AMICI ARTISTI FOLLI E STRAFATTI: VI PRESENTO LA B.G.

AMICI ARTISTI FOLLI E STRAFATTI: VI PRESENTO LA B.G.

IL FASCINO INTATTO DELLA BEAT GENERATION SULLE ORME DI KEROUAC E GINSBERG– DAI RICORDI DI GARY SNYDER, POETA PREMIO PULITZER, DALL’ALTO DELLA SIERRA NEVADA, LA STAGIONE DI ON THE ROAD E DI HOWL, CHE SCOSSERO L’AMERICA BIGOTTA E PURITANA.

Non accetto visitatori», premette e promette Gary Snyder, poeta americano, 87 anni, ultimo grande protagonista della Beat Generation e della rivoluzione hippy con Lawrence Ferlinghetti e Michael McClure. Ma se a San Francisco il 98enne Ferlinghetti ancora possiede l’ omerica libreria City Lights e McClure a 85 anni ha un’ esposizione pubblica intensa, Snyder è un eremita della foresta, affilato come il freddo dei suoi altopiani. Il suo segreto mondo antico Snyder lo ha battezzato “Kitkitdizze”, come i nativi Miwok qui chiamavano la Chamaebatia foliolosa, un arbusto locale, aromatico e sempreverde.

Il poeta Gary Snyder

Arrivarci a Kitkitdizze, una bizzarra casa di legno conica e orientale, a oltre tre ore da San Francisco, è tortuoso. Sulla Sierra Nevada, oltre i mille metri, la neve resiste, come Snyder. Sotto il ghiaccio la strada è sterrata.

Snyder, premio Pulitzer per la poesia con Turtle Island, vive qui da quasi cinquant’ anni. Senza rete elettrica ma con illuminazione a kerosene, un pollaio, una sauna e un telefono alimentato da un’ antenna satellitare. «Alla fine degli anni Sessanta», insieme ad Allen Ginsberg e altri buddisti zen, «ho comprato questo pezzo di terra da un amico. Da quassù», sottolinea Snyder, «scorre tutta l’ acqua che arriva a valle nella California, verso l’ oceano. Questo è un luogo di vita».

Da quando però dieci anni fa è morta la sua seconda moglie Carole Koda, cui Snyder ha dedicato un soffice poema nell’ ultima raccolta Questo istante presente (ed. Jouvence, curata da Giuseppe Moretti), «vivo col mio cane, Emi, che dopo 14 anni mi fa ancora compagnia». Della morte Snyder non ha paura («non mi sono mai organizzato la vita come se dovessi vivere in eterno, come fanno in tanti oggi») «e non mi sento solo».

Dopo la stanchezza della corsa all’ oro, l’ area è nuovamente popolata. E oggi questi “ri-abitanti” sono contadini, post-hippy e montanari che «mi passano a trovare. Parliamo di politica oppure meditiamo insieme: ma non è una festa. La meditazione è un intervallo difficile, è l’ osservazione della propria coscienza».

Foto giovanile di Allen Ginsberg

Kitkitdizze è l’ incontestabile tempio spirituale, il codex ideologico dell’ eco-poeta Snyder: qui ci sono il suo ambientalismo puro e primordiale, il suo irriducibile naturalismo, il suo orientalismo e il buddismo zen amati sin dai primi studi di cinese e giapponese e sfamati dalle costanti trasferte giovanili in Asia.

«Noi della California e della Costa occidentale siamo diversi, da tutto e tutti», chiarisce Snyder, «da qui guardiamo al Pacifico, sappiamo che gli asiatici arrivarono ben prima degli europei attraverso il Mar di Bering. Io ho fatto il viaggio opposto: a 18 anni ho preso una nave per il Giappone e sono diventato monaco». Poi ha girato India, Cina e altra Asia, insieme alla prima moglie Masa, ad Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, il sodale Philip Whalen e il “pionnier” della Beat Generation Jack Kerouac, che a Snyder dedicò il personaggio di Japhy Rider, mezzo hippy mezzo santone buddista, mezzo vagabondo letterario, protagonista del suo romanzo I vagabondi del Dharma, sequel tortuoso di Sulla strada.

Ma non lo dite a Snyder. «Perché dobbiamo parlarne? Perché?

