Nella conversazione di Conte con il paese e i giornalisti si ritrova la solita commedia. Il tribuno dell’eloquio ha fatto la sua parte con il suo stile: sa di essere uno qualunque, e che in quello è la sua forza a suo modo virtuosa
Conte a Capodanno, che delizia. L’ho ascoltato per venti dei diecimila minuti di conversazione castro-andreottiana con il paese e i giornalisti, e quando qualcosa era “all’attenzione del governo” scattava una carezza a uno dei miei cani, quando qualche altra cosa era “nel segno della flessibilità”, ancora una carezza all’altro, era tutto un minimizzare ingrandendo e ingrandire minimizzando, finché all’attenzione di chi di dovere arrivava la prospettiva, in caso di maggioranza mancante, di una gita in parlamento delle sue, e qui tutto un ciap ciap e un pat pat al branco intero festaiolo e scodinzolante.
I literati viavenetisti seduti al caffè conversevole da mane a sera, quando i passanti li guardavano e prendevano posto a loro volta nella movida romana d’antan, dicevano sprezzanti “credono di essere noi”. Lui è come i passanti, ma non crede, è sicuro di essere uno di noi, gli avvocati dicono un quidam de populo. Sia lodato il magistrale dottor Zampetti (segretario generale al Quirinale, n.d.r) che se lo è inventato, proponendolo dietro le quinte del Quirinale per un governo assurdo, forse sapendo che alla fine ne sarebbe uscito un altro altrettanto surreale, cattivo il primo, entro certi limiti, buono il secondo, con gli stessi o altri limiti. E così è per la prosecuzione dell’esperimento utile, oppure per il terzo dei molti Giuseppi. Poiché spero vivamente che nella loro esperta conoscenza della politica italiana, e di quella parlamentare in genere, i miei compatrioti avranno decisamente capito che le tensioni più o meno vaccinali, e le liti su come essere spendaccioni, sono alla fine una cosa semplice e delicata, per niente pericolosa.
Conte non ha una retorica, sarebbe troppo, ha un eloquio, come tutti gli avvocati di buona lena professionale. Basta ascoltarlo, anche in edizione abrégé, ridotto ai punti essenziali, per capire che cosa stia succedendo davvero. Renzi fa il suo mestiere, triangolando di volta in volta con l’opposizione e con il Pd, e finanche con qualche grillino, per limitare il potere apparentemente amministrativo dell’avvocato del popolo e delle élite. Lui intende bene, coglie l’antifona senza problemi di orecchio. Ci sono in ballo milioni di punture e miliardi di investimenti, non si può scherzare né sorvolare. E Giuseppi recepisce, annota, procede nell’adesione e nel contrasto imitativo, pantomimico, tipico della nostra tradizione politica. Dove le avrà imparate quelle cose, chissà. Ma le ha imparate bene.
Si comincia con la famosa cabina di regia, e con la famosissima governance del Next Generation Eu. La cabina, che una volta fu gabina, c’è e non c’è, ecco. Ovvio che ci sarà, vorrei vedere, ce lo chiede l’Europa, è un compito a casa, ma ci sarà ben dissimulata e rovesciata in una cabina ministeriale classica, con consulenti, con un salto in padella alla maniera delle tortillas. Quanto al Recovery fund, non si dica che Conte è soddisfatto del lavoro compiuto, troppi ostacoli, troppe imperfezioni, troppi rischi di fare tardi, anzi, è d’accordo con Renzi, manca un’anima politica al piano di investimenti in quintistilioni, e all’anima lui ci tiene come tutti, crisi o non crisi. Di qui alla verifica il passo è breve e ben argomentato, all’attenzione del governo, dei partiti e dell’opposizione, compresi eventualmente i responsabili.
