IL VAGABONDO DELLE ACQUE

IL VAGABONDO DELLE ACQUE

La casa editrice la Nave di Teseo ripubblica Cronache dell’alluvione di G.A. Cibotto (1925-2017), a 70 anni della tragedia che nel novembre del 1951 sommerse il Polesine- Una nuova edizione, con testi di Gian Antonio Stella, Elisabetta e Vittorio Sgarbi. Su questo sito puoi leggere su di lui in www.ninconanco.it/toni-cibotto/

Toni per gli amici, ha 26 anni quando, il 14 ottobre 1951, lasciata Roma, accorre nel suo Polesine devastato da un’inondazione di proporzioni quasi inimmaginabili. A Roma lavora alla Rizzoli e alla Fiera letteraria di Vincenzo Cardarelli, ed è sulla Fiera che sente il bisogno di pubblicare i primi racconti (Carnet dell’alluvione), scritti di getto, di un’esperienza seminale per il prosieguo della sua vita e della carriera letteraria. A un amico confiderà di essersi sentito «costretto ad amare una terra da cui sognavo unicamente di andarmene».

Gian Antonio Cibotto

È merito dell’amico e grande estimatore Neri Pozza se il Carnet diventa, tre anni dopo, Cronache dell’alluvione, il suo primo libro, accolto come una rivelazione da critici quali Eugenio Montale e Giovanni Comisso. Riletto ora, sembra mantenere il ritmo incalzante dell’azione improrogabile del protagonista impegnato a portare soccorso e conforto ai dispersi prigionieri al piano più alto di case sommerse, altri aggrappati a un muro o a una pianta ghermiti da una fredda corrente impetuosa, poi a procedere avanti per ore sempre chino sul remo che brucia le mani perché rari sono i mezzi a motore. Spesso la pioggia e la nebbia si accompagnano al buio che le torce non riescono a squarciare. Ai gridi e ai lamenti dei cristiani si assommano i versi delle bestie di ogni razza abbandonati nei recinti o ricoverati pure loro al piano più alto delle case nella speranza che arrivi il deflusso, ma già si vedono galleggiare le prime carcasse di animali travolti dai flutti.

Elisabetta Sgarbi

Nel rapporto con gli umani, nel tentativo di indurli alle scelte più ragionevoli, se non alla collaborazione, l’autore deve fare i conti con le diverse caratteristiche antropologiche e sociali che determinano la coscienza di classe quando si tratti di braccianti o contadini o agrari latifondisti, questi ultimi spesso con picchetti armati a difendere innanzi tutto la “roba”. Frutto anche del marasma organizzativo che ha colto tutti impreparati o inadeguati. Ci sono anche pause talvolta, alle osterie aperte che contendono alle parrocchie il richiamo di aggregazione: qui si beve e si bestemmia e ci si scalda, alle pareti sono appesi l’immagine della Madonna o della Sacra Famiglia e la foto di Giacomo Matteotti, il deputato socialista ucciso dai sicari di Mussolini. Toni incontra anche degli amici: i colleghi del «Gazzettino», ai quali si aggrega perché meglio attrezzati; Carlo Levi, che ha già pubblicato Cristo si è fermato a Eboli ed è una celebrità; Giuseppe Marchiori, genius loci, ruolo che in futuro sarà suo.

A Levi presta i suoi stivaloni alti, provvidenziali perché anche in città l’acqua in certi punti è molto alta e, in un punto proibitivo per il “piccolo” Toni, Levi, assai più prestante, se lo issa sulle spalle «come fosse un coolie cinese». Una sera, tornando a casa, si accorge che il postribolo è ancora abitato: «forse l’arrivo della truppa ha richiamato le donne».

La forte presenza ingombrante di militari e forze dell’ordine ispira a qualcuno un forte antimilitarismo, al punto di proclamare, con delizioso, per noi, anacronismo che «se arriva a comandare l’Italia leva la divisa anche alle maschere del cinematografo». Alla cronaca in presa diretta sono intercalate riflessioni ispirate alla saggezza popolare espressa in dialetto attraverso proverbi come «l’acqua xe pezo del fogo» o «a chi nasse desfortunà, ghe piove sul culo stando sentà». Cibotto arriva a ritenere che qui, ma potremmo dire in tutto il Veneto, il pensiero nasce in dialetto e il parlato in italiano ne è la traduzione. Ma è il paesaggio che più ispira le sue pagine di lirico accento, «perché il paesaggio è uno stato d’animo» e il suo vagabondare in lungo e in largo sull’infinita distesa d’acqua gli offre il continuo variare della luce, dei colori e delle forme.

