ROMA: DELLE GROTTESCHE AMENITA’

ROMA: DELLE GROTTESCHE AMENITA’

ROMA CAPITALE E ILLEGALITA’: FRA DEFORMAZIONE SISTEMATICA DEI FATTI E IDEOLOGIZZAZIONE DELLA VITA PUBBLICA LA VERITA’ AFFONDA SOTTO IL CHIACCHERICCIO DEI SOLITI BEN PENSANTI E I FURBI CHE SPECULANO SU POVERTA’ E DISAGIO 

 

I manganelli? No, per carità. Fa brutto e ricorda Genova. Le cariche? Sì, ma con moderazione, senza esagerare che qualcuno potrebbe farsi male. Gli idranti? Che schifo, roba da aguzzini cileni. A sentire alcuni esponenti del buonismo e terzomondismo nostrano non si capisce come la polizia possa agire per sgomberare palazzi o piazze occupati illegalmente. E ripeto: il-le-gal-men-te.

Come si libera una piazza in una zona centrale e vitale della Capitale dove bivaccano cento persone? Invitandole a giocare a tressette? Portandoli fuori col flauto magico? O magari facendo intervenire Francesco Totti?

Ce lo dovrebbe spiegare per esempio il presidente del partito che è anche l’ azionista di maggioranza del governo, cioè Matteo Orfini del Pd, il quale guardando le immagini di piazza Indipendenza da qualche spiaggia vacanziera ha detto che «non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti».

scontri piazza indipendenza

Roma, piazza Indipendenza dopo lo sgombero

Ma cosa c’ entra la povertà? Cosa c’ azzecca la disperazione? Niente, un fico secco. Eppure basta uno spruzzo d’ acqua e qualche ferito a un Gad Lerner per attaccare gli agenti, che dovrebbero «mettere a posto la coscienza» ed è «troppo comodo» farlo «con la carezza di un poliziotto» (il riferimento è a quel celerino che mette la mano sulla guancia di una donna in lacrime per consolarla, ma a Gad non va bene manco questo).

Che dire ancora di Monica Cirinnà, la madrina delle coppie gay, la quale prova «vergogna» perché «in 22 anni a Roma non ho sgomberato neanche un canile senza soluzione alternativa». E già, altro che Minniti e prefetti vari, bisognava affidarsi a lei che ha trovato tante belle soluzioni per i cani senza dimora, ovviamente senza causare traumi e senza farli scappare.

MIGRANTI PIAZZA INDIPENDENZAPoi, ovviamente, ci sono le ong come Medici senza Frontiere, ormai un vero e proprio Stato dentro lo Stato, o agenzie dell’ Onu come l’ Unicef, che invece di limitarsi a fare quello che devono fare, cioè assistenza, si schierano politicamente e parlano di «violenza indiscriminata» e «sgomberi senza alternative» (e nessuna parola è arrivata proprio dall’ Unicef sull’ utilizzazione come scudi umani di bambini esposti alle finestre dei palazzi occupati e con bombole del gas in mano).

Sarebbe curioso capire da costoro, e da quelli che sul web trasudano rabbia e dipingono i nostri poliziotti come belve feroci e fasciste, come si affronta un lancio di bottiglie, come si fa a dialogare con persone che armeggiano con bomboloni pronti a esplodere e lanciano sassi perché vogliono restare dove non hanno diritto di stare.

piazza indipendenza 1

Gli occupanti di piazza Indipendenza 1

Ma lo sanno tutti questi perbenisti che quel palazzo occupato dal 2013 era un concentrato spaventoso di illegalità come pochi altri? Che ogni tentativo di controllo era respinto dagli occupanti? Che poco tempo fa tra le centinaia di profughi e richiedenti asilo erano stati arrestati pure degli scafisti? Lo sanno, o fanno finta di non saperlo, che occupazione e proteste vengono sobillate da centri sociali e sedicenti (e italianissimi) movimenti per la casa?

E che migliaia di persone hanno perso soldi e lavoro per colpa di quel palazzo catturato dai migranti?

scontri a piazza indipendenza 5Dovrebbero leggersi, questi soloni, il perfetto racconto che ha fatto un blogger esperto di cose romane (il suo sito si chiama, significativamente, romafaschifo.com): «Chi parla di violazione dei diritti umani puntando il dito contro le forze dell’ ordine, dovrebbe prima ancora che vergognarsi rendersi conto che sta facendo il gioco di chi a Roma, in maniera subdola e criminale, da anni strumentalizza il disagio, la povertà, la difficoltà».