Il Capodanno in casa Giuseppi è fatto di poco, e il presepe alla fine deve piacere anche a Nennillo (personaggio di Natale in casa Cupiello, ndr) figlio, ma senza la dolorosa appendice del decesso di papà. La commedia, riassunta ogni giorno nelle note politiche fervorose e nei retroscena gotici dei giornali, è quella solita, è il nostro modo proprio di affermare un’autorità che non lo è o di sancire una destituzione falsa di autorità per chi la esercita, proprio come ai tempi di democristiani sorridenti e lieti e del talento di Andreotti. Notevole che il dittatore sanitario abbia escluso saggiamente pro tempore l’insulsaggine dell’obbligo vaccinale, notevole il suo ottimismo in allerta, vistosa ma non troppo e non troppo minacciosa la sua pochette, il tribuno dell’eloquio ha fatto la sua parte con il suo stile, che è il massimo ottenibile nelle presenti condizioni, e bisogna farselo bastare con l’aggiunta del macellaio, che è una piccola bonanza per il cliente. Coloro che “credono di essere noi” sono serviti da uno che sa di essere qualunque, e che in quello è la sua forza a suo modo virtuosa.
Articolo di Giuliano Ferrara, il Foglio quotidiano
GIULIO TREMONTI, SMESSI I PANNI MINISTERIALI FA IL MEMORIALISTA- FRA RICORDI E VECCHI RANCORI RACCONTA LA SUA EUROPA E LANCIA UN ALLARME PER IL DOPO CORONAVIRUS: CROLLO ECONOMICO, CRISI POLITICA, DISTACCO DAL PARLAMENTO-IL PROBLEMA NON E’ AVERE LA FIDUCIA DEI MERCATI MA QUELLA DEL POPOLO
Giulio Tremonti è asserragliato a Pavia in una delle giornate più buie per la Lombardia e per l’ Italia. Non è facile parlare di economia, di Europa, di Mes, ma si deve, perché – dice – «dopo arriverà la vera crisi». E con La Verità, scosso dalla notizia del record di morti nella sua regione, parte da qui.
Professore, cosa pensa della linea che pare decisa dal premier e dal Tesoro, di fare ricorso al Mes, che da giorni raccontiamo su queste colonne? Un gruppo di economisti ed economiste «europei» ieri è sembrato tracciare il solco in tal senso, con una proposta concreta. E lunedì si terrà l’ Eurogruppo.
«Vedo anche io economisti “europei” sostenere che il Mes è la giusta strada. Cercando di superare la barriera tra il tragico e il comico, viene in mente una barzelletta dell’ età sovietica. Sulla Piazza Rossa sfilano le bandiere, le accademie, le forze blindate, i missili, e in coda si affanna un drappello di civili variamente assortito. Il Segretario del partito, furibondo, ne chiede la ragione. Viene convocato sul palco il comandante dello schieramento, che spiega: “Sono io che li ho fatti entrare, quella è la nostra arma più temibile: sono i nostri economisti”».
Usciamo dalla metafora. È ancora tempo di Unione europea? Lei è europeista o no?
«Da 30 anni non sono globalista, ma trovo difficile definirmi antieuropeo. È questo un tempo in cui accumuli ricordi. Ricordo tante proposte respinte con sicumera “europea”. La banconota da un euro, come il dollaro, anziché la monetina, era pro o contro l’ Europa? Quella della “de-tax” per l’ Africa?
E il discorso sui dazi da non eliminare subito, da togliere lentamente per difendere le nostre imprese e i nostri lavoratori? E l’ opposizione alle sanzioni contro Germania e Francia, proposte dalla Commissione Prodi? Ricordo che la disciplina delle sanzioni così richieste fu definita “stupida” il giorno dopo dallo stesso richiedente…
Era un’ idea contro l’ Europa l’ invito a passare dal “free trade” a un più equilibrato “fair trade”, facendo notare che se in Europa si era fatto il “mercato unico” con la globalizzazione, quello non era più l’ unico mercato? E ancora, l’ invito a stoppare i km di regole, Brexit insegni? Infine, la proposta degli Eurobond (fatta nel 2003 e poi nel 2009) e quella avanzata alla presidenza di turno francese del ministro Lagarde il 29 settembre 2008, di costituire un fondo europeo?».
Veniamo al Mes. È davvero il cavallo di troia della Troika o è uno strumento di salvezza?
