Guida o gendarme del mondo?

Guida o gendarme del mondo?

Obama-Putin

Incontro di vertice Obama e Putin

 

Geppetto aveva già commentato a caldo (intra: Guerra o non guerra, questo è il problema?) il discorso del presidente USA Obama alla nazione americana, l’ultimo della sua seconda presidenza. Le cose che ora scrive Ida Dominijanni si muovono sulla stessa linea di apprezzamento di quanto fatto da Obama in questi anni, ma soprattutto sono motivo di riflessione (o dovrebbero esserlo) per i governati europei, mai apparsi così inermi e divisi, inadatti per deficit di statura politica ed etica, a fronteggiare i gravi problemi che attraversano il mondo. La verità sta tutta lì: per anni abbiamo demonizzato l’imperialismo americano, oggi che esso mostra una faccia diversa, quella della speranza e della fiducia, che sostiene un mondo multipolare, più equilibrato e biopoliticamente più pulito, ci rammarichiamo che non faccia risuonare a nostra difesa i suoi scarponi militari in giro per il mondo. E tremebondi ci inventiamo una guerra di civiltà e di religione che non esiste. Così, la crisi delle democrazie occidentali appare sempre di più non l’effetto di eclissi dei valori fondanti, ma della rinuncia a volerli riaffermare. Per inciso: è significativo l’articolo in quanto proviene da una donna, filosofa e politica, da sempre di sinistra. Segno che, quando si tolgono i paraocchi, si riesce a ragionare anche da quelle parti. Magari mettendo a frutto la lezione di storici rigorosi come Lucio Villari, di cui Dominijanni è stata allieva.

 

Ida Dominijanni

La giornalista Ida Dominijanni

Lo sguardo lungo della storia e degli storici renderà prima o poi più giustizia alla presidenza di Barack Obama di quanta ne abbia ricevuta fin qui dalla cronaca e dai contemporanei. Ed è alla storia più che alla cronaca che Obama guarda nel suo ultimo discorso sullo stato dell’unione, tutto volto a lasciare dietro di sé – a contrasto con l’aggressività rancorosa di Donald Trump – una scia di speranza e di fiducia in un presente-futuro tanto carico di incognite quanto ricco di promesse. Niente di più riduttivo, tuttavia, che vedere in questa scia solo un appello all’ottimismo, magari traendone ispirazione per perseverare, qui in Italia, con la retorica governativa della nave che va malgrado gufi e jettatori. Nel testamento che il primo presidente nero degli Stati Uniti consegna al suo paese e al mondo c’è tutt’intera la rotazione che egli ha imposto, o proposto, al discorso pubblico occidentale durante il suo doppio mandato. Una rotazione che, se sette anni fa convocava un’America devastata dalla reazione neoliberista e neocon al trauma dell’11 settembre, oggi convoca con altrettanta forza, o dovrebbe, un’Europa che, sotto i colpi del terrorismo, dell’immigrazione, della crisi economica, si disfa e si immerge nella stessa retorica dello scontro di civiltà già sperimentata e consumata sull’altra sponda dell’Atlantico.

Per Obama il punto da ribadire è ancora come gli Stati Uniti ‘possano essere una guida per il mondo, senza diventarne il gendarme’

Donald Trump

Il miliardario americano Donald Trump, sfidante per la Casa Bianca

Dunque non è per caso se tra riforme rivendicate e compiti da portare a termine, tra un richiamo all’America di sempre e un’esortazione all’America che verrà, Obama affronta di petto il punto che nemici e amici, negli Stati Uniti e in Europa, gli rimproverano: il declino della potenza americana e della sua forza ordinatrice sulla scena internazionale, un declino di cui Obama stesso sarebbe complice se non responsabile. Strano rimprovero, in verità. Non era precisamente questo – la gestione della fine dell’unilateralismo americano – uno dei pilastri dichiarati del suo programma originario? Non si trattava di accompagnare un ridimensionamento non solo dell’impegno militare, ma anche della retorica e della hybris della più grande potenza del mondo? Eppure è proprio questo che non gli viene perdonato, quasi fosse un lutto insostenibile per gran parte dell’opinione pubblica americana e mondiale.

