VECCHIE CARTE INEDITE DEL DR. DESTOUCHES

VECCHIE CARTE INEDITE DEL DR. DESTOUCHES

MISTERIOSO RITROVAMENTO DEL CRITICO JEAN-PIERRE THIBAUDAT DI MIGLIAIA DI PAGINE INEDITE DI CÉLINE, TRAFUGATE NEL 1944, CHE ORA SARANNO PUBBLICATE

Il ritrovamento di migliaia di pagine che sembravano perdute per sempre è un po’ la Pompei del dottor Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline, dal nome di una nonna molto amata e grande affabulatrice. I manoscritti scomparsi erano il suo grande cruccio, la sua ossessione. Alimentavano quel torrente di recriminazioni, rancori, lamenti, invettive che rovesciava su amici e sostenitori, in primis i suoi avvocati, Jean Paulhan, il povero Gaston Gallimard sommerso da scariche di contumelie al vetriolo. Tornato in Francia dall’esilio danese dopo essere stato condannato a morte in contumacia per collaborazionismo, autorecluso in un villino un po’ cadente di Meudon, barbonizzato, circondato da uno stuolo di cani, gatti e pappagalli, assistito amorevolmente dall’eroica moglie Lucette che continuava a dare lezioni di danza, il refrain era sempre quello: i libri che gli avevano portato via quando nel 1944 era fuggito verso nord. Gli avevano devastato l’appartamento al 4 di rue Girardon in cui viveva («Non mi hanno lasciato niente…non un fazzoletto…non una sedia, non un manoscritto…»).

Un lutto che non riusciva a elaborare, che lo rendeva ancora più ringhioso. Era riuscito a salvare Casse-pipe (poi pubblicato nel 1949), un potente torso del romanzo che doveva chiudere, la trilogia autobiografica avviata trionfalmente con il Viaggio al termine della notte (1932) e Morte a credito (1936). Céline lo aveva scritto proprio in rue Girardon (dove non c’è nessuna targa che lo ricordi). Gli era rimasta una combriccola di pochi amici fedeli, pittoreschi bohémiens forti bevitori e svelti di parola. Non parlavano di politica, ma Céline era pur sempre l’autore dell’esagitato pamphlet antisemita Bagatelle per un massacro. Così lo scrittore Roger Vailland, che frequentava al piano di sotto una cellula della resistenza (che Céline si era ben guardato dal denunciare), aveva pensato a un attentato. Il gruppo era stato poi fermato dai dubbi: come si fa ad ammazzare l’autore del Voyage, che piace tanto a Trotzkij? Le cento pagine di Casse-pipe, che ho avuto l’onore di tradurre, bastano a se stesse, perfettamente compiute e autonome come sono.

Raccontano potentemente la notte in cui il giovane Destousches si presenta alla caserma dei corazzieri di Rambouillet per arruolarsi come corazziere, tra cavalli che scappano e le crisi epilettiche che travolge il maresciallo d’alloggio Le Meheu e i suoi tonitruanti monologhi. La follia della grande guerra è già annunciata e condensata lì. Adesso apprendiamo che il benemerito archeologo delle carte céliniane, il critico teatrale Jean-Pierre Thibaudat, ha trovato le seicento pagine del seguito, che portano il protagonista Ferdinand, ferito al braccio in una missione di collegamento, in un ospedale del Belgio in si cui aggira una perversa infermiera erotomane. Insieme a quelle, Thibaudat ha decifrato altre migliaia di pagine, dedicate tra l’altro al soggiorno londinese che seguì l’esperienza della guerra. Una manna, una miniera da esplorare. Si è sempre vantato, Céline, di quella montagna di fogli su cui si continuava a dannare con la furia insoddisfatta di un artigiano maniacale, sempre alla ricerca ossessiva della parola giusta, dei ritmi martellanti, della petite musique che era il suo marchio di fabbrica. In molti hanno creduto che fossero un po’ le vanterie di un disperato, che ancora fremeva di rabbia quando ripensava ai pillards, agli infami saccheggiatori che gli avevano devastato l’appartamento. Evidentemente non erano solo dei vandali o dei rozzi epuratori accecati dall’odio. La storia del trafugamento di queste carte ha l’aria di essere un capitolo avventuroso dei disastri della guerra che Céline ha poi raccontato in un delirio sempre più allucinato e quasi jazzistico. Gli inediti non cambieranno di sicuro l’interpretazione della sua opera, come qualcuno ha già scritto, ma questa inattesa, miracolosa resurrezione, in tutto degna del dottor Destousches, ci promette grandi emozioni.

Articolo di Luigi Ambrosio, La Stampa

Di seguito alcuni stralci dell’intervista di Madeleine Chapsal a Louis-ferdinand Céline (1957), edita ora in Italia da Stampa alternativa e apparsa sul Fatto Quotidiano il 6 agosto scorso.

L

“Scrivo così pago l’affitto: trama da fruttivendole. Mi fido solo degli astemi. In guerra non stavo in fuga come Malraux… Questione di fegato, altro che dire ‘bellaciao’”

Bagatelle domestiche L’attrice Arletty con l’amico Céline

Allora vuol dirci come scrive?

Sono uno stilista… diciamo… un maniaco dello stile… Mi diverto a fare piccole cose… A un uomo si chiede moltissimo, ma lui non può fare molto… Enorme illusione del mondo moderno chiedere a uno d’essere ora un Lavoisier… ora un Pasteur… di far tornare sempre i conti. Uno che trova qualcosina nuova è già tanto… già completamente sfinito! Ne ha per una vita!… Si parla di “messaggi”: mica mando messaggi alla gente, io. L’enciclopedia è stracolma di messaggi… niente di più volgare, a chilometri e tonnellate… e via con le filosofie, le visioni del mondo!

Come definirebbe ciò che ha inventato?

Come una musica… una musichetta calata nello stile, e basta. Tutto qui… La trama, perdio, è cosa secondaria… roba da fruttivendola… se non arrivi alla fruttivendola, manco arrivi alle grandi tirature… È questo che interessa al pubblico… che vuole l’automobile, gli alcolici e le ferie… Oggi, mica vai a leggere Balzac per sapere chi è un avaro o un medico condotto. Le trovi nei vostri giornali, nelle riviste, al cinema! E allora a chi importa un libro?… Una volta s’imparava a vivere, da un libro… Ma che belle trame, ora… pieni i giornali: ce n’è sulle carceri, sui manicomi!

Quando i lettori hanno comprato il Voyage hanno comprato una trama, non solo un nuovo stile.

Macché! Hanno comprato uno scandalo. Oggi invece chiunque ha facoltà o licenza per scrivere un romanzo… Lettere alla cuginetta, formato gigante!… Uguali dappertutto… né c’è medico o notaio senza il suo bel romanzo nel cassetto!