«Timeo Danaos et dona ferentes. Quando nasce l’ idea degli eurobond, prima nel 1994 con il piano Delors, poi nel 2003 con la presidenza italiana, si pensa a titoli europei per finanziare non solo le infrastrutture, ma anche la Difesa. Il cancelliere inglese di allora mi disse: “No, thanks: questo è nation building”.
Poi, nel 2009, nel pieno della crisi, con Juncker l’ idea è di avere titoli non per fare più debito ma, rispettando i limiti previsti dal Trattato, sottrarsi al costo della speculazione. In una notte del 2009 all’ Eurogruppo venne un notaio a raccogliere le firme per incorporare il fondo europeo come strumento privatistico, perché non aveva ancora basi nel Trattato. La discussione si sviluppò attorno a due principi: serietà sopra, nei bilanci, solidarietà sotto, e in mezzo la piattaforma per gli eurobond».
E poi?
«Poi tutto saltò con la crisi greca e con la Troika appunto: Bce, Fmi e Commissione che salvarono, con i nostri capitali e calpestando la nostra democrazia, le banche tedesche e francesi».
Draghi, Lagarde e Juncker. In parte, scambiate un po’ le poltrone, siamo ancora lì.
«Veda lei. Ripeto comunque che la proposta degli eurobond era per creare debito veramente europeo, non debito nazionale controllato dall’ Europa. Ora sento sigle dalla sinistra semantica sanitaria. Il punto è: chi emette i titoli per cui si inventa varia nomenclatura? L’ ambiguità sprigionata dal detto-non-detto suggerisce l’ uso bizantino della formula “quasi”: quasi eurobond.
Oggi come oggi i nuovi titoli non può emetterli a statuto vigente la Banca europea degli investimenti. Per statuto va esclusa la Bce, in teoria potrebbe farlo la Commissione, ma in realtà in questo senso c’ è solo un precedente, remoto e marginale. Ecco che arriviamo al Mes. La situazione oggi è questa: devi capitalizzarlo per attivarlo, e per capitalizzarlo devi sottoscrivere nel nostro caso circa 100 miliardi. Ovviamente facendo altro debito».
Ma che senso ha se dobbiamo mettere soldi in un veicolo che poi ce li restituisce, se la Bce si è sostanzialmente impegnata a sottoscrivere i titoli di tutti?
«Assumendo che il Mes cubi 700 miliardi, e che all’ Italia venga data solo la sua quota di competenza, nel dare e nell’ avere mettere 100 vorrebbe dire avere solo qualcosa in più in termini finanziari. Ma pagando un altissimo prezzo politico. Sarebbe una partita di giro, anzi in realtà è una partita di raggiro».
Si spieghi.
MECCANISMO EUROPEO DI STABILITA’ 1
«Possono raccontarcela come vogliono: avvio soft, finalità virtuose, eccetera. Ma l’ ingresso del veicolo in Italia presuppone comunque fortissime condizionalità. Può essere che la partenza sia soft, ma l’ evoluzione sarà hard. Anche perché c’ è un punto che tutti hanno ignorato: il ministro tedesco deve riferire al Bundestag ogni minimo elemento dell’ attività del Mes. Non solo: c’ è la Corte di Karlsruhe, essendo materia costituzionale. Noi abbiamo costituzionalizzato l’ Ue, la Germania l’ ha germanizzata. Possono dire quello che vogliono, ma la disciplina del Mes spinge verso una direzione diversa da quella che ci viene raccontata».
Lei è stato a lungo ministro dell’ Economia. In questa situazione, perché il suo successore appoggia l’ idea del Mes?
«Nel bene e nel male, tenderei a escludere di avere successori: a partire da Monti ed escluso solo Grilli, sono stati tutti molto più “bravi” di me. Per essere bravi, sul Mes basta leggere La Verità di ieri».
Gualtieri e Conte, però, se i retroscena sono veri, insistono, si direbbe contro il Parlamento, o per lo meno senza? Dombrovskis ha confermato che l’ ipotesi è allo studio. È normale?