Detroit, curiosi e fans salutano Obama

Detroit, curiosi e fans salutano Obama

Perciò per Obama il punto da ribadire è ancora quello: come gli Stati Uniti “possano essere una guida per il mondo, senza diventarne il gendarme”. Tra le due condizioni, quella della guida e quella del gendarme, c’è di mezzo la rotazione di cui sopra sull’interpretazione del presente. Un tempo “carico di pericoli”, eppure occasione di un cambiamento decisivo di prospettiva. Perché su una cosa non ci piove: gli Stati Uniti restano “la nazione più potente sulla terra. Punto”. Ma non può continuare a esercitare questa potenza lanciando bombe sui civili, o ricostruendo paesi distrutti: “Questa non è leadership, è la ricetta per finire nel pantano, come insegnano il Vietnam e l’Iraq”. C’è un altro approccio possibile, multilaterale e globale, l’approccio che Obama rivendica su questioni non solo geostrategiche (Iran, Cuba, Siria, il mutamento epocale in corso in Medio Oriente, l’espansione cinese e le nuove ambizioni russe), ma anche biopolitiche (la lotta contro il cancro, l’aids, l’ebola, il cambiamento climatico, l’investimento nella ricerca e nelle tecnologie), su una scala di priorità che comporta non la sottovalutazione ma il dimensionamento del terrorismo internazionale: fanatismo criminale da estirpare anche con l’uso della forza, ma non religione, o civiltà, cui contrapporre politiche identitarie basate sulla razza o sul culto. Lo scontro di civiltà è da archiviare, “non in nome del politicamente corretto ma della pluralità e dell’apertura che fanno la forza e la diversità dell’America”. Piuttosto che rimpiangere il gendarme del mondo, l’Europa dovrebbe drizzare le orecchie.

Salvini

Matteo Salvini, segretario della Lega

Non solo su questo, del resto. Non si è ancora sentita, nel vecchio continente ostinatamente attaccato alla precettistica ordoliberale, la voce di un leader in grado di nominare uno per uno e senza infingimenti gli effetti devastanti di una crisi che la sua politica economica pure ha avuto l’indubbio merito di contenere: disuguaglianze, concentrazione della ricchezza, precarizzazione del lavoro e della vita. Obama può ben rivendicare che negli Stati Uniti il peggio è alle spalle, l’economia ha ripreso a girare ed è salda, la disoccupazione è scesa ai minimi storici e il lavoro si moltiplica. Ma sa e dice chiaro che perché “la nuova economia” crei più che distruggere sono necessarie scelte politiche di parte: creazione di nuovi posti di lavoro contro la delocalizzazione, investimenti – non bonus – nella scuola e nell’università pubblica, nuovi sistemi di formazione e tutela per chi è costretto a passare da un lavoro all’altro, aumenti dei salari a scapito dei profitti (“non è colpa degli immigrati se i salari sono fermi”). In politica economica come in politica estera l’ottimismo di Obama, malgrado i ripetuti appelli all’unità del suo popolo e dei suoi rappresentanti, è un ottimismo che sceglie, divide, taglia: non è una retorica comunicativa, è una scommessa politica che sfida le ambivalenze e le contraddizioni di un presente a rischio.

Martin Luther King

Il leader nero Martin Luther King

Così pure, infine, sulla concezione della democrazia e della politica. A Washington il vento del disincanto, del rancore di tutti contro tutti e della degenerazione del conflitto politico soffia non meno che a Roma o a Bruxelles, ma dalla crisi della democrazia non c’è modo di uscire se non riattivando la democrazia: “Non basta cambiare un deputato o un senatore e nemmeno un presidente: dipende da voi, dalla vostra capacità di essere cittadini non solo il giorno delle elezioni, di esigere diritti e prendere parola dalla parte dei più vulnerabili”. Dipende dalle voci tacitate in una sfera pubblica che ascolta solo chi sa gridare di più, dai Trump ai Salvini di turno. “Le voci della verità disarmata e dell’amore incondizionato” in cui confidava Martin Luther King. Se quelle voci sono riuscite o riusciranno a farsi sentire, se l’America è riuscita nella sua storia o riuscirà nel prossimo futuro a rispondere alle sfide del cambiamento “senza aderire ai dogmi di un tranquillo passato” ma spostando la frontiera sempre in avanti, non è stato e non sarà grazie a una dote antropologica, né, si potrebbe aggiungere, a uno scongiuro ripetuto ogni sera in tv. È stato e sarà “grazie alle scelte che facciamo insieme”.

