FELLINI, JUNG E IL SACRO

FELLINI, JUNG E IL SACRO

Qualche anno fa fui chiamato a un incontro, tra Rimini e Bologna, per un intervento che rievocasse la figura di Giulietta Masina, attrice importante nella storia del nostro cinema e moglie di Federico Fellini, che la volle protagonista per più film, di cui uno, a colori, d’ambientazione borghese (Giulietta degli spiriti), ma i primi due, La strada e Le notti di Cabiria, su personaggi di “semplici”, affini ad altri cari al regista, tra emarginazione e disabilità, presenti in quasi tutti i suoi film. Qualcuno registrò quella conversazione, che ho letto e corretto per ricordare un aspetto importante dell’ispirazione del regista, in occasione del centenario della sua nascita.

Ecco tre brevi citazioni di Fellini, una delle quali da un’intervista che gli feci io stesso.:“La scelta del diverso, del marginale, dello strano, del matto, dipendeva un po’ dalle cattive letture e poi da una mia inclinazione alle forme dello spettacolo popolare, e al circo equestre come la più popolare di tutte. Lì, l’estremo, l’eccesso, il fenomeno, sono di casa e all’estremo c’è il vagabondo, proprio quello di Chaplin, caricatura di un personaggio tra l’angelico e il feroce. C’era in me una simpatia per queste figure sulla quale non riesco a far luce, se non tornando ai ricordi di infanzia, al Corriere dei Piccoli, alla grande seduzione esercitata su di me da Bibi e Bibò, da Arcibaldo, da Fortunello. Credo che Gelsomina, Cabiria e in generale l’aspetto clochard e clownesco, la simpatia per quei personaggi e per quelle storie, abbiano appunto queste matrici: il Corriere dei Piccoli, Il circo di Chaplin, Dickens, Pinocchio, senza tentare interpretazioni più sottili, che non mi appartengono. Questi sono stati i miei angeli custodi, le fonti delle mie aspirazioni”.

In un’altra intervista, questa con Giovanni Grazzini, Fellini diceva: “Le radici da cui sono nati Gelsomina, Zampanò e la loro storia pescano in una zona profonda e oscura, costellata di sensi di colpa, timori, struggenti nostalgie, per una moralità più compiuta, rimpianto per un’innocenza tradita”. E a proposito della “innocenza” di questi personaggi: “Davanti a un innocente mi arrendo subito e mi giudico pesantemente. I bambini, gli animali, gli sguardi con cui ti fissano certi cani, l’estrema modestia, che certe volte ravviso nei desideri di gente umile, hanno il potere di turbarmi.”

Questa “zona dell’infanzia” è il punto di partenza di alcune ispirazioni fondamentali nel cinema di Fellini. Solo che queste ispirazioni, queste intuizioni, questa fedeltà alle immagini dell’infanzia, cambiano nel corso della vita del regista, come cambiano, credo, nel corso della vita di ognuno. Diceva lo scrittore polacco Witold Gombrowicz che “siamo tutti foderati d’infanzia”. L’infanzia ci perseguita, in qualche modo ci definisce. Ci chiude, ma allo stesso tempo ci apre, ci dà delle possibilità.

Lo spostamento, la vera rottura in quest’ordine, il vero accesso alla maturità, è stato, per Fellini, l’approdo a un altro tipo di infanzia, a un altro tipo di fantastico, di mondo immaginario, non più quello del fumetto e del circo, ma qualcosa di molto più intimo e profondo. “Ho spostato”, dice in qualche altra intervista, “il mio punto di vista senza deludermi nell’ansia di vedere in maniera fantastica i paesaggi del mondo magico. Ho cambiato orizzonte, mi sono messo da un’altra parte guardando queste cose non come un mondo sconosciuto fuori di me, ma come un mondo dentro di me”. E rivendica questo salto fondamentale nella sua opera, che poi, se vogliamo datarlo, è il salto di , all’influenza avuta su di lui da Ernst Bernhard, il grande psicoanalista romano che fu allievo e collaboratore di Jung.

Fellini diceva che la lettura di Jung, soprattutto di Ricordi, sogni, riflessioni, è stata per lui fondamentale, insieme a quella del Pinocchio. A Jung rimanda anche la fascinazione per le figure del “diverso”, del marginale, del vagabondo, del senzatetto, del ritardato, dei “mostri” del circo – tramiti per una comprensione del misterioso e del nascosto, del primario e dell’essenziale – che ha anch’essa un’evoluzione e cambia nel corso degli anni.

La chiave fondamentale di questa figura è quella del “povero di spirito” d’origine evangelica: “Beati i poveri di spirito perché di loro è il regno dei cieli”. È a partire da una lettura di questa indicazione cristiana, che è quella, poi, della grande letteratura dell’ottocento russo – dei semplici e puri di Dostoevskij, ma anche di Leskov, di Čechov, di Tolstoj, che accostano i semplici ai santi – il povero di spirito è colui che può accedere al regno dei cieli e può essere per noi un tramite con il divino, con il “vero”. Ed è un passaggio fondamentale per intuire il mistero dell’esistenza.

Roberto Rossellini

Il rapporto con Rossellini
Queste figure, nel cinema di Fellini, hanno un’origine precisa nel suo rapporto con Roberto Rossellini, fondamentale per Fellini in tutti i sensi e soprattutto in quello della libertà dello sguardo, fuori dai canoni del linguaggio cinematografico codificato. Prima di Rossellini, il Fellini giovane sceneggiatore aveva lavorato per commedie popolaresche o fornendo gag prese dalla sua esperienza di collaboratore di settimanali umoristici. È per Rossellini, e su sua influenza e spinta, che Fellini collabora alla creazione del personaggio della pazza – interpretata da Anna Magnani – in Il miracolo, un film di cui peraltro Fellini è anche l’interprete maschile. È ancora Fellini che scrive insieme a Rossellini Europa ‘51 e altri film fondamentali nella sua opera, che esce dai canoni “zavattiniani” del neorealismo “buonista” per addentrarsi nella dimensione di una presa diretta della vita, ma oltre la sua superficie, in una direzione più poetica e metaforica, sostanzialmente religiosa.

Nella ricerca di una verità “oltre”, di un’alterità, di una verità più profonda, anche metaforica, che nella mera registrazione o idealizzazione del reale mancano, sfuggono. Ci vuole qualcos’altro, e la grande trilogia di Rossellini, anticipata da Il miracolo e da Francesco, giullare di Dio – un riferimento fondamentale per lo stesso Fellini –, e formata da StromboliViaggio in Italia, da Europa ‘51, ne è la dimostrazione, la prova di una possibilità di fare del cinema poesia, e poesia religiosa. Rossellini è per Fellini una sorta di genio tutelare, con cui deve anche scontrarsi perché, per affermarsi, l’allievo ha anche bisogno di definire un proprio campo diverso da quello del maestro; però Rossellini c’è, non ci sarebbe stato Fellini senza Rossellini, e non bisogna mai dimenticarlo.

