sfondarono la linea gotica sparì e non se ne seppe più niente. Arrivò un altro prete, questa volta antifascista, ed io continuai a suonare.

Cosa pensa delle battaglie di questi giorni per i diritti civili?
Le unioni civili, di cui si parla in questi giorni, sono una cosa talmente ovvia che non occorre nemmeno discuterne.

Fausto Melotti, installazione a Gibellina

Chi sono oggi gli amici più cari di Gillo Dorfles?
Direi nessuno! Sono tutti amici recenti, conosciuti negli ultimi anni. Gli amici storici non ci sono più. Penso agli artisti e agli architetti che frequentavo. Anche Vittoriano Viganò e Franco Albini. Purtroppo sono tutti scomparsi, una cosa incredibile.

Giuseppe Capogrossi

C’è un amico che le manca particolarmente?
Certamente Lucio Fontana: il fatto che non ci sia più, mi spiace davvero perché discutevamo moltissimo. Poi tanti altri amici come Emilio Scanavino e Fausto Melotti. Mi piaceva molto frequentare Giuseppe Capogrossi, molto intelligente e vivace, una personalità distinta. Aveva un talento pittorico limitato, così ha inventato un alfabeto personale di genio che lo ha reso immediatamente riconoscibile.

Ci sono artisti del dopoguerra secondo lei ancora troppo sottovalutati?
Qualche anno fa le avrei detto gli artisti del Movimento Arte Concreta e poi anche Luigi Veronesi e Mauro Reggiani. Tuttavia negli ultimi anni è stato fatto molto per riscoprirli.

 

Fondazione Fausto Melotti

Tra gli artisti dell’ultima generazione ha visto qualche talento interessante?
Ce ne sono due o tre piuttosto interessanti. Li ho anche presentati non molto tempo fa. Tuttavia preferisco non nominarli perché non vorrei che si montassero troppo la testa!

E com’è nata l’idea di costruire una mostra sull’approssimazione?
È un tema centrale da sempre. Nel 1951 ci fu un convegno fondamentale alla Triennale, La divina proporzione, con Le Corbusier superstar e Wittkover, Ackermann, Giedion, Rogers, Fontana: e lo stesso Le Corbusier diceva che il numero aureo, fondamento del Modulor, era solo apparentemente razionale. Senza l’approssimazione non ci sarebbe vita, tutto resterebbe perfettamente immoto.

Mi scusi professore, quando è il suo compleanno?
Non mi ricordo… (n.d.r. sorride).

Opera di Gillo Dorfles

C’è un’opera d’arte che associa a una grande emozione?
Difficile: sono piuttosto refrattario alle emozioni portate dai capolavori artistici. Forse mi emoziona di più la musica.

Quali sono i compositori del Novecento che le interessano di più?
Certamente Luciano Berio, un musicista molto raffinato. Eppure credo dovremmo avere più attenzione per Riccardo Malipiero che ha scritto, tra le altre cose, Minnie la candida, una bellissima opera dedicata a una lavandaia. Malipiero era un musicista notevole. Certo, secondo me, non c’è nessuno che abbia saputo raggiungere le vette di Giuseppe Verdi e Richard Wagner.

Cosa le piace suonare quando si siede al pianoforte?
Mi piace suonare qualsiasi cosa, soprattutto la musica che improvviso: molto più comodo di leggere uno spartito, come può immaginare.

Le istituzioni milanesi fanno abbastanza per gli artisti e per la diffusione della cultura?
Oggi a Milano c’è moltissimo, sia per l’arte sia per la musica. Credo però che i grandi artisti emergano comunque, a dispetto delle istituzioni. A volte il genio nasce ai margini. Quanto alla diffusione della cultura, i giovani devono vedere l’arte moderna e contemporanea, fin da bambini, nelle scuole. Quando abbiamo fatto la mia mostra a Palazzo Reale con i bambini abbiamo costruito anche una piccola mostra di riproduzioni delle mie opere. I bambini erano molto interessati e creativi. L’arte apre la mente.

C’è una zona di Milano che ama particolarmente?
Mi piacciono molto le vie dietro Corso Venezia: via Serbelloni, via Mozart, via Vivaio. In quella zona non c’è grande architettura ma ci sono molti edifici di grande dignità civica: è una zona che ha una personalità molto milanese.

