L’ULTIMO PARADISO

L’ULTIMO PARADISO

ORA TRUMP GETTA ANCHE LA CHIAVE: NEI PARADISI FISCALI IL FISCO SARA’ DESTINATO A NON ENTRARE NEMMENO IN PUNTA DI PIEDI- CON LA GUERRA DEI DAZI E’ PRONTA LA SPALLATA  A CIO’ CHE RESTA DEL CSR (LO SCAMBIO DI INFORMAZIONI FRA GLI STATI CONTRO GLI EVASORI) ?  COSI’ LA PENSA LUCIGNOLO.

 

“Milano!”

“Via o Piazza?”

“Milano città!!! Si sbrighi!!! [che ho la Finanza alle calcagna]”

Comincia (e finisce) così il film di qualche anno fa A tu per tu, con Johnny Dorelli, Paolo Villaggio ed una comparsata di una giovanissima Moana Pozzi.

Pellicola demenziale e grottesca ma…. molto ben documentata sui paradisi fiscali e sui loro frequentatori e meccanismi.

Paradisi fiscali che per lunghissimo tempo hanno servito benissimo gli interessi anche dei singoli, delle persone fisiche, e non solo delle multinazionali (link a Banane in paradiso).

Bei tempi quelli in cui gli spalloni sul confine svizzero si erano convertiti dal trasporto di sigarette a quello di valuta. Tempi ruggenti quelli in cui al confine con Ventimiglia ogni tanto veniva fermata una macchina imbottita di valuta, mentre i Ranieri di Monaco dichiaravano alla stampa che “l’evasione fiscale non esiste”

Tempi interessanti, perché anche i paradisi fiscali si facevano concorrenza tra di loro (chi di spada ferisce…).

Ad esempio, il Principato di Monaco non tassa i redditi, ma applica la tassa di registro sulle compravendite immobiliari (un po’ come la Cina Popolare). Cosa era successo ad un certo punto? Che moltissime compravendite non erano più dichiarate, poiché gli immobili erano intestati a società offshore e bastava pertanto trasferire la società per trasferire l’immobile, così che il Fisco monegasco non incassava perchè il proprietario era formalmente sempre lo stesso.

 Bei tempi (si fa per dire), che però sono andati.

Obama, sempre lui, pieno di idealismo e di buoni propositi, a seguito della crisi del 2008 ha cominciato a voler tassare i capitali dei cittadini Usa parcheggiati nei paradisi fiscali. Ha così minacciato di interrompere i rapporti commerciali e di sanzionare i Paesi e le istituzioni finanziarie che garantivano l’anonimato ai cittadini americani. Essendo gli Usa (allora più di oggi) la superpotenza economica del mondo, tutti si sono conformati, e si è arrivati al Facta (Foreign Account Tax Compliance Act ) . Più di 100 paesi, inclusi i paradisi caraibici, hanno cominciato a trasmette i dati dei cittadini Usa al fisco americano.

A seguito di ciò tutto il mondo si è voluto adeguare.

L’OCSE ha proposto ed approvato nel 2014 uno schema di accordo per lo scambio automatico delle informazioni finanziarie (CRS, Common Reporting Standart) (qui) 

Passando per ratifiche ed applicazioni graduali si è ora arrivati alla piena implementazione del sistema in più di 100 paesi, con uno scambio di dati ancora più approfondito di quello del FACTA. Qualsiasi deposito di un cittadino non residente nel paese, viene automaticamente comunicato al fisco competente.

L’insegna dello studio Mossack-Fonseca che ha annunciato in questi giorni la chiusura

 La stampa mondiale è poi mobilitata contro gli evasori. Si ricordi lo scandalo Mossack-Fonseca, lo studio legale panamense che negli anni ha costituito più di 200.000 società offshore, ed il cui archivio è stato fatto pervenire ad alcuni giornali che l’hanno pubblicato (a puntate anche in Italia).

Tutto bene dunque? I biechi evasori non hanno più scampo, ed il loro maltolto sarà devoluto al bene comune, attraverso le tasse?

Mah…sì .. forse… però… non proprio.

In questo clima idilliaco di collaborazione internazionale è forse rimasto qualcuno che non collabora con gli altri paesi e non trasmette i dati fiscali dei depositi sul proprio territorio?

E chi potrà mai essere?

Guarda un po’, proprio quelli da cui tutto è cominciato: gli Stati Uniti d’America.

Con un grande esempio di leadership mondiale hanno imposto un codice di condotta agli altri che però si rifiutano di applicare.

Nessuna autorità può quindi imporre alle istituzioni finanziarie americane di rivelare i nomi dei propri clienti.

Il Congresso americano (in nome della competitività) si è sempre rifiutato di approvare tutti i provvedimenti in tal senso proposti dall’Amministrazione Obama.

L’ex presidente USA Barak Obama

Gli Usa poi sono uno stato federale, in cui ogni stato o staterello è gelosissimo delle sue prerogative.

 Prendiamo uno stato a caso, il Delaware, il First State, la prima delle tredici colonie a ratificare la costituzione degli Stati Uniti. Uno stato piccolissimo, con 900.000 abitanti.