Ciò forse vuol dire che scrivere è un bisogno.

Sì, ma per colpa della… lavatrice… La moglie pensa: “Una lavatrice, che funzioni, costa 200.000 franchi…”. Il marito, lui, sa scrivere… articoli qua e là… Lei pensa sempre alla lavatrice… e un bel giorno… davanti alla vetrina fa: “Guarda un po’, è uscito l’ultimo libro della Sagan, se ne parla molto. Lo vendono a cinquecento franchi. Quant’è che s’incassa a copia? 20%?… Ah, 100 franchi a libro?”… Pensa sempre alla famosa lavatrice, lei!… e dice a lui: “Senti, tu non potresti?”… “Oh, io no, lo sai bene”… “Oh, ma sì che lo potresti fare un romanzo come quella lì. Non è così straordinario… io l’ho letto”… Allora, via! ecco che arriva un altro romanzo!… spedito a Gallimard… Ogni anno si zavorra di quattrocento romanzi, Gallimard… li butta nella Senna!… non li legge nessuno!… Il lettore vuol mangiare la verdura ben cotta e presentata… il piatto ben guarnito, con dentro la buona solita pappa!

Lei comunque si rivolge ai lettori…

È un artificio… Invece li disprezzo… quel che pensano e che non pensano!… Se ti preoccupi di quel che pensano, stai fresco!… No, non ce n’è bisogno: se legge, bene; se no, peggio per lui!… Il Voyage l’ho scritto per pagarmi un appartamento… semplicemente… Se no, giammai l’avrei pubblicato… Avessi una rendita, non pubblicherei nemmeno adesso… rinuncerei a tutto questo impiccio, e mi riposerei… Tutti parlano di pensione a quarantacinque anni… Ne ho sessantatré, io! Ho un proiettile nella testa e un braccio a pezzi… sono invalido al 75%. Forse basta… Mi son fatto due guerre.

Lei si definisce pacifista?

Contro la guerra da capo ai piedi, io che l’ho fatta… Una cosa diversa, la Francia: tutti sonnambuli prima del ’14, tutti filosofi dopo. Tutti impegolati nella critica con Sartre, Camus: loro credono che sia meglio “pensare”!… Io l’ho visto l’esercito, so cosa dico. Non stavo a correre dietro alla divisione in fuga, come Malraux!… Stavo davanti ai tedeschi, io… per fermarli. Questione di fegato: non è come dire “bellaciao”.

Lei crede che tutto finirà con la catastrofe atomica?

Non ce n’è bisogno. I cinesi non hanno che da farsi avanti, armi in spalla. Hanno dalla loro l’idra viva, la natalità… Scomparirà, la razza bianca… Il bianco non è un colore, ma un fondotinta! È il giallo, il colore vero.

Dopo il ’14 tutto è degenerato? Che spiegazione dà?

L’alcolismo, prima di tutto…: i milleduecento miliardi in alcolici che si bevono in Francia ogni anno… gran belle spugne!… Le so bene le virtù alcoliche… illusione di potenza… pericolosissima… illusione di forza… Parole e pretese a vanvera… Poi il fumo…: settecento miliardi l’anno. Ti dà sensazioni pseudopoetiche e apparentemente profonde, il fumo… e pure false idee… Io mi fiderei solo di uno che beve acqua… e che non è sempre lì a ruttare e a digerire! Cose che te l’abbrutiscono, l’uomo… Muore, e non ha mai pensato… però ha partecipato!… per cosa, ci si chiede… ma non importa!

CÉLINE LETTO DA VITTORIO SGARBI

CÉLINE LETTO DA VITTORIO SGARBI

“GUERRA E MALATTIA SEMBRANO ESSERE LA CONDIZIONE IN CUI SI MUOVE L’UMANITÀ”.

In esclusiva per il “Bulletin Célinien”, pluridecennale periodico dedicato a Louis-Ferdinand Céline diretto dal belga Marc Laudelout, il celebre critico d’arte, saggista e polemista Vittorio Sgarbi risponde a qualche domanda sul suo rapporto con l’opera di Céline. Una intervista dove Sgarbi rivela la sua visione anticonformista riguardo ai romanzi dello scrittore di Viaggio al termine della notte e di Bagatelle per un massacro e della sua poetica, e a tratti intima, quando l’intervistato parla di suo padre Giuseppe e delle sue passioni letterarie, vitali per la formazione del giovane Vittorio negli anni della Contestazione del ’68. Intervista raccolta da Andrea Lombardi, saggista céliniano (Louis-Ferdinand Céline. Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze, Bietti 2018) fondatore del primo sito italiano su Louis-Ferdinand Céline, dal giornalista e scrittore Emanuele Ricucci (il suo ultimo pamphlet: Contro la folla. Il tempo degli uomini sovrani, Passaggio al Bosco 2020) e tradotta da Valeria Ferretti. L’intervista, presentata qui integralmente, è apparsa in forma ridotta su “Libero” del 1° settembre 2020.

*

La prima domanda, molto semplice, come hai conosciuto Céline?

Ho conosciuto Céline attraverso mio padre, che aveva in casa la copia datata… di Viaggio al termine della notte, editore Dall’Oglio, con l’indicazione del giorno, che era un giorno del 1941 in Grecia, a Missolungi. Quindi, il libro è entrato in casa nel ’41. La prima edizione del Viaggio al termine della notte è del ’32, quindi è entrato abbastanza presto; in Italia fu tradotto nel ’33. Mio padre lo acquistò, lo lesse durante la guerra e quando io avevo, diciamo, 12 anni, 10 anni, 11 anni Céline iniziava già a essere messo all’indice e io ne avevo questa preziosa copia suggerita da mio padre e quindi ho letto… io ho avuto il vantaggio entro il ’68 e durante il ’68 di non leggere i classici di quell’epoca che erano raccomandati, da Marcuse a Mao a Adorno, ma invece di leggere Benedetto Croce, di leggere Céline, di leggere Anatole France e quindi di avere una controcultura che si fondava su dei testi di gran lunga più significativi di quelli in voga. Sono stato fortunato.

Sì.

A che età lo hai letto per la prima volta?

Mah, diciamo tra i 13 e i 14 anni.

Quali altri libri di Céline hai letto, e quale libro apprezzi di più e perché?