Villa Necchi-Campigli, in via Mozart a Milano. Gioiello da visitare

Ci sono tre opere che vorrebbe portarsi nel aldilà?
Portarmi dei quadri sarebbe d’intralcio, preferirei dei libri con tante riproduzioni a colori. Quelle dei pittori che amo di più.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?
In queste settimane c’è una mostra di mie opere al MACRO di Roma. Una mostra che spero di portare presto in Francia e in Germania. Insomma, ho ancora molti progetti.

Come vuole essere ricordato Gillo Dorfles?
Certamente per la mia pittura.

Grazie professore, è stato bellissimo incontrarla.
Grazie a lei. È sicuro di non volere un altro bicchierino di Cannonau?

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IL NOVECENTO DI GILLO

IL NOVECENTO DI GILLO

IL GRANDE VECCHIO GILLO DORFLES RICORDA TRIESTE NEGLI ANNI DELLA SUA ADOLESCENZA- UNA CARELLATA FRA STORIA DELL’ARTE E ANEDDOTI SUGLI ARTISTI CHE CONOBBE E CHE LO EDUCARONO AL BELLO E AL GUSTO, DI CUI E’ STATO INTERPRETE AFFASCINANTE E RIGOROSO

GILLO DORFLES Il mio Novecento all’ insegna dell’ arte

Gillo Dorfles

MILANO – Nei novantasette anni di Gillo Dorfles (l’articolo è del 2007, oggi Gillo ha 107 anni, n.d.r.) ci sono molte cose che sorprendono. La sua vita è come una scatola di preziosa radica: semplice, antica, solida. La apri e avverti l’ odore di un intero secolo. Gioie e amarezze. Come per tutti. Ma con scarsi rimpianti. E soprattutto con pochi drammi. Ecco, se penso alla vita di Dorfles e al suo modo di raccontarla (forbito senza scadere nell’ affettato) vedo uno di quei caratteri che hanno reso immortale la commedia hollywoodiana: un senso sofisticato e civile di porgere i pensieri e le argomentazioni. Il che, naturalmente, non significa impedirsi di scegliere, di preferire, di detestare. Ma tutto si svolge secondo regole non scritte. Vado a trovarlo nella sua casa milanese, un bel palazzo degli anni Trenta dove abita al penultimo piano. Pare che Dorfles prediliga le scale all’ ascensore. Un tempo amava salirle a gambero. Un modo stravagante per tenersi in forma. Mi accoglie nella sua casa borghese. Dei Fontana e Capogrossi adornano le pareti del salotto. Dalla penombra del pomeriggio affiora un pianoforte a mezzacoda sul quale il professore si esercita quotidianamente. La musica è uno dei suoi impegni. L’ altro è la pittura. Ama dipingere. Per un professore che ha lungamente insegnato estetica può sembrare una stranezza. Se ci si spingesse un po’ oltre verrebbe da dire: ecco la quadratura del cerchio: il critico che volle farsi artista. Quando può scrive. Ora sono apparsi i suoi Taccuini Lacerti della memoria (Editrice Compositori). Sono ricordi, appunti, note che attraversano il secolo. Dorfles non è un uomo emotivo. La cifra dei suoi sentimenti è neutra. Ma è un neutro che nasce non dal vuoto, ma dal troppo pieno. È come se quest’ uomo avesse visto troppo: il crollo di un impero, due guerre mondiali, i totalitarismi, la ricostruzione, la democrazia. L’ individuo e la massa. Dorfles, in un certo senso, è il Novecento visto dal lato meno oscuro. Ma non per questo meno inquietante. In fondo egli è la perfetta realizzazione di una Mitteleuropa senza nostalgia e cupezza. Dorfles è nato nel 1910 a Trieste. «Per qualche anno sono stato cittadino dell’ Impero. Poi quando è scoppiata la Guerra mi trasferii a Genova, la città di mia madre. Restammo lì alcuni anni.

