EMINENTE LOMBARDO

EMINENTE LOMBARDO

E’ MORTO IERI ALBERTO ARBASINO– DALLA NATIA VOGHERA A ROMA, DALL’UNIVERSITA’ AL PARLAMENTO, QUASI NOVANTANNI DI SCORRERIE FRA SAGGISTICA, GIORNALISMO, MEMORIALISTICA, CRITICA – TESTIMONE ESTROSO A VOLTE IRRIVERENTE DELL’ITALIA DELLA SECONDA META’ DEL 900, ARBASINO NON ANNOIAVA MAI, COME IN QUESTA BELLA INTERVISTA DEL 2014 A MALCOM PAGANI CHE RIPROPONIAMO IN SUO RICORDO

«Dalla A di Gianni Agnelli alla Z di Federico Zeri, alcune decine di conversazioni, interviste, dialoghi, e magari anche chiacchiere, con illustri contemporanei quali Roberto Longhi, Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Cesare Brandi, Federico Fellini, Luciano Anceschi, Luchino Visconti, Alberto Moravia. E notevolissimi coetanei, o quasi – da Calvino e Testori e Pasolini, a Parise e Manganelli e Berio –, coi quali ci si ripromettevano lunghe polemiche anziane davanti a un bel camino acceso, con vino rosso e castagne e magari cognac. Invece, la storia girò diversamente. E così, oltre ad alcuni coetanei vitali e viventi, eccoci qui con care e bizzarre memorie evidentemente prenatali: Dossi, Tessa, Puccini, D’An­nun­zio, e la mia concittadina vogherese Carolina Invernizio, nonna o bisnonna di mezza Italia letteraria». Dalla presentazione di RITRATTI ITALIANI , ed. ADELPHI 2009

Pur refrattario all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni, scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose, che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”.

E il vento caldo delle sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni.

Alberto Arbasino

Luglio è quasi a metà, sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel tinello.

Così si usciva in gruppo e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta, conosce oro, incenso e giacimenti.

Quando cerca nella biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina: “L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare.

Anche se i baffi di quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita…” e nei versi ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”.

Gianni Agnelli con Montezemolo

Lo stile nemico della semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero, all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di servire i cioccolatini in coppe di cristallo”.

Il mondo dell’avvocato come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili.

Cornici di un’età irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero, uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino, in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.

Carlo Emilio Gadda

Lei arriva a Roma negli anni Cinquanta.

Avevo poco più di vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: ‘Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita’. Quando si parla di Arcadia bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta.

Sfogandosi con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.

È un decennio di paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia.

Glielo disse che erano gli ultimi?

Pier Paolo Pasolini

Con Alberto ce ne facemmo e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: ‘Semo tutti peracottari’. Gli era venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo nell’ultima veste giocosa.

Eravate entrambi permalosi?

Lui sicuramente. Io mai, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7 fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici, confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: ‘Li conosco, a Roma li chiamano strangolini’.

Faceva parte degli intellettuali suscettibili?

Lui no, ma non mancavano. C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si prestava all’equivoco: ‘Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile’, ‘Chi non capisce è sciocco’, ‘Chi non si spella le mani è un buzzurro’.

Alberto Moravia

Di Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.

Con intuizione corretta, Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema, la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e svanito l’equivoco, in effetti, si rise.

Giorgio Manganelli

Altro moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.

In lui la componente populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino, con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico, era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito collettivo: ‘Che palle’.

Michelangelo Antonioni

In “Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.

Era unico. Straordinario. Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante, viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da briganti e mascalzoni. ‘Ho paura sia a ritirare che a depositare’ mi diceva e io: ‘Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?’.

Il denaro per lei è stato importante?

Non troppo, ma ho sempre considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire: ‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto. All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: ‘Un contratto con un deputato non si fa’.

Italo Pietra

Divenne deputato nel 1983.

Me lo chiesero due fior di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite.

Niente a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.

Manganelli, uno scrittore sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata, avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per salutarti, poi si raccomandava: ‘Non dire a nessuno che mi hai visto’. Gadda era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile posteriore.

Giorgio De Chirico col fratello Savinio

Terrorizzato dalle curve e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un prelato.