Ida Dominijanni, giornalista, articolo apparso sulla rivista Internazionale

 

 

Guerra o non guerra: questo è il problema? by Geppetto

Guerra o non guerra: questo è il problema? by Geppetto

 

GeppettoSe dobbiamo giudicare dai fatti e dai guasti prodotti  quella in Medio Oriente è una guerra. Il Papa ha precisato che è “la terza guerra mondiale a pezzi”. Gli storici dicono che è in realtà la quarta, essendo la terza quella passata alla storia come “guerra fredda”. I generali parlano di guerra asimmetrica o atipica, alludendo alla disparità delle forze in campo e alle tattiche usate dai contendenti. Non siamo in guerra, dicono invece i nostri governati. E sotto fanno le corna. Il presidente Obama nega sia guerra e nega sia scontro di religioni. Dalla Casa bianca sembra, a volte, più che un pragmatico capo di stato, un santone ispirato. E noi qui a non capirci niente, a vivere nell’incertezza, come avvolti nella nebbia, cominciando ad aver paura. Come stanno le cose?

Possiamo prendere come criterio per raccapezzarci, un fatto incontestabile: dal mondo bipolare siamo passati a quello multipolare e la globalizzazione dei mercati ha prodotto la globalizzazione della violenza. Da qui voglio partire, da uomo della strada, per fare il mio ragionamento. Lo faccio, paradossalmente, partendo dalle conclusioni, poiché esse sono in grado di spiegare i giudizi divergenti che ho appena ricordati: la verità e che qui ognuno sta facendo la sua guerra, la chiama come gli fa comodo, si sceglie nemici o alleati, pretende di recitare tutte le parti in commedia, opziona modi di combattere intercambiabili al pari degli obiettivi tattici e strategici, asseriti o reali, i mezzi di propaganda e di reclutamento sembrano quelli di una multinazionale alla conquista dei mercati.  Solo un esempio fra i tanti può bastare. L’Arabia Saudita copre e sostiene Isis e nello stesso tempo sfida gli USA sul prezzo del petrolio e detiene il 20% della ricchezza statunitense. E non parliamo della Turchia! Questo stato di cose non è da oggi. Parecchi degli Stati che hanno reso il mondo incerto e violento, sono quelli che lamentano incertezze e conflitti, ma che da decenni continuando a fornire armi alla varie fazioni in lotta (Italia compresa). Passato il bipolarismo, i centri di potenza che l’ha sostituito hanno preso a lottare con qualunque mezzo per la spartizione dei profitti e il controllo di aree strategiche, a cominciare del Golfo e dal Medio Oriente. Basta ricordare le guerre sanguinose e fallimentari: nel 1991 il Kuwait, nel 2001 l’Afghanistan, nel 2003 l’Iraq,  e dopo la crisi economica  del 2008, Siria, Libia, Mali, Yemen.

Nel vuoto creato dalla contesa multipolare, si sono inseriti l’ISIS, il cui nucleo originario è composto in gran parte dai quadri del disciolto esercito iraniano di Saddam Hussein, la Russia e l’Iran che, dopo l’accordo con gli USA sul nucleare, guida il fronte sciita e quelle forze non statali a base religiosa, quali Hezbollah in Libano e Siria, Hamas nella striscia di Gaza, gli Houthi in Yemen.

Stati Uniti e Russia sembrano avere, ognuno per motivi suoi, interesse affinché la Siria non sia ridotta al caos libico, diventando la base operativa del terrorismo sunnita. L’intervento russo in Siria, che tanto ha galvanizzato i nostri “interventisti”, secondo una vecchia volpe come Henry Kissinger, è solo in superficie funzionale alla politica iraniana, in realtà Putin vorrebbe così allontanare il pericolo sunnita dai confini col Caucaso e dalle regioni mussulmane meridionali. Kissinger sul Wall Street Journal, giudica sbagliata la politica di “moderazione strategica” e neoisolazionista di Obama, che avrebbe portato alla disintegrazione del ruolo americano per la stabilizzazione dell’area medio orientale. Nello stesso tempo formula un piano per punti che non dovrebbe dispiacere all’Obama sentito nel discorso alla nazione dei primi di dicembre 2015. In sintesi dice Kissinger: 1) la distruzione dell’Isis è più urgente del rovesciamento in Siria di Bashar-al-Assad. 2) bisogna accettare il ruolo militare della Russia in Siria, per evitare che i territori in mano all’Isis siano riconquistati dagli sciiti collegati all’Iran. 3) le terre liberate dovrebbero essere consegnate al governo locale sunnita che dovrebbe impegnarsi per un assetto “federale”, con l’assenso degli Stati del Golfo, Egitto, Giordania e Turchia. 4) Bisogna premere per separare Mosca da Teheran e trattare con l’Iran affinché cessi l’espansionismo sciita. Quanto questo piano è realistico? Difficile dirlo, ma provare è sempre meglio che stare fermi.

