LA PARANZA

LA PARANZA

 

 

Ora che il suo La paranza dei bambini è uscito, rapido come vi era entrato, dalla TOP 10 dei libri più venduti (è un modo di dire in Italia, dove il Salone del Libro di Torino rigurgita di scolaresche svogliate, mentre le librerie languono deserte), possiamo parlarne con obiettività, e senza il timore di lesa maestà.

 

 

Passato un mese dalla lettura delle copiose 347 pagine del libro la prima domanda è: ma cosa mi è rimasto, se non scolpito, almeno appiccicato nella mente? Nulla, o poco, di una storia già chiusa dall’inizio, che procede come da copione, senza slanci o sorprese, alla fine anche un poco noiosa. Nel risvolto di copertina il solito santino: “Roberto Saviano entra implacabile nella realtà che ha sempre indagato e ci immerge nell’autenticità di storie immaginate con uno straordinario romanzo di innocenza e sopraffazione. Crudo, violento, senza scampo.”

Implacabile lo è il Saviano, anzi martellante, cupo, impositivo e metodico, senza concedere svaghi a nessuno, nemmeno quello della lettura. Non scherziamo: qui la cosa è seria!

La storia, ci dice l’editore nel risvolto, è immaginaria/autentica, un ossimoro per dire che non è copiata. A scanso di equivoci, dopo Gomorra, che ha visto la condanna per plagio dello scrittore, il quale sosteneva di “essersi ispirato a fatti di cronaca”, letti sulla stampa locale.

A proposito del titolo, a me la paranza ricordava le fritture di quel pesce minuto, consumato al cartoccio, magari fuori orario e con compagnie sbandate di studenti. Nel libro il rito viene pure evocato, ma con queste parole: “Ma nel piatto il tempo per poter mangiare è brevissimo: se si fredda, il fritto si stacca dal pesce. Il pasto diventa cadavere. Veloce si nasce in mare, veloce si è pescati, veloce si finisce nel rovente della pentola, veloce si sta fra i denti, veloce è il piacere”. Questo è l’universo di Saviano: popolato di cadaveri, altro che di piacevolezze al cartoccio.

Dell’odore di rifrittura è così impregnato il libro che tutti gli altri odori o colori o luci associati al mare e alla bellezza partenopea sono assenti, perché Napoli viene nominata di sfuggita e, a parte la toponomastica dei luoghi, potremmo essere in una qualsiasi altra città di mare, violenta e chiassosa quanto basta.

Solo il dialetto ci riporta ai vicoli napoletani, ma in maniera innaturale: sulle orme di Camilleri, ma con meno maestria, Saviano spiega che non voleva il dialetto “classico”, ma “un’oralità viva ricostruita dentro l’esercizio della scrittura. “ Per questo egli è “intervenuto come autore a modellare, a filtrare la realtà sonora dell’ascolto dentro la resa del dettato, complice dei personaggi che si agitavano con il loro dialetto “imbastardito” nella mia immaginazione”. Già, ma una cosa è parlare, l’altra è scrivere, e a forza di ripuliture, affinare e sonorizzare n’è venuta fuori una lingua da laboratorio, asettica, anodina, anche quando vorrebbe farsi colorita, pregnante di esclamazioni e risentimenti.

Il procedimento narrativo di Saviano è elementare, con evidenti debiti, per la psicologia dei personaggi, verso la sceneggiata napoletana. Per dominare il racconto, Saviano è costretto a semplificare con l’accetta situazioni e personaggi. Scarta tutto ciò che ritiene contorno, mentre molto spesso è quello che dà sapore e respiro ai racconti. Le sfaccettature, gli imprevisti, le svolte vengono appiattiti, sicchè i personaggi si muovono enfatici, conformati alla parte assegnata, non esprimono mai sentimenti veri, ma quelli previsti, canonici. Nascono letterariamente morti, prima ancora di venire alla luce.

 Gli 11 della paranza (e non 10 come si dice nel risvolto) sono marionette sbiadite e prevedibili, elementari nelle reazioni, emulano gli adulti, vecchi capi camorristi in disgrazia o agli arresti domiciliari, in un percorso di iniziazione alla violenza, travisata come unica strada per ostentare potere e ricchezza.  