Gadda, l’uomo che vestiva in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò: ‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si lamentava: ‘Sono diventata la barbiera del Laterano’.

Guido Piovene

Di Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano paura”.

È vero e fu un’operazione di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi.

Le è simpatico?

Simpaticissimo. Anzi, simpaticissimi. Lui e la moglie.

Il verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.

Un decennio abbastanza atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che ripetersi.

Umberto Eco con la moglie

Altra icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia privo di cinismo.

Il cinico non perde tempo a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena se stesso, anche.

Se scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?

È un altro lavoro. Va compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al premio Strega.

Nessuno?

Nanni Moretti

Nessuno. Neanche per sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente nulla che valesse l’aggravio della lettura.

Perché?

Per la stessa identica ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma.

C’erano libri diversi. Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto.

È un problema culturale?

Maria Bellonci

Ma la cultura è un affare bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo, quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci chiedevamo: ‘Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere il sapere?’.

È sparita anche la letteratura italiana?

Si è deciso a tavolino che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna, ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse sono più alternativo, io.

Sull’affezione premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in epoca non sospetta.

Più della liturgia dello Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un unico premio.

L’intento era quello. Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò 10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona.

È furba anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?

Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il ‘sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?’. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima.

Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano” del 14 luglio 2014

IL POTERE AL CINEMA

IL POTERE AL CINEMA

IL CINEMA QUARTO POTERE? – GIANNI CANOVA SCRIVE UN SAGGIO SUL POTERE VISTO DA DIETRO LA CINEPRESADA ROSSELLINI A FELLINI E PASOLINI, DA SCOLA  A MORETTI, FINO A SORRENTINO- PERCHE’ BEPPE GRILLO, CHE SUL SET NON CI SAPEVA FARE, SI SCOPRE PROFETA DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA. COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

 

Vedendo al cinema Darkest Hour (L’ora più buia) riflettevo sul fatto che gli autori stranieri hanno del potere un’idea diversa dalla nostra. Da una parte Churchill che impersona la politica come servizio e missione, dall’altro la maschera che Toni Servillo fa di Andreotti (prossimamente di Berlusconi, c’è da scommetterci): il ritratto archetipo dell’italianità triviale, melliflua, viscida addirittura.

Sul tema del potere, Gianni Canova ha di recente pubblicato il saggio Divi, duci, guitti, papi, caimani -L’immaginario del potere nel cinema italiano da Rossellini a The Young Pope. La tesi di fondo è che nel cinema italiano il potere non può essere buono, ma sempre misterioso, occulto, ingannevole, complottista. Sostiene Canova che si tratta oramai di una ideologia di fondo, una religione laica, una visione del mondo.

Gianni Canova

Scrive Andrea Minuz, commentando sul Foglio il saggio di Canova: “Bisogna partire dai registri narrativi principali con cui il cinema italiana ha messo in scena il potere: il grottesco da un lato, e la denuncia, l’indignazione dall’altro. In entrambi i casi, prende forma un’idea negativa del potere: il potere come colpa, o vergogna, o delitto, un’idea divorata da uno schematismo ideologico che appare indifferente alle trasformazioni sociali, culturali, politiche. Settant’anni di vita repubblicana non hanno minimamente scalfito un immaginario del potere ancora legato all’idea di malvagità, di cospirazione, con tutto il lessico dell’intrigo e della sopraffazione che ne deriva- “il Palazzo”, “le segrete stanze”, i “poteri occulti”, i “poteri forti”, la “casta”..

Scrive Canova; “ L’idea che il potere possa avere a che fare con la democrazia, cioè possa consistere prima di tutto nel governo delle istituzioni in vista del raggiungimento del bene comune, non ha avuto mai una grande presa su registi, sceneggiatori e produttori, che hanno preferito raccontare il potere come arbitrio, controllo, dominio, un potere che nasconde quasi sempre qualcosa, spietato feroce, malvagio, oppure viscido, mellifluo, felpato” appunto.

Il vate e profeta di questa lettura ripugnante del potere, per quanto attiene casa nostra, è stato Pier Paolo Pasolini di cui Canova cita gli scritti: “ nulla è più anarchico del potere”, “il potere fa quello che vuole e sfugge alle logiche razionali”, il potere “è completamente arbitrario e manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o Hitler”.