Forse Mort à crèditMorte a credito, della edizioni Garzanti, che all’epoca mi ricordo era stata purgata e il traduttore che era mi pare Giorgio Caproni, se non ricordo male, indicava la necessità che il pudore e il costume dell’epoca imponevano di fare dei tagli alle parti più forti, e questo mi incuriosì molto, ma poi non credo di avere più letto, anche se deve essere stata ripubblicata un’edizione integrale, una traduzione non emendata. Il libro entrò a casa forse comprato ancora da mio padre, nel ’67, ’68, adesso non mi ricordo la prima edizione italiana di Mort à credit, ma è meno precoce di quella del Viaggio al termine della notte. Poi sono arrivati in sequenza, quando è ripresa l’ondata di attenzione per Céline, libri come Nord e altri che ho letto, e poi ho cercato avendone l’edizione Guanda, Bagatelle per un massacro, che ho trovato in tempi molto recenti, era il libro che indusse mio padre ad averlo, l’aveva visto passare da un commilitone all’altro durante la guerra, nel 1941 a Missolungi durante la Campagna di Grecia, cioè da un  intellettuale che era in guerra con mio padre e a sua volta aveva ricevuto la copia da Giorgio Chiesura Corona, poeta di un certo rilievo, che all’epoca era un ragazzo, è nato nel ’21, aveva vent’anni, aveva dato le sue poesie a questo suo compagno di guerra, che gliele aveva restituite, dicendo, assieme al suo libro di Céline, “Ti restituisco le tue bagatelle”. Era un modo per fare una critica, e quindi questa frase di mio padre che ricordava indicava che l’uso della parola Bagatelle era stato trasferito dal libro di Céline, che adesso ho qui in prima edizione del 1938 della Corbaccio, alla valutazione delle poesie fatta dall’uno verso l’altro, quindi Céline era diventato un punto di… una misura di giudizio verso le poesie di Chiesura Corona.

Vittorio Sgarbi

Come definiresti il lavoro letterario e di stile di Céline, e come lo definiresti anche umanamente.

Intanto, Céline è noto come un medico, e quindi diciamo che la sua umanità è misurata sulla realtà più fragile dell’uomo, che è quella della malattia. Quindi, l’uomo, come sappiamo bene, è di natura incline all’affettività, anche in una dimensione egoistica, ma, secondo quello che io ho verificato nel corso della mia esistenza, l’uomo nasce buono, come indicava Rousseau, nasce nella natura, e diventa cattivo. Diventa cattivo perché deve crearsi degli anticorpi rispetto alla vita sociale, dove ognuno è lupo verso l’altro; quindi nella competizione si manifesta pure una crudeltà, perché è evidente che uno può essere più bravo di un altro. Siccome non sai mai se è il merito che ti premia, tu ad un certo punto pensi, parti dall’idea che invece il merito serva poco. Basta vedere con i miracolati in politica, come Conte. Uno desidera essere miracolato. Vorrebbe far pensare che quel miracolo dipende dal merito? No, è marginale. Il miracolo è bello perché c’è. Allora, la competizione della vita è così forte, che l’uomo che è buono diventa cattivo. Céline questo lo sa meglio di tutti, che l’uomo è cattivo. Poverino, non perché… Detto questo, quand’è che l’uomo torna nella sua dimensione di bontà infantile? Quando è malato, perché quando è malato ha le garanzie dello stato sociale, lo pagano anche se non lavora. Però è debole, e in quel che è debole, non ha più questa rabbia verso gli altri, ma aspetta l’aiuto degli altri, quindi Céline vive tra la condizione del medico che cura persone fragili e indebolite, e la considerazione dell’uomo nella sua sanità, che invece è pressocché un mostro. “Tutto quello che è interessante”, dice Céline, “accade nell’ombra, davvero, non si sa nulla della vera storia degli uomini”.

Cosa pensi che ti abbia lasciato, personalmente, la lettura di Céline?

L’idea, inattuale, di una umanità sempre in guerra, nel senso che la guerra e la malattia sembrano essere la condizione in cui si muove l’umanità. È uno stato di guerra permanente, e questa effettivamente è una metafora, ma questo dà anche la misura che in quella dimensione c’è la verità dell’umanità e rende Céline più grande di Malaparte, perché Malaparte fa del mondo, della guerra, della peste, un mondo teatrale, in cui ci sono delle posizioni che vengono assunte in modo artificioso, mentre invece Céline, anche rispetto a molti altri scrittori, ha un rapporto diretto con la natura, con la natura dell’uomo e con la natura della storia, perché anche la storia ha una natura.

Cosa ne pensi degli adattamenti dell’opera céliniana, quindi quelli teatrali, illustrati, cinematografici?

Mah, non li conosco, li ho patrocinati come sindaco e come assessore, quando mi hanno chiesto di fare spettacoli ispirati a Céline attori o registi, e io ovviamente li ho sostenuti, però non li ho visti. Credo che la letteratura abbia un’alternativa a sé stessa più che nel teatro, nel cinema, il cinema è un’estensione della letteratura; tra la fine della pittura e la fine del romanzo, il cinema nasce come una sintesi delle due arti, perché c’è una visività o visibilità prevalente, e poi c’è il racconto. Quindi la forza del cinema è nell’essere un romanzo illustrato. In questo senso la mia polemica con Gore Vidal insisteva, essendo lui più vecchio di me, sulla sua sottovalutazione della parte visiva del cinema: lui sosteneva che l’80% di un film è la sceneggiatura. Allora io gli ho risposto che è vero che la sceneggiatura è lo scheletro del film, ma è vero che il gusto del regista si manifesta come un gusto visivo, diventa un gusto legato ai dettagli, ai costumi, alle luci, ai luoghi, alle “location”… parola abominevole… e allora se io faccio fare la regia de “Il gattopardo”, romanzo meravigliosamente tradotto in film, da un regista diverso da Visconti, la sceneggiatura potrà essere la stessa, ma il patrimonio di visività sarà sicuramente diverso. Quindi sostenevo l’importanza della componente visiva. Ne sono ancora convinto, cioè che il cinema è una sintesi, un perfetto equilibrio tra pittura e romanzo, tra pittura e letteratura: e non prevale la parte testuale, ma prevale invece il taglio, l’occhio, la scelta dei personaggi, cioè una componente visiva, e che lo stesso testo fatto da due registi diversi può portare a due film diversi, in cui la parte visiva subisca una contrazione nel difetto di cultura delle immagini del regista. Quindi più che le riduzioni teatrali, io immaginerei un film tratto dai libri di Céline.

L .Ferdinand Céline

Quali sono gli altri autori che leggi e apprezzi maggiormente, oltre Céline?

Beh, leggo tutti gli autori, quindi… non è che posso fare un elenco delle mie preferenze nel mondo… nel mondo francese posso dire, a un certo punto, mi è sembrato persino più interessante di Céline, e ancora più espansivo nell’umanità degradata, Paul Léautaud. L’autore francese che prediligo è Léautaud, e Léautaud è un Céline ancora più basico, cioè legato ad una rappresentazione diretta del mondo e dell’umanità, che si trova poi nei suoi diari più ancora che nei suoi romanzi.