Allen Ginsberg con Peter Orlowski

Japhy Rider non sono io, non sono io! È chiaro?». Ma è un personaggio evidentemente ispirato a lei. «Kerouac ha scritto tanti altri bei romanzi, come Il Dottor Sax, che non conosce quasi nessuno perché le persone non leggono con attenzione. I vagabondi del Dharma, anche se ha ispirato la cultura americana del viaggio e dell’ orientalismo, sicuramente non è uno di questi».

Ma, al di là dell’ aspetto caricaturale che la irrita, è vero che Kerouac le scrisse affranto dopo i suoi giudizi negativi e scene poco gradite come quella del sesso tantrico?

«Sì, mi doveva delle scuse. Ma oramai era troppo tardi.

Con Jack eravamo buoni amici, anche se mi sono reso conto di non averlo mai conosciuto fino in fondo. Jack è stato sempre un po’ sciocco, ma comunque carino e brillante a modo suo, e pure divertente. Peccato che sia poi ripiombato nella cristianità e di lì a poco sia morto. Ginsberg era sicuramente più simpatico. Basta parlare di Kerouac».

William S Borroughs con Jack Kerouac

E allora parliamo di Ginsberg: «Negli anni Cinquanta, dopo la laurea, me lo presentò Kenneth Rexroth (altro grande poeta del Rinascimento di San Francisco, ndr). Di lì nacque una bella amicizia e viaggiammo molto insieme, anche in Asia, dove incontrammo il Dalai Lama», che Ginsberg voleva iniziare all’ Lsd, «ma non sono mai stato gay, tantomeno con lui, chiaro?». Ok.

Ginsberg alla Six Gallery di San Francisco, mentre declama Urlo.

Ma Snyder è anche uno dei pochissimi superstiti della notte magica del 7 ottobre 1955 alla Six Gallery di San Francisco (oggi ristorante turistico), dove Ginsberg lesse per la prima volta lo scandaloso Urlo sobillando censura e processi: «Che momento!», esclama Snyder mentre affastella i ricordi, «eravamo tutti lì a leggere poesie che non sarebbero mai state accettate da alcun dipartimento di inglese, figuriamoci dagli intellettuali di New York. Ma oramai eravamo un’ onda inarrestabile. Un linguaggio incontenibile. Quella sera avvenne il primo vero evento pubblico di una nuova subcultura, quella della West Coast: molto più tollerante ma ribelle, eterogenea ma invasata da uno spirito estremamente libero rispetto a quella della costa orientale e cristiana. Fiorì così la tradizione orale della poesia americana del XX secolo. C’ era una sinfonia organica e silenziosa tra noi».

«Lo stesso accadde allo Human Be-in», il grande raduno a San Francisco del 1967 liberato dal soffio di Snyder in una conchiglia che seminò la rivoluzione hippy.

«Quanta gente c’ era. Quell’ Estate dell’ Amore provocò una sommossa materiale, contadina, poi radicatasi nelle campagne, come ho fatto io. Gli anni Sessanta e Settanta stravolsero ogni piano della società, della cultura e delle arti americane. Ma la più grande eredità per me è stata una nuova sensibilità per la natura».

Quella sera dell’ Urlo di Ginsberg, Snyder lesse A Berry Feast, (la festa della bacca). «Perché è il senso ultimo della natura: le bacche crescono spontaneamente nei boschi, cibano animali e persone senza che questi se ne accorgano.

È il naturale regalo della natura.

La cosa più importante che ho imparato a Kitkitdizze è studiare il comportamento degli animali. Mi fanno capire così tanto della disciplina della natura e quindi della vita. Perché noi umani siamo animali, sospesi nella congiunzione tra natura e umanità. Se ci considerassimo davvero animali, riusciremmo a rispettare e soprattutto a condividere la natura. Ecco come bisogna vivere questo nostro istante prese

Articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica

 

Un articolo sulla beat generatione e Keruoac lo potete trovare sul sito (qui) 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FERLI

FERLI

Le fantasie divertenti e così vere di Lawrence Ferlinghetti.Quel mio incontro a San Francisco con una leggenda americana della letteratura

Lawrence Ferlinghetti City Lights San Francisco

La libreria City Lights sulla Columbus Avenue di San Francisco (Creative Commons/Caroline Culler)

Quando a San Francisco andai a cercare Lawrence Ferlighetti, che mi raccontò di un viaggio in Italia e della missione della libreria City Lights e della sua casa editrice: “Creare un posto che avrebbe reso disponibili idee a tutti… e per far vedere che ci sono altri modi di vivere e di essere”