E poi: «Le mosse degli agenti sono state pressoché impeccabili. Lo sgombero, finalmente. Come chiesto da tempo dal Tribunale. La reazione misurata al successivo e per certi versi inaspettato asserragliamento degli occupanti in piazza. L’ attesa di giorni e giorni. Il controllo della situazione in una zona difficilissima. Più si offrivano alternative ai migranti, più queste alternative venivano rifiutate.

GAD LERNER

Il giornalista Gad Lerner

Cosa doveva fare la Prefettura? Far finta che non ci fosse una intera piazza trasformata in accampamento? Con decine di infiltrati dei movimenti? Con decine di persone che non avevano nessun titolo di avere assistenza alloggiativa e che dunque erano lì solo a piantar grane? Con fuochi e bombole pronte caricate come marmitte sui terrazzi? Con gli addetti dell’ Ama che il giorno prima erano passati solo per pulire e sono stati presi a sassate?».

Questa è la realtà, caro Orfini e compagnia cantante, altro che violazioni dei diritti umani e altre cazzate del genere. Invece no. Ci sono frotte di giornalisti e politici scandalizzati perché la polizia è intervenuta alle sei di mattina (e quando dovevano cominciare, dopo il cappuccino?) e altre anime belle colpite al cuore dalle parole pronunciate da un funzionario durante un inseguimento nel piazzale della Stazione (se tirano qualcosa spaccategli il braccio), cose normali in tutte le polizie del mondo e comunque alla fine non ci sono stati spaccamenti di niente.

Nessuno di questi, invece, ha qualcosa da dire sul fatto che molti profughi hanno rifiutato altre case in periferia o vicino Roma al grido di «ormai ci siamo integrati qui, i nostri bambini vanno a scuola e non andiamo via da questo quartiere». È stata intervistata da Sky una signora che non ha accettato di andarsene perché i letti offerti «erano troppo stretti». Proprio così: letti troppo stretti.

Altri, mentre migliaia di romani (e di italiani) ogni giorno fanno chilometri per raggiungere il posto di lavoro e tornare a casa, hanno detto no ad alcune villette in provincia di Rieti. Per questa follia, nessuno si è scandalizzato.

ORFINI GIACHETTI

Matteo Orfini e Roberto Giachetti, esponenti del PD,romani.

Ecco, di fronte a tale scenario è giunta a un certo punto la notizia che anche un cuoco, tal Chef Rubio, si è indignato non poco per le immagini dei getti d’ acqua sugli occup.anti. Ha detto, l’ esperto di ordine pubblico, che si vergogna di essere italiano. Poi si è rimesso a spadellare e l’ Italia, il Paese, non era facile, ha superato pure questa durissima prova.

 

GIOSETTA E LA POP-ART ROMANA

GIOSETTA E LA POP-ART ROMANA

MOMENTO MAGICO PER LA POP-ART ROMANA DEGLI ANNI ’60- VALE LA PENA DI RILEGGERE L’INTERVISTA A GIOSETTA FIORONI, UNA DELLA PROTAGONISTE DI QUEGLI ANNI. L’ANTIPATIA PER ELSA MORANTE, LO STRAZIO PER PASOLINI, L’AMICIZIA CON SANDRO PENNA. UNA SUPERBA TESTIMONE E UNA VALENTE PITTRICE CHE IL TEMPO SEMBRA SOLO SFIORARE. IN UN VIDEO IL RACCONTO SULLA SUA ARTE.

 

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Giosetta Fioroni per l’obiettivo di Marco Delogu

 

Articolo di Gianluigi Colin per “La Lettura – Il Corriere della Sera”11.11.2013

Goffredo Parise le ripeteva affettuosamente in dialetto veneto: «Giosetta se la fa e se la dise ». Ma Giosetta Fioroni, grande ragazza dell’arte italiana, quando parla della sua avventura fatta di colori, amori, tradimenti, dolori e passioni, non sembra affatto alimentare un’icona di se stessa, anzi. Sembra soffermarsi piuttosto sui dubbi, sulle complessità delle prove della vita: «Non è stato facile. Essere artista e donna. Avevo 25 anni. Avevo portato delle opere alla galleria di Carlo Cardazzo, allora una tra le più importanti in Italia.

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Galleria La Tartaruga Roma, anni ’60. Mostra di Mimmo Rotella (primo a sn.). Si riconoscono Tano Festa, Plinio de Martiis, Mario Schifano

Stavamo aspettando un collezionista e, quando arrivò, Carlo mostrò le mie opere appoggiate a terra. Io ero lì, intimidita, nascosta nella penombra. Ascoltavo la conversazione in silenzio. Il collezionista guardava incuriosito, sembrava davvero interessato, apprezzava il lavoro.