Scena da The Young Pope

Scrive ancora Minuz: “Il cinema italiano ha dato forma a questa cosmologia apocalittica del potere in tutte le possibili variazioni: l’impunibilità del potere (“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”), la corruzione del potere ( “Il portaborse”, “Il caimano”), il trasformismo del potere (“Il gattopardo”, “I Vicerè”), l’oscenità del potere (“Salò o le 120 giornate di Sodoma”), la malvagità del potere (“Buongiorno notte”, l’arbitrarietà del potere ( “In nome del popolo italiano”).

Scrive Canova, commentando The Young Pope di Sorrentino che il punto di forza della serie: “ sta nell’avere intuito che per raccontare le strategie del potere, in Italia, bisogna rinunciare alle ambizioni dell’affabulazione per calarsi piuttosto nella dimensione del cerimoniale e della liturgia”. Il potere si mostra come affresco e rifugge lo storytelling; nel palcoscenico del paese funziona di più l’immaginario, il cerimoniale, la teatralità diffusa, la caricatura dello spettacolo, il “bagaglino”.

Toni Servillo sul set del film su Berlusconi di prossima uscita

Non ci interessa il potere ma la “scenografia del potere”, il film diventa una macchina processuale, sostituendosi alla giustizia incapace di arrivare alla Verità. “Grillo fa teatro, Santoro fa teatro, Travaglio fa teatro, Floris si aggira per lo studio a forma di teatro elisabettiano”.

Il cinema americano o inglese (si pensi a King’s speech, Il discorso del re) mette in scena il potere come fatto politico e etico, narrativo. Quello italiano proietta una immagine del potere come una entità astratta, invisibile e inafferrabile, poco esprimibile attraverso l’affabulazione. Per riuscire a raccontarlo bisogna corrispondere alla sua natura invisibile e misteriosa. Così come fece Fellini in Prova d’orchestra, potente apologo che in pieno ’68 mostra la deriva del disordine anarcoide e gli esiti del capovolgimento definitivo del mondo. La cultura del narcisismo, l’insofferenza delle regole e di ogni principio di competenza, a favore di una “democrazia diretta” stanno tutte in questo film, vero e proprio avvio della deriva che oggi chiamiamo populismo.

Beppe Grillo

.Non poteva, perciò, mancare nel saggio un capitolo dedicato alla deriva populista del nostro sistema dei media. Il personaggio analizzato è Beppe Grillo. Dalla coralità del gruppo si passa al monologo, adattissima forma per la “dittatura della semplificazione, l’invettiva, l’urlo anti casta, la lotta della piazza contro il Palazzo perché la verità apparterrebbe alla piazza, le menzogne solo al Palazzo.  

Grillo, afferma Canova a conclusione del suo escursus, “ ha portato a forma di spettacolo assoluta e totalizzante il monologo.. Lui parla da solo, gestisce il flusso della comunicazione in modo verticale, diffondendo il Verbo dall’alto del suo assolutismo enunciatario…. L’idea che tutto ciò abbia a che fare con la “democrazia diretta”, qualsiasi cosa voglia dire, è la beffa più grande che poteva rifilarci”.

 

 

 

 

RECALCATI,RENZI E P.P.P.

RECALCATI,RENZI E P.P.P.

PASOLINIANI E ANTI–RENZIANI UNITI NELLA LOTTA- BOTTE DA ORBI FRA GLI EREDI DI LACAN: RECALCATI CENSURATO PERCHE’ AVREBBE VENDUTO LA PSICANALISI A RENZI, IL QUALE A SUA VOLTA E’ REO DI AVERE INFANGATA LA MEMORIA DI PASOLINI, INTITOLANDOGLI LA SCUOLA DI PARTITO. 