«Torniamo alla tribuna della barzelletta. Non è stata una barzelletta ai tempi di Weimar, il “Gabinetto dei Baroni”. Crollo finanziario, crisi politica, progressivo distacco dal Parlamento.
CHARLES MICHEL URSULA VON DER LEYEN DAVID SASSOLI CHRISTINE LAGARDE COME LE RAGAZZE DI PORTA VENEZIA
Non vedo grandi differenze. Nei palazzi e dintorni c’ è in giro troppa gente che pensa di utilizzare il programma Mes per restare al governo come ha fatto Tsipras, il ventriloquo della Troika».
Giudizio pesante.
«Considerando quello che sta succedendo, e prevedendo quello che succederà a livello sociale nel Paese, il problema non sarà avere la fiducia dei mercati ma avere un governo che abbia la fiducia del popolo.
Non tanto adesso, ma quando ci sarà la vera crisi economica in tutte le sue manifestazioni (posti di lavoro persi, aziende chiuse, disordini, mali tipici di queste fasi). La tragedia di Weimar non fu solo o tanto generata dalla crisi finanziaria, ma da quella politica. Allora si avvicendarono al governo figure sempre le più strampalate. L’ ultima fu quella del generale super tecnico che, cinico, aspettava in panchina la chiamata: fu chiamato, ma anche lui infine ribaltato – con il consenso di Hindenburg – da quell’ altro…».
Condivide la necessità di non bypassare il Parlamento in una circostanza del genere?
«Ripeto: quella del Mes è una partita di raggiro, dato che la cifra economica è marginale, mentre quella politica è enorme. La chiamata dello straniero è un film che gli italiani hanno già visto nel 2011, effetti disastrosi compresi. Qualche tempo fa, prima della pandemia, a Londra ho avuto una conversazione con un importantissimo politico laburista inglese che mi ha detto: “L’ errore fatto dal Regno Unito nel 2011 fu quello di non contrastare Merkel e Sarkozy che attaccavano l’ Italia.
È vero che il tuo era un governo proto-populista, ma allora fu consentito alla Germania di dominare sull’ Italia e sull’ Europa. E questo è sempre stato fuori dalla nostra politica di equilibrio”. Quindi certo, come minimo bisogna passare dal Parlamento. Non è una idea mia peraltro: sta scritto in Costituzione. In ogni caso c’ è una variabile esterna rispetto al Palazzo, anzi due: il Paese e il popolo».
Come ne se esce?
«Io penso che l’ uscita di sicurezza non sia sul globale, ma anche e soprattutto sul locale. L’ introduzione alla nuova edizione del mio ultimo libro, Le tre profezie, (in uscita venerdì, ndr) inizia con questo motto primitivo: “Fermati ed aspetta che la tua anima ti raggiunga”. La soluzione a cui dobbiamo cominciare a pensare non sarà dal lato globale ma dal lato locale. Non dai valori mobiliari ma dai valori morali, quando saranno finalmente in disarmo i pusher finanziari. Più orizzontale che verticale. Le faccio un esempio certo non sufficiente: nel 2005 ho inventato il 5 per mille come strumento per attivare la solidarietà indirizzata alla ricerca scientifica e al volontariato. Tutto questo è il modello di società verso cui si può e si deve andare».
Intervista a cura di Martino Cervo per “la Verità”
OTTANTOTTO GIORNI PER NASCERE, OTTANTOTTO PER MORIRE?- LA STRADA PER IL NUOVO GOVERNO E’ TUTTA IN SALITA- QUALCUNO LO SOFFOCHERA’ NELLA CULLA O AVRA’ ALMENO IL TEMPO DI CONSUMARE LA POCA BENZINA? COSI’ LA PENSA GEPPETTO
Per il neo presidente del Consiglio Conte, durerà meno di cento giorni la luna di miele che accompagna di solito l’avvio di un governo.
Lo sconosciuto professore di diritto privato potrebbe essere una sorpresa, se non fosse stretto fra due vice che già guardano in direzioni diverse. Di Maio, a rabberciare il traballante piedistallo su cui Grillo lo mantiene in mancanza di alternative; Salvini, per cannibalizzare quel che resta di Forza Italia.