Ancora un mese, e ci siamo. Il 24 marzo prossimi Lawrence Monsanto Ferlinghetti spegne la candelina numero 98. Ne è passato di tempo da quando, Carlo Ferlinghetti, originario di Chiari vicino Brescia, e Albertine Mendes-Monsanto, originaria di Lione, curioso impasto franco-portoghese di origine sefardita, “fabbricano” a Bronxville, nello Stato di New York, quello che diventerà un poeta, ma anche un editore, uno straordinario divulgatore di cultura, un anarchico nonviolento, insofferente e nemico giurato di ogni autoritarismo.

Recupero  appunti in vecchi, sdruciti taccuini. Di quando, mi pianto davanti alla “City Lights Bookstore”, al 261 di Columbus Avenue, a “specchiarmi” davanti a quella grande vetrina, da dove si vedono una quantità di libri ben allineati negli scaffali, impilati fino a essere torri in precario equilibrio, e commessi che zig-zagano esperti nell’arte di non farle crollare; e lettori assorti, immersi in chissà quali pensieri… Entro, non entro, cosa faccio una volta entrato? In mano la copia sgualcita di A Coney Island of the Mind, pubblicata da Guanda, nella versione di Romano Giachetti: uno dei primi libri acquistati con la mia “paghetta” di adolescente, assieme a On theRoad di Jack Kerouac, affascinato da quel “Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo. Per andare dove, amico? Non lo so, ma dobbiamo andare”, che vuol dire tante cose e niente insieme.

E’ afoso quel luglio 2011. Trasferta di lavoro a Los Angeles, al seguito di magistrati che indagano sulla strage di Ustica; sono andati ad ascoltare dirigenti e tecnici della Lockheed; c’è un “buco” di un paio di giorni, che si fa? L’operatore fa una proposta, chissà forse si ricorda del vecchio Scott McKenzie che canta “If you’re going to San Francisco / Be sure to wear some flowers in your hair…”. Vada per San Francisco, ma fiori tra i capelli no, quelli non li metto… “You’regonna meet some gentle peoplethere”, canticchia; chissà se davvero saranno gentili. Continua: “If you come to San Francisco, Summertime will be a love-in there”, ma sì, andiamo a San Francisco a vedere se davvero sarà un grande love-in… Ci saranno ancora Simon e Linda che scandiscono “Give Peace a Chance”, mentre la Guardia Civile con una violenza degna del G8 di Genova sgombera l’università occupata? Cos’è rimasto di Strawberry Statement, quarant’anni dopo?

Il giornalista Valter Vecelio

Quella copia un po’ sgualcita di A Coney Island of the Mind me la sono portata dietro chissà per quale ispirazione: è un’edizione “cofanetto”, l’altro volume è una raccolta di testi teatrali, Tremila formiche rosse, curata da Alfredo Rizzardi.

Così mi trovo davanti a questa libreria-mito, fondata da Ferlinghetti, il poeta editore processato nel 1956 per “oscenità”, colpevole di aver pubblicato Howl, lo scandaloso poema di Allen Ginsberg; ma “complice” anche per quel che riguarda Big Sur, il romanzo di Kerouac, visto che è ambientato in un capanno di sua proprietà, nella costa californiana.