Nel mondo intellettuale italiano da tempo covava un risentimento diffuso nei confronti di Massimo Recalcati. “Troppo” successo non può essere perdonato. Almeno in Italia. Niente di nuovo, dunque, nell’attacco concertato di cui è stato vittima e che ha visto come protagonisti colleghi, i quali, per alimentare la loro scarsa potenza di fuoco, hanno chiesto il soccorso  dell’antico maestro di Recalcati, Jacques-Alain Miller, indiscusso punto di riferimento del lacanismo nel mondo. Perché il colpo inferto fosse durissimo sono stati utilizzati strumenti eticamente discutibili. Ad esempio, sono stati resi di dominio pubblico frammenti dell’analisi di Recalcati. Chi scrive non può che rinnovare la sua solidarietà all’amico.

Ma la questione che mi interessa sollevare è un’altra. Riguarda i “significanti” che in questa polemica sono stati utilizzati per far coagulare un rancore finora taciuto o comunicato solo indirettamente. Per un lacaniano, ricordiamolo, un significante non è un segno convenzionale apposto su di una cosa. Un significante è una potenza performativa, vale a dire un segno che produce degli effetti sensibili sui corpi, che li costituisce, li trasforma e può anche ditruggerli. Un soggetto, ha scritto Lacan, è un significante per un altro significante. Un “significante”, infatti, non è mai da solo. Esso si concatena sempre ad altri significanti, producendo una sorta di “ritornello” che s’installa nella nostra testa e che scambiamo per il nostro “io” che pensa. Siamo fatti di parole, dice il poeta, e ha ragione: non cessiamo mai di rispondere all’appello dell’Altro e anche quando restiamo in silenzio siamo parlati da una parola che ci appartiene solo a metà.

 

Massimo Recalcati

Ebbene, da una polemica nata nel seno delle scuole lacaniane ci si aspetterebbe che il “significante” decisivo sia il Nome del Padre, “Lacan”. Non si discute forse di un’eredità? Non si sollevano obiezioni nei confronti di chi millanterebbe quel nome? Eppure non è “Lacan” il significante che catalizza il risentimento contro Recalcati. “Lacan” è solo occasione, funge da detonatore. I significanti dell’odio sono altri due nomi propri, tutti interni alla storia politica e culturale italiana. Sono “Renzi” e “Pasolini” (li scrivo tra virgolette perché di quei nomi mi interessa non la verità ma solo l’effetto di senso che producono nel discorso).
Nella esilarante (involontariamente) intervista concessa al Fatto quotidiano, Miller dice che Recalcati avrebbe venduto la psicanalisi al potere, cioè al fantomatico “Renzi” paragonato “ad Alessandra, la zarina di Russia, sposa di Nicola II che per far guarire suo figlio malato di emofilia si affidò a Rasputin”. Si noti il fantastico delirio cosmico-storico di Miller, degno del Presidente Schreber: Recalcati come Rasputin, Renzi come la zarina Alessandra… Inoltre Recalcati avrebbe stuprato per l’ennesima volta il martoriato corpo del santo intellettuale del nostro secolo, “Pasolini”, intitolandogli una scuola di partito (democratico). Il reato commesso sarebbe in questo caso quello di aver reso gramscianamente “organico” l’eretico per definizione. Per difendere l’onorabilità del santo e per vomitare fiele sulla zarina e sulla canaglia al suo servizio, si sono cominciate a raccogliere firme dalla Francia. L’usanza è consolidata.

 

Rassicurati dalla presenza al loro fianco del potente re straniero, molti si sono fatti coraggio e hanno apposto  il loro nome nella lista dei buoni e sinceri democratici (pasoliniani e anti-renziani ut decet)
Se non ci andasse di mezzo la vita di un uomo, i suoi affetti e la sua onestà intellettuale, ci sarebbe solo da ridere a crepapelle. In realtà la cosa è seria ed  è rivelativa di un clima politico inquinato nel quale il significante “Renzi” è diventato il significante divisivo per eccellenza, il vero e proprio catalizzatore di ogni risentimento. C’è da chiedersi perché già il solo essere accostato a quel nome susciti nella parte maggioritaria dell’intellettualità italiana un senso di ribrezzo più forte di quello provocato da fascisti, razzisti o populisti con i quali infatti ci si allea tranquillamente, turandosi un pochino il naso, se la posta in gioco è la disfatta del renzismo. Mi si perdoni il gioco di parole ma è sintomatico che questo sintomo nevrotico della politica italiana si sia  manifestato come tale proprio nell’ambito di una querelle che investe la psicanalisi.

