SCIASCIA

SCIASCIA

NON IL SOLITO ARTICOLO COMMEMORATIVO: SERGIO SOAVE NON ESITA A DEFINIRE ANARCHICO LO SCRITTORE SICILIANO, FINO AD ACCREDITARNE UNA SORTA DI EQUIDISTANZA FRA STATO E BR, IN REALTA’ SMENTITA DA SCIASCIA GIA’ NEL LONTANO 1979- RESTA ANCORA VALIDA, PURTROPPO, LA CRITICA RADICALE DEL GRANDE SCRITTORE CIVILE ALLA DECADENZA DELLA POLITICA E DELLO STATO.

Per ricordare il centenario della nascita di Leonardo Sciascia molti commentatori si sono concentrati sul rapporto tra la passione civile dello scrittore e la sua produzione letteraria. E’ stata messa in luce la sua tendenza permanente e talora ostinata ad andare contro corrente, anche affrontando temi spinosi e controversi, come quello dei “professionisti dell’antimafia” che lo espose, non infondatamente, a critiche risolute.

Letta ora a distanza di anni quella polemica assume contorni più definiti, acquista un valore di ammonimento nei confronti di fenomeni, che poi sono stati identificati, di ampliamenti strumentali della denuncia del fenomeno mafioso fino a farne perdere le caratteristiche specifiche. Non era, come fu detto allora, un’accusa nei confronti della magistratura che si batteva con successo contro la mafia, pagando poi prezzi pesantissimi, subendo attentati mortali.

Leonardo Sciascia con Paolo Borsellino

C’è un altro tema, altrettanto e forse persino più rilevante, della biografia politica e civile di Sciascia che è stato trascurato quasi da tutti in questa occasione celebrativa. Si tratta della polemica sul dovere civico di partecipare come giudici popolari ai processi contro i terroristi, pur rischiando ritorsioni da parte dei brigatisti. Vale la pena di ricostruire quel dibattito e rileggerlo ora senza più la tensione del momento. Era in corso il processo a Renato Curcio e gli altri capi delle Br. Dopo la revoca dei difensori da parte degli imputati, il presidente dell’Ordine di Torino, Fulvio Croce, assunse la difesa secondo il dettato del codice di procedura penale, ma il 28 aprile del 1977 fu ucciso dai brigatisti.

Sciascia si dilettava a fare fotografie del suo paese e della sua gente. Questa foto risale agli anni 50 del ‘900

Si pose allora il problema di costituire la giuria popolare e molti dei convocati presentarono certificati medici per esimersi da quel compito diventato pericolosissimo. Alle accuse di “viltà” lanciate contro queste persone rispose per primo Eugenio Montale che in un’intervista al Corriere disse che “non si può chiedere a nessuno di essere un eroe”. A Montale replicarono Alessandro Galante Garrone e Italo Calvino che, tra l’altro, scrisse: “Lo stato siamo noi”. Fu a questo punto che intervenne Sciascia, andando oltre la comprensione per la paura dei comuni cittadini espressa da Montale. Disse, Sciascia, che “per questo stato non farei il giudice popolare” e, aggiunse, “non capisco che cosa polizia e magistratura difendano”. Queste posizioni furono poi sintetizzate nello slogan “né con lo stato né con le Br”, che fu attribuito a Sciascia, che probabilmente non aveva mai pronunciato, ma che non smentì mai.

«Non ho mai formulato questo slogan. Pago le tasse allo Stato italiano, non le pago né le voglio pagare alle Br. Questo slogan è nato dalla deformazione della mia valutazione negativa della classe politica italiana, valutazione che continua a essere tale. Ma ciò significa che questa classe dirigente cambi, non che si avveri il sogno delle Brigate rosse».