Isis

La posizione di Barak Obama è diversa, ma è anche quella sbagliata? Troppo presto e superficialmente, a mio parere, è stata liquidata come debole, ondivaga, peggio priva di ogni prospettiva strategica. Difetto che sarebbe esiziale per un super potenza. Ma è così? Obama nel suo discorso si è fatto ispirare dalle parole degli eroi liberal americani: da John Dewey a John Rawls a Martin Luther King.

Parlando ai connazionali Obama, senza preannunciare un cambio di strategia, ha sostenuto con efficacia le proprie tesi e la giustezza delle proprie scelte. In sintesi:

1)Il Califfato è un nemico orrendo e insidioso, ma non è una seria minaccia al nostro modello di vita e ai suoi fondamenti illuministici e democratici; Quindi nessun cambio strategico, nessuna legge speciale, nessuna riforma antiterroristica. Le minacce vengono da un branco di “predoni e assassini… che aderiscono ad una interpretazione perversa dell’Islam”, e che non rappresentano niente se non una minoranza infinitesimale di un gruppo religioso largamente pacifico e desideroso di stare dentro la modernità aperta e pluralistica”.

2)Non dobbiamo farci trascinare una volta ancora in una lunga e costosa guerra di terra in Iraq e Siria. Questo è quello che Isis vuole. Sanno che non possono sconfiggerci sul campo di battaglia… Ma sanno anche, se occupiamo terre straniere, che potranno mantenere le rivolte per anni, uccidendo migliaia di soldati, prosciugando le nostre risorse e usando la nostra presenza per attirare nuove reclute”  Obama vuole evitare di posare gli anfibi (ndr: scarponi militari) americani sul terreno per non fomentare un movimento di reazione contro l’occupante occidentale in chiave anticolonialista.

Quindi guerra dai cieli supertecnologica, accompagnata da una intensa azione diplomatica, volta a creare una coalizione che non si limiti a liberare i territori assoggettati da Isis, ma metta insieme i pezzi di un mosaico di interessi che per essere composti devono venire alla luce del sole e risolti con realismo politico e col massimo risultato possibile di stabilità. Può sembrare una posizione riduttiva, poco o nulla calzante con l’immagine dell’America yankee, ma mi sembra di buon senso. Resta il fatto che, nel frattempo, le bombe continuano a piovere in testa a povera gente innocente. Non mi sembra un buon motivo per gettarsi a testa bassa nella mischia, semmai per moltiplicare gli sforzi, svegliando dal lungo letargo la comunità internazionale, a cominciare dall’ONU.

 

 

Italian way anti jihad

Italian way anti jihad

L'autore dell'articolo Antonio Funiciello

L’autore dell’articolo Antonio Funiciello

Il lungo intervento di Antonio Funiciello, consulente della presidenza del Consiglio dei ministri, sui temi della lotta al terrorismo e su come affrontare l’ondata di migrazione verso l’Occidente, è un tentativo organico di dare una base ideologica e culturale alle attuali mosse di politica estera del governo italiano.

L’idea che l’identità culturale, secondo quanto scrive Funiciello, sia un polo attrattivo più forte della forza economica e militare, è certamente discutibile, almeno nel breve-medio periodo, cioè il tempo utilmente concesso per una risposta necessaria nei confronti del terrorismo e dell’estremismo. Ciò nonostante, l’intervento ha il pregio di porsi gli interrogativi giusti e di tentare delle risposte. E non è poco, visti i tanti farfugliamenti nostrani e i tartufeschi atteggiamenti della comunità internazionale.    

“Quando privi un occidentale della possibilità di nominare esattamente le cose, gli sottrai il primo elementare strumento di conoscenza della realtà. Per come ce l’hanno raccontata, e per come tendono a credere sia andata anche quelli che non credono, Dio creò il mondo nominandolo. Similmente Adamo conferì riconoscibilità alle cose del creato scovando, per ognuna di esse, un nome.

