OTTANT’ANNI, SEGNO DEL CANCRO E TANTE COSE DA DIRE

OTTANT’ANNI, SEGNO DEL CANCRO E TANTE COSE DA DIRE

L’AUTOIRONIA DI UN PICCOLO,GRANDE VECCHIO: ROBERTO GERVASO– UN PO’ GIORNALISTA, UN PO’ STORICO, UN PO’ COSI’..-  UN’INQUIETUDINE CREATIVA CONSUMATA FRA LIBRI, AFORISMI E DONNE- L’ITALIA?: CHE PALLE!!

 

Roberto Gervaso con la moglie

Roberto Gervaso. Trecento papillon, cento cappelli («tutti Borsalino, li porto sempre. Un po’ per proteggermi, un po’ per vezzo»), duecento donne amate («tu selezioni molto? Io per niente: ho preso di tutto nella vita, duchesse e commesse, miss e bruttine, anche una teologa, anche una zoppa, anche una balbuziente che ritrovava la parola solo a letto…»), una moglie bellissima («che in un momento di distrazione si è invaghita di me»), una figlia («fa la giornalista…»), tre nipoti («è come avere l’Isis in casa»), quattro case tra Milano, Palermo, Roma e la campagna romana – dove passa l’estate e lo incontro – un domestico filippino che canta magnificamente i Platters, un formidabile elenco di malattie («ne ho avute tante, ora ne ho ancora di più»), un Himalaya di medicine sparse per la villa («vuoi qualche goccia di Lexotan?»), tre depressioni devastanti («a 23, 34 e 70 anni, in tutto mi hanno portato via dieci anni di vita»), una vita vissuta «in uno stato di inquietudine perenne», sessant’anni di carriera tra quotidiani, settimanali, radio e tv, duemila interviste entrate nella storia del giornalismo, 25mila aforismi usciti dalla sua intelligenza, 52 libri pubblicati («più uno in arrivo, a ottobre, un pamphlet sulla storia d’Italia dell’ultimo mezzo secolo, titolo: Che palle!») e ottant’anni compiuti oggi.

Indro Montanelli, giornalista e divulgatore storico

Auguri, Robertino. «Robertino mi chiamava Montanelli. Gli devo tutto: andai apposta a Roma per conoscerlo, il mio regalo della “maturità”, era il ’56, quando leggevo e ritagliavo tutti i suoi pezzi. Mi prese a ben volere: mi fece entrare al Corriere d’informazione, poi al Corriere della sera, mi fece scrivere con lui sei volumi della Storia d’Italia, per la quale mi associò – per i diritti d’autore – al 50 per cento, quando al massimo avrei dovuto avere il 15…

A proposito: sai quanto abbiamo venduto? Diciotto milioni di copie… Comunque. Mi ha aiutato a diventare inviato, per anni mi ha ospitato a casa sua o al ristorante a colazione, mi ha insegnato tantissimo in questo mestiere. Mi voleva così bene…».

Che a un certo punto iniziò a girare la voce che tu fossi suo figlio.

«Aveva 28 anni più di me, ero magro come lui. Ci stava… Io l’ho sempre trovata una cosa divertente».

E lui?

«Con lui non ne abbiamo mai parlato. Però una sera mia moglie fece una cena, a Palazzo Visconti, a Milano. Una cosa sontuosa. C’erano tutti quelli che contavano, per capirci. A un certo punto si avvicina al mio tavolo Maria Gabriella, la figlia di Maria José, l’ultima regina d’Italia, con la quale Montanelli ebbe una relazione, si conobbero a Cortina… Insomma, guardando mia moglie, mi abbraccia e dice: “Ecco Roberto, mio fratello…”. Ci scherzava anche lei sul fatto di essere figlia di Indro. Nel suo caso può essere. Nel mio, una cosa su cui ridere. Come ho sempre fatto: su tutto».

La vita è una commedia?

«Che finisce in tragedia. Ma che ha momenti farseschi e altri drammatici».

Hai avuto tanto dalla vita.

«Ma ho dato tutto. Ho voluto fortissimamente il successo, per ambizione e per vanità, però ho pagato fino all’ultimo centesimo. E con la moneta più pesante: la salute. Forse è giusto così. Se dovessi scegliere una religione…».