Intervista di Leonardo Sciascia a L’Espresso – 1979

La replica piccata di Sciascia alle critiche di Giorgio Amendola, la sua lettura della vicenda Moro come fase finale della dissoluzione di uno stato indifendibile, sono la conseguenza di queste posizioni. Oggi si sottolinea la critica allo stato e alle sue inefficienze sviluppata con tenacia da Sciascia, ma resta da inquadrare il rifiuto di sostenere la lotta contro il terrorismo. Anche questo invece è un elemento rilevante della visione politica di Sciascia, che non volle mai riconoscere l’autonomia dell’aggressione terroristica. Invece, la lesse sempre come un elemento della dissoluzione di “questo” stato, che considerava destinato a scomparire anche se non seppe, o volle, mai indicare da che cosa avrebbe dovuto essere sostituito. Un pensiero radicale e anarchico che va letto nel suo contesto e che testimonia la disillusione di una parte rilevante del ceto intellettuale di allora. O anche di ora? Questa domanda, se ha senso, rende attuale quel pensiero disperato e disperante.

BASTONE E CAROTA

BASTONE E CAROTA

LA FALSA SICILIA DI CAMILLERI CHE NON SI SOPPORTA PIU’- NELLA RUBRICA Il bastone e la carota DAVIDE BRULLO STRONCA O ELOGIA IL LIBRO DELLA SETTIMANA-

Ora  è la volta di Gli esercizi di memoria di Andrea Camilleri e delle Opere di Leonardo Sciascia.

Davide Brullo, critico e poeta, dalla scrittura estrosa e immaginifica

Il bastoneL’effetto è proprio quello. Una palla di vetro. Dentro, in miniatura, c’è la città di Vigata. Se giri la palla cade una spruzzata di neve e si sente, radiodiffuso da un microfono, un tizio – Andrea Camilleri? Luca Zingaretti? I due, ormai, sono consustanziali – che dice Montalbano sono! Un souvenir. Ecco. I libri di Camilleri sono un souvenir. Sono l’idea piuttosto esotica e alquanto inautentica che, chessò, un americano di Dallas ha dell’Italia. Un borgo siciliano ricostruito a Cinecittà, in polistirolo, con qualche comparsa che getta là frasi in scombiccherato dialetto. I libri di Camilleri sono così. Palle di vetro. Due palle così. Esercizi di memoria, però, che dovrebbe essere l’agiografia di Andrea Camilleri con tanto di angelologia di Montalbano – i fan gradiranno sapere che “l’ispiratore del mio commissario Montalbano” è “un cugino di mio padre che io chiamavo zio Carmelo”, cioè Carmelo Camilleri, commissario della Pubblica Sicurezza, “fervente fascista”, che “usava metodi brutali e violenti” e che fu, per un fattaccio, ‘liquidato’ dal Mascelluto in persona, il Dux, Mussolini – ha qualcosa in più. Nella palla di vetro non c’è soltanto Vigata in miniatura. C’è pure lui, Camilleri, piccino piccino, seduto sulla poltrona del trombone, che sproloquia sulla sua vita, vecchio bisnonno bulimico di tempo perduto a cui occorre cucire la bocca. Dettato in italiano – evviva, non s’è letto dialetto più fittizio di quello ruminato da Montalbano – Esercizi di memoria è un florilegio di gossip dalla vita di Camilleri, forse si crede Lev Tolstoj, forse sogna di essere Henry Kissinger. In una vita piena di incontri ma scarsa di eventi, l’episodio più curioso riguarda il tran tran per recuperare le ceneri di Pirandello, il ritratto più bello è dedicato all’attore russo Pietro Sharoff, quello più ingeneroso cade sul cranio di Vincenzo Cardarelli. Quanto al resto, che Camilleri abbia in odio la montagna – la può affrontare solo dopo essersi bevuto “tutta la grappa dell’Alto Trentino” – ce ne frega un fico, e il dorso di ogni memoria è pepato di fastidiosa supponenza. Camilleri ci racconta che fu benedetto regista da Michelangelo Antonioni, che al Premio Flaiano lo scrittore Daniel Chavarría “incitava i votanti gridando a voce altissima: ‘votate Camilleri!’” – cosa che accadde, per l’ira di Ian McEwan – con levantina spudoratezza, con la falsa umiltà dei vigatesi. Il racconto dei rapporti con Eduardo De Filippo – che stimolano la salivazione del voyeur – è del tutto insipido, e l’incontro (mancato) con Luciano Liggio, il mafioso, ‘la primula rossa di Corleone’, sulla carta un ‘pezzo’ scintillante, si riduce a uno sketch piuttosto infelice. Eccolo, il punto. La scrittura di Camilleri, sempre, è una partita a bocce tra ottuagenari, un bignè al reparto geriatrico, ha il retrogusto della commedia all’italiana di serie B. Camilleri, per stare in quota cinematografica, non appartiene alla schiatta dei Pietro Germi o dei Vittorio De Sica, ma a quella dei Mariano Laurenti, con tutto il rispetto per Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda. Camilleri funziona perché è un modesto intrattenimento per gli italiani che sono notoriamente dei pessimi lettori e un ottimo souvenir per gli stranieri che pensano che l’Italia sia ‘pizza, mafia e mandolino’. Camilleri è uno scrittore che vuole il sorriso facile e la risata complice, non gl’importa la letteratura come disossamento della realtà, come carneficina dei luoghi comuni, come schianto e volo. Il vero scandalo è che nei ‘Meridiani’ Mondadori, la collana editoriale più nobile di questo Belpaese di cartongesso, Giovanni Verga sia rappresentato con due tomi e Andrea Camilleri con tre. Potere del denaro. Così, un pittore di modeste cartoline del Sud vince su Cézanne. Felici voi.

