IL SILENZIO DELLE SIRENE

IL SILENZIO DELLE SIRENE

PIU’ CHE IL CANTO POTE’ IL SILENZIO-STREPITOSA INTERPRETAZIONE DI KAFKA DEL MITO OMERICO: L’EROE DI ITACA SAPEVA CHE LE SIRENE TACEVANO, MA CON ASTUZIA APPRONTO’ LO STRATAGEMMA CHE GLI FECE DIMENTICARE QUALUNQUE CANTO. E SE ULISSE FOSSE STATO SORDO? 

Rovesciando il poema omerico Kafka immagina un Ulisse senza coraggio, non solo legato all’albero maestro, ma al pari dei compagni con le orecchie sigillate. Immagina al posto di un canto ammaliante  e mortale un silenzio altrettanto inquietante. Nella reinterpretazione del mito le Sirene hanno una nuova arma: il silenzio, una finzione di morte e di debolezza. Si tratta di mancanza di eroismo, devozione verso gli dei o totale ignoranza? Kafka non dà una risposta precisa, e resta il dubbio se il silenzio delle Sirene sia un preludio all’annullamento della morte o sia Ulisse a non volerle più ascoltare, rivelando la distanza dell’uomo nei confronti del divino.

“Una dimostrazione che anche risorse insufficienti e persino puerili possono servire come mezzi di salvezza: per salvarsi dalle sirene, Ulisse si tappò le orecchie con della cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile, certo, avrebbero potuto fare da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che già da lontano erano sedotti dalle sirene; ma si sapeva in tutto il mondo che era impossibile che questi rimedi funzionassero.

Il canto delle sirene penetrava tutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato impedimenti ben più forti di catene e alberi. Ulisse, anche se forse lo sapeva, non ci pensò. Confidò pienamente nel suo pugno di cera, nel suo mazzo di catene, e con gioia innocente, contentissimo delle sue piccole astuzie, navigò incontro alle sirene.

 

Nel frammento che risale al III sec. a.c. alcuni versi del XIV libro dell’Odissea di recente ritrovati

Ma accade che le sirene dispongano di un’arma più terribile ancora del loro canto. Si tratta del silenzio. Forse era immaginabile- anche se, certamente, neppure questo era accaduto- che qualcuno scappasse al loro canto; ma senza alcun dubbio nessuno poteva salvarsi dal loro silenzio. Non v’è nulla di terreno che possa resistere alla sensazione di averle vinte con le proprie forze, e alla conseguente infatuazione che tutto travolge.

In effetti, all’approssimarsi di Ulisse, le formidabili cantatrici non cantarono, sia perché ritennero che un simile avversario potevaa essere affrontato solo col silenzio, sia perché quella visione di beatitudine sul volto di Ulisse, che pensava solo a cera e a catene, fece loro dimenticare qualunque canto.

Ma Ulisse, per così dire, non udì il loro silenzio; credeva che cantassero, e che egli solo fosse libero d’ascoltarle. Vide prima, fugacemente, gli occhi colmi di lacrime, la bocca semiaperta, e credette che tutto questo facesse parte delle arie che, senza essere ascoltate, risuonavano e si perdevano attorno a lui.

Gustav Klimt: Ulisse e il canto delle sirene

Ma presto tutte le cose rimbalzarono sul suo sguardo astratto; era come se le sirene scomparissero di fronte alla sua decisione, e proprio quando fu più vicino a loro, non seppe più nulla della loro presenza. Ed esse- più belle che mai-si stiravano e si contorcevano, protendevano gli artigli aperti sulla roccia, e le orrende capigliature ondeggiavano libere al vento. Ora non pretendevano più di sedurre: desideravano solo cogliere, finché fosse possibile, il riflesso dei due grandi occhi di Ulisse.

Se le sirene avessero una coscienza, sarebbero state distrutte in quell’occasione. Ma così sopravvissero, e solo Ulisse sfuggi loro. Del resto la tradizione riferisce anche un episodio al riguardo. Ulisse, così narrano, fu tanto volpe, tanto ricco di astuzia, che neppure la dea del destino riuscì a penetrare nell’intimo della sua coscienza. Forse-anche se questo la ragione umana non può concepirlo-avvertì in realtà che le sirene tacevano, e solo a mo’ di scudo, per così dire, oppose ad esse e agli dei quella commedia.”

Il brano di Fraz Kafka è tratto da Racconti brevi e straordinari di Jose Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, edizione Franco Maria Ricci, 1973.  

 

 

 

   

ARCAICA BELLEZZA

ARCAICA BELLEZZA

IL REGALO PASQUALE DI MARIO MIRTO- GEO E L’INCANTO DI SPIAGGE DOVE ANCHE UN PASSO ESITANTE E’ GIA’ PROFANAZIONE- ECCO COSA ISPIRA I LAND-ARTIST, FRA BASALTO E ROCCE ANTROPOMORFE MENTRE ARBUSTI RICAMANO LA SABBIA O ADDOLCISCONO L’ORIZZONTE ARCAICO.