Come l’ha definito la sua grande amica Fernanda Pivano? “Il Jacques Prevertd’America”; definizione che gli calza a pennello, e di cui si compiace. Prevert lo legge per la prima volta su una tovaglia di carta a St.Brieuc, nel 1944. E’ il Ferlinghetti anarchico e antimilitarista che espone e distribuisce gratis “bottoni” e spille antinucleari, chiunque le può prendere dalla grande cesta davanti alla sua libreria. Perché ce l’ha con le divise? Forse perché l’ha indossata, servizio militare in Marina, uno dei tanti che partecipa a quel mattatoio che è lo sbarco in Normandia; dopo quell’orrore comincia a frequentare i circoli pacifisti, va a vivere al Greenwich Village di New York, e studia alla Columbia University; lì “scopre” James Joyce, Henry Miller, Gertrude Stein; e William B. Yeats, grazie a una raccolta delle sue poesie abbandonata sul sedile della sopraelevata. Almeno è quello che racconta nella Poesia n.26 della raccolta Picture of the GoneWorld; e poi Thomas S. Eliot ed Ezra Pound. Una borsa di studio gli permette di andare a studiare alla Sorbona di Parigi, e in quei giorni pubblica anche il primo romanzo, Her, grazie a un padreterno dell’editoria americana, James Laughlin: anche lui un personaggio. Nel 1935 va a trovare Pound a Rapallo, e quello a brutto muso gli dice: “Torna ad Harvard, prenditi una laurea, poi comincia a far buon uso dei soldi che ti ha lasciato tuo padre”. Senza troppi giri di parole: “Something useful”. Laughilin non fa una piega; torna ad Harvard, prende la laurea, e fonda la “New Directions”; il suo catalogo si riempie di autori che non trovano editore: lo stesso Pound, Stein, Edward E. Cummings, William Carlos Williams, Michael Bishop, Miller; e ancora, Robert Creely, Gregory Corso, Kenneth Rexton, Tennesse Williams, Thomas Merton; ma anche Pablo Neruda, Herman Hesse, Vladimir Nabokov, Raymond Queneau, Garcia Lorca, Boris Pasternak, Elio Vittorini…

Lawrence Ferlinghetti

Lawrence Ferlinghetti nella sua libreria di San Francisco nel 2007 (Creative Commons/Voxtheory)

Per tornare a Ferlinghetti: comincia a mandare le sue poesie a una rivista, la  “City Lights” diretta da Peter Martin; con lui apre la libreria; la storia comincia nel giugno del 1953, libreria, casa editrice, luogo di ritrovo di poeti e di artisti di tutta la West Coast. L’idea di chiamarla “City Lights” viene dal film di Charlie Chaplin. Martin non è d’accordo, i due si separano. I “Pocket Poets Series” di Ferlinghetti hanno una caratteristica: pagine non numerate, cucite nel mezzo del volume con due punti, copertina gialla bordata di nero, i versi con disegni che ne sottolineano il significato.

Nel 1956 pubblica Howl di Ginsberg, con una prefazione di Carlos Williams; le copie sono confiscate. Una storia che Ferlinghetti racconta sulla ”EvergreenReview“. Negli Stati Uniti è vietato pubblicare il libro, “osceno”. Si aggira l’ostacolo stampandolo in Regno Unito. Poi viene spedito a San Francisco. C’è però un occhiuto funzionario della dogana, molto sensibile alle ragioni del pudore e della moralità. Tutto sequestrato. Il processo che segue, provoca una della più grosse prese di posizione letteraria di tutti i tempi: in difesa di Ginsberg e Ferlinghetti si muovono Rexroth, Mark Schorer, Kenneth Patchen, Laughlin, Barney Rossett, Thomas Parkinson, Robert Duncan… Anche editorialmente, grazie alla stupidità della censura, è un successo: in una settimana si vendono diecimila copie, Howl diventa un caso nazionale, per Ginsberg il processo è “il più bel premio letterario”.

Quando nel 1979 viene organizzato a Castel Porziano il Primo Festival Internazionale dei Poeti, c’è anche lui, con Ginsberg, Evtuschenko, Corso, tantissimi altri venuti dai mille angoli del mondo.

Entro. Il commesso mi dice che non c’è, è andato al caffè vicino, se voglio lo posso raggiungere.

Posso andare? Magari lo disturbo…

A quel caffè lo vanno a trovare in tanti. Può andare anche lei. Però può aspettarlo qui. Magari fra cinque minuti torna, magari però no… Non fa mai programmi precisi…”.

Andiamo al caffè, la copia di  A Coney Island of the Mind in vista, come una specie di tessera di riconoscimento. Lui lo vedo subito, una bella candida barba che gli incornicia il viso, occhi azzurri intenso. Il caffè è quello che uno si aspetta, una specie di succursale del “Mel’s Dinner” della sit-con “Alice”.  C’è anche Mel Sharples con maglietta e berrettino, che però sono immacolati, e a differenza di Vic Tayback, è magro come un chiodo; quando alle cameriere, ce n’è una sola, che evidentemente deve fare insieme Alice, Vera e “Flo”.

Lawrence Ferlinghetti

Il poeta Lawrence Ferlinghetti in una foto scattata nel 2012 (Wikemedia Commomns/Christopher Michel)

E’ seduto a un tavolo, mangiucchia una ciambella, sorseggia il suo caffè. Davanti un giornale. Alza gli occhi, se la ride. Vede il libro, fa un cenno con la mano.