Andrea Camilleri, Esercizi di memoria, Rizzoli, pp.238, euro 18,00

Leonardo Sciascia, scrittore fra i massimi del ‘900. Fu anche deputato per il Partito Radicale

La carotaPer prima cosa, cincischiai con Gesualdo Bufalino. L’amico d’università, Sebastiano, di Noto – ora poeta poco noto – mi svezzò a Elio Vittorini. Ma io schifavo Vittorini. Piuttosto, m’intrufolai in Bufalino, trovando sentieri linguistici che mi parevano bellissimi. A uno che pubblica a sessant’anni il primo libro, con un incipit così, “O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto”, puoi, francamente, donare tutte le dita della mano destra, quelle che servono per scrivere. Poi tentai con Vincenzo Consoli (Il sorriso dell’ignoto marinaio) e fu un nì. Poi ci fu Stefano D’Arrigo, questa specie di James Joyce e di Herman Melville sullo Stretto, e l’innamoramento fu ingenuo e totale, prima per la Fera, poi per Horcynus Orca, infine per la viziosa Cima delle nobildonne. Della letteratura siciliana è adorabile l’insularità. Nel senso che è uno dei pochi luoghi al mondo che fa storia a sé, con micidiale concretezza, non ha bisogno di altre letteratura né di enciclopedici dettagli. Autarchia del genio. Dato per certo Pirandello, esaltato Giovanni Verga – i suoi racconti hanno una velocità rapace e modernissima, leggeteli, il duca della scrittura siciliana si pappa a colazione tutti i sedicenti scrittori di oggi – magnificato Federico De Roberto, alla fine s’inciampa, come nella più torbida delle eresie, in Leonardo Sciascia. Dal paradosso (Pirandello) al torvo (Verga), dal barocco (Bufalino) al glossolalico (D’Arrigo), in Sicilia c’è spazio pure per il cinismo voltairiano. Romanziere non geniale (ma La scomparsa di Majorana è di specchiata bellezza), fu uomo speciale, Sciascia. Leggerlo è il godimento dell’intelligenza: per questo lo zibaldone pubblicato come Nero su nero è caustico e corroborante. In un brano, ragiona sulla “vita di Tolstoj”, che “si svolge tutta sotto il segno della fuga. Fuga dalla condizione sociale ed economica in cui è nato. Fuga dal destino di scrittore. Fuga da se stesso. Fuga dalla vita”. Morto, per l’appunto, in fuga dalla famiglia, a 82 anni, nella stazione di Astopovo, Tolstoj ispira a Sciascia un pensiero stupendo. “Filarsela dalla vita, non esserci più. Non ha voluto altro, vivendo; non ha pensato ad altro. Ed è da questa estraneità che ha visto limpidamente la vita, che l’ha come ripetuta nelle sue pagine”. Lo scrittore è sempre in fuga, ed è da fuggiasco, fuggendo, che vede le cose, sempre irripetibili, dunque ripetute. Camilleri non è uno scrittore in fuga, è uno scrivano assiso sul trono di una gloria di latta, lattescente. Buon per lui. C’è così tanta letteratura in Sicilia che prima di approdare a Vigata avremo vissuto sette vite almeno.