Le diverse Giuliette
Non parlerò di quell’aspetto più ovvio – anche perché ci si è troppo insistito – che è il rapporto di Fellini con le donne: i personaggi femminili, le tettone, le saraghine, le “Anite-Ekberg” dei suoi film, i manifesti giganti che prendono vita e ossessionano Peppino de Filippo eccetera, eccetera. Per quanto importantissima, questa zona è una zona un po’ rétro, rientra nel modo di vedere la donna che poteva avere un maschio della generazione di Fellini, e non è una visione, questa, molto profonda e neanche molto rispettosa. È condizionata da usi, costumi, abitudini molto discutibili, e Fellini, in fondo, in questo rimane un “vitellone”, e un po’ lo rimane fino alla fine. I suoi film forse più ambigui, e che è più arduo amare e decifrare, sono proprio Giulietta degli spiriti e La città delle donne, che andrebbero rivisti e analizzati da donne che quasi sempre non li hanno amati, e non da uomini, perché nella loro visione della donna c’è qualcosa che appartiene loro, e che va oltre le opzioni ideologiche. Può scattare nei maschi una complicità con Fellini, anche un po’ deteriore.

Il punto più ambizioso dell’opera di Rossellini è certamente il film su Francesco, giullare di Dio. Chi c’è più “semplice” e “povero di spirito” del Francesco dei Fioretti? Non si parla, è ovvio, del Francesco storico, reale. Ma c’è qualcosa che collega – la ricerca della semplicità e della poesia, se non altro – il Fellini di prima con il Fellini rosselliniano, si trova nell’esperienza radiofonica di Cico e Pallina, in quella dei bozzetti del Marc’Aurelio e di altri settimanali umoristici del tempo. Pallina è la protoGiulietta, è già l’invocazione di una Giulietta, nell’ispirazione di Fellini. Giulietta è l’interprete perfetta per il tipo di fantasticheria che lui ha elaborato su questa figura di piccola donna clown che ha però un suo mistero, una femminilità diversa da quella del realismo dell’epoca.

Giulietta Masin​a in Le notti di Cabiria, 1957. - Everett/Contrasto
Giulietta Masin​a in Le notti di Cabiria, 1957. (Everett/Contrasto)

La figura della Masina, il suo personaggio, vengono fuori da questo incrocio: c’è Rossellini ma c’è anche Cico e Pallina, e, piano piano, ci sono quei personaggi che Fellini costruisce per lei e con lei. Senza pietàLo sceicco bianco, tutto sembra portare verso le figure di Gelsomina e di Cabiria, anche se tra loro diverse. Potrebbe essere un altro campo di indagine: sarebbe interessante analizzare le differenze tra le diverse Giuliette di Federico, lasciando da parte quella più complicata e “borghese” di Giulietta degli spiriti, anche se mantiene alcuni caratteri delle precedenti, nel rimando a un inconscio tuttavia affine.

Ma fermiamoci alle prime: la Giulietta dei film altrui ma da Fellini sceneggiati, e poi la Giulietta di La strada e quella di Cabiria; e la Giulietta di Europa ‘51, anche questa scritta da Fellini, ma rivista da Rossellini e che appare una variante più vitale – più allegra, estroversa e risolta – in qualche modo più contenta di sé nella sua diffusa maternità e sensualità. Qualcosa resta nel personaggio più normale, più abituale di FortunellaFortunella, come Il bidone, per esempio, ha delle attinenze fortissime con La strada. In Fortunella, un superlativo e geniale Alberto Sordi resta una specie di Zampanò, mentre Paul Douglas è il matto, un altro Richard Basehart.

Scena dal film 8 e 1/2

Nel finale di Il bidone, invece, Giulietta, rovesciando in qualche modo il suo ruolo, diventa la persona saggia nei confronti del “matto”, che nel film è suo marito. Interpretato da Basehart, è un personaggio un po’ scombinato. Sullo schermo è il bidonista simpatico, il più bugiardo, il più fiacco, il più inventivo, il meno responsabile, lontano da una dimensione tragica che invece esplode nel finale – un finale forse perfino più bello di quello di La strada, o comunque alla sua altezza – con la morte di Broderick Crawford, il bidonista tragico.

Un incontro molto significativo, perché ciò che risveglia non è il rimorso per ciò che è perduto, per la possibilità persa di accedere alla grazia, ma è una comunicazione reale con un altro essere umano che è una diversa variante di Gelsomina, splendido nella sua unicità e diversità, un personaggio non di minorato, e non di ritardato come Gelsomina, ma una ragazza storpia, la ragazza storpia del finale nella casa dei contadini di Il bidone, che permette a Broderick Crawford di rinunciare alla sua definizione di delinquente, di bidonista, di truffatore, pagando con la vita questa sua scelta. L’occasione della “rivelazione” è il personaggio di una povera ragazza sciancata.

Il personaggio di Giulietta ha nella sua evoluzione dei risvolti notevoli rispetto al cinema del tempo. Mi fece una certa impressione un film come Nella città l’inferno di Renato Castellani, un film che fu giudicato a suo tempo con eccessiva severità, in cui la Magnani – e penso alla Magnani di Il miracolo – diventa invece una specie di Magnani-Zampanò. È una Magnani “virile”, una Magnani guappa, una Magnani violenta e camorrista, di fronte alla quale Giulietta Masina è di nuovo una povera Gelsomina, turlupinata anche per la sua incapacità di reggere a questo confronto, di essere all’altezza della Magnani. I poeti non pescano soltanto dalla realtà, pescano anche dal loro travisamento della realtà

Scena film Roma

Non dobbiamo dimenticare oltretutto che i film di cui parliamo appartengono a un’epoca che è l’epoca delle “maggiorate”, e che parliamo di un cinema – non a caso quello di Rossellini, di Fellini – che si colloca all’opposto del cinema delle maggiorate. Le maggiorate, le supertettone di Fellini, sono figure per l’appunto mitiche, enormi; non rappresentano le maggiorate reali che piacevano agli italiani di allora, quelle dell’episodio Gli italiani si voltano di Alberto Lattuada.

Sono in qualche modo marginali, e sono l’accesso a un cinema moderno, vero, che non è quello del realismo, non è quello della commedia, ma è quello più filosofico e metaforico, per certi aspetti perfino metafisico. Che parte da Rossellini, procede con Fellini e va verso Pasolini, i tre “ini”, forse i tre maggiori registi – con Antonioni – del nostro cinema, anche perché hanno portato nel cinema qualcosa che prima non c’era, qualcosa di assolutamente originale rispetto ad altri registi pur grandi, ma che si muovevano dentro convenzioni letterarie e cinematografiche chiare e definite, accettate. Qui, invece, c’era qualcosa di decisamente nuovo, nel modo di narrare e in quello di intendere il cinema, e nella sensibilità che vi si esprimeva.