Lo sgomento di un adolescente che scorre i commenti della strage parigina dell’estremismo salafita, è anzitutto mosso dall’incertezza nel dare un nome a questo nostro nuovo nemico. ISIL, ISIS (Daish o Daesh per i più rigorosi) o più sinteticamente IS, sono tutti acronimi diversi per indicare lo stesso nemico. Chi ha più letto sa distinguerli e sa metterli in ordine, mutuando quasi una prima comprensione evolutiva del fenomeno. Chi non è in possesso di più robusti strumenti intellettuali, come un qualsiasi adolescente occidentale, non comprende.

Ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze insegniamo, a scuola, a prendere sul serio le parole. La conoscenza del linguaggio, che muove dalle regole grammaticali alla costruzione del discorso, fino (per chi ha voglia di studiarlo) all’analisi filosofica dello stesso, è una pratica essenziale. Tanto perché la nostra civiltà occidentale è fondata sul dialogo: sull’idea, folle e geniale, che l’interlocuzione sia più forte dell’elocuzione singolare. Sul dialogo tra gli uomini abbiamo fondato la democrazia e costruito il nostro diritto, le nostre istituzioni, la libera economia, lo stato sociale. Sappiamo che il dialogo è impegnativo e difficile, anche dopo duemilacinquecento anni di storia. Eppure diamo per scontato la premessa necessaria del dialogo: l’esattezza delle parole.

La prima piccola, minuscola vittoria di questi signori che in nome del loro dio seminano morte, è proprio questa. Non sanno come chiamarli e non sanno come spiegarsi la loro interpretazione di parole fondamentali come vita e morte. Non che i nostri adolescenti non siano appassionati. Sono forse, anche grazie alle possibilità inedite che offre loro la rete, la generazione più viva tra quelle viste negli ultimi decenni. Sono vivi e appassionati, ma proprio non fa parte del loro immediato universo simbolico, e dell’immaginario collettivo che ne segue, la possibilità che uno accompagni suo fratello a farsi saltare in aria in un bar. Nel loro e nel nostro immaginario non sarebbe finita così. All’ultimo momento, come in uno di quei bei film che portiamo nel cuore, il fratello avrebbe fermato il fratello.

Il presidente del Consiglio Renzi

Il presidente del Consiglio Renzi

C’è poco da scherzare con l’immaginario collettivo. Più che sul piano militare, l’America ha sconfitto la Russia comunista grazie all’american way: dai romanzi di Faulkner e Saul Bellow al rock e al jazz, fino ai film di Hollywood e al basket. Sul piano militare gli americani hanno preso tante di quelle botte dai comunisti, che parlarne gli dà ancora noia. Più efficaci dei proiettili sono state le mille opportunità della democrazia fondata sulla ricerca della felicità e della libertà d’impresa, raccontate dagli scrittori, dai musicisti, dai registi. Con questo non si vuole sostenere che l’abbattimento dell’odioso comunismo sovietico sarebbe stato possibile soltanto a colpi di Dylan e di hamburger. Ma che Dylan e gli hamburger hanno avuto una parte importante.

I jihadisti questo lo hanno capito, profondamente. Certo, più tradizionale di quanto sembri è la loro pretesa di istituire un califfato sovranazionale a tendenza naturalmente espansiva sulla base di una lettura rigorosa del libro sacro. Come ha scritto su Foreign Affairs Jacob Olidort (What is Salafism?), “per fronteggiare la minaccia dell’ISIS, il mondo deve capire che l’ISIS, come gli altri sostenitori del salafismo, sono parte di un nuovo capitolo del libro dell’Islamismo. I combattenti dell’ISIS sono votati a concetti e a testi fondamentali elaborati molto tempo fa e, per la prima volta nella storia di questa religione, hanno dimostrato d’essere capaci di applicarli”. Tuttavia una parte cruciale della loro abilità di applicazione di certi versetti del Corano, che li induce alle note ed efferate azioni criminali, è data dalla loro estrema comprensione dell’era della globalizzazione.

Questi guerrieri sanguinosi sanno di essere troppo pochi e militarmente inefficaci per sconfiggerci in uno scontro ordinario. Ma continuano a pensare, con Clausewitz, che scopo della guerra sia “disarmare l’avversario”. Consci così dell’impossibilità di disarmare militarmente chi li avversa, essi puntano, attraverso la guerriglia terroristica, a disarmarci sul piano ideale e culturale. Spiace qui cedere a un eccesso di spregiudicatezza del pensiero, ma le 130 vittime innocenti di Parigi non rappresentano militarmente un fatto rilevante. Sono invece un fatto scioccante e straordinario, se si ammette che l’obiettivo del Califfato è disarmare i milioni di europei del loro sogno (e della loro realtà) di sicurezza e di pace, costruito faticosamente dopo due guerre mondiali e dopo la guerra fredda. Qui sta il senso della loro sfida e il significato dell’estrema pericolosità della loro strategia.