Paul Léautaud

Quindi una personalità… d’altra parte, il filone è un filone tutto francese che è stato il momento in cui hanno avuto la più forte egemonia nella cultura europea e internazionale, che è il filone che dopo l’Illuminismo, che pure pertiene prevalentemente al mondo francese, con Voltaire e Diderot, e quindi molto importante e universale, ha il suo punto di arrivo nel suo opposto, e cioè del filone che va da Baudelaire a Léautaud, e cioè un filone che si insinua nella dimensione del peccato, del segreto, della miseria dell’uomo, quindi da questo punto di vista noi abbiamo degli autori virtuosi… Come Manzoni, come Nievo, e poi abbiamo grandi realisti come Verga, ma la letteratura francese quando mette la marcia entra più dentro nella natura dell’uomo e quindi non c’è un testo… l’unico testo paragonabile a Les fleurs du mal è Foglie d’erba di Whitman, ma la dimensione è tipica degli americani, cioè con un’aria più facilona, più grandiosa, ma credo che I fiori del male siano il testo generatore di tutta la modernità e quindi di Céline e di Léautaud. Però quel filone è il filone, io in quello sono quello noi abbiamo avuto Carducci, Pascoli e perfino D’Annunzio che appare modesto se paragonato alla potenzialità europea dei francesi, da Mallarmé e a Rimbaud e poi anche dei personaggi come Rilke. Noi abbiamo una letteratura un po’ più di cartapesta, tra ’800 e ’900, che pure nel caso di D’Annunzio è bella, ragguardevole, però sembra più sfiorare che penetrare nell’animo umano.

Ultima domanda: Conoscendo il disincanto, anche il cinismo di Céline, quale domanda porresti a Céline, se avessi l’opportunità di incontrarlo?

Gli chiederei di Proust, e lui mi risponderebbe: “Proust spiega troppo per il mio giusto. Trecento pagine per farti sapere che tizio incula tizio, è troppo!”.

Intervista a cura di Davide Brullo per Pangea.it

PAVESE, IL DISERTORE?

PAVESE, IL DISERTORE?

E se Cesare Pavese fosse il nostro minuscolo Céline? Ci sono tanti modi per celebrare l’anniversario del grande scrittore. La rievocazione, l’apologia, il ritratto poetico. Oppure una rilettura della sua parabola umana e intellettuale attraverso il ricordo, a lungo rimosso, di una «bizzarria della storia culturale italiana». Il caso Pavese. Ne parlarono, per un’estate, tutti i giornali italiani, e anche francesi.

Cesare Pavese

E poi l’oblio. Era l’agosto 1990, trent’ anni fa. E si celebrava, allora come oggi, la morte di Cesare Pavese, uccisosi il 27 agosto 1950, a Torino, in una camera dell’albergo «Roma». Dieci bustine di sonnifero. La bio-bibliografia letteraria di Pavese è nota, e non è il caso di citarla. Il suo percorso politico invece si può sintetizzare in poche date: nel ’32-33 acquisì la tessera del Fascio; nel ’35 fu condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro per attività sovversiva; nel ’36 rientrò a Torino in seguito a una domanda di grazia accolta dal Duce; nel ’45 si iscrisse al Pci.

Da lì in avanti il nome di Pavese torinese, einaudiano, comunista divenne il simbolo della miglior intellighenzia antifascista. Fino a quando poche pagine di un quadernetto, fino a quel momento ignoto, cambiarono l’immagine e il giudizio sullo scrittore. Di cosa parliamo? Del Taccuino segreto di Cesare Pavese. Un bloc-notes di una trentina di pagine al quale tra l’inizio del 1942 e il dicembre 1943, quando era rifugiato sulle alture della campagna piemontese, prima a Serralunga di Crea poi al Collegio Trevisio di Casale Monferrato, il poeta affidò alcuni appunti sparsi. Il quadernetto fu trovato dal giornalista Lorenzo Mondo fra le carte dello scrittore a casa della sorella Maria, nel 1962.

Ne fece delle fotocopie e poi lo consegnò a Italo Calvino negli uffici torinesi dell’Einaudi. Passò del tempo, del taccuino non se ne seppe più niente, Calvino non prese in considerazione la possibilità di pubblicarlo, e poi sparì (ma rimasero, per fortuna, le fotocopie). Finché l’8 agosto 1990 Lorenzo Mondo decise di rendere pubblici gli appunti di Pavese su La Stampa.

E qui inizia un vero dramma esistenziale per l’intellighenzia italica. Le annotazioni di Pavese sono una bomba. Lui, antifascista e poi iscritto al Pci, in quei foglietti si lancia in invettive contro gli antifascisti e la loro stupidità, riflette sul fascismo come disciplina di vita utile agli italiani (il fascismo che ha il grande merito di dare al popolo italiano una vera visione dello Stato), parla con tono indulgente di Mussolini e della Repubblica di Salò (e spera che possa emergere vincitrice dalla guerra poiché questo nuovo fascismo rappresenterebbe un ritorno al progetto iniziale del primo manifesto di Mussolini), arriva persino quasi a giustificare gli eccidi nazisti (anche i rivoluzionari francesi facevano cose simili).

Capite che non si tratta di vezzi di un intellettuale irregolare, di pose di un irriducibile enfant terrible Qui siamo di fronte a posizioni radicali. All’epoca l’estate 1990 si scatenò una polemica feroce. La pubblicazione del taccuino infiammò la stampa, scatenando una campagna diffamatoria senza precedenti (si accusò persino lo scopritore del quadernetto: meglio avrebbe fatto a starsene zitto).

In una sorta di isteria collettiva i vecchi amici di Pavese, ex partigiani e critici letterari fecero di tutto per smentire, smussare, contestualizzare e addirittura confutare l’autenticità del documento (qualcuno arrivò a dire che magari si trattava di prove narrative: gli appunti come pensieri da mettere nella testa del protagonista di un romanzo).

Fernanda Pivano

Giancarlo Pajetta definì Pavese «vigliacco e disertore». Fernanda Pivano confessò: «Io l’ho sempre idealizzato come un antifascista puro. Leggere questo taccuino mi fa sentire come se mi avessero pugnalato alla schiena». Mentre Luisa Sturani definì Pavese «un eterno adolescente, un uomo tormentato, nevrotico». Soprattutto né la Einaudi né altri editori se la sentirono di pubblicare lo scomodo taccuino. Che rimase confinato in ritagli di giornale e fotocopie pirata. Fino a oggi.