Ma se sei ateo…

«No. Deista, agnostico, laico, scettico, un po’ cinico. Ma non ateo».

Continua. Se dovessi scegliere una religione… 

«Sceglierei il buddismo. Dalla vita riceviamo tutto ciò che le diamo. Il paradiso non lo so. Ma l’inferno lo scontiamo in terra. Lo sapevano bene il dottor Schweitzer o madre Teresa di Calcutta… Ecco. Tornando indietro, farei il missionario. Ma lo dico oggi, a ottant’anni. Quando ero giovane mi mancava la vocazione.Meglio così. Avrebbe contrastato la mia ambizione».

Se quando si è giovani non si sa cosa fare nella vita, si finisce per fare o il politico o il giornalista. L’hai detto tu.

«Sì, perché sono due dilettantismi. Il giornalismo ha il merito di farti approfondire la superficialità degli altri, la politica il demerito di corrompere la tua onestà». Tu hai scelto il giornalismo. «Io volevo arrivare. E sono arrivato».

Dove?

«All’ultima fase della vita. Nella prima devi guardare avanti. Nella seconda in alto. Poi, a un certo punto, devi guardarti dentro. Io sono arrivato qui».

Sei partito ottant’anni fa. Nato a Roma, 9 luglio 1937, sotto il segno del Cancro.

«E dell’improvvisazione».

Hai studiato in Italia e negli Stati Uniti.

«Con molta svogliatezza e poco profitto».

Ti sei laureato in Lettere moderne.

«Immeritatamente».

Hai fatto: cronista, inviato, intervistatore, editorialista, commentatore, conduttore radiofonico e televisivo… Cos’è il giornalismo?

«Quello di ieri era una forte inclinazione, forse addirittura una vocazione. Con un suo codice morale, un’etica civile, un rispetto per il lettore ma anche per il fattorino. Ed eleganza: io andavo in redazione in blazer grigio, dando del lei ai superiori e accettando le critiche. Una missione. Una vita da certosino, come mi aveva detto Indro all’inizio. Scrivere e leggere, leggere e scrivere. Mai fatto parte di un sindacato, mai votato, mai lanciato proclami, mai firmato appelli. Solo i miei pezzi».

E il giornalismo di oggi?

«È diventato un lavoro che tendenzialmente esclude la cultura. I giornalisti di oggi, a parte quelli culturali, non leggono nulla. Un mestiere che ti fa sentire molto più importante di quello che sei in realtà, che tifa guardare continuamente l’orologio, che ti fa cercare ciecamente quel colossale imbroglio che è lo scoop… È un giornalismo che è stato soggiogato alle ideologie. Non nel senso che i giornalisti abbiano delle ideologie, ma nel senso che le hanno sdoganate per fare carriera, perdendo il bene più prezioso: l’indipendenza. Da qui, l’omologazione dei giornali e dei giornalisti. Tutti uguali».

Tu, per distinguerti, hai inventato un genere. Domande fulminati, risposte rapidissime. Hai intervistato mezzo mondo. E nei ritagli di tempo, non senza irriverente indulgenza, anche te stesso.

«Tutti dicono che la cifra delle mie interviste sia la brevità, che è figlia della chiarezza. Vero. Ma l’essenza è la volontà di non annoiare. L’intervistatore non deve mai annoiare l’intervistato, e l’intervistato deve divertire l’intervistatore. Se le due cose accadono, escono delle belle interviste».

La tua più bella? 

«A Georges Simenon. Andai a trovarlo a Losanna, dopo che gli era morta la figlia, la quale aveva per lui una devozione passionale che rasentava l’erotismo. Aveva abbandonato un borgo tutto suo – dove viveva con uno stuolo di cameriere, segretarie, governanti, tutte donne, tutte che avevano sottoscritto un contratto in cui accettavano di avere rapporti sessuali con lui in qualsiasi momento della giornata – per trasferirsi, con la terza moglie, in una casetta a schiera. Non faceva più nulla, se non dettare le sue memorie. Mi fece vedere il passaporto. C’era scritto: “Georges Simenon. Pensionato”.

Gli chiesi perché questa scelta. Mi rispose: “Perché nella vita, con gli anni e i dolori, ti accorgi che le cose importanti sono poche. E le superflue ti distraggono da quelle essenziali”. Detto da uno che ebbe novemila donne in vita sua… Comunque, bella intervista».