Poi, poi si soffermò sulla firma scandendo a tratti il mio nome: Gio , Gio , setta … chi è questa Giosetta? Un’artista bravissima, promettente, rispose il gallerista. Ma il collezionista lo bloccò subito: no, no, una donna no, poi si sposa, fa i figli, non dipinge più… No, non dà sicurezza… Questo è stato il mio primo contatto con il mondo dell’arte visto dagli uomini».

Giosetta Fioroni ricorda quel momento con distacco, quasi divertita, ma permane in lei un senso di amarezza: nonostante i suoi successi («Sono una donna fortunata, ho avuto molto dalla vita») sa che quell’esperienza racconta una verità difficile da rimuovere.

Elegante, una collana colorata, l’artista si muove nel suo silenzioso studio a pochi passi da Regina Coeli con la stessa leggerezza di quella bellissima ragazza che ha affascinato poeti, artisti, scrittori non solo per i suoi occhi luminosi e malinconici, ma anche per la sua determinazione nel seguire quella che considerava una vera vocazione: «Al liceo c’era una ragazza che improvvisamente dichiarò la sua conversione a Gesù. Anch’io ebbi, improvvisa e assoluta, una rivelazione simile. Da quel momento non ho concepito nient’altro che l’arte come unica possibilità di sopravvivenza».

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Biennale Venezia 1964. Insieme alla Fioroni, G.T. Liverani, Tano Festa. Mario Schifani

Tensione per la sopravvivenza che assume la sostanza delle tele, dei colori argentei sulle carte, che diventa quasi carne nelle sculture presentate in questi giorni alla Galleria d’arte moderna e contemporanea di Roma con due inedite mostre («L’Argento» a cura di Claire Gilman e «Faïence» a cura di Angelandreina Rorro) che racchiudono stagioni importanti, quella che va dal 1960 al 1975 e quella del presente, dal 1993 a oggi.

Tensione confermata anche da un bel volume edito da Corraini che già nel titolo dichiara il senso del contenuto: My story . E della «sua storia» Giosetta Fioroni parla con dolcezza, quasi sottovoce, ma nel tono c’è insieme passione e fermezza, leggerezza mista a un dolore che ogni tanto riaffiora e appare insostenibile.

Lei che è stata compagna di una vita di Goffredo Parise («È morto a 56 anni con le sue mani tra le mie») sembra aver mutuato dall’autore de Il prete bello un modo rigoroso, ironico, profondo e disincantato di vedere il mondo: sceglie con cura le parole quasi a costruire un proprio sillabario esistenziale, ricordando la stagione che l’ha vista allieva di Toti Scialoja e compagna di viaggio di Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli.

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Giosetta Fioroni: La maison du peintre

Erano i ragazzi della Scuola di piazza del Popolo animati da una forza vitale potentissima, ma anche da una pulsione autodistruttiva che la giovane Giosetta non ha mai condiviso: «Trovavo la vita già complessa, non ho mai usato droghe, qualche spinello magari, ma su di me aveva solo un effetto calmante». E aggiunge: «Mario usava cocaina. E quando gli venne un infarto gli dissi quasi implorandolo: smetti, ti verrà un coccolone. Non è servito a niente». Non a caso, la sua arte appare più poetica dei suoi compagni di viaggio: un racconto in cui le tensioni del mondo femminile trovano forma in un dialogo tra pubblico e privato, tra visione intima e dimensione collettiva.

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Giosetta Fioroni: Liberty viennese, smalti colorati su tela

Nella sua pittura c’è sempre un richiamo alla speranza, all’idea di bellezza come promessa di salvezza. E anche il suo studio riporta a quest’idea utopica: appare come uno spazio sospeso nel tempo, qua e là opere recenti e pezzi storici. Intorno, tra pennelli e colori, un insieme di manifesti, ritagli di giornali, foto di Parise, schizzi, fotografie di amici: su tutto, isolato, un ritratto di Mario Dondero («Mario ha il dono della grazia, che uomo speciale»). Certo, di incontri Giosetta ne ha fatti tanti: in una foto con un giovane Cy Twombly, lei, capelli cortissimi, gli è accanto, seduta su una poltroncina, quasi stupita di essere al centro di un’avventura artistica che aveva in Roma un centro di gravità internazionale.

