CONTRO IL FONDAMENTALISMO DELLO SVILUPPO

CONTRO IL FONDAMENTALISMO DELLO SVILUPPO

 

QUANDO LO SVILUPPO DIVENTA INDEFINITO E FINE A SE STESSO, PRENDE IL SOPRAVVENTO SULL’UOMO E LO RENDE NEMICO DI SE’ E DELLA NATURA- RIEQUILIBRIO NELL’USO DELLE RISORSE E ECOLOGIA INTEGRALE SONO LE RISPOSTE AL DOMINIO DELLA TECNICA E ALL’IDEOLOGIA FONDAMENTALISTA DEL MERCATO

 

Ancora negli anni ’60 del secolo scorso, Aurelio Peccei, alla testa del Club di Roma, si pose la domanda sui limiti dello sviluppo fornendo un rapporto analitico e oggettivo che fece molto discutere. Già allora era evidente che l’idea di fondo che aveva mosso il mondo occidentale dall’avvento delle macchine ad allora, era sbagliata e pericolosa.

Aurelio Peccei

Aurelio Peccei

In un contesto limitato di risorse, i meccanismi di sfruttamento e di consumo non potevano che essere delimitati. L’idea delle “magnifiche sorti e progressive” è un poetico modo di dire, ma non funziona nella realtà. Oramai è chiaro che lo sviluppo dell’Occidente è stato possibile, certamente per un insieme di favorevoli condizioni, ma l’affermarsi incontrastato dell’idea di fondo della continua e illimitata crescita, ideologia e dogma del liberalismo, riassunto nell’iconico PIL, ha avuto il suo presupposto nell’insito meccanismo sperequante che lo ha alimentato: sottraggo di qua per alimentare di là. E quando il sottrarre non è stato più materialmente possibile o conveniente, secondo la logica imperante del mercato, allora entrava ed entra in scena la tecnica, questo deus ex machina che oggi ci domina incontrastato, che promette sempre nuove e mirabolanti scoperte, quasi a volere trasformare il vile metallo in oro lucente, rimarginare ogni ferita inferta alla natura dall’uomo, e da ultimo promettere all’uomo qualcosa vicino alla immortalità, o almeno alla sua ragionevole pretesa.

Modello ideale di Fabbrica

Oggi possiamo affermare, spento il fumo delle operose ciminiere e sottratti al fascino delle officine, tanto decantate dai futuristi, che lo sviluppo indeterminato è non solo un’utopia, ma un male. L’opinione pubblica è oggi meno disattenta di ieri, soprattutto i giovani, che si mobilitano per scuotere le coscienze dei potenti. Già si parla, in ambito cattolico, di inserire fra i peccati quello di “peccato ecologico”.

Nel documento preparatorio del recente sinodo sull’Amazzonia si legge che: “La cultura imperante del consumo e dello scarto trasforma il pianeta in una grande discarica. Il Papa denuncia questo modello di sviluppo come anonimo, asfissiante, senza madre; ossessionato soltanto dal consumo e dagli idoli del denaro e del potere”

L’alternativa non è il pauperismo. La verità è che nessuno di noi uomini evoluti è disposto a rinunciare ad abbondanza e comodità, a tirare, insomma, la cinghia, come di diceva una volta. Col risultato certo di fare avere meno a chi ha già avuto meno. Quello che serve è prendere atto che il futuro dell’uomo sulla terra potrà esserci a due perentorie condizioni: che l’uomo e la sua attività siano armonizzati con il creato e che le opportunità e la distribuzione delle risorse siano riequilibrate. Una nuova civiltà globale che rifiuta quello che sempre di più appare il fondamentalismo dello sviluppo.

Riequilibrio e ecologia integrale, cioè sviluppo sì, ma armonico, questo l’unico scenario compatibile. Ne saremo capaci?

 

 

I limiti dello sviluppo e la decrescita felice

I limiti dello sviluppo e la decrescita felice

Aurelio Peccei

Aurelio Peccei ecologista antelitteram

 Negli anni 70 Aurelio Peccei, un ingegnere dirigente Fiat, diede vita al Club di Roma, con l’obiettivo di studiare la  compatibilità dello sviluppo umano con l’ambiente. Frutto del lavoro suo e degli scienziati raccolti attorno a lui, fu un  libro famoso, I limiti dello sviluppo, nel quale si preconizzavano limiti invalicabili di sfruttamento delle risorse e di        impatto ambientale, con toni pessimistici e previsioni, per fortuna in gran parte non realizzatesi.

Succede spesso che scienziati precursori sbaglino le loro previsioni, ciò nulla toglie alla sfida anche intellettuale contenuta in quel libro, ne’ alla sua attualità. I temi e il linguaggio, l’apparato iconografico, poi trasfusi in libri, film o documentari negli anni successivi, gli stessi dei movimenti ambientalisti degli anni 80 e 90, prendono spunto da lì.

E’ di questi giorni la notizia che, già nel mese di agosto, l’umanità avrebbe consumato energie e risorse pari a quelle prodotte dalla terra per tutto l’anno in corso. Per soddisfare l’attuale trend di crescita, sottolineavano i giornali, servirebbe una terra e mezzo, almeno…..

Ho perciò’ letto con attenzione le tesi dei c.d. paladini della “descrescita”, in particolare l’articolo di Maurizio Pallante, fondatore del movimento per la decrescita felice. Spiace constatare che, in particolare dagli economisti ortodossi, persone come Pallante siano emarginate e le loro tesi più che confutate irrise, con superficialità e spocchia accademica. Il de davanti alla parola crescita è sentito come la profanazione di un tabù, mentre è sotto gli occhi di tutti il problema dello squilibrio ecologico a livello planetario.

Pallante non è un pauperista, ed è perfettamente in grado di distinguere fra bisogni essenziali e superflui. La sua non è la critica romantica alla società industriale e nemmeno una utopia bucolica. Come dargli torto quando ci ricorda, a mo di esempi,  che le famiglie americane buttano il 40% del cibo che acquistano, mentre in Italia il cibo che si butta ha un valore pari al 2% del PIL. Nelle case italiane si consuma energia tre volte di più che in quelle tedesche, un evidente spreco dovuto alla cattiva coibentazione e a eccessi calorici. In ambedue i casi non si assolvono bisogni essenziali, ma superflui. E’ possibile tagliarli, consumare meno a parità di benessere? La risposa, secondo Pallante, è sì, la decrescita è possibile riducendo la produzione e il consumo di merci che non sono beni e aumentando la produzione e l’uso di beni che non sono merci, come quelli relazionali. Usare tutta la migliore tecnologia finalizzata alla riduzione del consumo di risorse e recuperare le materie prime contenute nei beni dismessi.

Un abbecedario del buon vivere in armonia con la natura, che non ha niente a che fare col pauperismo, molto con la qualità della vita e il rispetto dell’ecosistema dal quale dipendiamo.

Riflettendo su questi temi e sulle forti resistenze di molti a cambiare modo di ragionarvi, emerge con tutta evidenza come il mondo occidentale persegue un modello (che purtroppo anche le Tigri asiatiche e l’America latina stanno facendo loro) in cui la pigrizia individuale e la resistenza culturale al cambiamento di paradigmi improntati alle “sorti magnifiche e progressive” sono ancora molto diffusi e tenaci.

Una battaglia antica che finora è risultata perdente contro il progresso inteso come crescita economica lineare e irreversibile, nella quale si confonde qualità di vita col reddito procapite.

Ma, come tutte le cause giuste, magari inavvertitamente, questa finirà per avere la meglio, speriamo prima del medio evo prossimo venturo da molti preconizzato.

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