La più brutta? 

«A Coretta King, vedova di Martin Luther King. Maleducata, insolente, razzista. Essendo io bianco, mi trattò come un negro. Mi girò le spalle per tutto il tempo del nostro incontro, sbocconcellando arance. La minoranza che si era emancipata, ora doveva dimostrare la propria superiorità. Patetico».

La più inutile?

«Ad Anastasio Somoza, dittatore del Nicaragua. Fui l’ultimo a intervistarlo prima che fosse cacciato, e poi ucciso. Mi offrì l’ananasso più buono che abbia mai mangiato. Ma mi raccontò solo bugie. Propaganda e nient’altro. Mi diceva che il Nicaragua era felice sotto di lui…»

L’intervista che avresti voluto fare e non hai fatto? 

«A Nixon, il migliore presidente che l’America abbia mai avuto, e a Deng Xiaoping, senza il quale la Cina moderna non sarebbe mai nata. Due statisti giganteschi. Ma che non mi hanno dato l’intervista»

Un’altra a che faceva grandi interviste era Oriana Fallaci.

«Giornalista più passionale che appassionata. Più spericolata che coraggiosa. Più ambiziosa che imparziale. E comunque aveva il difetto di intervistare prima se stessa, poi il suo interlocutore. Le sue domande era lunghissime, anche più della risposta. Molto furba. Una volta incontrai William Colby, già direttore della Cia negli anni Settanta. Era furente con la Fallaci: diceva che lei gli aveva mandato delle domande, lui aveva risposto, e poi lei aveva pubblicato l’intervista con delle domande diverse, cambiate all’ultimo. Lui ne usciva massacrato».

Litigaste, tu e la Fallaci.

«La intervistai per un libro. Ma il Corriere della sera, per cui lavoravo, prima che uscisse in volume fece un’anticipazione dell’intervista sulla Terza pagina. Lei fece la matta. Telefonò a Tassan Din, il direttore generale di Rcs, urlò, sbraitò, minacciò di querelarmi…».

E perché?

«Che ne so? Forse una paginata non le bastava. Voleva un’edizione speciale».

Oriana Fallaci, giornalista e reporter

L’unica giornalista più egocentrica di te.

«Sì, ma lei non aveva il sense of humour».

 Il sense of humour è la tua più grande virtù?

«Insieme al senso del dovere. Almeno credo. Ah: e il rispetto per il lettore. Mai farlo sentire ignorante. Bisogna raccontargli le cose che non sa, e spiegargliele senza spocchia. Me l’ha insegnato Montanelli. Prima lezione, e anche l’ultima che mi ha dato, e non era neanche sua perché la rubò a un formidabile premio Pulitzer, Webb Miller: “Robertino, ricordati: scrivere facile è difficilissimo. Scrivere difficile, quello sì è molto facile. Stai attento”».

Montanelli è stato il più grande giornalista italiano?

«No. Il più grande giornalista del secolo è stato Longanesi. Lo diceva Indro stesso. Leo Longanesi è stato colui che ha influenzato maggiormente il nostro giornalismo nel Novecento, così come Prezzolini colui che ha segnato maggiormente la cultura, anche più di Benedetto Croce».

E il giornalista più insopportabile? 

Eugenio Scalfari, giornalista fondatore di La Repubblica

«Eugenio Scalfari. Il principe dei moralisti, cioè coloro che condannano negli altri, per meglio nasconderli, i propri vizi. E poi ha fatto la cosa peggiore che può fare un giornalista. Ideologizzare il proprio mestiere».

Il giornalista più simpatico?

«Giancarlo Fusco. Una sera eravamo a cena. Anni ’60. Un ristorante in via Doria, a Roma. Iniziò a discutere con la sua compagna, della quale era gelosissimo, su Rodolfo Valentino. Lei diceva fosse un grande amatore, lui un frocio. Litigarono così violentemente che si dovette chiamare la polizia. Era matto, ma irresistibile. Andava sempre in giro con la pistola. Una notte credette di vedere la sua donna baciare un altro di nascosto. Sparò in aria. Poi si scoprì che l’altro era il direttore della Fao, a Roma, e la donna la sua amante, probabilmente… Raccontava un sacco di balle, ma le raccontava così bene che se ti avesse raccontato la verità non sarebbe stato così divertente».