Lucio Fontana davanti a una sua opera

A Trieste tornai quando ormai ero pronto per il ginnasio e il liceo». Trieste l’ ha formata. «La mia educazione vera avvenne tra gli intellettuali e gli artisti triestini: Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen». Quest’ ultimo sarebbe diventato il vero ispiratore della casa editrice Adelphi. «Quando lo conobbi, alla metà degli anni Venti, era uno stranissimo pifferaio magico». Strano perché? «Perché il suo fascino nasceva da un evidente contrasto. Era fisicamente squinternato, brutto, malvestito; ma il cervello di Bobi era pura armonia. A un sedicenne quale io ero, la cosa produsse un’ impressione enorme». Che differenza di età c’ era tra voi? «Aveva una decina di anni più di me. Da lui ho appreso l’ amore per la letteratura mitteleuropea. Passavamo le serate a discutere di Kafka e Wedekind. Decidemmo anche di prendere delle lezioni di Joyce». Di Joyce? «Nel senso che un professore della Berlitz ci istruiva sulle pagine dell’ Ulysses, un testo come si sa impervio, infestato dal gergo e pieno di concetti». Niente male per un giovane. «Ricordo che mia madre cercava di mettermi in guardia da Bobi. Temeva che la sua influenza potesse alla fine risultare deleteria per la mia formazione». E lei? «Io ero felice di avere conosciuto un simile personaggio. Mi rendevo conto che la sua forza, la sua curiosità, il suo modo di porgere la cultura potevano renderlo inviso.

Opera di Capogrossi

Così successe che quando cominciò a frequentare Linuccia Saba, il vecchio Umberto reagì malamente». Cosa accadde? «Niente di proibito. Però Linuccia era diventata una specie di passione per Bobi, e Saba non lo tollerava. Credeva che Bazlen si fosse infiltrato nella sua casa per adescare la figlia, per la quale il poeta nutriva un affetto più che paterno». Intende dire che l’ attenzione per la figlia nasceva da qualcosa di oscuro? «Dico che la sua gelosia paterna era eccessiva. Saba era diventato un uomo triste, dal cuore stanco. Infragilito dalla malattia, dai frequenti ricoveri nel sanatorio di Gorizia, si era molto appoggiato alla figlia. Sicché le riversò la sua malinconica e prepotente gelosia. La vecchiaia di Saba fu amara e tormentata dalle antiche passioni, non è un segreto che egli avesse delle tendenze omosessuali». Che lui ha raccontato sia pure indirettamente nel romanzo Ernesto. «Fu una confessione viva, spontanea e al tempo stesso crudele». Dove incontrava Saba? «Essendo molto amico di Linuccia, passavo spesso i pomeriggi nella sua casa

Un ritratto di Italo Svevo

. Era un luogo dove regnava il disordine: pieno di oggetti, di poltrone sfondate, di libri sfasciati. Era una casa sporca e fatiscente che contrastava con lo sguardo acuto di quest’ uomo, con il colore azzurro dei suoi occhi. Ma il primo incontro avvenne nella sua libreria antiquaria di via San Nicolò. Ricordo che entrai e vidi questo vecchio con la visiera che mi guardò e bruscamente mi disse: Cos’ ti vol picio?». E lei? «Mi sentivo a disagio. Poi vidi una magnifica edizione del Settecento del Fedone di Platone, cominciai a sfogliarla. E Saba, meno bruscamente: No xe roba per ti. Comunque quella libreria rappresentò per me qualcosa di straordinario. Vi incontrai il meglio della cultura triestina: da Svevo a Stuparich, da Marin a De Benedetti». Svevo non era un vero letterato. «Parlava male l’ italiano e preferiva esprimersi in dialetto. Non era insomma un uomo cerebrale, ma era dotato di un grandissimo istinto narrativo. E poi era spontaneo e spiritoso, tutto il contrario del letterato pedante. A me diciottenne ricordava una specie di vecchio zio. A quell’ epoca si andava insieme a giocare a bocce lungo il Carso. Pochi sapevano chi fosse. Il successo di Svevo arrivò solo dopo la scoperta che ne fece Montale». Cosa è stata la cultura triestina? «Qualcosa di straordinario e forse di irripetibile. Avere ospitato Joyce per dieci anni, e che anni, visto che è lì che è nato Ulisse, sta a significare che quella città nascondeva qualcosa di speciale». Lei accennava a Montale. Quando lo conobbe? «L’ ho conosciuto attraverso Bazlen e Svevo. E poi, con qualche intervallo, siamo restati amici per tutta la vita». Intervallo nel senso che vi siete a volte persi di vista? «A un certo punto accadde che le nostre mogli litigarono.