Gian Antonio Stella

Dopo le Cronache Cibotto pubblica altri libri con Vallecchi, Rizzoli, Marsilio con Cesare De Michelis, ancora Neri Pozza con Giuseppe Russo e ora viene riproposta tutta la sua opera da La nave di Teseo. Prima che il silenzio lo cogliesse negli ultimi anni della sua vita, era stato il vulcanico animatore della vita culturale della sua regione: cronista e critico letterario e teatrale al «Gazzettino», direttore del Teatro Goldoni a Venezia, promotore di premi letterari quale Il Campiello, con la collaborazione degli Industriali Veneti, in una formula che sarà poi mutuata dal Premio Comisso e dal Premio Estense, scopritore e sponsor di giovani talenti, come Elisabetta Sgarbi e Giancarlo Marinelli.

TONI CIBOTTO

TONI CIBOTTO

 

 

Ad agosto dell’anno appena passato è morto Gian Antonio Cibotto, Toni per tutti quelli che l’hanno conosciuto o letto. Era nato nel 1925, aveva 92 anni, quasi tutti trascorsi a Rovigo, dopo qualche anno a Roma, sùbito dopo la laurea, con Cardarelli e Fabbri.

 

 

In bilico fra attività giornalistica e la riscoperta del repertorio del teatro popolare veneto, si trovò a fare il mestiere dello scrittore quasi per caso, come nota Cesare De Michelis:..” trascinato dagli avvenimenti, spinto dall’urgenza di testimoniare per rendere giustizia, senza esplicite ambizioni letterarie, ma ricco di un vivo senso morale”

Toni Cibotto in una foto giovanile

E’ quanto si legge nella nota a commento del libro Cronache dell’alluvione (Marsiglio editore,1980),  testo che meglio caratterizza Cibotto e che segna il suo esordio come “regolare uomo di penna”, com’ebbe a scrivere Eugenio Montale sul Corriere del 6 ottobre 1954.

La grande alluvione del novembre del 1951 cambiò il Polesine per sempre, ne allontanò gli uomini, e chi rimase o tornò si trovò cambiato.  Successe così a Toni Cibotto, che ancora nel 1961 scriveva a Livio Rizzi, il maggior poeta polesano, “di essere stato costretto ad amare una terra da cui sognavo unicamente di andarmene”. In questa affermazione c’è molto della natura un po’ lunatica e umorale di Toni, la sofferenza che gli derivava del senso di soffocamento per la ristrettezza della vita provinciale.  Ma in realtà Rovigo è veramente città ristretta nella sua pochezza?

 Vale la pena di riportare queste poche righe, tratte dal libro Rovigo, i tempi e i luoghi, scritto da un altro polesano da poco scomparso, anch’egli giornalista fine e delicato, Sergio Garbato.

Sergio Garbato (Foto Donzelli)