 

Matteo Renzi

Qualche tempo fa, un amico che si era schierato per il Si al referendum e che dopo la sconfitta si era iscritto al PD  mi diceva di aver vissuto quella scelta come un vero e proprio outing. Con quella affermazione, fatta distrattamente bevendo un caffé, l’amico era andato subito al nocciolo della questione: mi aveva squadernato gli effetti sensibili del significante “Renzi”. In un  paese il cui DNA è la controriforma cattolica e nel quale il desiderio di mantenere tutto immobile si coniuga splendidamente con la retorica massimalista delle anime belle (la “sinistra”), l’opzione riformista, pragmatica e liberale (il significante “Renzi”) ha infatti quasi il senso di una confessione pubblica della diversità del proprio orientamento sessuale. In questa luce, l’adesione di Recalcati al significante “Renzi” mi è parso un atto di vero anticonformismo. Lo ha fatto alla vigilia del referendum quando il vento dell’opinione pubblica andava decisamente contro “Renzi” e lo ha ribadito quando il portatore di quel nome era nella polvere. Nessuno può in buona fede sostenere che tale scelta abbia comportato per lui un qualche vantaggio, soprattutto nel mondo intellettuale: i fatti che stiamo discutendo lo attestano ampiamente

Ed è sempre per anticonformismo che Recalcati ha licenziato l’altro significante intorno al quale ruota la polemica. “Pasolini” funziona infatti come significante dell’eresia e della differenza. Così vuole il luogo comune. A questo proposito, credo però che Recalcati sia stato vittima di un equivoco. Il fraintendimento discende direttamente dal modo in cui Recalcati legge Lacan. A differenza di Miller, che di Lacan è l’ermeneuta per così dire “ufficiale”, l’interpretazione recalcatiana è infatti orientata in un senso “esistenziale” e “cristiano”, sebbene si tratti di un esistenzialismo e di un cristianesimo particolari, un esistenzialismo senza ontologia ed un cristianesimo senza Dio-sostanza. Se ci si incammina su questa via – e se si è italiani – inevitabile è imbattersi nell’ombra del poeta friulano la cui opera è un condensato di  questi temi.

Ma “Pasolini” come significante ha agito nella storia culturale e civile italiana anche ad un altro livello, più sociologico che poetico, ed è in tale forma che vi ha lasciato un segno duraturo. C’è infatti il Pasolini “corsaro”, implacabile critico della modernità, nostalgico cantore di una innocenza perduta e/o tradita, populista estetizzante e etologo delle periferie urbane. Questo “Pasolini” è ben presto diventato il ritornello preferito degli intellettuali italiani che ne hanno scimmiottato in vario modo la postura moraleggiante vestendo i  nobili panni dei censori della decadenza e dei profeti dell’ “autentico” (curiosamente anche il successo del Recalcati-pensiero si deve, in parte, al fatto che nell’immaginario dei suoi lettori egli, meglio di tanti altri, avesse occupato il posto lasciato libero da quel “Pasolini”). Ebbene, il significante “Pasolini”  non si coniuga affatto con l’altro significante “Renzi”. Sono, se si vuole, due ritornelli inconciliabili: il primo rimanda all’arcaico, all’immobilità semi-sacrale della tradizione, all’orrore per il cambiamento, il secondo ad una modernità più immaginata che reale, ad una curisosità compulsiva e quasi infantile per il “nuovo” (il boy scout Renzi, Renzi su twitter…). In ogni caso non stanno insieme e se l’opzione per il significante “Renzi” (un’opzione, temo, perdente) ha il senso della rottura con il conservatorismo italico, l’opzione “Pasolini” ribadisce invece tutte le ragioni dell’italico spirito controriformistico duro a morire.