 

 

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Una scena raffinata, perfetta anche nei dettagli più minuziosi, quasi fosse il set di Visconti. Preparata da decenni di fortunali, risacche, baccanali di spiritelli adagiati sulla spiaggia dal vento sidereo, rendez-vous assordanti di cicale, in cui le lucciole apparivano alla fine, ospiti le più preziose. Lei, la testuggine, avvolta in un letto di conchiglie, come fra lenzuola di seta organza, ha alzato il gomito, e ora riposa, filtrando la luce dell’alba con le palpebre pesanti, blandita dal richiamo del mare che caldo l’aspetta, tanto lui il tempo lo misura in millenni.

 

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In questi millenni,  tutta questa roccia di granito e di basalto, è stata lavorata, fino ad oggi, fino alla sua forma definitiva. Il loro rapporto è la sezione aurea del mondo. Potrebbero scuotersi all’improvviso, schiaffeggiando l’acqua con la coda, come un mostro che si svegli, per raccontare l’antico mito di Odisseo, la sua astuzia nel raggirare Polifemo:

“Di lì navigammo ancora, col cuore dolente. E arrivammo alla terra dei Ciclopi superbi e senza legge, i quali, fidando negli dei immortali, non piantano, non arano mai: nasce tutto senza semina e senza aratura, il grano, l’orzo e le viti che fioriscono di grappoli sotto la pioggia di Zeus……

A queste voci Polifemo in rabbia/Montò più alta, e con istrana possa/Scagliò d’un monte la divelta cima,/Che davanti alla prua càddemi: al tonfo/L’acqua levossi, ed innondò la nave,/Che alla terra crudel, dai rifluenti/Flutti portata, quasi a romper venne./Ma io, dato di piglio a un lungo palo,/Ne la staccai, pontando; ed i compagni/D’incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,……”

 

 

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Qui dov’è la poca terra in cui il silice e il salso danno un magro pasto, un giorno, chissà quale, hai dovuto scegliere fra la frivolezza del colore e l’eccitazione dell’odore. Lo stelo aspro si intreccia, s’aggroviglia, quasi a sorreggersi contro il vento furioso e per proteggesi dalle dita maligne del sole, quando, a mezzodì, abbacinato, tormenta le foglie minute. Ma, alla fine, il mare incupisce e segue la notte che lo avvolge nel suo mantello, e tu sei lì vincitrice, i piccoli fiori di pallido viola che si aprono a discorrere col firmamento. Non farai la fine della ginestra, cara al Poeta di Recanati, e il cane che ogni mattina, sfilandomi a lato tuffa la testa incuriosito fra i tuoi rami, sembra veramente sorpreso per quello che gli raccontate.

“…. E tu, lenta ginestra,/Che di selve odorate/Queste campagne dispogliate adorni,/Anche tu presto alla crudel possanza/Soccomberai del sotterraneo foco,/Che ritornando al loco/Già noto, stenderà l’avaro lembo/Su tue molli foreste. E piegherai/Sotto il fascio mortal non renitente/Il tuo capo innocente….”

 

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Nessuno conosce il nome di questi ovoidi pelosi, dall’aspetto di una pigna. Inutile chiederlo al solito frequentatore di spiaggia, forse se incontrassi un botanico, chissà! Non ne conosco la consistenza, non so se, aperti, emanino un pungente odore organico e prendano a colare di liquidi come una ferita. Sono belli, un poco inquietanti, vistosi. Poi in autunno spariscono, senza lasciare traccia alcuna. Pensò si rifugino sottoterra, come certi pesciolini del deserto africano che dormono sepolti sotto la sabbia fino ad uno scrosciante temporale.

 

 

 

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L’identico che si rinnova attraverso le impercettibili mutazioni nel tempo. La geometria della natura fa diverso un fiocco di neve dall’altro, ma secondo un modello ripetuto all’infinito. Un frattale vegetale, che si sviluppa secondo regole certe ed infallibili, in cui le migliori condizioni per radicare, svilupparsi, gettare semi o stoloni, seguono regole matematiche, in grado di comprendere le variabilità stagionali, e sopportare forse l’oltraggio umano. Dalla geometrica bellezza discende il pregio estetico di questi ramoscelli che visti dall’alto appaiono come la mappa di una città, un minuzioso ricamo di un pittore medievalista, l’impronta di un’oasi in un deserto come ci ha insegnato a vederla Paul Klee, mancano solo i cammelli.

 

 

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Sembra una mimosa, solo la forma e il colore giallo più acceso dei fiori, nonché le foglie decisamente diverse, più coriacee e verdi, distinguono questa pianta dalla mimosa, anche se entrambe gradiscono la siccità. Ma mentre la prima rapidamente sfiorisce, questa dura più a lungo, incurante ai rovesci di tempo, al disordine che la circonda. Una bella pianta, semplice e …… scapestrata, che dimostra che si può essere belle con poco…. solo un velo di trucco sotto la foglia.

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