La paranza di bambini che bambini non sono e forse non lo sono mai stati, più che freddi o spietati camorristi in erba, appaiono incapaci di reazioni, insensibili, conformisti pur nella violenza, precocemente uniformati ad una logica gregaria, sì che la violenza, anche quando si manifesta, come nel finale di morte per mano del più piccolo del gruppo, essa appare statica, detta più che vissuta, costruita e cerebrale.

Alcuni passaggi forse sarebbero andati bene in un saggio sociologico o di criminologia, in un romanzo stonano, a alla lunga annoiano.

Le figure di contorno, come Mena, la madre di Christian, o Cristina la ragazza di Nicolas sono parecchio stereotipate, abbozzate alla meglio e messe lì in funzione della storia, ma prive di spessore. Anch’esse rimandano alla sceneggiata napoletana: il rapporto viscerale madre-figlio, il tradimento e la vendetta, il codice d’onore. Cristina si atteggia e ragiona come una Pupatella, da santino proto-femminista in attesa di emancipazione, anche quando chiede i biglietti per un concerto rock. Siamo, insomma, nel pieno del verismo patetico e poco manda che spuntino fuori ‘o Malamente, Isso e ‘o Nennillo. 

Il romanzo inizia con la defecazione che Nicolas, il capetto, fa sul viso di un rivale per gelosia (e ti pareva! anche se questa volta via facebook). Finisce con tre spari di una Beretta per mano di o’ Nennillo (nel libro Dentino), la richiesta di vendetta che la madre del figlio ammazzato fa alla Paranza, uno scroscio improvviso di acqua sul funerale e una frase in chiusura: “La morte e l’acqua sono sempre una promessa”. Passi per l’acqua, ma la morte cosa potrà mai promettere? Altre morti? Oppure, si dirà: la vita futura. Nata dalla violenza?

La filosofia di vita che emerge da questo spaccato simil-criminale è posta in epigrafe in apertura della terza parte: esistono fottuti e fottitori. Chi comanda e chi è comandato. A sostegno di questo schema Saviano chiede l’aiuto addirittura di Aristotele, ma è come proporre cavoli per merenda. Il filosofo greco lo diceva nella Politica, ma a proposito del rapporto fra padroni e schiavi. Se, secondo quanto scrive Saviano, il mondo è inevitabilmente diviso fra chi comanda e chi no, perché non reintrodurre come succedanea la schiavitù?

Il re delle sceneggiate napoletane Mario Merola

In conclusione: l’universo di Saviano è a una dimensione, non c’è luce di speranza, né d’amore, nemmeno dei genitori verso i figli, i sentimenti sono sempre ambigui, nei modi di manifestarli, così nel modo in cui vengono accolti e interpretati. Lo scenario a tutto ciò è una società che fa da sfondo inerte, come la quinta di un teatro, in cui il più pulito ha la rogna e da cui nulla può venire per riscattarsi da violenza e sopraffazione.

Mi scandalizza questa visione, questa perdita di innocenza? No! Ed è giusto che uno scrittore esponga liberamente le sue tesi, anche le più scabrose. Il fatto è che Saviano, mentre si atteggia pubblicamente a fustigatore dei costumi e della malavita in particolare, quando poi ne scrive espone tesi che, per quanto rozze, oggettivamente non lasciano via d’uscita: o fotti o sei fottuto. Tradotto: questi sono così perché non possono essere diversi e, naturalmente, non vogliono essere fottuti. Come dare loro torto? Scrive Saviano: “Il fottitore può anche non avere il potere del fottuto, magari quest’ultimo ha ereditato fabbriche azioni ma resterà un fottuto se non saprà andare oltre lo scarto che la fortuna e leggi a lui favorevoli gli hanno dato. Il fottitore sa andare anche oltre la sventura e le leggi può saperle usare o comprare o persino ignorare” Non resta che essere ammirati e stare dalla parte della camorra. E’ ciò che alla fine, per un atroce paradosso mistificante, finisce per fare Saviano.