In quella Roma, benché di passaggio, c’erano personaggi come Duchamp: «Per un anno fu ospite di Gianfranco Baruchello e passava i pomeriggi alla galleria La Tartaruga . Ero stupita di una cosa: quando qualcuno si avvicinava a lui, cercando di presentargli un progetto o semplicemente per parlargli d’arte, sul suo volto si manifestava subito una smorfia. Non riusciva a nasconderla, non parlava più ed emetteva una specie di grugnito. Si illuminava soltanto se giocava a scacchi». E allora Giosetta Fioroni mima divertita la faccia di Duchamp: piega le labbra, arriccia il naso come se un cattivo odore aleggiasse intorno. Poi ride.

Quadro Fioroni

Opera di Giosetta Fioroni

In quella Roma approdavano gli americani: «Eravamo a Fregene e c’era Rothko con moglie e figlia. Tre obesi. Grassissimi e timidissimi». Se c’è una cosa che colpisce di Giosetta Fioroni è come ogni percorso della memoria sia ricondotto all’interno di una esperienza estetica. Forse anche per questo è rimasta nella capitale: «Il cambiamento di colore delle foglie d’autunno lungo il Tevere è indimenticabile». Quattro anni a Parigi, dal 1959 al 1963, non le hanno fatto cambiare idea. E neanche gli Stati Uniti: «No, l’America è a basso regime estetico».

La sua era una Roma animata da poche amiche («con Elsa Morante avevamo un’istintiva e reciproca antipatia»), tantomeno cercava la complicità delle artiste («francamente non ce n’erano e poi, forse, ho sempre preferito l’amicizia degli uomini») e aveva soprattutto un’ammirazione per scrittori e poeti. Tra questi, l’amato Paul Celan, Andrea Zanzotto, Sandro Penna: nel ricordare quest’ultimo, cita sottovoce due suoi versi quasi fossero il simulacro di un universo intimo, nascosto:«Io vivere vorrei addormentato/ entro il dolce rumore della vita».

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Giosetta Fioroni in una foto di Marco Delogu

Di lui ricorda con affetto il pessimo profumo, i suoi vestiti eccentrici e gli scherzi un po’ goliardici che gli faceva Parise: «Goffredo lo inseguiva quando andava con la sua biciclettina a cercare uomini lungo il Tevere. Gli diceva: “Allora, hai combinato stasera?” E lui si rivolgeva a me dicendomi: “Senti Giosetta, portamelo via, portamelo via…” Era molto spiritoso».

Pier Paolo Pasolini. «L’ho incontrato poche volte, era amico soprattutto di Goffredo: lo apprezzavo come poeta, ma c’era qualcosa in lui che mi teneva lontana. Ci davamo del lei. Era il 1975 e uscimmo a cena noi tre. La mattina dopo Goffredo e io saremmo partiti per New York. Ricordo ancora com’era vestito, quei jeans aderenti che segnavano il suo corpo magro, il rumore sinistro degli stivaletti di coccodrillo.

Si tingeva i capelli e ormai, a furia di tingerli, erano completamente divorati, come stoppa dipinta: “Adesso vado a battere”, ci disse e, di fronte alle nostre domande sulle aggressioni che aveva subito, si tolse il giubbino e sotto la maglietta ci fece vedere una lunga cicatrice provocata da un colpo di cacciavite. “Non vada Pier Paolo, non vada”, dissi forse con una dose di ingenuità. Quando Pier Paolo uscì di casa, Goffredo era esterrefatto e mi disse: “Lo ammazzeranno”. Dopo due mesi fu assassinato».

Giosetta Fioroni riavvolge i fili di quella disperata memoria: «È morto di omosessualità, era la sua religione, la sua vocazione. Ha scritto delle bellissime poesie, gli ho dedicato una scultura con un verso dedicato alla madre: “È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia” . È stato una figura straziante, cristologica».

Il tempo sembra aver accarezzato Giosetta senza toccarla. Sicuramente non ha sfiorato lo spirito che ha animato il lavoro di una vita. Con la volontà di spiegare il senso della sua ricerca prende le distanze dalla Pop Art rivendicando una forte matrice nella cultura europea: «La mia arte è ancorata alla storia dell’arte, alla tradizione. Nei miei quadri c’è la manualità della pittura, il legame a uno spazio metafisico. È una pittura volutamente a-ideologica.Fioroni davanti sua opera

Soprattutto, inseguo un racconto, una narratività. Eravamo coetanei del Pop, ma profondamente lontani da quella cultura». Giosetta Fioroni si ferma, poi aggiunge con un sussurro: «Sono più vicina a Morandi che a Andy Warhol». Ma sorridendo e ricordando il suo amore che la prendeva in giro: «Goffredo mi diceva sempre: Giosetta è perfetta: se la fa e se la dise ».

 

 

 

 

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