E i politici? Il più divertente che hai incontrato? 

«Almirante. Ma il più simpatico Andreotti».

E il più antipatico? 

«Marco Pannella, ma non perché insopportabile. Perché logorroico. Era un amico, ma quando dovevo intervistarlo tremavo. Era incontenibile, un divagatore continuo, parlava parlava e io non concludevo niente…».

Differenze fra la politica di ieri e quella di oggi?          

“Ieri era una professione, oggi una carriera. Fanfani quando era presidente del Senato aveva sempre a portata di mano 5 o 6 cravatte da prestare ai colleghi prima di entrare in aula, quando vedeva degli abbinamenti che non riteneva abbastanza eleganti. Oggi, tu la vedi la gente che va in Parlamento? È una classe politica sbracata, volgare, ignorante, impresentabile. La politica è sempre stata un affare da puttane. Ma ieri almeno era una casa di appuntamenti di lusso, oggi un bordello da suburra».

E gli italiani che stanno in mezzo? 

«Hanno le stesse colpe dei politici. Sono loro a sceglierli. E sono uguali a loro. Trovami un italiano in mezzo a centomila che, se non fosse al loro posto, non si comporterebbe allo stesso modo, tra privilegi, ruberie, impunità. La politica italiana è questa, perché questi sono gli italiani. È un Paese che sta in piedi solo perché non sa da che parte cadere».

A destra o a sinistra? 

«La sinistra è finita con Mussolini, e la destra anche. Quando diresse l’Avanti! era la vera sinistra, e quando fondò i fasci di combattimento la vera destra».

Dopo?

«Togliatti e De Gasperi, per breve tempo, hanno illuminato la sinistra e la destra. Dopo di loro ci sono stati solo professionisti della politica, alcuni abilissimi, come Andreotti, Craxi e Almirante. E per il resto arruffoni e arraffoni. I politici della prima Repubblica non erano santi, ma avevano decoro. Questi di oggi neanche la decenza».

E Silvio Berlusconi?

Silvio Berlusconi, ai tempi in cui era primo ministro italiano

«Cosa c’entra Berlusconi. Lui è un imprenditore, e anche diverso dagli altri: ogni imprenditore vende l’arrosto. Ma lui lo vende anche ai vegetariani. Però non è un politico. Semmai un uomo di potere, che è diverso. Ha sempre rifiutato i tatticismi, le astuzie, le meschinerie della politica. Lui non esclude nessuno per principio. Perché i suoi prodotti, come le sue idee, li vuole vendere a tutti. In questo è un liberale modello».

E tu, cosa sei?

«Un conservatore anarchico. Conservatore perché voglio conservare quello che c’è di buono. Anarchico perché non accetto imposizioni. Ma rispetto le leggi e le istituzioni. Sono un ribelle, ma preciso».

Il leader radicale Marco Pannella, in una immagine scattata pochi mesi prima della sua morte, avvenuta il 19 maggio del 2016

Ribelle, preciso, pignolo, libertino, sarcastico, primadonna anche a riflettori spenti – sulla scena come in camerino -, Roberto Gervaso tiene in esercizio la propria intelligenza pensando il contrario di quello che dice. E a volte, viceversa. L’anticonformismo è il suo habitus, l’aforisma la sua complessità, il paradosso la sua logica, la battuta il suo asso nella manica. Rigorosamente di camicie Brooks Brothers. Ha passato una vita a parlare della sua paura della morte.

E ora i discorsi sulla morte sono la sua ragione di vita. Intervistatore princeps che adora farsi intervistare – interviste modello confluite editorialmente in una trilogia otorino-laringo-oftalmica:Il dito nell’occhio (1977), La pulce nell’orecchio (1979), La mosca al naso (1980) – Gervaso offre risposte che con il punto interrogativo sarebbero meravigliose domande. Botta e ripensa: a domanda, risponde.

Lo sventurato, domanda: e la P2?

«Nessuno mi chiese niente e io non ho chiesto niente a nessuno. Presentai io Berlusconi a Licio Gelli: non accadde niente. Non mi sono neanche pentito, perché non c’è niente di cui pentirsi. Sono stato uno dei pochissimi ad ammettere l’iscrizione, e dissi che non avevo nulla contro la massoneria. Mi hanno demonizzato. E in malafede».