Umberto Saba

O meglio, la Mosca – che era la compagna di Montale – interruppe i rapporti con noi». Per quale ragione? «La più antica del mondo: la gelosia. Eusebio – che era il soprannome che a Montale aveva dato Bazlen – si era invaghito di una poetessa. E per un certo periodo mia moglie fu la depositaria delle lamentele della Mosca, fino al giorno in cui le disse: “ma lascia che si diverta un poco!”. Voleva placare la gelosia, ma il risultato fu che la Mosca troncò i rapporti perché convinta che anche noi facessimo parte del complotto amoroso». E Montale? «Di fronte a quella giovanottona prepotente, fisicamente esplosiva e per di più poetessa, sto parlando della Spaziani, aveva perso la testa». Non dava l’ impressione di uno che si lasciava andare facilmente. «A volte era un uomo permaloso, scontroso, dai tratti molto liguri. Ma quando si sentiva di buon umore sapeva esaltare le sue doti migliori: l’ intelligenza e la fantasia. A parte quelle incomprensioni con la Mosca, devo dire che abbiamo passato insieme a mia moglie delle serate bellissime con lui». A proposito di sua moglie, so che era legata alla famiglia di Toscanini. «Era la figlioccia. Fece da testimone di nozze quando ci sposammo. Con Toscanini ci vedemmo spesso. E l’ impressione che ebbi di lui era di un uomo testardo e autoritario. Capace però di passioni travolgenti, come la storia che ebbe con Ada Mainardi. Tra i due c’ erano trent’ anni di differenza. Nelle lettere che le spediva si firmava “Artù”!. Era dotato di una grandissima intelligenza musicale. Peccato che detestasse tutto quello che era stato scritto dopo Debussy. Ricordo che una volta ci incontrammo nella sua villa di Riverdale, a New York, e mi parlò malissimo di Busoni e di tutta la musica dodecafonica».

Eugenio Montale

Lei cosa ci faceva a New York? «Erano i primi anni Cinquanta e per me che da tempo mi occupavo di arte, quella città diventava imprescindibile. La mia formazione è stata abbastanza singolare. Sono laureato in medicina con una specializzazione in psichiatria. Mi sarebbe piaciuto analizzare la mentalità del prossimo, rilevarne le stranezze e le anomalie. Ma alla fine hanno prevalso gli interessi estetici ed artistici». Si può applicare la psicoanalisi all’ arte? «Hanno provato in tanti, con pessimi risultati. Il complesso edipico non serve nell’ arte». Però può esserci un rapporto tra arte e follia. «Diciamo che è un rapporto che può servire a comprendere meglio certe motivazioni dell’ artista. Ma non aiuta a intendere l’ opera. Per questo sono un po’ freddo davanti alla recente rivalutazione di Wolfli, un pazzo di Zurigo che ha dipinto lungamente in manicomio, ed è stato definito uno dei più grandi artisti del secolo scorso. Mi pare una enfatizzazione di un artista interessante, ma sopravvalutato in quanto schizofrenico». Mi scusi, se uno non sapesse niente e guardasse un “taglio” di Fontana, potrebbe essere indotto a ritenere quella tela opera di un pazzo. «Fontana era perfettamente normale, semmai rifletteva con la sua opera una diversa inquietudine. Sono stato tra i primi ad apprezzarlo e non me ne pento». Mentre so che non ama Giorgio Morandi. «Quella frangetta, quell’ apparente modestia, quella finta riservatezza nascondevano l’ animo di un furbacchione. Era un uomo di presunzione e ambizione sconfinate.