Il diverso
Un altro spunto sollecitato dai personaggi di Gelsomina, di Cabiria e degli altri interpretati dalla Masina è il modo in cui, nella stessa epoca, è stata vista – o non è stata vista – la figura del diverso. Intanto, il cinema italiano si è occupato pochissimo di questi personaggi. Che so, in Visconti non si parlava mai di queste cose; non ci sono i diversi, i malati, gli storpi, i poveri di spirito. Sullo sfondo del Grido di Antonioni qualcosa appare, ma fugacemente. E anche in Pasolini, erede a suo modo di Rossellini, ci sono figure molto più concrete e “normali” della marginalità sociale, salvo poi quando si va verso il fantastico con i film interpretati da Totò.

In generale c’è una scarsa attenzione verso le figure reali e concrete di quella diversità che pure sta in mezzo a noi, e che invece Fellini ama. In La mia Rimini c’è un elenco dei pazzi di paese, degli sciancati, dei ritardati, dei mostri, alcuni quasi da Cottolengo, che poi nei suoi film vengono continuamente fuori: la vecchina nana, la monachella nana, il facchino scemo di Amarcord che sogna, che racconta, “Giudizio” (l’attore Bagolini) in I vitelloni, eccetera… Tutti personaggi che popolano la provincia italiana di quegli anni, e che erano presenti nelle esperienze di tutti, ma trascurati dal racconto cinematografico anche realista; che non diventavano personaggi degni di attenzione poetica, degni di attenzione cinematografica.

Succede con Fellini, che è veramente un precursore, da questo punto di vista, di un’attenzione verso la diversità che nasce sostanzialmente in Italia con il 1968 – più quello dei cattolici che quello dei giovani marxisti o presunti tali –, il 1968 delle organizzazioni che hanno cominciato a occuparsi concretamente dei diritti dei malati di mente e dei disabili, per esempio.

Cito un altro piccolo brano di Fellini, ancora da una mia intervista, un racconto che mi piace molto e che può rimandare all’esperienza di tanti:

“Se devo riandare alle prime emozioni personali e figurative, da bambino c’era indubbiamente in me una grande curiosità per la diversità. Io e mio fratello passavamo interi pomeriggi a giocare in un cortile chiuso di un vecchio palazzo nobiliare. Al terzo piano abitava un mongoloide, un bambino che noi chiamavamo ‘la testa’; a volte si affacciava dietro i vetri, e subito dopo un’ombra lo tirava via.”

Fellini sul set con Mastroianni e la Loren

Siamo in tanti a ricordare incontri simili, anche se gli aneddoti di Fellini vanno sempre presi cum grano salis, perché Fellini era anche abituato a gonfiare un poco i suoi ricordi, e a volte, hanno detto molti suoi amici, anche a inventarseli… Ma anche se così fosse, si tratta di invenzioni molto significative per la poetica di un autore. I poeti non pescano soltanto dalla realtà, pescano anche dal loro travisamento della realtà, dal loro intervento fantastico sulla realtà.

“Poi una volta “la testa” lo vedemmo in cortile accompagnato da due donne. Era un bambino con un gran testone, con gli occhi vuoti, la bocca piena di bava. Il fascino del deforme, del diverso mi ha sempre incantato, mi ha sempre profondamente suggestionato, mi ha sempre incuriosito. Perché? Ma chi lo sa? Queste emozioni, ci portavano a pensare che la realtà non era quella confortante suggerita dalla scuola, dalla mamma e dal papà, ma aveva un aspetto pauroso, suggeriva una ribellione. Io credo di essere un carattere molto mite e pacifico, ma forse coltivo una passione segreta per la ribellione, non tanto quella politico-rivoluzionaria – i botti, il chiasso, i cortei, non mi piacciono molto – ma per la trasgressione. Questa è una vera vocazione: trasgredire. E magari essere premiato dal sindaco come trasgressore, oppure dal papa…”.

Anche qui, ritorna il Fellini del conformismo-anticonformismo, un po’ uomo d’ordine e un po’ ribelle, dentro una dialettica che caratterizza “politicamente” la sua figura, il suo rapporto con il potere, e che somiglia a quella di tanti altri artisti. Anche in questo si può dire che gli fu maestra la spregiudicatezza politica di Rossellini [….]

Italo Calvino

Il rapporto con Calvino
Fellini forse capiva di letteratura anche quando fingeva di non capirne. Della letteratura e del fumetto gli piacevano le cose che potevano servirgli, gli piacevano le cose che potevano andar bene per il lavorio della sua ispirazione. Devo dire che non mi è mai sembrato che fosse un accanito e acuto lettore dei grandi del novecento, salvo Franz Kafka, perché Kafka gli apparteneva: era una matrice, ed è diventato molto presto, penso attraverso Bernhard, una matrice della sua opera. Però c’è uno scrittore con il quale lui ha avuto un rapporto poco definito, anche questo un po’ da studiare, che è Italo Calvino, diversissimo da lui.

Meditarono insieme un film dalle Fiabe italiane che avrebbe avuto questo inizio: “C’era una volta un re che stava di casa di fronte a un altro re”. Fellini mi disse che pensava che i due re potessero essere Totò e Peppino De Filippo… Calvino, in rapporto a Pasolini, diceva che ci sono due tipi di intellettuali, di artisti: i loici e i viscerali. Lui si vedeva come un loico e vedeva Pasolini come un viscerale. Anche Fellini era un viscerale, non un raziocinante, ma qualcuno che ama lasciarsi trascinare dalle sue emozioni, dalle sue fantasie.

Con Calvino, però, c’è un punto d’incontro su questo tema specifico della diversità, ed è in uno dei suoi libri più belli anche se meno letti oggi, La giornata di uno scrutatore, uscito nel 1963, in anni ricchi di novità per la cultura italiana, nel cinema, nella letteratura, nel teatro (Carmelo Bene!) eccetera. Il narratore (Calvino) è stato chiamato a fare lo scrutatore al Cottolengo di Torino. Il Cottolengo, come noto, è il luogo dove si portano, si portavano e si portano ancora, i “mostri”, le persone deformi, anche quelle talmente deformi da essere invedibili, tali da non poter essere proposte alla visione degli altri, nonostante che, in questa città, De Amicis abbia quasi goduto, nel libro Cuore, a raccontare tutti gli storpi, i malati, i minorati, i deturpati dal lavoro, tutte figure che, probabilmente, hanno inciso sull’immaginario di Fellini, ma anche sull’immaginario di tutti noi, sull’immaginario della nazione per almeno cento anni, perché Cuore, con Pinocchio, è stato il libro chiave della nostra esperienza di lettori italiani fino agli anni del secondo dopoguerra.