Nei prossimi giorni non dovremo guardare più i mercati per misurare la salute del governo: Trump, con l’accordo dei fondi di investimento americani, continuerà a darci una mano, rastrellando i bot emessi dal Tesoro. Un’Italia debole o a gambe all’aria è una prospettiva, evidentemente, meno allettante di una Germania intransigente, o di un Macron che segue sulla scia, come un rimorchiatore la nave ammiraglia.
Immagine tratta dal sito Dagospia
Questo è un governo che, più presto che tardi, si farà male da sé. Non tanto per l’inesperienza (almeno Salvini non è certo di primo pelo), ma perché non potrà contare sul solido terreno di una visione riformista, cioè di un’agenda di cose praticabili e compatibili. Si nasce e ci si ingrossa con l’incitamento delle piazze, ma si governa bene solo in solitudine, perché governare vuole dire scontentare.
Un’agenda di governo, per non essere un libro di sogni, deve avere almeno due caratteristiche: l’indicazione delle priorità e i mezzi per realizzarle. Il famoso “contratto”, purtroppo, non ha né l’una né l’altra.
Carlo Cottarelli, paziente,irreprensibile e fugace presidente incaricato.
Si potrebbero fare alcuni esempi, affinché ciò non sembri una affermazione prevenuta. Ma i giornali ne hanno parlato in lungo e in largo e finirei per annoiarvi. Basti dire che nelle 57 pagine, nei 30 paragrafi scritti con una prosa incerta e burocratica, compaiono solo 3 (dico tre) cifre: i 780 euro del famoso reddito di cittadinanza, i 3000 euro di detrazione fiscale per le famiglie, i 5000 euro delle pensioni d’oro (netti precisano). Stop. Il buon Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani deve essersi scompisciato leggendo il testo, lui abituato a maneggiare numeri e bilanci pubblici. Secondo Cottarelli il contratto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle ha costi compresi tra 108,7 e 125,7 miliardi, mentre le coperture indicate ammontano a 550 milioni di euro. La conclusione amara è la seguente: Di Maio e Salvini hanno fatto la lista della spesa, ma non hanno soldi, non dicono come intendono reperirli, né si sa da dove vorranno iniziare.
E pur vero che i programmi politici si fanno e poi si chiudono in un cassetto, almeno qui da noi. Sarà per questo che i due capi politici hanno voluto sottoscrivere il “contratto” con autentica notarile. Tanto per fidarsi. Anche Salvini l’aveva chiesto a Berlusconi, come patto di fedeltà. Abbiamo visto com’è andata. Uno al governo, l’altro all’opposizione.
Eppure un bilancio occorrerà farlo e subito, anche perché si preannuncia una manovra correttiva sui conti 2018 di circa 5 miliardi. Giustamente scriveva il Sole 24 Ore: “In politica quello fra numeri e parole è sempre un rapporto complicato, e il «contratto di governo» chiuso da M5 S e Lega è un documento politico e non una manovra di bilancio. Per tradurlo in pratica, … servono però decreti e leggi di bilancio, con tanto di «bollinatura» da parte della Ragioneria generale. E qui gli affari si complicano.”
Non serve il bollino, invece, per altre cose che non costano, come la legge sul conflitto di interessi, le manette agli evasori, la lotta alla corruzione. I lumbard salviniani o i ceti parassitari del Sud di Di Maio, lo consentiranno?
In altri punti del contratto, di chiara ispirazione leghista, si intende mettere mano ai diritti civili, al diritto di famiglia, ai vaccini, agli asili nido, alla difesa personale. Se questo disegno restauratore fosse attuato sarebbe un ritorno al passato, con la cancellazione dei numerosi provvedimenti che sono stati fiori all’occhiello dei governi Renzi e Gentiloni.
Non resta che aspettare, solo allora potremmo capire il profilo culturale di questo governo, e se definirlo di cambiamento o di restaurazione, se ce ne darà il tempo.