Durante l’assemblea costituente americana i suoi delegati si batterono vittoriosamente perché ogni stato, indipendentemente dalle sue dimensioni, eleggesse due senatori. Un delegato del Delaware, durante le trattative, disse che se i piccoli stati non avessero ottenuto ciò che volevano “avrebbero trovato un alleato straniero di più grande onore e buona fede, che li avrebbe presi per mano e reso loro giustizia” Con cotanti antenati….

Nel 1899, cedendo alle pressioni della famiglia Du Pont che voleva costituire in forma societaria le sue proprietà, il Delaware adottò la General Corporation Law, assolutamente permissiva. Come venne scritto all’epoca, il Delaware era “una comunità di ortofrutticoltori e raccoglitori di molluschi, determinata a mettere la sua manina tenera e paffutella nel sacchetto delle caramelle prima che sia troppo tardi”.

Veramente small wonder, una meraviglia, per chi vuole evadere o eludere le tasse

Oggi il Delaware è lo stato con più imprese registrate negli USA; ha una giurisprudenza graniticamente a favore del management, è un paradiso fiscale che tutela l’anonimato e gli statuti societari possono prevedere praticamente tutto (pillole avvelenate contro gli scalatori etc.). Il Delaware ricava da ciò il 40% delle proprie entrate.

In sostanza quindi, grazie allo scudo del Congresso ed alle legislazioni dei singoli stati, un magnate di qualunque nazionalità può ora aprire conti bancari o trust immobiliari in Delaware, Nevada, Wyoming, Sud Dakota e via dicendo senza che nè il fisco americano nè il fisco del suo paese ne possano sapere niente.

Ancora e per chiudere: i trattati OCSE sono figli della globalizzazione, e cioè di un mondo aperto e collaborativo, dove le merci, le finanze e quindi le informazioni circolano liberamente.

Assistiamo ora alla dichiarazione di guerre commerciali da parte dell’Amministrazione Trump, con dazi su varie tipologie di merci contro vari paesi.

Potrà la collaborazione fiscale sopravvivere ad una politica protezionistica e di chiusura, in cui gli stati guardano prima di tutto al proprio giardinetto?

https://www.youtube.com/watch?v=ypQgCNU31ic

 

 

BANANE IN PARADISO

BANANE IN PARADISO

LUCIGNOLO SPIEGA CON SEMPLICI ESEMPI COME LE MULTINAZIONALI EVADONO IL FISCO E PERCHE’ POCHI FANNO I SOLDI MENTRE I POVERI AUMENTANO. 

L’esempio di scuola è quello delle banane.

Che giro fanno le banane?

Vengono raccolte in un paese, mettiamo centroamericano, vengono caricate su una nave ed arrivano in Europa o Nord America dove vengono vendute al supermercato. Tassare questa attività dovrebbe essere semplice: una parte di utile si dovrebbe generare nel paese di raccolta, e la restante nel paese di vendita.

Purtroppo le cose non sono così scontate. A questo percorso fisico se ne sovrappone un altro, giuridico e contabile.

La società A del paese centroamericano che ha curato la raccolta vende le banane al prezzo di costo 1, quindi senza generare utili, alla società B situata in un paradiso fiscale. La società B vende le banane a 10 (ricavando un utile di 9) alla società europea o nordamericana C, che le rivende a 10 ai supermercati, quindi nuovamente al prezzo di costo senza generare utili. Gli utili sono tutti in capo alla società B, che però trovandosi in un paradiso fiscale non è tassata per nulla.

È così che dove si produce e si vende non si pagano tasse e gli utili rimangono tutti tranquillamente parcheggiati in un paradiso fiscale.

Ovviamente tutte e tre le società A, B e C sono controllate dalla stessa multinazionale X, che intasca tutto al netto.

 Ci sono diverse e più sofisticate varianti al meccanismo sopradescritto.

Mettiamo che le società A e C facciano un piccolo utile. Possono però prendere in prestito (per le ragioni più varie) una somma dalla società B, situata in un paradiso fiscale. Su tale somma presa in prestito pagheranno gli interessi che abbatteranno l’utile, mentre gli interessi incassati dalla società B situata nel paradiso fiscale saranno esentasse.

Ecco un altro meccanismo con cui una multinazionale può legalmente trasferire gli utili tra le proprie controllate in modo da abbattere le tasse.

 Immaginiamo poi che la nostra multinazionale, invece di commerciare banane, produca smartphones in Asia, producendo in Cina e comprando componenti a Taiwan, in Corea, Giappone, Vietnam, Indonesia, Malesia, Europa, Usa etc, e venda poi in tutto il mondo. In questo caso è facile immaginare quanti percorsi contabili possano fare i prodotti e quanto possa essere ancora più multiforme l’abbattimento degli utili.

 Quella sopra descritta è una delle ragioni per cui le multinazionali sono più competitive delle altre imprese e diventano sempre più grandi. Possono fare arbitraggi fiscali in tutto il mondo. Il signor Brambilla certo non potrebbe mai permettersi i meccanismi sopra descritti.