Federico Fellini, Giulietta Masina e Marcello Mastroianni sul set di Ginger e Fred, 1986. - Mptvimages/Contras​to
Federico Fellini, Giulietta Masina e Marcello Mastroianni sul set di Ginger e Fred, 1986. (Mptvimages/Contras​to)

In La giornata di uno scrutatore, Calvino si trova dunque a dover fare lo scrutatore in un seggio elettorale che ha sede proprio dentro il Cottolengo. E così vede suorine – alcune buone e alcune più fredde e burocratiche – che portano i loro malati, i loro storpi, a votare; a volte sono le monache a votare insieme ai malati, ovviamente per la croce democristiana, con la X sopra la croce: manipolazioni ovvie, e nell’ottica della carità cattolica del tempo riguardo ai disabili.

Nel libro c’è una parte assai bella in cui Calvino – il razionale, il “loico” Calvino – si trova a dover ragionare su questa diversità, su come, tra di noi, si presenti l’incompletezza, la limitatezza dell’uomo, quella che un’altra grande scrittrice come Anna Maria Ortese chiamava il fallimento della creazione. “La creazione è tarata”, mi disse una volta, toccherebbe all’uomo intervenire per migliorarla, modificarla; il mondo, la natura tutta sono intrisi di violenza, e l’uomo è un cumulo di imperfezioni, si ammala, muore, è dominato dai suoi istinti, e non è capace di volare, di tener fede alle sue vocazioni e alle sue idee. È fatto di quella pasta che dà origine alle fiducie nelle religioni, al positivo ma anche in qualche modo al negativo[….]

A un certo punto del suo racconto Calvino vede un vecchio contadino che accarezza il figlio minorato che è venuto a trovare portandogli qualche frutto, un figlio deforme e irrecuperabile. Lo accarezza, lo guarda con infinita tenerezza, e in questo Calvino vede un segno dell’umano, vede qualcosa che lo fa pensare, che lo mette in discussione. Quando si parlava di queste figure, nell’Italia centrale – credo anche qui a Rimini – si diceva “gli infelici”, parola anche questa piena di orrore: perché c’era l’idea che non si potesse essere mai felici, nella diversità. E io ho visto invece che in molte comunità i disabili vivono una vita relativamente felice.

Ennio Flaiano

I noir e gli horror
Le figure di questi “infelici” sono molto importanti in letteratura, – pensiamo a Notre-Dame de Paris, a L’uomo che ride di Victor Hugo –, ma anche nel cinema. Quello noir ne ha fatto un uso massiccio: quanti storpi, quanti zoppi, quanti ciechi ci sono, per esempio, nei film di Fritz Lang, ma anche in quelli di Luis Buñuel, in Viridiana, in Nazarín, in I figli della violenza.

Fra i film noir americani, il primo personaggio che mi viene in mente è il ragazzino sordomuto di Le catene della colpa che, nel racconto, è fondamentale quanto quello del protagonista, interpretato da Robert Mitchum. Finisce per essere lui il vero protagonista, rispetto a tutte quelle donne terribili e a quei cattivi gangster che ci sono in quel film; sono i due soli personaggi positivi del film: l’ingenuo Mitchum e il ragazzino sordomuto.

Il noir ha fatto i conti con queste cose, assieme all’horror; i romanzi di Stephen King e i film che ne sono stati tratti sono impensabili senza queste figure. In uno dei migliori, Il miglio verde, la figura del protagonista nero ha dei poteri e diventa una specie di padre Pio del carcere. Una figura che – così come nel cinema di Fellini, e qui torniamo a Gelsomina – è l’elemento di comunicazione con l’alterità, con il mistero, con quello che non si vede, quello che sta oltre. Non il dottor Caligari e neanche il mostro di Frankenstein, ma ancora il puro di spirito.

Tra l’altro Fellini – non so se faccio bene a dirlo – a un certo punto litigò con Flaiano, anzi fu Flaiano a litigare con Fellini. Io ho conosciuto Flaiano ma soprattutto sono stato amico, dopo la sua morte, di Rosetta, la sua vedova, che, ricordo, era stata maestra di scuola elementare. È noto che i Flaiano avevano una bambina malata, morta a cinquant’anni in Svizzera, una donna con il cervello di una bambina, che non è mai cresciuta. Fu Rosetta a dirmi che la ragione vera della rottura di Flaiano con Fellini non fu tanto che Fellini, come tutti i registi e soprattutto i grandi, si impadronisse delle idee dei suoi sceneggiatori e non lo riconoscesse abbastanza, non c’è nessuno scandalo in questo.

Nel caso di Flaiano ci fu, secondo Rosetta, qualcosa di più. Rosetta mi disse che Fellini invitò Flaiano a Fregene insieme a tutta la famiglia, anche con la bambina che lui non aveva mai visto. L’incontro di Fellini con questa donna-bambina fu disastroso, nel senso che, secondo Rosetta, Fellini ne fu quasi terrorizzato, non riuscì a nascondere il suo disagio, un enorme disagio. Capita a molti di noi. A me capita con i malati psichici e non con i malati fisici, con i quali la comunicazione mi risulta molto facile; ma capita che ci siano persone che alla diversità reagiscono tirandosi indietro con paura. Per qualcosa che mette in moto dei meccanismi interni, delle paure nascoste, chissà. Questo forse spiega anche l’insistenza, il rimuginare felliniano su queste figure, e il bisogno, anche qui, di passare dalla fase infantile del fascino per il diverso, a una fase adulta, la cui difficoltà è evidente, e che ha avuto lui, come tantissimi altri.

Il mistero della morte
Tornando a Fellini, quello che a lui interessa è proprio il diverso come mediatore con il mistero, e forse la figura più inquietante di tutto il suo cinema è quella dell’androgino in Fellini Satyricon, rapito e conteso perché la sua assoluta diversità è ciò che permette il dialogo con gli dèi. Come le sibille, come le sfingi di altre tradizioni. Il rapporto con il mondo degli altri con il mondo dell’assoluto “altrove”, con il mondo nascosto che è anche il rapporto con il mondo dei morti, è un tema che, come è ben noto, nell’ultimo Fellini è fondamentale.

Fellini pensava ossessivamente alla morte, e Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet è un film che non è stato fatto perché probabilmente c’era un rifiuto inconscio di farlo, perché farlo era come accettare di entrare in quel mondo, non solo di raccontarlo ma di farne parte. Anche in questo caso, si è in presenza di una forma di esorcismo. Tutto questo, credo, appartiene anche alle varie immagini di Giulietta nei film di Fellini. Tra quelli che ha progettato e non ha realizzato per Giulietta, c’è la storia della medium Eileen J. Garrett. Fellini ne aveva letto l’autobiografia e pensava potesse essere un personaggio adatto a lei. Ci sono altre figure di medium, il mago Rol di “asa nisi masa” in  è un esempio centrale. Ci sono molte di queste figure.