Alcune delle foto sono tratte dl sito Dagospia. com, che si ringrazia.
Amici da decenni, ma in uno studio tv non si erano mai incontrati. Paolo Conte e Ivano Fossati, pezzi pregiati della storia della canzone italiana, hanno accettato di sedersi nel salotto televisivo di Massimo Bernardini perché lì si parla di musica.
Amici da decenni, ma in uno studio tv non si erano mai incontrati. Paolo Conte e Ivano Fossati, pezzi pregiati della storia della canzone italiana, hanno accettato di sedersi nel salotto televisivo di Massimo Bernardini perché lì si parla di musica.
Due ore di parole e note negli studi Rai di Torino che verranno ridotte a una sola per Nessun dorma , il programma che andrà in onda venerdì 9 giugno alle 21,15 su Rai 5.
Conte un po’ più ombroso, come vuole il personaggio, Fossati più a suo agio nella chiacchiera, anche in virtù del nuovo ruolo di docente universitario a Genova. Bernardini a condurli attraverso riflessioni, ricordi e aneddoti.
Come quello dell’ uovo di Pasqua: «Stavo lavorando a un disco di Ornella Vanoni ( O , ndr.) – racconta Fossati – e decisi di chiedere una canzone a Conte. Ci vedemmo a casa sua, ad Asti. Mi aspettavo ci desse un nastro inciso, come si usava allora, e invece si mise lì a scrivere la canzone al piano, con matita e gomma da cancellare».
E poi: «Eravamo sotto Pasqua, così quando andai via mi diede un uovo di cioccolata da portare alla Vanoni. Oggi, Paolo, te lo posso confessare: non l’ ha mai ricevuto, l’ ho mangiato io durante il viaggio».
Ridono in studio e ride Conte che invece parla a lungo della passione per i vecchi dischi jazz, «fino agli Anni Cinquanta, poi il jazz lo lascio a Fossati» e fa una dichiarazione d’ amore alla musica italiana degli Anni 10-20-30: «Gli americani ci sono superiori – è la premessa – ma gli italiani scrivevano canzoni anche molto belle, il problema erano i testi: terribili, zuccherosi».
Nei Sessanta qualcuno però conquistò la sua attenzione e la sua collaborazione: «Adriano Celentano, la prima Patty Pravo e Caterina Caselli non erano i classici cantanti da concorso Rai, erano veri, ruspanti, popolani».
Sul perché non abbia mai collaborato con Fossati però è netto, evidentemente pensando all’ amico genovese solo come autore e non come interprete: «Io non collaboro con nessuno, sono bravissimo a sbagliare da solo», dice. Però poi concede: « La musica che gira intorno l’ avrei voluta scrivere io».
Il focus della puntata di Nessun dorma è la loro attività da musicisti più che quella da cantautori, un aspetto al quale entrambi tengono particolarmente. E allora ecco la passione di Fossati per il flauto traverso, che gli fece abbandonare il pianoforte, avvicinato a otto anni «ma in maniera svogliata».
«Mi conquistò la sigla del Tenente Sheridan, mi innamorai di quel suono e scoprii Roland Kirk e il suo flauto». Neppure per Conte è il pianoforte lo strumento della vita: «Lo suono male, senza meccanica e dal vivo lo suono sempre meno. Lo uso per comporre.
Una volta almeno una “spolverata” al giorno gliela davo, ma ormai…». Nel suo cuore c’ è invece il vibrafono, scoperto dopo che al liceo «venni bocciato. Mi avevano rimandato di sei materie. Le recuperai tutte tranne greco. Così i miei fecero scomparire il trombone».
Massimo Bernardini
Fu un amico jazzista a fare scoprire al giovane Paolo il vibrafono: «Andai subito a Torino a comprarne uno con le cambiali». Una storia d’ amore che non è ancora finita, anche se non tutti la capiscono: «Ora a casa ne ho uno molto bello… Le donne di casa ci mettono sopra i paltò».