Per anni, al Corriere della sera, ancora sotto la direzione De Bortoli…

«Un coniglio azzimato. No: scrivi “volpe azzimata”, non vorrei querelasse».

… ancora sotto la direzione De Bortoli al Corriere non si potevano recensire i tuoi libri…

«Ipocriti. Proprio loro, che avevano un direttore iscritto alla loggia».

L’occhiuto Raffaele Fiengo, membro del comitato di redazione, proibì che fosse anche solo citato il tuo nome sulle pagine del Corriere. Me l’ha detto un vecchio redattore.

«Fiengo. Il mastino della Lubjanka di via Solferino».

Perché il Corriere precipitò così a sinistra?

«Chiedilo all’editore di allora, Giulia Maria Crespi. Fu lei la regista di quella operazione suicida. Magari ti risponde. O forse no. Non ha abbastanza intelligenza per capire quanta gliene manca».

I tuoi aforismi. Tutti copiati dai peggiori luoghi comuni degli italiani. Quanti nei hai scritti?

Ferruccio De Bartoli, già direttore del Corriere della Sera

«Venticinquemila».

Il più bello?

«L’amore senile comincia col matrimonio».

Hai amato molto?

«Amato-amato, poco. Desiderato tanto».

Cosa desideri, adesso?

«Leggere le uniche cose che vale la pena leggere: Seneca, Ovidio e Voltaire. E scrivere le uniche cose che vale la pena scrivere: i miei articoli di giornale».

Montanelli sognava di morire avvolto nell’edizione straordinaria del giornale. Tu?

«Mi basta quella quotidiana».

Ho fatto una ricerca d’archivio. La domanda che hai posto più volte ai tuoi intervistati è stata: «Cos’è per lei la morte?». Risposta?

«O un ponte o un abisso. Cioè: un passaggio verso qualcosa d’altro oppure un precipizio nel nulla. Spero la prima. Ma temo la seconda».

Articolo di Luigi Mascheroni per ”Il Giornale

 

Amado mio  violento

Amado mio violento

Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore e regista

Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore e regista

 

Quarant’anni fa, nel novembre del 1975, Pier Paolo Pasolini veniva brutalmente ucciso a Ostia Lido, vicino Roma. Rimane oggi uno dei pochi intellettuali della seconda metà del ‘900 la cui opera continua a farci riflettere. O meglio, per usare le parole di Attilio Bertolucci, continua insieme a “inquietarci e consolarci”. Perché?  Per semplificare( mi rendo conto):  è stato un artista dilaniato dalle sue contraddizioni che ha sapute affrontare con coraggio, fino alla cosciente autodistruzione. Un testimone del suo tempo, ma soprattutto un uomo che, mettendo a nudo la sua anima (soprattutto la parte più brutta, quella che “inquieta” ,appunto), ci costringe ancora oggi a mettere a nudo la nostra, smascherando ipocrisie, infingimenti, debolezze. Nella lettera che pubblico scritta da Oriana Fallaci a Pier Paolo Pasolini, già apparsa sul “L’Europeo” e ripubblicata da “il Giornale”, la giornalista fiorentina si addentra nella dimensione esistenziale di Pasolini, con analisi assai penetranti e che vale la pena di rileggere.  Scriveva la Fallaci: “Odiavi troppo il peccato, il sesso che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione.” Lo stesso atteggiamento del poeta greco Kavafis, il cui nome compare nel sottotitolo di due racconti di Pasolini rimasti inediti fino alla sua morte Amado mio e Atti imputi, due elegie della giovinezza di Pasolini in Casarsa,  preso già da allora dai lacci della “anomalia” dei suoi amori. Come Kavafis, che cerca di liberarsi dalle censure interiori rifacendosi alle proprie radici pagane e alla sessualità prescristiana, Pasolini in questi due romanzi in forma di diario cerca rifugio nell’eros omosessuale sapendo che è infecondo, lussurioso, e perciò rappresenta per lui pena, peccato, condanna a vita da scontare nei luoghi e nelle pratiche più infami. Da laico devoto, sia per passione che per profondità culturale, Pasolini considerava, come San Paolo, contro natura una tendenza che invece è innata e che tocca, fra uomini e donne, un quarto dell’ umanità, dimenticando che naturalia non sunt turpia.