Tra le altre storie che Fellini pensava per Giulietta c’è anche la storia di una monachina molto stupidina e però santa, per un film che, forse per fortuna, non ha fatto perché sarebbe stato peggio che una copia di La strada – anche se dopo il successo di quel film è stato un progetto a cui per un po’ ha pensato.

Aveva anche immaginato un altro film, forse il più curioso di tutti, che avrebbe dovuto proporre una galleria di personaggi femminili, diversissima, tutti interpretati dalla Masina; una varietà di personaggi pensati inizialmente per Giulietta, che tornano probabilmente sotto altre vesti in La città delle donne. Un film con tanti personaggi, alcuni dei quali sono la saponificatrice – immaginare una Giulietta Masina saponificatrice non è molto facile! –, una donna avara e prepotente, una chiromante (ovvio!), una miliardaria.

I clown
Ultima variante, ultimo processo nel percorso felliniano nella diversità è quella dei clown. “Il mondo”, diceva Fellini, “e non solo nel mio paese, è popolato di clown, e in fondo siamo tutti dei clown”. Questo è un altro aspetto della diversità. Però, quello che negli ultimi film impressiona di più, è il passaggio dai clown ai mostri. I mostri ci sono nel suo cinema in senso proprio, nel Satyricon non c’è solo l’androgino, c’è anche il minotauro! E alla fine di La dolce vita c’è il pesce-sirena che esemplifica in un modo fin troppo simbolico il marcio e l’ambiguo di una società che sta mutando, o che sta nascendo: la società del miracolo economico.

La Roma della Magnani (la Mamma Roma di Pasolini) sta morendo. Quella società, quella civiltà finiscono, e quello che vediamo è un’invasione di Roma da parte di motorini e motociclette, guidati da giovani con i caschi neri, vestiti tutti di cuoio, che passano intorno ai grandi monumenti del passato. Una carrellata in una Roma notturna ed espressionista (quasi una Metropolis), che sembra infine perdersi nel vuoto: l’invasione della capitale da parte di noi terrestri mutati, noi uomini-macchina secondo la previsione della Weil, la previsione di qualcosa che sta per accadere, che sicuramente accadrà e che noi, oggi, sappiamo bene che è già per buona parte accaduto.

Nel finale di Roma sembra di entrare nel territorio della fantascienza. Nell’ultimo cinema di Fellini c’è un po’ La notte dei morti viventi. A me è sempre sembrata abusiva e ipocrita l’insistenza collettiva, mediatica, sul carnevale felliniano, sulle musichette di Nino Rota. Personalmente, questa visione di Fellini mi agghiaccia e il ricorso ossessivo e consolante a Nino Rota mi ha rotto le scatole; non ne posso più delle sue marcette. Per carità, Nino Rota è un ottimo musicista, ma è detestabile la convenzione consolatoria e pacificante e allegrotta che si è costruita, con il suo commento musicale, su Fellini e sui suoi personaggi. Negli ultimi film di Fellini, io vedo un Fellini molto triste, un Fellini, non dico tragico, ma certo un po’ disperato. I film non glieli facevano fare più, Giulietta era malata e lui lo sapeva; lui stesso era gravemente malato. Pensava a un film che non avrebbe mai fatto, mentiva a se stesso continuando a dire: “Non so se faccio prima il film o se vado prima in ospedale a operarmi”. In realtà, i film non glieli avrebbero più fatti fare, e la scelta era obbligata: andare in ospedale a operarsi, sperando di cavarsela e, magari, di rimettersi in gioco.

Io credo che, nell’ultimo Fellini, le immagini forti che portano avanti e precisano il finale di Roma stiano nella sua visione della televisione. Ginger e Fred sciorina davanti ai nostri occhi di doppi spettatori – di tv e di cinema – un popolo di mostri. L’Italia è diventata un popolo di mostri. I due ultimi personaggi umani, Mastroianni e Masina, sono oppressi e schiacciati in tutte le sequenze televisive. La Masina è una persona normale, forse il più normale tra tutti i personaggi interpretati dall’attrice, il più bello, perché finalmente è la Masina quella che vediamo. Che oltre a essere un’ottima attrice è una persona reale, una donna reale; non immaginata in una o in un’altra direzione.

L’altro (grande e geniale) finale felliniano è la sequenza della sagra dello gnocco in La voce della luna. In questo film Fellini ha cercato anche di tornare di nuovo a Giulietta, perché Benigni, e in qualche modo anche Villaggio, sono degli avatar, delle trasformazioni, delle metamorfosi del personaggio di Giulietta, anche se quello che davvero conta non è questo.

Roberto Benigni e Federico Fellini durante le riprese di La voce della luna, 1990. - Archives du 7e art/Cecchi Gori​ Group Tiger Cinematografica/Contrasto
Roberto Benigni e Federico Fellini durante le riprese di La voce della luna, 1990. (Archives du 7e art/Cecchi Gori​ Group Tiger Cinematografica/Contrasto)

I due bizzarri e poetici antieroi dell’ultimo Fellini sono sopraffatti dalla sagra dello gnocco, da questa festa continua, da questa banca universale che compare ovunque, da questa stordente e volgare fiera della stupidità in cui tutti gli italiani sono chiamati a divertirsi, a consumare. A divertirsi. A consumare. Senza mai fermarsi a pensare, senza mai fermarsi a ragionare su che mondo stanno costruendo e accettando, su che mondo hanno voluto, accolto, costruito, su cosa è diventata la loro esistenza.

In qualche modo, questo Fellini tragico degli ultimi tempi – dicendo tragico esagero, ma sicuramente molto melanconico, molto triste – è un Fellini che torna ancora all’infanzia, al Fellini bambino, alla divaricazione fra due tendenze. Una è quella molto forte all’accettazione della vita così com’è, come nei girotondi nel secondo finale di 8 ½. Non quello pensato originalmente, che era il treno dei morti – già un annuncio di Mastorna – e non il girotondo circense con il bambino che fischietta, e che esalta e trascina una sorta di glorificazione dell’esistenza, della vita.

L’altra è quella della non accettazione del mondo così com’è. È il discorso che si faceva citando la Ortese: la creazione tarata e in cui intervenire attivamente per migliorarla, come peraltro dice la stessa Bibbia, fino all’avvento del Cristo. L’ultimo Fellini è un Fellini che rimette in discussione la società umana e credo che esprima delle tensioni più filosofiche, più tragiche di quanto il discorso artistico non riesca a esprimere.

Fellini è stato un grande artista perché la sua è anche l’opera di un vero filosofo

Credo di capire quelli a cui non piace La voce della luna, che è un film molto imperfetto, molto sbilanciato. Però mi strazia, è uno di quelli che probabilmente sento più dentro di me, per la sua dolente capacità di calarci nel nostro presente.