Isis

Chi all’estero ha apprezzato la posizione del governo italiano, dai giornali ai partner internazionali, ha colto che essa muove dall’intuizione del vero campo di battaglia su cui lo Stato Islamico vuole vincere la sua guerra. Perché l’Occidente ha un disperato bisogno di rafforzare e attualizzare l’immaginario collettivo che dà corpo al suo universo simbolico. E’ dal crollo del muro di Berlino che ne ha bisogno. L’Occidente, coi suoi organismi internazionali, non ha mancato negli ultimi venticinque anni a nuovi appuntamenti di guerra. E’ stato, viceversa, manchevole nella capacità di rilanciarsi come magnete culturale, come potenza attrattiva in forza dei diritti e delle opportunità che il suo way of life incarna.

Quando il presidente Renzi ha fissato il principio per cui a ogni centesimo del miliardo impegnato per la sicurezza interna corrisponderà ogni centesimo del miliardo per la cultura, ha scelto di stare sul vero campo di battaglia prediletto dal Califfato. Da un lato, il doveroso impegno alla difesa e alla sicurezza interna; dall’altro, il sostegno economico a quella componente centrale del way of life occidentale che è l’italian way: la bellezza, l’arte, la cultura, la libertà. Così facendo Renzi si è messo, più di chi spara in aria per spaventare le cornacchie, sulla linea di fuoco della jihad.

La scommessa è garantire sicurezza e difesa del nostro stile di vita, quindi, ma anche sostenere la consapevolezza dei valori ideali e culturali che sono alla base della nostra sicurezza e del nostro stile di vita. Come ha detto il Presidente Napolitano a Pavia, in occasione del conferimento della laurea honoris causa, condividiamo tutti la priorità di “disinnescare la minaccia del terrorismo con ogni mezzo sul piano internazionale”. I soli mezzi militari però, già notoriamente insufficienti in casi di guerra convenzionale, sarebbero ancor più manchevoli in questa circostanza non convenzionale.

Non perché l’Italia non metta in gioco la vita dei propri soldati. Dall’Afghanistan alla Somalia, dalla Libia all’Iraq, dal Kosovo al Libano, seimila nostri militari consentono all’Italia di fare la propria parte fino in fondo nel mondo. In Iraq, siamo il paese occidentale più attivo dopo l’America nel fornire armi e addestrare migliaia di peshmerga curdi. Quei peshmerga che, anche grazie alle nostre armi e ai nostri addestramenti, hanno riconquistato la città di Sinjar. Se non sono boots on the ground questi!

Copia del Corano

Copia del Corano

A dirla tutta, quando pochi giorni fa Renzi, nel discorso ai Musei Capitolini, ha invocato “un salto di qualità nella battaglia culturale”, ha offerto una interpretazione più corretta e progressiva delle tesi di Huntington di vent’anni fa. Come previde Huntington nel suo Scontro di civiltà, dopo la fine della guerra fredda la storia non è affatto finita col trionfo della liberal democrazia vaticinato da Fukuyama. In quel libro di cui i più (da giornalisti ai politici) citano il titolo senza averlo mai letto, Huntington aveva compreso che né la rivalità economica né lo scontro ideologico avrebbe prodotto i futuri conflitti, quanto le diversità culturali e civili. Diversità che, sottratte al gioco dello stringente dualismo ideologico ed economico della guerra fredda, avrebbero trovato spazi per affermare se stesse.

Così si spiega non solo il Califfato, ma anche la baldanzosa tenacia di Putin nell’opera di autoaffermazione dell’identità russa. Un’identità revisionata dal sincretismo putiniano e rilanciata su presupposti civili e culturali, più che ideologici o economici. La Russia ha ancora oggi una capacità di produzione di ricchezza inferiore a quella dell’Italia. E nonostante sia tra le grandi nazioni del mondo una di quelle che destina più parte del PIL alla spesa militare, è assai lontana dall’avere la più potente potenza di fuoco del pianeta. Pur tuttavia Putin è riuscito a porsi al centro dello scacchiere internazionale, perché ha revisionato il proprio universo simbolico (sintetizzando la storia della Russia pre-sovietica, con il leninismo e lo stalinismo e, infine, con la contemporaneità che egli rappresenta), rinvigorendo l’immaginario collettivo dell’orso russo.