Venga, si sieda… Italiano? Peccato, io non lo parlo bene, ma voglio impararlo: dev’essere bello leggere Dante nella sua lingua…”.

Non so bene cosa dire, balbetto qualcosa. Beve il suo caffè, fa cenno di portarne altro per tutti e due. “Sono venuto spesso in Italia, ho molti amici nel suo paese… Una volta mi stavo anche cacciando in un guaio…”.

Il poeta Alleg Ginsberg

Racconta che gli era venuta la voglia di vedere a Brescia dove avevano vissuto il padre e la madre. Arriva in contrada Cossere al numero 20, cuore della città. Portone chiuso, una fila di campanelli, comincia a suonarli a casaccio, non apre nessuno. Ecco, una donna anziana apre e subito si ritrae: cosa vuole, dice in dialetto, e figuriamoci se Ferlinghetti capisce. Risponde il inglese, e figuriamoci se la donna capisce. L’anziana guarda con sospetto questo tipo strano che fa una quantità di fotografie, parla strano, è vestito come uno spaventapasseri. Chiama la polizia, allarmata; arrivano due agenti.

Ecco, immaginiamola la scena: “Chi sei?…Cosa fai? Mi capisci? Fai vedere i documenti…Mi capisci o no?… Da dove vieni? O ma questo non capisce proprio nulla, che vuol dire questo ‘fromussei?…Un passaporto americano…dove abiti? Capisci? A-B-I-T-I? San Francisco? E qui però dice che sei nato a New York… Come? Insomma da quando sei in Italia? Come? Uànmonth? Che c’entrano i monti? Fai vedere il visto…Ah, un mese…come un mese…ce l’hai il permesso di soggiorno? P-E-R-M-E-S-S-0-D-I-S-O-G-G-I-O-R-N-O…aidontanderstan…che c’entra il Pakistan… non hai detto che sei americano? Senti, collega: questo non ha il permesso di soggiorno, e gli otto giorni sono scaduti, portiamolo in questura, che forse qualcuno che parla la sua lingua lo troviamo, e poi vediamo se lo dobbiamo rimpatriare…”.

Scena surreale, dite? Eppure parola più, parola meno è quello che è accaduto. Per fortuna tutto si risolve quando arriva, avvertito, il sindaco, che conosce Ferlinghetti, e soprattutto parla l’inglese.

Racconta l’episodio divertito, mentre si ritorna alla libreria.

Con una punta di orgoglio parla di quella che definisce “la missione di City Lights”, che essenzialmente consiste in questo: “Creare un posto che avrebbe reso disponibili idee a tutti, in un ambiente amichevole, e dove ti saresti sentito sempre il benvenuto”.

Ginsbeg a Castelporziano, 1979

E la casa editrice? “Come per la libreria, l’intenzione era quella di renderli più accessibili a tutti, è rimasto ancora, più o meno, tutto così”. Spiega: “City Lights è ancora oggi importante perché fa vedere che ci sono altri modi di vivere ed essere”.

In libreria una quantità di libri, opuscoli, riviste in mille formati, colorate, venute da ovunque. “Just a minute”, dice, e scompare dietro una tenda. Torna dopo qualche minuto, porge una busta e dentro ben confezionato un pacco, si indovina che la carta rossa avvolge un libro; la mano tesa, stringe la mia: “Now, I must go away, have a good dayBye bye Roma”.

Esco, mi volto un’ultima volta, lui è davanti alla libreria, fa un saluto con la mano, e rientra. Alla prima panchina mi siedo, scarto il pacco, tra le mani mi trovo un grande volume fotografico, Literary San Francisco: A Picrorial History from Its Beginnings to the Present Day, realizzato dallo stesso Ferlinghetti, con Nancy J. Peters, compagna di un altro poeta suo amico, Philip Lamantia. E’ la storia, con bellissime immagini, di quella stagione culturale e artistica di cui Ferlinghetti è stato uno dei protagonisti. Nel frontespizio un verso tratto dai suoi Pictures of the gone world: “Funny fantasies are never so real as oldstyle romances…”. Diciamo: “Le fantasie più divertenti non sono mai così vere come i vecchi racconti…”.

Ma questo libro su San Francisco, e questa dedica, sono una storia che si racconterà un’altra volta.