 Tutto ciò, in termini economici, è profondamente inefficiente.

Nessuno ha prodotto né banane né smartphones migliori, ma semplicemente c’è stato un trasferimento di ricchezza.

Si distolgono tempo e risorse all’innovazione per concentrarle sull’elusione fiscale, generando un insieme di servizi parassitari (avvocati, commercialisti, fiscalisti) e trasferendo risorse dal basso verso l’alto, a favore dei ben inseriti e a danno dei più poveri.

Inutile dire che poi quando le cose vanno male, se gli utili erano rimasti privati, le perdite purtroppo vengono quasi sempre pubblicizzate, soprattutto nel caso di imprese troppo grandi per fallire.

 Altro effetto perverso dei paradisi è quello di innescare una competizione tra sistemi fiscali che, per evitare i fenomeni elusivi sopra descritti, cambiano continuamente, diventando più complessi. Ciò fa sì che i singoli cittadini siano sempre più  soffocati dagli adempimenti, mentre solo chi ha grandi mezzi ha la possibilità di permettersi professionisti e servizi che consentano di sfuggire all’accertamento.

Una delle poche buone ragioni dell’ultima riforma fiscale dell’amministrazione Trump è quella di evitare l’elusione ed agevolare il rimpatrio degli utili delle multinazionali americane. A titolo di esempio si stima che la sola Apple detenga, parcheggiati in giurisdizioni compiacenti, circa 250 miliardi di dollari.

  

Nel mondo esistono circa quattro grandi gruppi di paradisi fiscali.

Il presidente della Commissione europea Juncker. Il suo paese, il Lussemburgo, è stato criticato perchè offre condizioni assai vantaggiose ai detentori di capitale

Il primo è quello dei paradisi europei: Monaco, Lussemburgo, Svizzera etc….. che presero slancio durante la prima guerra mondiale quando i paesi inasprirono la tassazione per finanziare lo sforzo bellico.

Il secondo, e più importante, è quello che gravita sull’ex impero britannico: sui territori della corona (Jersey, Man etc), come sui territori d’oltremare (Isole Cayman, Bermuda, Gibilterra etc) e sulle ex colonie a vario titolo (Hong Kong, Singapore etc). Questo gruppo lavora circa un terzo degli attivi bancari mondiali, che una volta ripuliti convergono su Londra assicurandole il ruolo di capitale finanziaria mondiale. Nelle isole Cayman hanno sede decine di migliaia di società ed i tre quarti degli hedge fund di tutto il mondo.

Il terzo gruppo (secondo per importanza) è quello che ruota attorno agli Usa, incentrato sulle agevolazioni sia federali che dei singoli stati americani e sui territori esteri (Isole Marshall, Isole Vergini etc)

Il quarto gruppo è composto da paesi eterogenei (Uruguay, Liberia etc) che però non hanno avuto altrettanto successo. D’altra parte chi evade (o elude) si sente più a suo agio nell’ambito della common law anglosassone piuttosto che in un paese africano e del terzo mondo…..

 Come si vede, ed in modo del tutto inaspettato, i paradisi fiscali non ruotano intorno a paesi dittatoriali o illiberali, ma vivono in simbiosi con le democrazie occidentali liberali.

Dubai (Emirati arabi uniti) ripresa durante la festa di Capodanno 2017 in cui un grattacielo si è incendiato

Democrazie occidentali che dal canto loro si sono pur evolute: nell’ottocento convertivano l’India alle monocolture e ne esportavano l’oppio in Cina (spianando le rotte a cannonate) attraverso Hong Kong, oppure in virtù del “destino manifesto” occupavano California, Nevada, Texas etc o annettevano Porto Rico,  Filippine Hawaii etc. Ora che invece esportano la democrazia ed i diritti dell’uomo a buon titolo possono importare un po’ di capitali (ovviamente ripuliti sugli zerbini dei vari ingressi della casa padronale).

 

Tanto detto, chi scrive è restio ad unirsi al piagnisteo pauperistico secondo cui se non ci fosse l’evasione fiscale ci sarebbero più servizi per tutti.

Vista l’esperienza del nostro Paese dei Balocchi (qui), chi scrive è portato a credere che almeno in Italia (ma tutto il mondo è paese) al doppio delle imposte pagate non sarebbe corrisposto il doppio dei servizi, ma piuttosto il triplo degli sprechi (cattedrali nel deserto, politiche economiche, sociali, industriali e chi più ne ha più ne metta) .

Questo con l’aggravante che chi evade, bene o male, produce quello che evade, mentre il ceto politico che spreca non produce proprio nulla, piuttosto distrugge ed impedisce di produrre.

Ciò che invece offende chi scrive è che l’evasione internazionale delle imprese realizzi un gigantesco trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, dai poveri ai ricchi, il che è esattamente il contrario di quanto sarebbe auspicabile sia socialmente che dal punto di vista dell’efficienza economica.

Sarebbe ottimale, infatti, che quanto prodotto rimanesse il più possibile in tasca a chi l’ha prodotto, soprattutto ed assolutamente alla base della piramide sociale.

 

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