E’ stato certo più facile per Putin, come per altri, trovare spazi grazie ai sette anni di minore impegno multilaterale statunitense (l’accordo con l’Iran è prezioso, ma è forse un po’ poco in sette anni…). E preoccupa pensare che Putin e gli altri avranno ancora un anno di “dronismo” su cui potersi adagiare, prima che il cambio di guardia alla Casa Bianca produca dei mutamenti nella politica estera statunitense. Ma è chiaro che i progressi della politica putiniana sono principalmente figli della lezione imparata dagli americani nella guerra fredda: la costruzione di un polo identitario, globalmente attrattivo per il magnetismo della propria identità culturale, più che per quello della propria forza economica o militare.

Angelos Tzortzinis Migranti Grecia

Angelos Tzortzinis Migranti Grecia

Questa è la sfida da vincere. E in attesa che, dopo gli errori di Bush e il disengagement di Obama, l’America torni ad avere un ruolo da protagonista, l’Europa farebbe bene a prendere sul serio l’impegno del “salto di qualità nella battaglia culturale” richiesto da Renzi. Si è detto, con molte ragioni, che gli attentati di Parigi sono stati subito percepiti da italiani, spagnoli, tedeschi e britannici come attentati europei più che francesi. E’ una constatazione emozionale importante, prodotta da Charlie Hebdo e dagli altri attacchi del Califfato, sulla scia di quelli perpetrati da Al Qaida a Londra e Madrid. Tuttavia per fare in modo che a tale constatazione emozionale collimi una riflessione razionale, che nutra una politica europea del “salto di qualità nella battaglia culturale”, occorre molto lavoro.

Forse la retorica del federalismo europeista ha fatto davvero il suo tempo. E’ stata la necessità di lasciarsi alle spalle l’orrore di due guerre fratricide, che ha indotto l’Europa a porre le condizioni istituzionali di una pace duratura. Ci sono voluti milioni di morti europei per avere l’intuizione che, quanto unisce gli europei fra loro, è molto più forte di quanto in passato li ha divisi. I vincoli aguzzano gli ingegni degli artisti e le necessità storiche affilano quelli degli statisti. Oggi la necessità di difendersi dal nuovo nemico potrebbe davvero essere la leva che spinge una nuova fase dell’integrazione continentale.

Un’integrazione pragmatica: necessitata più che ideale, empirica più che idealista, che non può comprendere tutti i ventotto paesi dell’Unione, e forse neppure i diciannove dell’eurozona. Un’integrazione che sul tema della sicurezza continentale e della difesa comune può trovare il terreno per riprendere a crescere. Era il grande sogno di Alcide De Gasperi, che tanto aveva a cuore la difesa comune europea e tanto ne riconosceva la rilevanza strategica in ottica d’integrazione continentale, da essere contrario alla Nato.

Quel progetto di difesa comune saltò per l’indisponibilità della Francia. Indisponibilità alla condivisione mostrata di recente in occasione delle insensate scorrerie francesi sulla Libia, che hanno accresciuto la vulnerabilità di quella nazione alle incursioni dello Stato Islamico. Spesso purtroppo la Francia, molto più della Germania, ha rappresentato un freno all’integrazione. L’occasione mancata dell’accoglimento della Turchia dell’Unione, quando la Turchia non aveva ancora conosciuto l’irrigidimento culturale di Erdogan, è stata un’altra occasione mancata per l’Europa, dovuta ancora all’indisponibilità della Francia.

Putin e Obama

Putin e Obama

Tutti i paesi europei hanno fatto i loro errori. E andando verso il settantesimo anniversario dei Trattati di Roma del 1957, sarebbe forse il caso di esaminarli a fondo, anche per mettere meglio in risalto i successi che pure non sono mancati. L’Europa è chiamata, dopo il triste fallimento della costituzione europea, a rilanciare il proprio universo simbolico attraverso un investimento nel proprio immaginario, che risulta da tempo appannato. Deve farlo in fretta, perché alla strategia di morte del Califfato è connessa la questione del grande esodo dei migranti, che scappano dai territori minacciati dall’avanzata jihadista. Scappano per cercare rifugio e ristoro in un’Europa accidiosa, che non ha saputo o voluto ancora cogliere il significato storico e il senso politico di questo poderoso spostamento di uomini e donne.