Il Fellini che è partito dalla vocazione infantile, dai sogni infantili, è anche il Fellini che, negli ultimi anni, aveva pensato a un film sui bambini, il cui soggetto egli racconta nell’intervista a Grazzini. È un film impossibile, che non sarebbe mai riuscito a fare. È uno dei tanti che egli si inventava lì per lì, genialmente fantasticando. A me pare significativo proprio per la anarchica radicalità della sua visione negativa della società, di ogni società; per l’imperfezione di ogni società e per un’idea di utopia originaria, tanto bizzarra quanto profonda e geniale. Sì, Fellini è stato un grande artista perché la sua è anche l’opera di un vero filosofo.

“Il film che rimpiango di non aver fatto, ma è praticamente impossibile, è una storia con una trentina di bambini di due, tre anni, che vivono in un caseggiato alla periferia della città. Mi attraggono le misteriose comunicazioni telepatiche fra i bambini, gli sguardi che si scambiano negli incontri per le scale e sui pianerottoli, quando stanno dietro una porta o dentro una culla, o sono tenuti per mano come mazzi di insalata; la vita di un palazzone, vista e presupposta tutta da bambini, con storie di amori totali, di odi, di infelicità, sempre per le scale, i ballatoi, il giardinetto davanti. Finché questi bambini, trascinati come lepri, vengono portati all’asilo e lì, il primo giorno, castrati”.

Materiale tratto dagli atti del convegno “Fellini e il Sacro” (Rimini/Roma, marzo 2020)

MUSSOLINEIDE

MUSSOLINEIDE

MUSSOLINEIDE: LA FOLLIA TETRA DI UN GAGLIOFFO DALLE GAMBE A RONCOLA, AUTOEROTOMANE E LUETICO, CHE COME UN GRADASSO SI SPERTICA DAL BALCONE SU PIAZZA VENEZIA PER INGANNARE GLI ITALIANI- RITORNA EROS E PRIAPO IN FORMA INTEGRALE, NELLA LINGUA ARTIFICIALE DI CARLO EMILIO GADDA 

 

Pubblicato nel lontano 1967 da Garzanti, molto emendato e mutilo, esce ora per i tipi di Adelphi il saggio Eros e Priapo, di Carlo Emilio Gadda. Il testo, pubblicato in parte, la prima volta, con il titolo Il libro delle furie, nel 1955-1956, in quattro numeri della rivista “Officina”, esce nella sua forma integrale, grazie all’autografo ritrovato nell’archivio Liberati di Villafranca Veronese.

La saggista Marcella Rizzo

Ne leggo una bella recensione di Marcella Rizzo, contenuta nel testo collettaneo Scuola e ricerca anno III-2017, pubblicato a cura del liceo scientifico G. Banzi Bazoli di Lecce, Edizioni Grifo.

Come sempre in Gadda ci troviamo davanti un testo che è difficile incasellare in un genere letterario. Nel risvolto di copertina lo stesso editore pone sotto interrogativo la definizione di “saggio” sulla origine e sulla affermazione del Fascismo. La definizione di libello antimussoliniano ne descrive l’oggetto, ma lo riduce entro motivazioni storicistiche che non sembrano essere la vera origine del libro. Ne è consapevole Marcella Rizzo, che, infatti, nel tentativo di definirne le diverse e intriganti sfaccettature, dà diverse definizioni di Eros e Priapo: un atto di accusa violento e oltraggioso, una controstoria, un pastiche e metaforico calderone, storia del Logos e non dell’Eros, atto di denuncia e di auto denuncia, un’autobiografia nazionale, un trattato sul caratteri “narcissico” degli italiani…

Carlo Emilio Gadda in una curiosa foto “segnaletica”

Giustamente Marcella Rizzo ricorre a riferimenti autobiografici, che per quanto dissimulati, possono aiutare l’interprete nel misurarsi con un testo scritto “con una lingua artificiale, complessa, straniante, inventiva, sperimentale, nuova e arcaica nello stesso tempo, una lingua mimetica della realtà”. Gadda, scrive Marcella Rizzo, aderisce al Fascismo nel 1934, dopo il delitto Matteotti e le leggi “fascistissime” del 1925. In realtà la data è controversa. Giano Accame, nel suo La morte dei fascisti, Mursia-2010, citando Sergio Luzzato, sposta l’iscrizione fin dal 1921. Solo nel 1944 comincia il ripensamento dello scrittore rispetto al regime, dopo il devastamento di Roma del luglio del 1943 e con l’Intera Italia sotto le bombe. Secondo alcuni proprio nel 1944 comincia la stesura di Eros e Priapo. Ma perché Gadda si distacca dal Fascismo? E poi, perché così tardivamente?

Nel libro si trovano risposte scontate, prevedibili; quelle vere si possono solo intuire o dedurre. Più che su un piano storico (troppo freschi sono gli avvenimenti quando Gadda ne scrive) il suo è un distacco emotivo, psicologico, un fluviale esame di coscienza, dissimulato nel magma linguistico e stilistico, annegato nel livore delle invettive, che poco servono a illuminare quegli anni, ma solo denotano il nervo ancora scoperto di una partita, quella fra Fascismo e Gadda, che rimane aperta.

Il rapporto fra lo scrittore e il Fascismo, viene così spiegato da Marcella Rizzo, che fa suo il seguente giudizio di Peter Hainsworth: “ Il fascismo di Gadda era certo anticonformista, ma non era un elemento incidentale o accidentale della sua esperienza e della sua opera durante il Ventennio. Sebbene possa sembrare oggi ingenuo o illuso, egli era convinto di dare al regime un appoggio misurato e meditato. Il fascismo rispondeva al suo bisogno di ordine e di dignità in un mondo che, secondo la sua traumatica esperienza durante e dopo la prima guerra mondiale, era privo di entrambi”.

Appoggio “misurato e meditato”? Difficile e arduo proponimento, anche per il più idealista e ingenuo dei letterati, se riferito a un regime illiberale e guerrafondaio come il Fascismo.

Ma cos’ha spinto in definitiva Gadda a scrivere il libello?  Spiega Marcella Rizzo, “Ciò che sta alla base dell’opera è dare una spiegazione alla nascita e alla legittimazione del fascismo da parte del popolo italiano, spiegazione che si rifà alle teorie psicanalitiche e darwiniane”, che Gadda conosceva.

Più verosimile appare a me invece la interpretazione di Luzzato,che addebita il tardo livore antifascista e antimussoliniano del Gadda-post Gran Consiglio che depone Mussolini (25 luglio 1943), all’atteggiamento tipico “dell’innamorato deluso”, al capovolgimento amoroso del vissuto e dei fatti di esperienza.

Insomma, l’interpretazione psicoanalitica che Gadda tenta con Eros e Priapo, ripercorrendo il ventennio fascista e la capacità di presa del regime sulle masse, può essere realmente dirimente solo se trasformata in un’autoanalisi introspettiva a sfondo espiatorio, a sua volta proiettata in ambito sociale dove trova un senso quell’ “intreccio di pulsioni elementari che, meglio di ogni interpretazione storica, serve a spiegare la follia collettiva degli italiani durante il Ventennio”, come scrive Marcella Rizzo.