Sciascianamentedi Valter Vecellio, apparso sulla rivista www.lavocedinewyork.com del 27 febbraio 2017

97 ANNI E ANCORA MORDE. LAWRENCE FERLINGHETTI E LA BEAT GENERATION

97 ANNI E ANCORA MORDE. LAWRENCE FERLINGHETTI E LA BEAT GENERATION

97 ANNI E ANCORA MORDE. LA BEAT GENERATION NEI RICORDI DI LAWRENCE FERLINGHETTI, UN ITALO AMERICANO CHE PUZZAVA DI PEPERONE E CIPOLLA, AMICO ED EDITORE DI UNA SCHIERA DI ARTISTI CHE SONO ORMAI NELLA STORIA    

 

 

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Ferlinghetti e Ginsberg davanti alla tomba di Kerouac

«Bravo Bob, bravo», sussurra in un italiano felice Lawrence Ferlinghetti. Per il grande poeta e scrittore americano, che ha vissuto quasi un secolo su questa Terra, «il Nobel di Dylan è il Nobel di una generazione. Chi è rimasto di noi dovrebbe esserne fiero. Bob Dylan è la vera, unica eredità della Beat Generation nel XXI secolo».

A 97 anni, dorati da una rara e toccante lucidità, Ferlinghetti è l’ultimo padre vivente della Beat Generation. La generazione che ha coccolato Bob Dylan, prima che anche lui se ne andasse on the road, per la sua strada.

Dagli anni Sessanta lo frequentò anche Ferlinghetti quel menestrello del Minnesota: «Una volta eravamo io, Bob Dylan e Allen Ginsberg a un Cafè in San Francisco e ci cacciarono perché eravamo troppo bohémien, troppo matti. Ma non posso definire Dylan un amico, quello semmai era Allen Ginsberg. Io non sento Bob da molti anni».beat2

Lawrence Ferlinghetti, in Italia pubblicato da Minimum Fax che di recente ha riproposto il suo capolavoro A Coney Island of the Mind, parla dalla sua casa di San Francisco, nel quartiere italiano North Beach. «Oramai sono quasi cieco», confessa. Gli sfugge una lacrima: «Dopo il glaucoma, non riesco a leggere più niente. Questa è la cosa che mi fa più male, alla mia età. Non può capire quanto».

Si sposta dalla sua camera in soggiorno, a fatica. Ha il fiatone. Non vuole svegliare suo figlio Lorenzo: «Dorme ancora». Lorenzo, nome italiano, come il suo quartiere, come il nipote (Leonardo), come mezza famiglia: il padre veniva da Chiari, Brescia, e morì sei mesi prima che Lawrence nascesse. Adesso, “Ferling” è fiero della sua italianità, clandestina in gioventù: il suo cognome per decenni gli fu dimezzato. La sua famiglia si vergognava di essere associata «a chi puzzava di peperoni e cipolla ».beat3

Tutti i “beatniks”, dagli anni Cinquanta in poi, si incontravano da Lawrence. L’appuntamento era nella sua storica libreria ed editrice City Lights, angusto epicentro di una rivoluzione che ha sconvolto il mondo pubblicando Ginsberg (una performance del maledetto Urlo gli costò persino il carcere nel 1957), Burroughs, Kerouac, Kaufman, Corso, e poi Prévert, Chomsky, Bukowsky. Ma non Dylan.

«Uno dei miei rimpianti più grandi è quello di non essere riuscito a pubblicare Bob. Quanto ho agognato e sperato di pubblicare in poesia almeno una versione del suo primo album omonimo! Che versi profondi, irraggiungibili! Ma allora, a metà degli anni Sessanta, era già troppo famoso».

E cosa successe?

«Quando provai a chiedere i diritti, me ne andai con la coda tra le gambe. Quei soldi non li avrei mai avuti in vita. E comunque aveva già deciso di essere un uomo “song and dance”, canto e ballo».

Norman Mailer diceva che «se Dylan è un poeta, io sono un giocatore di basket».

«Che stupidaggini. Bob Dylan è un poeta, prima di ogni cosa. Lo è sempre stato. Ha scritto i migliori poemi surrealisti della nostra generazione. E, grazie alla musica, è riuscito a far arrivare la poesia dove non era mai arrivata, neanche con Ginsberg. L’Accademia di Svezia ha avuto grande coraggio per una scelta giusta e doverosa».