Resta il cuore del dibattito: canzoni e composizioni musicali? Entrambi hanno fatto un disco di sola musica, ma il loro successo è arrivato con le canzoni: «Non dico che i testi non siano importanti – concede Fossati -, ma la musica senza le parole dà un senso di libertà a chi la fa.
Quando mi chiedono di scrivere solo musica io sono felice». Conte, poi, è uno che quando scrive le sue canzoni parte prima dalla musica, «perché trovo sia più emozionante delle parole.
La musica mi dà immagini in bianco e nero, con le parole arrivano anche i colori». Il programma si chiude su un filmato del 1990 (lo si trova anche su YouTube): sul palco del Tenco a Sanremo Paolo Conte, Ivano Fossati, Francesco De Gregori e Roberto Benigni alle maracas. Grande canzone? Grande musica? A ognuno la sua risposta. Un fatto è certo: grande stile.
Già mi sono occupato di Paolo Conte, il cantautore astigiano famoso nel mondo, con una lunga carriera alle spalle e una scia di successi indimenticabili. ( https://www.ninconanco.it/ultima-milonga/). Ritorno su di lui e la sua opera, e non solo per la comune passione per Parigi, ma perché è veramente unico nel panorama mondiale.
Da metà del secolo scorso ad oggi (nonostante l’età avanzata , è del 1937) Conti da artista e uomo libero non ha mai cessato di rinnovarsi. Avvocato mancato, di formazione jazz, amante della musica afro e della cultura parigina negli anni a cavallo fra la Bella Époque e l’Esistenzialismo, ha ispirato con le sue canzoni e i suoi personaggi importanti disegnatori quali Milo Manara, Hugo Pratt, Guido Crepax, il cinema d’autore e si è cimentato con successo anche nella poesia (è vincitore di un premio Montale).
Non va dimenticato che Conti è anche un talento pittorico. Un suo musical-vaudeville multimediale del 2000 intitolato Razmataz, era illustrata da suoi disegni.
Sul suo blog Antonio Capitano pubblica un pezzo che ho voluto riprendere perché vi si commenta un libro di recente uscita che illustra non solo l’artista ma l’uomo Paolo Conte, le sue abitudini, i suoi gusti, la sua visione del mondo. Una dimensione privata, intima quasi, che completa il personaggio, lo coglie nella vita di tutti i giorni, lo rende ancora più familiare e vicino. E’ il potere che hanno la passione e la bellezza.
Paolo Conte si esprime anzitutto in musica, ma anche attraverso i silenzi. I suoi concerti sono espressioni cinematografiche e si ha la sensazione di entrare davvero in un altra epoca tra il fascino sognante felliniano e la letteratura di viaggio, sotto forma di diari o impressioni. Al pari di un pittore impressionista, egli nel silenzio osserva “nello specchio di un caffè” i volti riflessi, le vite “al contrario” e si ha quasi la sensazione di passeggiare con lui mentre il suo sguardo arguto si posa sul particolare meno evidente, per imprimerlo nella mente come una fotografia da dipingere poi in un testo
C’è in questo autore un insieme magico che lo rende unico nel panorama mondiale. Un’icona affascinante nella quale si confondono jazz, swing, milonghe, paesaggi, vino e cibo: “Sono uno da piatti semplici, da bollito. O merluzzo. O minestrone. La nouvelle cuisine non fa per me“. Se l’autunno potesse essere raccontato in musica, bisogna attingere alle note contiane con parole distillate come foglie che cadono e che proprio nel lento momento del cadere esprimono quella poesia piena di immagini che rimandano a piccoli mondi antichi con personaggi danzanti sospesi tra cielo e terra. Massimo Cotto, attraverso il libro “Fammi una domanda di riserva” appena pubblicato da Mondadori, ci conduce piacevolmente nell’universo di Paolo Conte composto di dettagli che sono poi i microcosmi tipici del suo territorio di appartenenza; quel Piemonte pieno di metafore e punto di partenza per salpare verso terre lontane o immaginate. “Il mare delle mie canzoni è un mare antico, fuori dal tempo e dallo spazio. Anche quello di Genova per noi. Non è solo un mare geografico, è anche di evocazione”. E ogni canzone di Conte è appunto un viaggio; non importa se da soli o in compagnia ma la voce narrante si fonde con la musica per prendere un treno o semplicemente attraversare un ponte tra la nebbia che nasconde gli elementi urbani per avvicinarli a quelli disegnati dalla fantasia.