Hanno dunque in un certo senso ragione i nemici di Recalcati a protestare per l’abuso che egli farebbe del nome del santo martire intitolandogli una scuola di partito, ma non hanno la ragione che credono di avere. Recalcati-Rasputin, argomentano, avrebbe trasformato l’eretico in un intellettuale organico. In realtà le cose sono rovesciate ed è per questo che ho parlato di un abbaglio di Recalcati. Il significante “Pasolini” non funziona infatti per un progetto politico riformista e pragmatico, per un progetto, cioè, in Italia, decisamente “eretico”,  piuttosto lo contraddice. C’è tuttavia qualcosa che accomuna Recalcati a Pasolini, questa volta senza virgolette, al di là di tutti gli equivoci. Ed è la passione per la “risposta”: la responsabilità vissuta come obbligo etico e conseguenza inevitabile della professione intellettuale. Massimo Recalcati non ha mai smesso di intendere la psicanalisi come una presa di posizione sul reale, costi quel che costi, perfino la rottura con il suo amato maestro, l’isolamento e l’ingiuria, ed è per questo che nonostante le nostre tante differenze d’ordine teorico mi onoro di averlo come amico.

Pierpaolo Pasolini sul set di un film

Articolo di Rocco Ronchi, apparso sul sito http://www.doppiozero.com

 

Amado mio  violento

Amado mio violento

Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore e regista

Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore e regista

 

Quarant’anni fa, nel novembre del 1975, Pier Paolo Pasolini veniva brutalmente ucciso a Ostia Lido, vicino Roma. Rimane oggi uno dei pochi intellettuali della seconda metà del ‘900 la cui opera continua a farci riflettere. O meglio, per usare le parole di Attilio Bertolucci, continua insieme a “inquietarci e consolarci”. Perché?  Per semplificare( mi rendo conto):  è stato un artista dilaniato dalle sue contraddizioni che ha sapute affrontare con coraggio, fino alla cosciente autodistruzione. Un testimone del suo tempo, ma soprattutto un uomo che, mettendo a nudo la sua anima (soprattutto la parte più brutta, quella che “inquieta” ,appunto), ci costringe ancora oggi a mettere a nudo la nostra, smascherando ipocrisie, infingimenti, debolezze. Nella lettera che pubblico scritta da Oriana Fallaci a Pier Paolo Pasolini, già apparsa sul “L’Europeo” e ripubblicata da “il Giornale”, la giornalista fiorentina si addentra nella dimensione esistenziale di Pasolini, con analisi assai penetranti e che vale la pena di rileggere.  Scriveva la Fallaci: “Odiavi troppo il peccato, il sesso che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione.” Lo stesso atteggiamento del poeta greco Kavafis, il cui nome compare nel sottotitolo di due racconti di Pasolini rimasti inediti fino alla sua morte Amado mio e Atti imputi, due elegie della giovinezza di Pasolini in Casarsa,  preso già da allora dai lacci della “anomalia” dei suoi amori. Come Kavafis, che cerca di liberarsi dalle censure interiori rifacendosi alle proprie radici pagane e alla sessualità prescristiana, Pasolini in questi due romanzi in forma di diario cerca rifugio nell’eros omosessuale sapendo che è infecondo, lussurioso, e perciò rappresenta per lui pena, peccato, condanna a vita da scontare nei luoghi e nelle pratiche più infami. Da laico devoto, sia per passione che per profondità culturale, Pasolini considerava, come San Paolo, contro natura una tendenza che invece è innata e che tocca, fra uomini e donne, un quarto dell’ umanità, dimenticando che naturalia non sunt turpia.

Alla lettera di Oriana Fallaci faccio seguire un frammento della poesia di Attilio Bertolucci che ho appena ricordata, dedicata a P.P. Pasolini in occasione della sua morte dal titolo: Due frammenti e un envoy.

 

Da qualche parte, Pier Paolo, mischiata a fogli e giornali ed appunti, devo avere la lettera che mi scrivesti un mese fa. Quella lettera crudele, spietata, dove mi picchiavi con la stessa violenza con cui ti hanno ammazzato. Me la sono portata dietro per due o tre settimane, le ho fatto fare il giro di mezzo mondo fino a New York, poi l’ ho messa non so dove e mi chiedo se un giorno la ritroverò. Spero di no. Vederla di nuovo mi farebbe male quanto me ne fece quando la lessi e rimasi intirizzita a fissar le parole, sperando di poterle dimenticare. Non le ho dimenticate, invece. Posso quasi ricostruirle a memoria. Più o meno, così: «Ho ricevuto il tuo ultimo libro. Ti odio per averlo scritto. Non sono andato oltre la seconda pagina. Non voglio leggerlo, mai. Non voglio sapere cosa v’ è dentro la pancia di una donna. Mi disgusta la maternità.