Alla lettera di Oriana Fallaci faccio seguire un frammento della poesia di Attilio Bertolucci che ho appena ricordata, dedicata a P.P. Pasolini in occasione della sua morte dal titolo: Due frammenti e un envoy.

 

Da qualche parte, Pier Paolo, mischiata a fogli e giornali ed appunti, devo avere la lettera che mi scrivesti un mese fa. Quella lettera crudele, spietata, dove mi picchiavi con la stessa violenza con cui ti hanno ammazzato. Me la sono portata dietro per due o tre settimane, le ho fatto fare il giro di mezzo mondo fino a New York, poi l’ ho messa non so dove e mi chiedo se un giorno la ritroverò. Spero di no. Vederla di nuovo mi farebbe male quanto me ne fece quando la lessi e rimasi intirizzita a fissar le parole, sperando di poterle dimenticare. Non le ho dimenticate, invece. Posso quasi ricostruirle a memoria. Più o meno, così: «Ho ricevuto il tuo ultimo libro. Ti odio per averlo scritto. Non sono andato oltre la seconda pagina. Non voglio leggerlo, mai. Non voglio sapere cosa v’ è dentro la pancia di una donna. Mi disgusta la maternità.

Oriana Fallaci

Oriana Fallaci

Perdonami ma quel disgusto io me lo porto dietro fin da bambino, quando avevo tre anni mi sembra, o forse eran sei, e udii mia madre sussurrare che…».  Non ti risposi. Cosa si risponde, scrivendo, a un uomo che piange la sua disperazione di trovarsi uomo, il suo dolore d’ essere nato da un ventre di donna?

Non era una lettera diretta a me, del resto, ma a te stesso, o meglio, alla morte che rincorrevi da sempre per mettere fine alla rabbia d’ essere venuto al mondo grazie a una pancia gonfia, due gambe divaricate, un cordone ombelicale che si snoda nel sangue.

E come consolarti, placarti, di una simile ineluttabilità?

 Le parole con cui consolarti erano nel libro che tu rifiutavi con ira, l’ unico modo per placarti sarebbe stato prenderti fra le braccia: amarti come solo una donna sa amare un uomo. Ma tu non hai mai permesso a una donna di prenderti fra le braccia, amarti. Quel nostro ventre da cui sei uscito ti ha sempre riempito di orrore.

 

Pasolini con la madre

Pasolini con la madre

Fuorché tua madre che veneravi come una Madonna messa incinta dallo Spirito Santo, dimenticando che anche tu eri stato legato a un cordone ombelicale che si snoda nel sangue, noi donne ti incutevamo fisicamente un disgusto. Se ci accettavi, era per pietà.

 Se ci perdonavi, era per volontà. E in ogni caso non dimenticavi mai la leggenda che dà a noi la colpa d’ aver colto la mela, scoperto il peccato. Odiavi troppo il peccato, il sesso che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione.

Come certi frati che si flagellano, la cercavi proprio col sesso che per te era peccato. Il sesso odioso dei ragazzacci dal volto privo di intelligenza (tu che avevi il culto dell’ intelligenza), dal corpo privo di grazia (tu che avevi il culto della grazia), dalla mente priva di bellezza (tu che avevi il culto della bellezza). In loro ti tuffavi, ti umiliavi, ti perdevi: tanto più voluttuosamente tanto più essi erano infami. Di loro ci cantavi con le tue belle poesie, i tuoi bei libri, i tuoi bei film.

Pasolini e Fellini nel 1956 sul set di Le notti i Cabiria

Pasolini e Fellini nel 1956 sul set di Le notti i Cabiria

Da loro sognavi d’ essere ucciso prima o poi per compiere il tuo suicidio. Sono cattiva a dirti questo? Sono crudele anch’ io? Forse, ma sei stato tu ad insegnarmi che bisogna essere sinceri a costo di sembrare cattivi, onesti a costo di risultare crudeli, e sempre coraggiosi dicendo ciò in cui si crede: anche se è scomodo, scandaloso, pericoloso.