Arturo Toscanini

Come artista indubbiamente è stato un grande, ma come fantasia, diamine, era limitato alle sue bottigliette. Era coetaneo di Fontana, ma tra loro c’ è l’ abisso di un secolo». In che senso? «Fontana ha creato un’ arte nuova che ha influenzato intere correnti: spaziali, nucleari etc. Mentre Morandi ha rivangato tra le vecchie figurazioni, con estrema raffinatezza, ma senza alcuna innovazione. Questo non vuol dire che Morandi non sia stato un grande della sua epoca. Ma il suo sguardo era rivolto al passato. Quello di Fontana si proiettava sul futuro». Che cosa è stata la critica in Italia? «Difficile dirlo. Intanto separerei il lavoro dello storico dell’ arte da quello del critico che esercita il suo gusto sul presente». Abbiamo avuto dei grandi storici dell’ arte. È d’ accordo? «Sì. Berenson, Longhi, e in parte Ragghianti, furono storici molto preparati. Ma capivano poco della contemporaneità, non avevano la sensibilità sufficiente per analizzare il presente. E poi non c’ era il mercato che c’ è oggi».

James Joyce

Che cosa ha cambiato il mercato? «Tutto. Quando un Principe o un Papa ordinavano un’ opera a Raffaello o a Simone Martini era un gusto epocale e senza sbalzi che si imponeva. Oggi gli sbalzi sono infiniti e dettati dalla collaborazione perversa che a volte si instaura tra critici inaffidabili e mercanti senza scrupoli. Non ci vuole molto a lanciare un artista mediocre». Non pensa che questo stato di cose sia dovuto anche al tramonto dell’ idea di bellezza? «Lascerei il bello fuori dalla porta. La cosa da tenere sott’ occhio è che la durata di un’ opera si è accorciata enormemente. Il barocco ha resistito per secoli. L’ arte nucleare è durata cinque anni». Perché ha scelto di fare il critico e non lo storico dell’ arte? «Ho una certa difficoltà a memorizzare le date. E poi il passato è una grande immensa nebulosa, occorre un talento particolare per saperlo attraversare. Preferisco il presente. È il motivo per cui mi sono interessato fra l’ altro al design, una esperienza contemporanea della quale ho vissuto gli albori». Che rapporto ha con gli oggetti? «Sono come i sentimenti, però più affidabili. Stanno alla base della nostra vita di relazione». Riflettono anche una civiltà, un’ epoca. «La moda, il design, l’ arredamento sono le spie di ciò che una società rappresenta e delle sue evoluzioni». L’ Italia eccelle in questi campi. Perché? «Siamo un paese dotato di talento e di fantasia. Requisiti invece assenti nella politica, dove regna lo sbraco e il cattivo gusto». Cos’ è uno snob in una società di massa? «Un uomo meno solo di quanto si creda. Da noi ci sono snobismi intellettuali, mondani e politici. Non trova che mentre si verificano dei casi di sinistrismo snob, non c’ è un destrismo altrettanto snob? Mirare a eccellere per una certa qualità mondana ed effimera non danneggia nessuno. Tutt’ al più è una perdita di tempo». E il suo tempo come lo trascorre?

Giorgio Morandi, natura morta

«Suono per me, quando nessuno mi ascolta. Ma la cosa che mi affascina di più è dipingere. Ogni tanto, con qualche fatica, scrivo. Nella scrittura non c’ è quella immediatezza creativa che si verifica nella pittura, dove a volte hai la sensazione che un Dio o un demone ti cattura». Lei crede in Dio? «È una domanda che non si fa, esula dalle mie competenze terrene». Diciamo allora qual è il suo rapporto con la fede. «Credo in qualcosa che prescinde dal crudo e duro materialismo. Ma mi fermerei qui, anche perché finiremmo col parlare di religione». La spaventa? «Non il parlarne, ma per quello che rappresentano – ossia il dogmatismo che le anima – sì, mi terrorizzano. Vorrei un mondo liberato dalle certezze assolute. Forse il Novecento ci ha lasciato una eredità ambigua». Lei che lo ha attraversato quasi interamente che giudizio ne dà? «Mi aspettavo qualcosa di più. Ma ormai quasi centenario non ho più il diritto di ritenermi deluso».

Articolo di ANTONIO GNOLI per La Repubblica 

Precente articolo su Gillo lo trovate in questo sito sotto: Gillo, Angelo era troppo, del 20 aprile 2017

 

 

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