Questa è forse la vera perdita di innocenza: descrivere e dare per scontata una società le cui caratteristiche soffocano alla nascita qualsiasi altra chiave di lettura e possibilità diversa, singola o collettiva. Ma la società non è la paranza, per fortuna, e una visione meno ossessiva e compulsiva avrebbe forse giovato alla leggibilità del libro, rendendolo più credibile.

In ogni caso una cosa abbiamo appurato: Saviano è uno scrittore, perché indubitabilmente scrive. Un romanziere no.

Roberto Saviano, La paranza dei bambini, Feltrinelli editore Milano, euro 18,50 (www.feltrinellieditore.it )

 

 

 

ASSEMBLARE PAROLE

ASSEMBLARE PAROLE

Lo scrittore Alessandro Baricco

Lo scrittore Alessandro Baricco

I veri scrittori sanno riconsegnarci le parole non come “riconoscimento”, ma come “visione”.

Questa frase è stata scritta da Aldo Grasso, giornalista e critico televisivo,  in un articolo di feroce commento dell‘ultima performance televisiva di Roberto Saviano. Commento che condivido, ma non voglio qui parlare di eloqui o sproloqui, ma del mestiere di scrivere e di che cosa fa uno scrittore vero da un assemblatore di parole.

Prescindo dal fatto che uno “abbia qualcosa da dire”, perché lo do come il naturale presupposto del “ben detto”, anche se esempi contrari sono ormai una folla, davanti ai quali rimango incredulo e mi domando: ma cosa mai può spingere uno a scrivere (che costa fatica!) se non ha nulla da dire? Risposta impossibile che si inabissa nei meandri della psiche, a meno che non ti chiami Luciana Littizzetto, Alex Del Piero,  o come altra scosciata  velina o sportivo di turno, perché in questo caso il gretto movente venale è addirittura sfacciato.

Il tragitto dai campi sportivi, dai  talk show televisivi, dagli scranni del Parlamento, dalle scene del delitto, dalle ruberie e dagli scandali sessuali al libro, è oramai una linea retta e una predestinazione editoriale.

Non è un caso, ma la tristissima realtà, che il libro più venduto nel caravanserraglio del Salone del Libro di Torino, venghino signori, venghino, è stato di Del Piero, centravanti della Juve; ciò ha suscitato le ire del togato figlio del giovane Holden,  Alessandro, che ha borbottato: è come se io mi mettessi la maglia del numero 10 e fossi osannato calciatore. Bravo, bene, bis! Caro Baricco, chi di spada ferisce di spada perisce!

Ma si diceva riconsegnare le parole, che non possono che essere quelle inevitabilmente consunte dall’uso, secondo un lessico corrente, ne bastano un migliaio per scrivere un romanzo, un po’ come le 7 note per scrivere una sinfonia.

Certo, posso essere come Gadda o Manganelli e resuscitare dalle catacombe le parole più desuete, ma non per questo meno polverose, anzi.

Allora la funzione di “riconsegnare”  un grumo di parole ben disposte sulla pagina, parole familiari, e perciò stesso riconoscibili, ma che nello steso tempo siano come trasfigurate, non è facile.

A da dove passa questa trasfigurazione vista come anticamera della “visione”? Il parallelo con la musica mi aiuta. Come nella tonalità armonica e nel succedersi melodico, ciò che conta è la sequenza di apparizione, il reciproco legame e la piena rispondenza fra significante e significato; più semplicemente fra parola e insieme deve formarsi una eco espressiva in grado di illuminare le parole sottraendole alla genericità e all’oblio. Quando questa riesce allora le parole mutano di senso, hanno una loro vita autonoma e il racconto si allontana dall’atto dello scrivere per diventare atto creativo e fondativo, pronto a ricevere la “visione” vivificante di chi legge, che lo fa con la trepidazione della scoperta, come se fosse per la prima volta.

In una parola è l’ispirazione e un poco di mestiere che fanno la differenza e poi la fortuna di non essere troppo in anticipo sui tempi.

 

 

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