“”Rovigo appartata città di provincia? Forse sì, ma ormai tanto tempo fa. Rovigo città di campagna come suggeriva uno scrittore che l’ha molto amata? Sì, ma oggi la campagna è lontana. Rovigo città di confine? Certamente, ma con misura. Rovigo città d’acqua? A patto, però, di tenere a mente che è tutto il territorio a essere stretto tra i due maggiori fiumi d’Italia e tagliato in ogni direzione da altri fiumi e canali. Rovigo città di pianura? Naturalmente, ma i colli euganei sono a due passi e le loro forme si profilano nell’azzurro quando il cielo è terso. Rovigo città d’arte? Se ne parla in tempi recenti e i capolavori e le raccolte preziose non mancano. Rovigo città di poeti? Ce ne sono stati diversi e hanno lasciato traccia vivida e affettuosa. Per cogliere l’identità smemorata e smemorante di questa città si può, forse, cercarla con il cannocchiale rovesciato della storia, magari per trovare il segno di una duplicità che si manifesta in ogni tempo ma in modo diverso. Ci sono le vestigia di un castello medievale perduto che si affaccia su una strada di grande traffico urbano, per riconoscersi nello specchio deformante del presente. C’è la città estense e c’è quella veneziana, con palazzi prestigiosi e la memoria affascinata di stagioni d’arte e cultura, ma anche di complesse vicende idrauliche. C’è la piazza grande e c’è quella più recente e attigua che occupa lo spazio che era stato di una chiesa e una terza che si apre là dove era il ghetto ebraico. C’è un duomo luminoso e maestoso, ma c’è anche l’antica chiesa francescana che ancora offre i suoi tesori e poco oltre un tempio dedicato alla Vergine che è anche il trionfo del manierismo veneto. A percorrerla e ripercorrerla, Rovigo offre stimoli e suggerimenti, ma con pudore e reticenza, come ha sempre fatto, in un continuo intreccio di presente e passato. Una città disseminata di segni e indizi che non si lasciano catturare al primo sguardo..”

In realtà senza il Polesine e la sua gente Toni non avrebbe potuto scrivere. Lo dimostra la sua produzione, lo dimostra il rammarico, lo sdegno che fanno da contrappunto all’asciutta cronaca di quel 14 novembre e delle settimane che ne seguirono.

“Gente indocile la polesana, amara, di poche parole, sentenziosa e amante del vino e delle strambe fantasie; gente violenta, rissosa, eppure piena di abbandoni, capace di avarizie feroci e di squisite gentilezze, portata alla solitudine, ai pregiudizi, alle superstizioni, con individualità, come ha scritto Marchiori [Giuseppe Marchiori, critico d’arte e giornalista, nato a Lendinara nel 1902. n.d.r.], del tipo toccato dalla follia”

Nello scarno libretto l’immagine del fiume in rotta e che tutto divora e sommerge è resa con la partecipazione dell’esperienza, in presa diretta diremmo oggi.

“Incontriamo il Po. E’ così gonfio che tra la riva e il pelo dell’acqua ci sarà mezzo metro. Fa un’impressione tremenda… Le golene sono completamente sommerse. Fra i pioppi spunta ogni qual tratto gente che trascina le masserizie sulla strada… Oltrepassata la grande curva golenale, arriviamo in vista del fiume. Sembra il mare. Corre lento, gonfio, terroso, portandosi dietro migliaia di relitti che vengono a urtare contro la riva come trottole”

“Ore 20,30. E’ arrivata la notizia, portata non si sa da chi, che il Po ha rotto… Vedo frecciare la macchina del Gazzettino… mi informano che il Po ha rotto a Occhiobello e Paviole dove siamo diretti… Sfiliamo accanto a una litania di gemiti, lamenti, richiami, smarrimenti, invocazioni. Sono dovuti scappare così come si trovano…i più fortunati hanno potuto tirarsi dietro le bestie, che legate ai carri osservano pigramente il trambusto. Sembra di essere tornati indietro di qualche anno, ai giorni della guerra: lo stesso scappare disordinato, lo stesso guardare implorante.”

“Lo scroscio dell’acqua è assordante, pauroso. Siamo oramai in vista delle squarcio. L’acqua entra con una velocità e un fragore di cascata, scaraventando onde furiose contro l’argine, che si sgretola aprendo sempre più la bocca”

 A rendere incalzante il racconto non mancano episodi gustosi, descrizioni di caratteri, riflessioni morali, come questa: “.. nulla nella vita ci rende comprensivi e tolleranti come la coscienza della nostra debolezza, e nulla più feroci d’una debolezza che per timore fuori luogo, ci porta a considerarla uno stato d’inferiorità, da dissimulare. In fondo l’amore, il bisogno di confidenza, nasce dalla reciproca consapevolezza d’una inferiorità e dal bisogno di superarla aiutandoci con la mano di un’altra persona. L’egoismo invece da una inferiorità che ha paura di se stessa, e si giudica peccato, ombra morale, segno infamante”

Né, lasciandosi per un attimo la tragedia alle spalle, mancano i momenti lirici: “ Lendinara, annunciata dalle agili ciminiere che s’incastrano di prepotenza tra la carovana di lunghe nuvole ingombranti il cielo, ci accoglie con la sua notturna dolcezza di paese scampato al disastro. Una dolcezza fatta di strade tranquille e deserte, di luci che si allargano timorose dai lampioni, di canti isolati che svaniscono in lontananza, di rumori sommessi sulla piazza sbiancata dalla luna, di vento odoroso d’erba, spinto a folate discontinue dall’Adige vicino”

Le Cronache sono inframezzate di proverbi, un modo per l’autore per riportare al centro, con la loro saggezza popolare, i protagonisti di quei giorni.