.Carlo Emilio col fratello Enrico, morto nel 1918

Che Gadda fosse stato sinceramente attratto dalla figura di Mussolini è naturale, se solo pensiamo al fatto che egli era stato un convinto interventista e volontario nella 1° guerra mondiale. Il riscatto nazionale era anche il suo, essendo ancora bruciante in lui il ricordo della rotta di Caporetto e i lunghi mesi di prigionia a Celle in Germania. Prova ne sia che il libro che racconta questa esperienza, Giornale di guerra e di prigionia, a lungo occultato, esce tardivo solo nel 1955. Il secondo motivo è tutto psicologico, e nasce dallo stridente contrasto fra le due personalità. Come scrive Marcella Rizzo “ la fragile virilità di Gadda si confronta con la prepotente virilità di Mussolini, l’uno e l’altro soffrono della stessa sindrome “narcissica”. Gadda è qui come Mussolini esibizionista, innamorato di se stesso, voglioso di stupire e di essere ammirato.”

La satira, come in tutti i capovolgimenti amorosi, è spietata e trasuda da ogni pagina del libro. Si getta veleno sul traditore, naturalmente senza mai nominarlo. Scrive Marcella Rizzo: “Protagonista indiscusso è Mussolini, mai citato direttamente nel corso dell’opera se non attraverso una vasta gamma di appellativi e nomignoli dispregiativi: appestato, batrace, bombetta, maramaldo, fava, farabutto, impestato, Gran Somaro, Gran Pernacchia, merda, Fottuto di Predappio, Provolone, Finto Cesare”.

Descrivendo il carattere degli italiani, sottomessi al delirio narcisistico del Duce, Gadda – osserva giustamente Marcella Rizzo- scrive un atto tardivo di accusa, che nello stesso tempo è un’autoaccusa, cioè la denuncia della deriva cui la retorica, la manipolazione, l’idolatria perversa possono ridurre un popolo e una nazione.

A tale proposito precisa Marcella Rizzo: “Spinto dal bisogno di comprendere il Fascismo al di là delle interpretazioni storiche, sociologiche e politiche, che solo in parte riescono a cogliere l’interna dinamica distruttiva ed autodistruttiva, Gadda punta la sua attenzione sulle forme della comunicazione pubblica in cui il regime si espresse (a partire dalle “adunate oceaniche” e dal dialogo diretto tra il leader e il suo popolo) nonché sulla teatralità dei gesti del Duce che comunicava con la folla non tanto e non solo con frasi fatte, formule vuote, tirate retoriche, ma con una gestualità e una fisicità allusive, dalla frequente protrusione delle labbra, agli slanci con cui si ergeva in avanti sul balcone, al dondolamento dei fianchi ottenuto col levarsi sulla punta dei piedi che suscitavano gli ululati ritmicamente scanditi della moltitudine stipata in piazza, quasi in un delirio amoroso”

Di colassù i berci, i grugniti, lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza priapesca: dopo la esibizione del dittatorio mento e del ventre, dopo lo sporgimento di quel suo prolassato e in cinturato ventrone, dopo il dondolamento, in sui tacchi, e ginocchi, di quel culone suo goffo e inappetibile a chicchessia, ecco ecco ecco eja eja eja”

Il regista Ettore Scola

Nessun dubbio, quindi, specie su una personalità come quella di Gadda, timida, introversa e atrabiliare, persa nelle sue nevrosi, che la delusione e il tradimento degli ideali giovanili siano presenti come fonte di ispirazione del libello, non esclusa la nota misoginia. Qui si apre un capitolo interessante e scivoloso per Gadda. L’avversione per le donne porta Gadda a individuare nel sesso debole la parte che più aveva ceduto alle lusinghe del priapesco Duce, assecondando l’idea -scrive Marcella Rizzo contestualizzando- di coloro che asserivano che “il fascismo andava spiegato, tra l’altro, con la passione delle donne per il corpo del Duce”. Insomma siamo alla misoginia elevata a ragione storica. Ben diversamente, nella realtà quotidiana, legge il ruolo delle donne Ettore Scola, tratteggiando magistralmente la figura di Antonietta, madre di sei figli nel suo film Una giornata particolare. 

Ma scrive ancora Marcella Rizzo: “ Se i maschi italiani… vedevano nel Duce un alter ego, le donne avevano scoperto una passione inestinguibile; tutte, indistintamente, avevano vissuto nella speranza di sperimentare la leggendaria virilità di Mussolini.”

La locandina di Una giornata particolare

“Pronte e spedite in gridi, venuti di vulva, a sospingere ‘l sangue loro fraterno o filiale e la mortuaria medaglia o quel muto e disarcionato cadavero di cane loro debbendo porgerlo al Kuce, e alla gloria e a le balconali vartardige del Predappiofava, a i’ Kuce grasso e Culone in Cavallo; e appiattato Scacarcione a dugento miglia da battaglia co’ sua cocchi, e co’ l’ulcera pestiferata sua”

L’incipit del commento di Marcella Rizzo è il seguente: “Ci sono libri che hanno un effetto deflagrante per temi, ricerca e innovazione linguistica. Eros e Priapo è uno di questi”.

Effetto che forse il libro avrebbe avuto, se non fosse stato pubblicato così lontano da quegli anni terribili. Già il giorno dopo della caduta del Duce, i 40 milioni di fascisti italiani avevano dimenticato di esserlo stati. Rimosso il peccato nessuno ama che esso gli venga riproposto, neppure sotto forma di satira. Ai nostri giorni, morti i protagonisti sopravvissuti, il Fascismo è sempre più un fatto di folclore, annegato fra gadget e marcette d’Oltremare. Fra qualche anno, il Ventennio finirà dimenticato in qualche polveroso libro di storia, alle cui pagine l’insegnante arriverà frettolosamene. Nel XXI secolo di Mussolini rimarrà solo il busto, magari come grottesco portalampada.

Il saggio integrale di Marcella Rizzo è disponibile all’indirizzo www.liceobanzi.gov.it

Le parti in corsivo sono citazioni di brani tratti dal libro di Gadda.

Segue un video con una celebre scena del film di Scola

https://www.youtube.com/watch?v=X1sjuGWH-sI&t=151s

 

 

FERRERI L’ERETICO

FERRERI L’ERETICO

SCOMPARSO A PARIGI 20 ANNI FA, MARCO FERRERI RESTA IL REGISTA ITALIANO PIU’ ANARCHICO E PROVOCATORIO: «Mi dicono fomentatore, ma io mi chiedo: qual è il compito di un regista? E mi rispondo sempre che è dare i pugni nello stomaco. Perché non dovrei assestarli?».-VIDEO.