Un altro editore torinese, meno ideologizzato e più elegante di Einaudi, ha portato a termine un’operazione filologicamente inappuntabile pubblicando in volume la trascrizione degli appunti con l’anastatica delle 29 pagine del bloc-notes, un intervento di Angelo d’Orsi che fa da introduzione, la testimonianza di Lorenzo Mondo, una lunga nota della curatrice, Francesca Belviso, e un’appendice con gli articoli di stampa che nel 1990 diedero corpo al caso Pavese (fra gli altri, di Mario Baudino, Pierluigi Battista, Franco Ferrarotti, che parla dei letterati italiani come «i campioni del pettegolezzo e delle grandi cene intellettuali in terrazza», Gianni Vattimo, Natalia Ginzburg, forse la più indulgente con il vecchio amico). Ed eccolo qui l’ultimo inedito pavesiano a non aver mai visto la luce in un libro Einaudi: Cesare Pavese, Il taccuino segreto (Aragno, pagg. CXXVI+174, euro 25).

Da notare che il testo del Taccuino è stato raramente oggetto di analisi da parte di critici e specialisti, che hanno preferito dimenticare le contraddizioni – altri direbbero le fragilità – di uno dei nomi più alti del nostro 900 letterario.

Italo Calvino

Il quale, grandissimo poeta e romanziere, fu incapace come nota Francesca Belviso nel suo imperdibile ritratto in chiaroscuro dello scrittore di sciogliere il suo vero dilemma: «esser nato nella culla dell’antifascismo italiano, crescendo accanto a uomini della tempra di Leone in uno dei bastioni della lotta partigiana e della cultura engagé e costituendo in tal modo una sorta di eccezione». La realtà, leggendo il taccuino e ripensando alla biografia dello scrittore, è molto più sfumata di quanto gli opposti furori ideologici vogliano insinuare. «È dei nostri, no è dei nostri…».

Come l’iscrizione al Partito fascista per Pavese era stata priva di un vero significato ideale o ideologico, così l’iscrizione dopo la guerra al PCI fu un’adesione senza militanza. «Pavese è persuaso che tutto sia concesso, tutto si possa perdonare al poeta: egli compie ognuno di quei gesti con una sorta di purezza; ovvero, inconsapevolmente, cioè senza una coscienza politica» scrive Angelo d’Orsi. Un Pavese impolitico, dunque, del tutto lontano da ogni forma di impegno politico autentico. Che, forse, è la cosa peggiore che si possa dire di un intellettuale di quell’epoca. E cioè che Pavese non fu fascista fino in fondo. Ma neppure un vero antifascista.

Luigi Mascheroni per “Il Giornale”

IL CATALOGO E’ QUESTO! NELL’HAREM DI LOUIS FERDINAND

IL CATALOGO E’ QUESTO! NELL’HAREM DI LOUIS FERDINAND

 Perverso in tutto. Radicalmente. In politica, è noto. Con le donne se ne può aver conferma gettando un voyeuristico sguardo nelle lettere inviate alle “amiche”. Eufemistica definizione delle avventizie diverse amanti, con le quali è superbamente menzognero. Dispensatore di sé qual tipo “leggendario”.

Giuseppe Marcenaro, autore dell’articolo

Esibisce, con strane carinerie, pur tra le più trucide circonvenzioni, la propria imago di cavaliere dell’ideale. In realtà punta soltanto a portarsi a letto il femminaio che via via frequenta in giro per l’Europa. E quelle beate donne stanno al gioco erotico. Lui, a quel tempo, il medico Louis -Ferdinand Destouches, è in procinto di trasfigurarsi nello scrittore Céline: un uomo groviglio. A modo suo vittima delle proprie pulsioni: cerca di esorcizzare la paura con il furore dell’immaginazione. Il suo dramma sta in una totale mancanza di equilibrio.

Louis Ferdinand Céline

Un combattimento impari, tutto interiore, tra la piena intelligenza con cui affronta la realtà e la sua inesistente resistenza morale. Un immoralista. Meglio, un amorale. Si lascia coinvolgere dal gioco delle passioni, dei risentimenti, dei ciechi e assurdi furori. Le “Lettere alle amiche” (ed. Adelphi, 260 pp., 15 euro) sono in questo caso un catalogo esemplare di nefandezze mascherate: un gioco a rimpiattino, il cui fine è sempre e comunque una invarigolata (è a Venezia il succhiello del falegname, inciso mio) tra le lenzuola, benché sembri parlare d’ altro.

Una propedeutica a ciò che avverrà. Per rinnovellare, con la scrittura di una lettera, quanto è già avvenuto. E’ immaginabile come un provetto amatore? Capace di lasciare un segno per la sua perizia?

La moglie Lucette Almanzon, dopo la scomparsa di Célin nel 1961, ha impedito che le opere “maledette” fossero ristampate e gettassero nuova riprovazione sul marito.

Scriveva il 4 novembre 1932 da rue Lepic, ai piedi di Montmartre dove allora abitava, a Erika Irrgang: “Divenga decisamente viziosa sessualmente. E’ una cosa che aiuta molto e libera dal romanticismo, la peggiore delle debolezze femminili – e delle debolezze tedesche soprattutto. Impari a fare l’amore ‘da dietro’. E’ una cosa che aiuta tantissimo a far contenti gli uomini senza alcun rischio. Davanti è una rovina. Attenzione! Massima attenzione!”.

L'”angoscia” che una delle sue amanti potesse rimanere incinta è una costante in tutte le lettere. Per poi passare a parlare di sé e del suo recentissimo “Voyage au bout de la nuit”: “Il libro è molto stroncato e molto favorevolmente accolto dalla critica… Staremo a vedere. In fondo ha poca importanza. Dopo dieci anni un libro è vecchio più del giornale di ieri! Per quanto vitale sia stato: ogni cosa muore…”.

Erika Irrgang era una studentessa tedesca che sarebbe diventata giornalista e romanziera. Sarà lei a raccontare l’incontro con Céline. A rievocare le settimane trascorse a Parigi, nella casa di rue Lepic, le visite che lui le fece a Breslavia, a Berlino e a Cambridge. Una nuvola di lettere dove Céline assume verso la giovane un atteggiamento affettuoso e paterno. Con brutali sfondoni erotici. Céline al tempo del loro primo incontro ha trentotto anni. Aveva forse immaginato Erika come una possibile anima gemella “inquieta, intraprendente e un po’ perversa”. Doveva aver proiettato le difficoltà della sua sorte sulla sorte di lei.

Erika Irrgang

Il rapporto tra i due sembra essere una specie di gioco “al quale in qualche modo abbiamo già perso in partenza e in cui, per avere la minima possibilità di vincere, bisogna lottare con molta durezza e furbizia, eliminando qualunque forma di vita sentimentale a beneficio della sicurezza professionale, sociale e politica”. Le lettere, siamo nei primi anni Trenta, non si limitano al privato, fanno vedere l’incombenza in Germania di una forza nefasta che avrebbe mutato i destini dell’Europa.