Cesare De Michelis, editore e amico di Toni. E’ a capo della Marsiio editori in Venezia

Uno, in particolare, sembra riassumere paradossalmente tanto disastro e tanta sofferenza: “L’acqua e ‘l cuor fa morir in silenzio”.  Il silenzio notturno, la case spettrali, le stalle vuote, la fila degli scampati composta e inerte. La vera disperazione, ci dice Cibotto, non gesticola, è muta, è impietrita. E i lamenti più dolorosi sono quelli delle bestie: “ Non ho mai sentito lamento più doloroso di quello delle bestie. Specie o buoi e i cani. Passando davanti alle stalle o alle case di campagna, udiamo continuamente il loro richiamo. Finisce con un rantolo sordo, strozzato, come un lamento senza speranza”.

Elisabetta Sgarbi, che Toni incoraggiò nei suoi primi passi come editrice. La Nave di Teseo si appresta a pubblicare quest’anno l’opera omnia di Cibotto.

Sfuggendo alle descrizioni neorealistiche, immergendosi nell’esperienza dell’alluvione col corpo e col cuore prima che con la mente, Toni Cibotto scrive un resoconto di straziante normalità, schietto e ancora oggi commovente, che apre più speranze di quelle che sembra volere abbandonare. E’ bene che Toni Cibotto abbia scelto di essere primo a Rovigo, piuttosto che ultimo a Roma. Se no non avremmo avuto il piacere di conoscerlo, nè avute le Cronache dell’alluvione, un piccolo classico minore che vale la pena rileggere, per ricordare un uomo serio e uno scrittore di razza.

 

 

CA’ VENDRAMIN

CA’ VENDRAMIN

Una generazione se ne va e un’altra arriva,/ma la terra resta sempre la stessa./Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce./Il vento va verso sud e piega verso nord./Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento./Tutti i fiumi scorrono verso il mare,/eppure il mare non è mai pieno:/al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere.

 

Con queste parole si apre i Libro di Qoèlet, contenuto nella Bibbia. I fiumi scorrono sempre verso il mare, ma la terra non resta sempre la stessa. Lo scoprì Gianni Celati, durante il viaggio del 1989 Verso la foce (è il titolo del libro che trasse dagli appunti del suo diario). Prima di lui fece lo stesso viaggio Mario Soldati: era il 1957. Giunto a Ferrara, in località Dogana Vecchia, proprio sotto l’argine del Po, lo scrittore piemontese assiste sgomento ai lavori idraulici che, allargando il vecchio argine, avrebbero sepolto quanto rimaneva del presidio fra due Stati: quello fra Serenissima e Pontificio.

Panorama da Ca’ Vendramin sul delta del Po.

Le terre cambiano, cambiano con esse gli uomini, spesso in peggio. Per meglio dire: terre e uomini cambiano insieme. Ed è una bella lotta stabilire il primato. Può più l’opera rovinosa delle acque alluvionali, l’incessante erosione dei marosi, oppure l’antropizzazione? A dire che , fino a non molto tempo fa, qualcuno era disposto a credere che queste terre padane così estreme, sbracciate sul mare, qualche cosa di speciale la conservavano. Ne fanno fede queste parole di Giovannino Guareschi, quello di Don Cammillo e Peppone. “Bisogna rendersi conto che in quella fettaccia di terra fra il fiume e il monte possono succedere cose che da altre parti non succedono.” Sono sicuro che Gianni Brera farebbe sue queste parole (lui di San Zenone sul Po)! Quando l’uomo si misura direttamente con la natura, tocca la sua piccolezza, ma la sua inquietudine esistenziale lo spinge ad andare oltre tali limiti, là dove tutto può succedere, dove cedono le paure e si fa più acuta la consapevolezza del mito.