Il libro scorre come un limpido fiume piemontese e ci regala molte parte inedite dell’avvocato; dai suoi gusti alimentari al suo carattere che si esprime, appunto, attraverso i silenzi. Le pagine sono costituite da frammenti di un discorso musicato, poiché le poche parole, diverse dai testi che gli appassionati conoscono a memoria, sono parole simili a sceneggiature o suggestioni capaci di creare dipinti o paesaggi, “le mie canzoni sono come fotogrammi all’inizio di un film, quando tutto deve ancora succedere“. Nell’introduzione al volume Massimo Cotto sottolinea che “un Paolo Conte nasce ogni cent’anni e bisogna avere anche il culo di esserci quando c’è lui. Uno di quelli che preferisce togliersi invece di mostrarsi. Paolo è profeta della sottrazione , un mago introverso che nasconde il cilindro e persino le carte“. Del resto la sua passione per l’enigmistica rende ogni suo “passaggio” pieno di piacevole mistero per cui ciascuno può vederci il proprio “percorso” in quel Rebus che è la vita. Cotto afferma che questo libro è omaggio al Conte della canzone e dunque ha prima allineato i ricordi e poi mescolato le parole. E questa ultima immagine è rafforzata dall’immediata descrizione che appare nel risvolto di copertina secondo cui “si può mettere in un cappello tutte le sue frasi e poi estrarle a una a una in disordine sparso. Oppure rovesciarsi il contenuto sulla testa in un meraviglioso, fantasmagorico, unico spettacolo di arte varia“. E allora, leggendo i frammenti sparsi di Conte è evidente l’accostamento a Fellini quando l’elegante chansonnier si illude che il testo de L’orchestrina non sarebbe dispiaciuto al mondo del grande regista e questo è ancora più credibile, leggendo tra le righe:
“arriva un tipo di Milano/tutto nottambulo languor/mette la mancia sopra il piano/ chiede che si suoni ancora ancor/si suona si suona ancora orchestrina /che poi vedrai che se ne andrà ” .
La copertina dell’album Razmataz
“Pezzi” di canzoni che sembrano copioni, poche frasi che raccontano una storia con personaggi che sembrano usciti davvero da un cilindro capace di ogni incantesimo. Una polvere di palcoscenico si avverte costantemente tra le parole con una teatralità di altri tempi e pianoforti a coda preziosi come i periodi d’oro del jazz che diveniva leggenda. E “quelle di Paolo” aggiunge Cotto “sono canzoni da vedere, geometrie dove il legno lascia il posto al vetro, con i suoi riflessi e le sue trasparenze, archeologie del jazz, passione per la musica di ruggine e per le parole profumate”. Questo libro ha un pregio: permette di ascoltare Conte, non attraverso le sua canzoni, ma con una serie di riflessioni che ci fanno a volte capire dove e come sono nati i suoi capolavori. C’è tutto il sapore del vino piemontese di ottime annate, frutto di una paesaggio scolpito dal paziente lavoro umano, il paesaggio del Diavolo Rosso, rosso appunto come il vino che riscalda, quello che avvolge e che risveglia i sensi, assaporandolo lentamente. E’ un libro questo da assaporare lentamente, ascoltando in sottofondo la musica del Maestro che è nell’anima e che ad ogni ascolto ci regala un nuovo “concerto”. Conte è un artista sensoriale e di eccezionale valore universale e ogni sua interpretazione è da manuale: basta una pausa, una parola più allungata o una semplice smorfia mentre il suo “Steinway americano 1925” spande suoni magici dalla tastiera…”un giorno, durante una lezione di diritto all’università mi annoiavo. Presi un foglio di carta e cominciai a scrivere musica“.
E così, da una lezione noiosa è nato un vero Maestro