Con terribili profezie da parte di Céline. Il 17 febbraio 1934: “Qui accadono cose piuttosto tragiche. Tutto questo finirà fra cinque o sei anni: l’unione europea si farà nel sangue”. Per concludere con saluti di inquietante e tragica ironia: “Heil Hitler!”, “Heil Goering!”.

E’ già il polemista. Il nazista a livello embrionale. Più tardi, nel 1965, Erika Irrgang avrebbe riepilogato il proprio “viaggio al termine della notte”: “Andavamo in giro attraverso le strade notturne di un quartiere malfamato. Louis si metteva a parlare con dei vecchi ubriaconi e delle prostitute pallide. Dava a un poveraccio che sputava i polmoni una ricetta per un ricovero in un dormitorio municipale. Alzava poi le spalle quando il malato stesso ce la strappava davanti agli occhi. Dopo, mi faceva una conferenza sull’ inutilità di aiutare la gente, e descriveva con dei dettagli orrendi la ‘corte dei miracoli’ che si parava davanti a noi. Fui molto colpita da queste escursioni nella notte. Credo che le facesse per me, come esempio, per mostrarmi come fosse importante prendere le distanze dalla vita sulla strada.

Per rallegrarmi, una volta mi propose di andare al Bois de Boulogne per veder sorgere il sole. Era un mattino magnifico. Parlammo pochissimo, e non in contrammo anima viva sino al momento di far colazione in uno dei caffè del parco. Non riuscivo a capire come l’insonnia non gli lasciasse il minimo segno di stanchezza, sia sul volto sia sulla sua attenzione. E quando dopo queste avventure notturne tornavo a dormire nell’ appartamento in rue Lepic, lo attendevano ancora molte ore di servizio alla clinica”.

E le altre amiche? Tra note e anonime una lista del tipo “Madamina il catalogo è questo”. Tutte quante hanno “avventure brevi”. Dovevano pensare all’amante tale a un satiro perennemente infoiato. Tuttavia, dopo essersele fatte, non le abbandona. Prosegue il combine con un confidenzialissimo compagnonage. Attraverso le lettere. Continua a scoparle, con la scrittura. Coinvolgendole anche nella sua avventura letteraria, confidando, menzognero, indifferentemente all’ una e all’ altra: “Mi ha ispirato per una parte di ‘Mort à credit'”.

Un “grande amore” sembrerebbe aver tuttavia segnato il tourbillon “sentimentale” del satiro. Quello per Elizabeth Craig, cui dedicherà “Voyage au bout de la nuit”. Elizabeth e Louis si erano conosciuti nel 1926 in una libreria di Ginevra. Elizabeth veniva dall’ America, da Los Angeles. Ballerina a New York nel celebre spettacolo Ziegfeld Follies. Era poi arrivata in Europa per seguire corsi di danza a Parigi. Céline, medico, lavorava presso la Société des Nations. A Ginevra si sentiva solo, lontano dalla moglie Edith Follet, sposata nel 1919, rimasta in Bretagna.

Elizabeth ha ventiquattro anni. Emana ardore. Per lei Céline perde la testa. Sui due piomba però il dramma. La Société des Nations non rinnova il contratto a Céline. Deve tornare in Francia. Va a vivere a Clichy. Poi a Parigi, dove trova un alloggio in rue Lepic. Elizabeth lo raggiunge. Vivranno insieme fino al giugno 1933. Céline, nonostante la passione per la bella americana, non perde certo il “vizio”: una, due, tre donne contemporaneamente. Fa tutto scopertamente. Possibile si trovino nel letto della casa di rue Lepic anche in tre.

Céline con Elisabeth Craig

Poco dopo la pubblicazione di “Voyage au bout de la nuit” si consuma la rottura con Elizabeth. Lei torna in America. Céline vivrà il distacco dolorosamente. La storia, confessa, lo lascerà “humainement infecte, vraiment américaine, hélas!”. Il ricordo di lei non lo abbandonerà e tenterà di riconquistarla, durante un viaggio che farà in California nel 1934. A Hollywood cercherà, senza successo, di vendere i diritti cinematografici del “Voyage”.

Gli resterà nell’ animo un amarume cupo quando scoprirà che “l’imperatrice”, come chiamava Elizabeth, aveva sposato un ebreo, Benjamin Tankle, agente immobiliare. Qualcuno avanza una curiosa ipotesi: il tipo che gli ha rapito il grande amore possa essere la sorgente del suo efferato antisemitismo.

L’ uomo però non si perde d’ animo. All’orizzonte affiorano, ininterrotta giostra, Erika Irrgang e poi, una certa N., ebrea austriaca, insegnate di ginnastica a Vienna, vivace frequentatrice di influenti personaggi della cerchia psicoanalitica, con cui ruffianamente Céline si svela: ” … amore… non amore… importa poco. Ciò che conta è vivere soffrendo il meno possibile. Le donne mi attizzano, per quanto cerchi di resistere.

M’ attraggono molto le perversioni. Bisognerà pure che si vada a letto tutti insieme un giorno o l’altro. Del resto sono andato a letto con quasi tutte le donne attraenti che conosco. E lei, modestamente, lo sa bene. Per me è solo una conversazione più sincera di altre, una conversazione sui culi. La mia fidanzata Elizabeth non rientra prima di gennaio (la lettera è dell’ottobre, ndr). A Vienna sarò dunque da solo. Spero che il suo nuovo amore non le impedisca di dedicarmi un po’ di tempo… Se non può evitare di ricevere il suo filarino, starò volentieri nella stanza accanto. Anche questa cosa mi fa molto piacere. Tutto mi fa piacere. Dal momento che mi diverto e imparo… Si diverta pensando a me. Si possono amare molte persone contemporaneamente. E’ una verità che quasi sempre uno scopre quando muore”.

Evelyn Pollet

Nel girone anche Evelyn Pollet, giornalista e scrittrice. Pubblicò un libro su Céline che ebbe un grande successo dove evocava l’uomo e l’artista che le aveva lasciato un segno indelebile. Alla memoria degli approcci erotici rimase coinvolta per tutta la vita. Ricordava le sue mani intelligenti capaci di far fremere il corpo.

A oltre ottant’ anni evocava i rendez-vous con nostalgia: “Gli occhi di quest’ uomo duro avevano una straordinaria espressione languida, di confidenza, di richiamo”. Evelyn Pollet è morta centenaria nel 2005. Si vede che le intime confidenze con Céline erano corroboranti: infatti un’altra amante, la giornalista e reporter francese Evelyn Pollet, morirà nel 2008, a centotré anni.