 Tu scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il cuore. Ed io non ti insulto dicendo che non è stato quel diciassettenne ad ucciderti: sei stato tu a suicidarti servendoti di lui. Io non ti ferisco dicendo che ho sempre saputo che invocavi la morte come altri invocano Dio, che agognavi il tuo assassinio come altri agognano il Paradiso. Eri così religioso, tu che ti presentavi come ateo.

Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità. Solo finendo con la testa spaccata e il corpo straziato potevi spengere la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. E non è vero che detestavi la violenza.

Col cervello la condannavi, ma con l’anima la invocavi: quale unico mezzo per compiacere e castigare il demonio che bruciava in te. Non è vero che maledicevi il dolore. Ti serviva, invece, come un bisturi per estrarre l’ angelo che era in te.”  

 

Il poeta Attilio Bertolucci

Il poeta Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci, da: “Due frammenti e un envoy.”

Io non so se le genziane viola sino al blu di Persenofe

fioriscono a Casarza

ma certo- di primo autunno- sui monti ferisce

 e ventila il Tagliamento bambino.

Non un brindisi funebre un mazzo di genziane miste a felci

vogliono le sue ossa-

non le sue ceneri-

che continuano a inquietarci a consolarci

mentre attendiamo dubitosi e felici

vino e fiamme per il nostro oblio.

 

 

 

Oriana, eroina innamorata

Oriana, eroina innamorata

oriana fallaci

Mi ha colpito molto la storia della relazione fra Oriana Fallaci e il giornalista Alfredo Pieroni. Siamo negli anni 50 del secolo scorso. Vedendo le foto di Pieroni non sembra l’irresistibile donnaiolo che emergerebbe dalle cronache e testimonianze di quegli anni. In quanto alla Fallaci, molto più famosa di lui, col suo visino di porcellana, esotico, narici piccole e nervose, le labbra strette per trattenere gli scatti di un carattere passionale e imprevedibile, il quadro che emerge è molto distante dal ruolo di donna coraggiosa e volitiva, controversa e sfacciata che siamo abituati a conoscere, attivista radicale, corrispondente di guerra e scrittrice di fama mondiale, famosa per avere intervistato i grandi della terra nel corso degli anni 60 e 70.

Oriana con Alfredo Pieroni

Dalle lettere scritte da Oriana ad Alfredo, spuntate da un faldone disordinato custodito da una nipote di Pieroni, emerge una donna innamorata, che mollerebbe tutto per avere “una casa e dei figli”; pronta a mandare tutto al diavolo pur di essere con lui a “pulirgli le scarpe”; disposta a subire passiva ogni ingiustizia e le sue scappatelle con “ragazzuole” per quante lui se ne possa “portare a cena o in campagna o a casa tua”. Oriana sa che lui non le vuole bene, almeno non quanto gliene vuole lei, ma se riuscirà a resistere si illude che lui finirà per volergliene un “pochino”: “allora sarà il giorno del miracolo e potrò permettermi di finire sotto un tram…”

Oriana con Panagulis

Parole di donna innamorata, sconvolta, come lei stessa scrive, dalla sola idea di perderlo, ma di un amore disperato, guasto, tanto fragile da essere senza alcuna speranza, nato morto. Anni dopo Oriana scriverà “Lettera a un bambino mai nato” , frutto del suo secondo grande amore con Panagulis, un greco romantico baffuto  e rivoluzionario. Una perdita terribile che segna profondamente la vita di Oriana nella sua fase calante. Anche con Pieroni rimane incinta, ma allora non esita ad abortire, si fa parte attiva, suggerisce ad Alfredo dove e come abortire, perché non vuole “turbare” la vita di Alfredo, si sacrifica perché sa che, se facesse diversamente, lo perderebbe.

Contraddizioni sorprendenti, due personalità inconciliabili, una donna pubblica e una privata così diverse da far pensare ad una dissociazione psicologica dolorosa e irrisolvibile?

Non lo so, e per quanto mi sforzi di contestualizzare, di ridurre il peso e il valore di parole intercorse in una corrispondenza privata, frutto di un atteggiamento intimo dove parla il cuore e non la mente raziocinante, non riesco a far combaciare nel ricordo la Fallaci che conoscevo da quella che emerge da queste lettere.

Il lato oscuro è in ognuno di noi?  L’eroina con il microfono in mano è molto più attraente che non la donnina implorante amore. Io continuerò ad avere negli occhi la prima e cercherò di dimenticare la seconda.

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