Gli anni senza una lira in tasca, con gli appartamenti messi a disposizione dagli amici come Schifano da trasformare in set e le preoccupazioni terrene perché a volte, la vita è più prosa che poesia: «Marco Ferreri mi fece entrare nel suo appartamento, mi portò in cucina e indicò la dispensa: Mi sono rimasti solo 14 chili di pasta, finiti quelli arriverà la fame, ci sbrighiamo a fare sto film o no?».

Nei ricordi sessantottini di Mario Vulpiani, direttore della fotografia dei feroci piccoli borghesi monicelliani, di quel film apparentemente alimentare, Dillinger è morto, e di tutte le avventure a costo zero del grande anarchico del cinema italiano scomparso il 9 maggio di vent’anni a Parigi, in un esilio voluto e consapevole, il cibo torna sempre.

marco ferreri ferreri,gazzarra & bukowski

Marco FerrreriI Ben Gazzarra e Charles Bukowski

 

Rientrava a pieno titolo anche tra le ossessioni di Ferreri che ne La grande abbuffata aveva fatto mangiare fino a morire Mastroianni, Piccoli, Tognazzi e Noiret, e con la barba da mullah, gli occhi chiari da attore americano ospiti in un corpo pingue aggravato da un disinteresse assoluto per il vestiario e gli arditi accostamenti cromatici e una statura che non gli aveva certo arriso, dell’improbabilità fisica faceva quasi un manifesto esistenziale.

Tra tanti manichini di bell’aspetto direttamente proporzionale alla debolezza di pensiero, il regista aveva scelto una terza via che all’esteriorità nulla concedeva e sulla missione iconoclasta del cinema, puntava tutte le sue fiches.

marco ferreri

Da vero giocatore d’azzardo, Ferreri provocava. E nel suo italiano di ventura imbastardito dal periodo spagnolo, dalle frequentazioni romane, dai verbi troncati senza un perché e da qualche parolaccia: «Perché me dovete sempre rompe i coglioni a me?» cercava un linguaggio che andasse oltre schemi, gabbie e compiacimento del pubblico: «Mi dicono fomentatore, ma io mi chiedo: qual è il compito di un regista? E mi rispondo sempre che è dare i pugni nello stomaco. Perché non dovrei assestarli?».

INSULTI E SPUTI

A Cannes, nel 1973, gli spettatori turbati da La grande bouffe gridavano allo scandalo e gli sputavano addosso nei pressi del Palais indignati dal meteorismo di Piccoli, dai cessi saltati letteralmente per aria con tanto di riflesso scatologico e dagli amplessi tra Tognazzi e Andrèa Ferreòl in mezzo alla farina? Ferreri godeva. E stava lì, dritto come un fuso, sorridendo come un bambino felice di aver scatenato riprovazione e incomprensione perché in mezzo agli altri, ai patti degli altri, non sarebbe mai potuto stare.

marco ferreri

A due decenni dalla morte, in Il regista che venne dal futuro, un magnifico documentario senza filtro già presentato in decine di Festival e ora arricchito con nuovi extra in uscita per l’Istituto Luce, Mario Canale, antico amico dell’irrequietezza dell’animale Ferreri, mancato veterinario interessato alla ferinità dell’essere umano non meno che ai suoi indicibili tormenti con l’altro sesso, prova a raccontarlo. In attesa di una giornata di celebrazione e di un convegno (il giorno 9, al teatro Palladium), Canale affronta la materia con molti inediti sopravvissuti all’organizzata confusione di Ferreri e alla cura compilativa di sua moglie Jacqueline.

PERLE E INEDITI

Foto, copioni, lembi di pellicola, soggetti rimasti sulla carta come il seguito ideale di Dillinger è morto (di Morire a Tahiti, scritto con Sergio Amidei nel 1981, rimane una copertina, l’impianto iniziale e qualche pagina velleitaria mai diventata sequenza), interviste (Dapardieu, Piccoli, Noiret, Placido, Castellitto, Spaak, una commovente Piera Degli Esposti che ne ricorda l’anomalia antropologica: «Mio padre avrebbe voluto conoscerlo perché diceva che non somigliava alla gente gentesca») realizzate nel corso di un’amicizia che un giorno li trascinava con la sahariana nel deserto e quello dopo a conversare al Tempio di Vesta con un occhio al domani, senza alcuna indulgenza per passato e presente: «La memoria è una gran vigliaccata».

la grande abbuffata

Una scena di La grande abbuffata, forse il film più complesso e inquietante di Marco Ferreri

LA GRANDE ABBUFFATA

A volte Ferreri la esplorava con una tranquillità irrituale e raccontava dell’infanzia con il padre assicuratore e la madre che lo aveva messo all’ingrasso e ammirava estatica il frutto del proprio capolavoro: «Cresci sano e forte, cosa vuoi che sia un po’ di pancia?». Ferreri che per Lina Nervi Taviani ne aveva addirittura tre, avrebbe potuto rimanere «per sempre un dilettante» e invece tra un’incomprensione e una parabola sull’estinzione dell’uomo ambientata a due passi da Capalbio, nel casale di Macchiatonda, si diede a sua volta alla macchia evadendo con la sgradevolezza del coraggio dalle logiche che dominavano il cinema italiano di allora.

la grande abbuffata

La grande abbuffata. Scena con Philippe Noiret, Andréa Ferréol, Ugo Tognazzi. Nel cast anche Marcello Mastroianni e Michel Piccoli

Marcando anche plasticamente una diversità di prospettiva che tra una donna scimmia da sempre sfruttata come fenomeno da baraccone e un pentolone in cui cuocere l’uomo bianco e il politicamente corretto sotto l’ombra lunga di un tramonto africano, lo rese un maledetto e un eretico a prescindere.

Se lo si ascolta oggi, preconizzare in anticipo la fine di un certo cinema, il suo, parlare male dei critici: «Odiano le mie opere e magari amano il mio personaggio, ormai vado in giro a farmi dare i soldi come Ferreri e non più come regista» e paventare il dominio: «degli orrendi film americani applauditi da gente che si accontenta della merda» è difficile non cogliere la lungimiranza da Grillo parlante, da cantastorie lucido, da turista per caso del circo di celluloide.

il seme dell uomo

Scena di Il sema dell’uomo, film di fantascienza con Annie Girardot

 

 Ferreri era un marziano che ignorava gli obblighi della sceneggiatura perché voleva atterrare altrove. In uno sperimentalismo che assurgeva a visione e profezia. In un sogno o in un incubo, che per lui erano la stessa faccia di un solo pianeta al centro di una cosmogonia che diventava galassia, viaggio al centro della terra, esplorazione di un mondo nuovo di cui i suoi simili non volevano neanche sentir parlare.

Articolo di Malcom Pagani per ‘Il Messaggero

Contact Us