Il catalogo delle femmine le cui identità sono arrivate fino a noi prosegue con Karen Marie Jensen, ballerina danese sempre in giro per il mondo. Anche se, pare, trovasse il tempo di vivere con Céline approcci ravvicinati. Gli era stata presentata da Elizabeth Craig. Con Karen si confidava per il perduto amore con “l’imperatrice” e nelle lettere sputava tutto l’odio per il marito che la Craig aveva scelto: “… mi vendico come posso… ah! Il piccolo Romeo, più bello, più ricco, più giovane arriva tutto pimpante… un’impotenza spirituale inaudita. Un lirismo da Galeries Lafayette, entusiasmi da ascensore… l’ anima da luccicante trombone che vive in una nazione di garagisti ubriachi e tra non molto completamente giudei”.

Lucienne Delforge

Entrò poi nel corteo Lucienne Delforge, una giovanissima pianista, agli inizi d’ una carriera musicale che avrebbe fatto di lei una vedette internazionale. Céline, un uomo già maturo, celeberrimo autore del “Voyage au bout de la nuit”, la vide il 4 aprile 1935. Lucienne dava un concerto alla Salle Chopin a Parigi. Appassionato di musica, Céline cadde in deliquio. Subì come folgore il fascino della giovane interprete.

Il 3 maggio successivo la rivide alla Salle Caveau. Entrambi erano tra il pubblico. Nell’ intervallo lui la avvicinò. Le confidò che il modo in cui lei aveva eseguito, un mese prima, lo Studio di Chopin noto come “Rivoluzionario”, gli aveva chiarito un certo sentimento di crudeltà che aveva dentro di sé, aiutandolo a finire un capitolo del suo nuovo libro, “Mort à crédit”.

Nei giorni successivi si rividero. Lui le regalò alcuni libri, tra cui “L’ Eglise” e “Le Désir”, e un dipinto di Marie Laurencin. La storia partì. Un intreccio tra due personalità fortissime. Conoscenza intima nel solito appartamento di rue Lepic. Un weekend a Londra. Poi i viaggi insieme: la Danimarca, la Svizzera, l’Austria.

Lucette Almanzon , ballerina, è morta nel 2019 a 107 anni

E le lettere. Al culmine della passione lei divenne “tesorino mio”. Per proseguire con una lettera di nove pagine: “Comme je t’ aime bien. Comme j’ ai besoin de toi. Tu sais que je ne mens jamais, que je ne ruse jamais… je t’ aime bien fort et pour la vie, forcément”. La rottura si consuma nell’ estate del 1936. Anche per lei lettere e accorate raccomandazioni. E il proprio ferale dolore della vita. “Sono contento di saperti in forma smagliante. Va tutto bene così. Sii prudente. Bada a te. Non fidarti dei tuoi impulsi troppo rischiosi. Non tentare il diavolo. Lui distrugge… Non ho mai avuto una vita facile… Giorni di macigno seguono a giorni di cacca. In fondo niente potrebbe piacermi di più. E’ la buona vita del gaglioffo per cui son fatto. Faccio collezioni di sfighe… Continuo nella notte a essere perseguitato dagli incubi”.

Lucette Almanzon nel 1938

Al tempo di questa lettera Céline aveva già incontrato Lucette Almanzor, ballerina dell’Opéra comique, che sposerà nel 1943 e con cui condividerà gli ultimi venticinque anni della sua vita.

Nel 2005 sei lettere d’ amore e poi d’ amicizia inviate da Céline a Lucienne Delforge furono vendute all’ asta chez Drouot -Richelieu. La stima era piuttosto bassa. Da mille a millecinquecento euro le lettere brevi. Le più lunghe, cinque -seimila euro. I collezionisti si contesero gli autografi, facendo salire il prezzo: tremila euro per le lettere brevi; diciannovemila per le più importanti. Alla fine, un collezionista anonimo, si aggiudicò tutto l’insieme per trentottomila euro. “E’ un ottimo risultato. Non avrei mai immaginato di ottenere un tale profitto”, commentò il banditore dell’asta.

Giuseppe Marcenaro per il Foglio

CÉLINE: GIRARE INTORNO ALL’EMOZIONE

CÉLINE: GIRARE INTORNO ALL’EMOZIONE

CÉLINE: IN PRINCIPIO ERA L’EMOZIONE- “L’UOMO DA POETA SI E’ TRASFORMATO IN DIALETTICO, CIOE’ CHIACCHERONE- LE IDEE, I MESSAGGI NON SONO IL MIO CAMPO, SONO UN UOMO DI STILE- PER SCRIVERE LE FRASI DEVONO ESSERE SCARDINATE, E’ UN LAVORO DURISSIMO”.

 

 

Ferdinand Céline

Ferdinand Céline

Il Giornale ha pubblicato un 33 giri dal titolo “Louis-Ferdinand Céline vous parle”, pubblicato nel 1957 dalla casa discografica Festival di Parigi (numero di catalogo FLD 149 M, FLDX 149 per la ristampa del 1958), per la propria collana Leur uvre et leur voix. Il disco, oggi piuttosto raro, includeva sul lato B degli estratti di Viaggio al termine della notte letti da Pierre Brasseur e di Morte a credito da Arletty, e sul lato A un interessante monologo di Céline, registrato il 22 ottobre 1957, sulla sua opera, sullo stile, sui lettori e sulla società francese, che qui pubblichiamo in parte.

Nell’intercalare si riconosce l’affabulazione tipica dello scrittore francese. Alcune considerazioni su Céline e il confronto con uno scrittore pur egli inventore della lingua, Carlo Emilio Gadda, si trovano in questo sito sotto: www.ninconanco.it/gadda-e-celine-due-funamboli-della-parola/.

E’ di prossima pubblicazione qui, inoltre, il capitolo Una fermata a Pigalle, tratto dal mio libro Cartoline da Parigi (diffusione limitata solo per gli amici) dedicato allo scrittore transalpino con un intervista immaginaria nel luogo simbolo della sua infanzia: il n. 62 del Passage Choiseul.

Céline merita questa attenzione perché la sua prosa regge al tempo ed è ancora un esempio di stile personalissimo e di perfetta aderenza ai contenuti del testo. Girare intorno alla emozione è faticoso, ma rende se ancora oggi egli è considerato uno dei massimi romanzieri del ‘900.

 

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celine1Ecco allora, per dirla tutta, guardo i romanzi dei miei contemporanei, e mi dico: «C’ è sì del lavoro, ma del lavoro inutile». Ecco quel che penso. Perché non sono né al passo, né al tono dell’ epoca. Il tono dell’ epoca, eh, beh, mio Dio… Bisogna tener conto che il romanzo, poiché di romanzo si tratta, poiché è su questo mi si chiede di dare la mia opinione, il romanzo non ha più la missione che aveva; non è più un organo di informazione.