Oriana Fallaci

Oriana Fallaci

Perdonami ma quel disgusto io me lo porto dietro fin da bambino, quando avevo tre anni mi sembra, o forse eran sei, e udii mia madre sussurrare che…».  Non ti risposi. Cosa si risponde, scrivendo, a un uomo che piange la sua disperazione di trovarsi uomo, il suo dolore d’ essere nato da un ventre di donna?

Non era una lettera diretta a me, del resto, ma a te stesso, o meglio, alla morte che rincorrevi da sempre per mettere fine alla rabbia d’ essere venuto al mondo grazie a una pancia gonfia, due gambe divaricate, un cordone ombelicale che si snoda nel sangue.

E come consolarti, placarti, di una simile ineluttabilità?

 Le parole con cui consolarti erano nel libro che tu rifiutavi con ira, l’ unico modo per placarti sarebbe stato prenderti fra le braccia: amarti come solo una donna sa amare un uomo. Ma tu non hai mai permesso a una donna di prenderti fra le braccia, amarti. Quel nostro ventre da cui sei uscito ti ha sempre riempito di orrore.

 

Pasolini con la madre

Pasolini con la madre

Fuorché tua madre che veneravi come una Madonna messa incinta dallo Spirito Santo, dimenticando che anche tu eri stato legato a un cordone ombelicale che si snoda nel sangue, noi donne ti incutevamo fisicamente un disgusto. Se ci accettavi, era per pietà.

 Se ci perdonavi, era per volontà. E in ogni caso non dimenticavi mai la leggenda che dà a noi la colpa d’ aver colto la mela, scoperto il peccato. Odiavi troppo il peccato, il sesso che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione.

Come certi frati che si flagellano, la cercavi proprio col sesso che per te era peccato. Il sesso odioso dei ragazzacci dal volto privo di intelligenza (tu che avevi il culto dell’ intelligenza), dal corpo privo di grazia (tu che avevi il culto della grazia), dalla mente priva di bellezza (tu che avevi il culto della bellezza). In loro ti tuffavi, ti umiliavi, ti perdevi: tanto più voluttuosamente tanto più essi erano infami. Di loro ci cantavi con le tue belle poesie, i tuoi bei libri, i tuoi bei film.

Pasolini e Fellini nel 1956 sul set di Le notti i Cabiria

Pasolini e Fellini nel 1956 sul set di Le notti i Cabiria

Da loro sognavi d’ essere ucciso prima o poi per compiere il tuo suicidio. Sono cattiva a dirti questo? Sono crudele anch’ io? Forse, ma sei stato tu ad insegnarmi che bisogna essere sinceri a costo di sembrare cattivi, onesti a costo di risultare crudeli, e sempre coraggiosi dicendo ciò in cui si crede: anche se è scomodo, scandaloso, pericoloso.

 Tu scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il cuore. Ed io non ti insulto dicendo che non è stato quel diciassettenne ad ucciderti: sei stato tu a suicidarti servendoti di lui. Io non ti ferisco dicendo che ho sempre saputo che invocavi la morte come altri invocano Dio, che agognavi il tuo assassinio come altri agognano il Paradiso. Eri così religioso, tu che ti presentavi come ateo.

Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità. Solo finendo con la testa spaccata e il corpo straziato potevi spengere la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. E non è vero che detestavi la violenza.

Col cervello la condannavi, ma con l’anima la invocavi: quale unico mezzo per compiacere e castigare il demonio che bruciava in te. Non è vero che maledicevi il dolore. Ti serviva, invece, come un bisturi per estrarre l’ angelo che era in te.”  

 

Il poeta Attilio Bertolucci

Il poeta Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci, da: “Due frammenti e un envoy.”

Io non so se le genziane viola sino al blu di Persenofe

fioriscono a Casarza

ma certo- di primo autunno- sui monti ferisce

 e ventila il Tagliamento bambino.

Non un brindisi funebre un mazzo di genziane miste a felci

vogliono le sue ossa-

non le sue ceneri-

che continuano a inquietarci a consolarci

mentre attendiamo dubitosi e felici

vino e fiamme per il nostro oblio.

 

 

 

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