Il Nobel a Bob Dylan è anche il Nobel ai “beatniks”, a Lawrence Ferlinghetti e a un’intera generazione?beat-4

«In un certo senso sì. Anche se noi abbiamo cominciato negli anni Cinquanta, lui poco dopo. Ma è indubbio che le commistioni tra Beat Generation e quel revival folk aspirato dal primo Dylan si sovrapponessero molto rispetto alla stessa intellighenzia liberal di sinistra.

 

Bob era uno di noi, basti vedere il flusso di coscienza dei suoi primi testi. E, dalla pace alle droghe, dalla psichedelia al buddismo, ha articolato in maniera irraggiungibile slogan e temi della nostra generazione. Soprattutto negli anni a venire, è stato il vero padre culturale della hippy generation».

Più di Ginsberg, ponte tra beat e hippy?

«Allen è stato una leggenda, ma non era niente al confronto di Bob Dylan. Piangeva mentre ascoltava le sue canzoni. Non a caso, presto lo capì e anche lui si portò un’armonica dall’India e cominciò a musicare i versi, persino i Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza di William Blake».

Dylan era di origini ebraiche, ha cantato le storie degli ultimi come i neri e il jazz amato dalla Beat Generation e ha riportato la questione sociale in primo piano, come fece Steinbeck anni prima.

«Vero. Poi certo, la musica di Dylan è una storia impossibile da riassumere in poche righe: partì da Woody Guthrie e sappiamo dove è andata a finire. Anche il paragone con Steinbeck è azzeccato. Non a caso era uno degli idoli di Dylan, e anche di Jack Kerouac».

Qual è secondo lei la “canzone” più letteraria di Dylan?beat5

«Non saprei. Solo Masters of War ne meriterebbe due di Nobel: per la Letteratura e per la Pace».

Che ne pensa degli intellettuali oggi? C’è chi dice che spesso sono troppo silenti di fronte ai mali del mondo.

«Silenti? Questi dormono proprio! Va bene che la sinistra sta perdendo pezzi giorno dopo giorno. Ma io vedo solo un grande sonno».

Perché, secondo lei?

«Oggi gli intellettuali hanno lo stomaco pieno. Hanno tutto, da subito, soprattutto i più giovani. Quando arrivai a San Francisco negli anni Cinquanta non avevo niente in tasca. E così molti miei colleghi. Avevamo una fame dentro, una tale rabbia, che non potevamo star zitti».

Lei invece, a 97 anni, dopo una carriera indimenticabile, cosa fa il giorno?

«Niente. Passo tutto il tempo a casa. Sono cieco».

Non va mai nella sua storica libreria?

«Ogni tanto. Ma oramai c’è gente straordinaria che ci lavora al posto mio, io non servo più».

Nel secolo scorso sfidavate la censura facendo arrivare dall’Europa i libri proibiti, Bob Dylan fece lo stesso con “Pasto Nudo” di Burroughs nel 1959. Oggi lo stesso meccanismo, nell’era di Amazon e della grande distribuzione, rischia di far chiudere parecchie librerie indipendenti, anche la vostra.

«Ma noi, City Lights, siamo sopravvissuti. E non moriremo mai. Perché la nostra non è solo una libreria. È una comunità. Quando la inaugurai, nel 1953, decisi di restare aperto fino a notte, sette giorni su sette.

Le altre piccole librerie che chiudevano alle 5. Loro sono morte, noi no. Quei predatori di Amazon non ci avranno mai. Perché non riusciranno mai a essere come noi. Per esempio, la settimana prossima ci verrà a trovare Ralph Nader (ex candidato presidente in America, verde,ndr) ».

A proposito, lei da anarchico e ribelle antisistema, cosa voterà alle elezioni? Sceglierà un altro Nader, i cui voti da sinistra fecero perdere il democratico Gore a favore di George Bush?

«Stavolta no. Mi turerò il naso con due mani e voterò per Hillary Clinton. Trump è troppo pericoloso e rischieremmo davvero con una guerra mondiale con lui al comando. Ma, il giorno dopo la vittoria di Clinton, sperò che il movimento “Occupy” occupi la Casa Bianca stavolta, dopo Wall Street. Questo sistema politico è insostenibile, crea troppe disuguaglianze. Prima o poi, toccherà cambiarlo»

Articolo di Antonello Guerrera per La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

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