 Ai tempi di Balzac, leggendo Balzac si scopriva la vita di un medico di campagna; all’ epoca di Flaubert, la vita dell’ adultera in Bovary ecc. ecc. Ora siamo informati su tutti questi temi, enormemente informati: e dalla stampa, e dai tribunali, e dalla televisione, e dalle inchieste medico-sociali. Oh! ce n’ è di storie, ce n’ è, ce n’ è, con dei documenti, delle fotografie… Non c’ è più bisogno di tutto questo. Credo che il ruolo di (…) (…) documentazione, e anche psicologico, del romanzo sia giunto al termine, ecco la mia impressione.

Allora, che gli resta? Ebbene, non gli rimane granché, rimane lo stile, e poi le circostanze in cui il brav’ uomo si trova. Proust a quanto pare si trovava nel bel mondo, eh, beh, racconta il bel mondo, nevvero, quel che ne vede, e poi infine i piccoli drammi della pederastia. Bene. Molto bene.

celine2Insomma, si tratta di starsene sulla linea in cui la vita vi ha messo, e di non uscirne, in modo da raccogliere tutto quello che c’ è, e poi di trasporre il tutto in stile.

Dunque, questione di stile. Bene, lo stile io lo trovo, di tutta sta roba qua, simile al tono del diploma delle superiori, al tono del giornale abituale, allo stesso tono delle arringhe, delle dichiarazioni alla Camera, cioè uno stile verboso, eloquente può essere, ma sicuramente non emotivo. Li guardo come gli impressionisti dovevano guardare ai pittori del loro tempo, che d’ altronde gli rendevano la pariglia.

 Chiaramente l’ impressionista, quando guardava la chiesa di Auvers di un pittore dell’ epoca, un buon pittore dell’ epoca, non era mica un Van Gogh! E l’ altro diceva: «Ma è un orrore, è un criminale, bisogna ucciderlo!». Ebbene, pensano ancora questo dei miei libri, evidentemente. Dicono, ma insomma questo tipo cos’ è che ha che non va e via dicendo…

 Bene, io dico che quel che fanno, sono romanzi inutili, perché quel che conta, è lo stile, e allo stile, nessuno vuole piegarvisi. Richiede un enorme lavoro, e alla gente non piace il lavoro, non vivono per lavorare, vivono per godersi la vita, e questa cosa non permette molto lavoro, e invece richiede un enorme lavoro, molto, nevvero. Gli impressionisti erano dei grandi lavoratori. Senza del lavoro, non puoi fare molto. C’ è l’ eloquenza naturale, beh è davvero nociva, l’ eloquenza naturale, veramente nociva. Bisogna che la cosa tenga sulla pagina. Per tenere su una pagina, serve uno sforzo grandissimo.

 Trovo che questa sia una cosa da fare per intero: uno stile. E di stili, non ce ne sono poi molti in un’ epoca, sa. Senza essere presuntuoso, non ce ne sono molti. Ce ne sono tre o quattro per generazione; bisogna dire la verità, perché, se non la dico io, nessuno la dirà. Insomma, sono decadenti loro stessi, dopotutto; non durano che un’ epoca.

 C’ è una percezione della vita, una filosofia generale, che la vita è eterna, nevvero, che la vita comincia a sessant’ anni, a quarant’ anni, a cinquant’ anni…

No! No! No! Essa è passeggera! Quindi è il tempo che governa, e non dura mica per sempre. George Sand si beffava di quelle vecchie smorfie da anziani cortigiani. Ma se vedessimo lei stessa ora, la troveremmo del tutto ridicola. C’ è quindi un tempo, un tempo preciso. Guardate le grandi storie. Cosa resta a teatro?

Non molto. Si ritorna sempre a Shakespeare, per forza. Shakespeare, ha dalla sua il costume, questo lo salva. Si situa quindi fuori dalla sua epoca. Lì ha vinto. Tanto che se noi recitiamo Shakespeare vestiti con abiti moderni, sappiamo che è brutto, che non rende l’ effetto. No, no. C’ è tutta una serie di circostanze che vi concorrono.

 Allora, dicono: i romanzi di Céline, che strazio, che noia, eccetera: perché non sono nello stile del diploma delle superiori, nello stile ammesso, lo stile del giornale abituale, lo stile della laurea in lettere. Stili che s’ impongono veramente, formalmente, e che tengono, che terranno, ora le dirò perché, poco a poco.

celine3 Torniamo allora allo stile. Questo stile, è un certo modo di forzare le frasi, a farle uscire leggermente dal loro significato abituale, e poi di scardinarle, per così dire, di spostarle, e forzare così il lettore stesso a spostare il suo senso…

Ma con leggerezza! Oh! Con molta leggerezza! Perché tutto questo, se lo fate pesante, nevvero, è uno sbaglio, è lo sbaglio… Questo richiede quindi enormemente del distacco, della sensibilità; difficilissimo da farsi, perché bisogna girarci attorno… Attorno a cosa? Attorno all’ emozione.

 Allora, voglio tornare al mio grande attacco contro il Verbo. Sapete, nelle Sacre Scritture, c’ è scritto: «In principio era il Verbo». No! In principio era l’ emozione… Il Verbo è arrivato dopo, per rimpiazzare l’ emozione, come il trotto rimpiazza il galoppo, mentre la legge naturale del cavallo è il galoppo, non il trotto; gli si fa fare il trotto. Hanno fatto uscire l’ uomo dalla poesia emotiva per metterlo nella dialettica, cioè nella chiacchiera, no? O le idee. Le idee, niente di più volgare. Le enciclopedie sono piene di idee, ce n’ è quaranta volumi, enormi, riempiti di idee. Molto buone, d’ altronde. Eccellenti. Che hanno fatto il loro tempo. Ma non è questa la questione.

Non è il mio campo, le idee, i messaggi. Non sono un uomo da messaggi. Non sono un uomo da idee. Sono un uomo di stile. Lo stile, tutti ci si bloccano davanti, nessuno ci si impegna, in st’ affare. Perché è un duro lavoro. Consiste nel prendere delle frasi, vi dicevo, e a scardinarle. O un’ altra immagine: se si prende un bastone e si vuole farlo apparire dritto nell’ acqua, lo si deve prima spezzare, perché la rifrazione fa sì che se metto il bastone nell’ acqua, sembrerà rotto. Bisogna spezzarlo prima di immergerlo in acqua. È un lavoro, è un vero lavoro. È il lavoro durissimo di chi scrive con stile.

 Spesso la gente viene da me e mi dice: «Pare che scriviate facilmente». Ma no!

Io non scrivo facilmente! Solo con molta fatica! E scrivere mi abbatte, per di più.

E questo deve essere fatto molto finemente, molto delicatamente. Servono 80.000 pagine per arrivare a farne 800 di manoscritto, dove il lavoro è cancellato.

Normale, che il lavoro sia sparito. Lo si vede mica. Il lettore, non è che deve vederlo, il lavoro. È un passeggero, lui. Ha pagato il suo posto, ha comprato il libro.

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