Di questa lotta fra ambiente e uomo fa fede il Museo regionale della bonifica di Ca’ Vendramin, che visito accompagnato dal mio capitano Achab (https://www.ninconanco.it/col-capitano-achab/), uomo di scanni e abilissimo a scansar barene. Guardo lui stagliato lungo il profilo dell’argine e della ciminiera che sembra un obelisco. Mi viene da accostarlo a quel pescatore di Scano Boa,(www.comingsoon.it/film/scano-boa/20006/scheda/) atipico eroe e maldestro pescatore, inventato da Gian Antonio Cibotto, un altro squisito letterato, vegliardo indomito, impastato di versi, canne palustri e fango.

 

 

 

Le foto in bianco e nero si riferiscono ai lavori per la costruzione dell’idrovora di Ca’ Vendramin

Il consorzio o retratto (secondo la vulgata veneziana) risale al 1745. Nasce per iniziativa dei privati, proprietari terrieri e latifondisti interessati al controllo delle acque e alla bonifica dei terreni. Nel 1801 sotto Napoleone i tre preesistenti consorzi di bonifica vengono unificati e nel 1804 la manutenzione dei fiumi e degli argini diventa competenza statale. Nel 1815, quando ai francesi subentrano gli austriaci, il consorzio assume la denominazione di Consorzio agli scoli dell’Isola di Ariano, attuale Consorzio di bonifica del Delta del Po.

Il prosciugamento dei terreni avveniva attraverso poderose macchine idrauliche: la prima idrovora a Ca’ Vendramin, mossa da vapore, nei cui locali, costruiti fra il 1900 e 1903, oggi è ospitato il museo.  Due le idrovore secondarie, mosse da energia elettrica. Una rete allora all’avanguardia, progettata dal Genio civile di Rovigo, su indicazione di un abile ingegnere di Castelleone, Antonio Zechettin, meritatamente ricordato in un’iscrizione.

 

A causa dell’abbassamento del suolo fra gli anni 1950 e ’60 l’impianto perse la sua rilevanza e venne dismesso, a favore del nuovo impianto di Goro.

Il progetto iniziale prevedeva di allocare qui un ecomuseo, in cui valorizzare il significativo patrimonio storico e ambientale di Ca’ Vendramin, offrendo servizi culturali e occasioni per un uso intelligente del tempo libero e del turismo. La Fondazione Ca’ Vendramin, che pure vede la presenza, oltre agli enti locali, della Regione Veneto, è priva di mezzi finanziari adeguati. Il centro culturale per studi e ricerche collegate all’ambiente del Po è solo sulla carta.

Lo stesso vale per l’orto botanico, che il progetto prevedeva di specializzare nella salvaguardia e studio delle varietà botaniche tipiche dell’area deltizia. Dopo le restrizioni dei fondi per le gite scolastiche, anche questo flusso turistico, numericamente significativo, è andato ad esaurimento. Oggi, per entrare nel museo non bisogna certo farsi largo fra la calca. Ma forse è meglio così: queste sale enormi, in cui persistere l’odore del grasso minerale e della ruggine, in fondo stanno bene immerse nella penombra e nel silenzio. Silenzio fatto di rispetto e ammirazione per il tanto lavoro e il tanto ingegno profusi, nel produrre prima e nel mantenere in efficienza poi queste macchine che, pure inerti e scrostate, ancora riescono a trasmettere forza e a ispirare riguardo. Oltre che silenziose, queste sale diventano impenetrabili da novembre a tutto febbraio dell’anno successivo, in quanto il museo in quei mesi chiude. Un po’ come i rifugi di montagna!?

Nelle varie sale le didascalie sono puntuali, grandi pannelli illustrano la storia dell’edificio ed è possibili visionare materiale multimediatico. 

Manca, purtroppo, un opuscolo illustrativo takeaway.

Lungo le pareti della sala convegni troviamo una mostra fotografica sul tema Polesine, opera di una appassionata locale: Maria Burgato. Riproduciamo qui sotto alcuni dei suoi scatti.

Per informazioni e prenotazioni: www.fondazionecavendramin.it

Info@fondazionecavendramin.it

 

 

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