A restare umani non si perdono voti, ma se ne guadagnano. Ed è il modo più bello per guadagnarne. Se quella dello Stato Islamico sarà “la più lunga guerra del ventunesimo secolo”, per dirla con Aaron David Miller, la questione del grande esodo dei migranti sarà la sfida parallela più importante da vincere. Per due motivi semplici, ma pregni di significati. Anzitutto perché il primato dell’umanità e della pietas cristiana sono valori irrinunciabili, pena l’impossibilità di definirsi uomini. Quindi perché, se vogliamo dare una rispolverata a quell’immaginario collettivo occidentale che dà corpo al nostro orizzonte di valori, dobbiamo riscoprire, uno per uno, gli ideali iniziali del nostro vivere civile. Il valore antico dell’ospitalità è uno di questi.

L’ospitalità è forse l’essenza dell’italian way che, a sua volta, è il cuore pulsante del destino di scambio e di accoglienza del Mediterraneo, che non può in nessun modo diventare, come ha detto il Ministro Gentiloni, “il centro della riluttanza dell’Occidente”. La sfida planetaria contro lo Stato Islamico si vince prima nel Mediterraneo. E se non si vince nel Mediterraneo, non si può vincere a livello globale. Nel grande esodo dei migranti ci giochiamo parte significativa della possibilità di annientare il Califfato. Esserci dotati, in Italia per la prima volta, di una legge sulla cooperazione internazionale è la prova che, più di altri, abbiamo colto un livello d’ingaggio determinante. Forse la prossima mossa, dopo il miliardo di euro sulla sicurezza e il miliardo di euro sulla cultura, è il miliardo di euro sulla cooperazione. Tenendo sempre alta la guardia sui fronti militari dove siamo impegnati oggi e su quelli dove saremo impegnati domani.”

…………………………..

Brani estratti dell’intervento di Antonio Funiciello, consulente della presidenza del Consiglio dei ministri, Il Foglio del 02 Dicembre 2015.

 

 

 

 

 

LAUDATO SI’

LAUDATO SI’

Papa Francesco

Papa Francesco

L’enciclica di papa Francesco Laudato si’, sulla cura della casa comune, è una profonda riflessione su temi apparentemente lontani da quelli religiosi. Nel ponderoso documento, di circa 200 pagine, si parla di temi insoliti per una enciclica papale, quali inquinamento e cambiamento climatico, il clima visto come bene comune, la questione dell’uso dell’acqua, la perdita della biodiversità. Sarà una coincidenza, ma proprio in questi giorni sugli stessi temi è tornato il presidente USA Obama, con una iniziativa, da lui stesso definita storica, per la diminuzione drastica delle emissioni inquinanti nel suo paese. L’enciclica fa una lettura originale della situazione del mondo in quanto tutti i temi del degrado della qualità della vita umana sono posti alla radice della degradazione sociale e delle tante iniquità fra i popoli e le nazioni. L’enciclica si chiude con due preghiere; la prima, rivolta anche ai laici, è intitolata Preghiera per la nostra terra. La sintesi mi richiama quel verso di Catullo: l’amore non è possedere, ma custodire.

Potete di seguito leggerla, mentre il testo dell’enciclica lo trovare qui:http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html

 

Preghiera per la nostra terra

Dio Onnipotente,

che sei presente in tutto l’universo

e nella più piccola delle tue creature,

Tu che circondi con la tua tenerezza

tutto quanto esiste,

riversa in noi la forza del tuo amore

affinché ci prendiamo cura

della vita e della bellezza.

Inondaci di pace, perché viviamo come fratelli e sorelle

senza nuocere a nessuno.

O Dio dei poveri,

aiutaci a riscattare gli abbandonati

e i dimenticati di questa terra

che tanto valgono ai tuoi occhi.

Risana la nostra vita,

affinché proteggiamo il mondo e non lo deprediamo,

affinché seminiamo bellezza

e non inquinamento e distruzione.

Tocca i cuori

di quanti cercano solo vantaggi

a spese dei poveri e della terra.

Insegnaci a scoprire il valore di ogni cosa,

a contemplare con stupore,

a riconoscere che siamo profondamente uniti

con tutte le creature

nel nostro cammino verso la tua luce infinita.

Grazie perché sei con noi tutti i giorni.

Sostienici, per favore, nella nostra lotta

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