Leonardo Sciascia, Opere, Bompiani, 2004

per l’Inkiesta.it. 

 

SCIASCIA, A FUTURA MEMORIA

SCIASCIA, A FUTURA MEMORIA

Leonardo Sciascia, a futura (ma anche di ora) memoria-L’impegno civile dell’intellettuale e i 31 articoli scelti da Sciascia

Leonardo Sciascia a futura memoria

Leonardo Sciascia nella copertina di “A futura memoria” delle edizioni Adeplhi

Autore considerato “scomodo” per le sua analisi, Leonardo Sciascia ha disseminato nei suoi libri gli appunto di una vita, lasciando al lettore la mappa per orientarsi nel passato e nel presente. “A futura memoria” raccoglie i ricordi di un decennio ed esprime, per l’ennesima volta, l’intellettuale impegnato nel diritto, per la giustizia e la dignità dell’uomo

Questa settimana piace segnalare un libro di un autore che ci è molto caro. Il libro è A futura memoria, con un significativo sottotitolo: Se la memoria ha un futuro. L’autore che ci è molto caro è Leonardo Sciascia. A futura memoria è una raccolta di articoli, il primo è del 7 ottobre 1979 e l’ultimo reca come data l’11 novembre 1988. Sono 31 articoli scelti e selezionati dallo stesso Sciascia. È l’ultimo suo libro: Sciascia vede le prime bozze, poi la malattia che lo fa soffrire da tempo lo stronca. La prima edizione è di Bompiani: un volume che è stato stampato in fretta e furia, una vera corsa contro il tempo, perché si sa che Sciascia sta male. Elisabetta Sgarbi, allora “editor” della Bompiani, corre a Palermo, ce la fa a mostragliele, ma solo quelle.

A distanza di anni questa raccolta di articoli è ripubblicata da Adelphi, che sta curando l’opera omnia di Sciascia. Ne ha già pubblicati 34, di libri e due volumi delle opere complete. Ne mancano ancora e manca il terzo volume conclusivo delle opere complete; ma insomma Adelphi – casa editrice che cura edizioni impeccabili anche nella veste grafica – è impegnata in questa lodevole opera editoriale.

La nuova edizione di A futura memoria, rispetto alle prime due di Bompiani, è arricchita da una eccellente appendice di note al testo curata da Paolo Squillacioti, uno dei più acuti e sensibili studiosi dell’opera di Sciascia. Squillacioti è davvero una garanzia, basta la parola.

Per quel che riguarda gli articoli di Sciascia, ognuno dei 31 articoli meriterebbe uno specifico seminario di un paio d’ore, tanto sono attuali: “dicono” forse più oggi di quando sono stati materialmente scritti e pubblicati. Sono articoli tutti di carattere – diciamo così – civile: l’impegno civile e umano di Sciascia, che analizza, studia la realtà che lo circonda, vede e ne tira la giusta somma. Ci sono i famosi articoli relativi ai “professionisti dell’antimafia”, e a leggere in sequenza quegli interventi non si può che riconoscere come aveva saputo vedere e cogliere per tempo, e cercato di avvertirci di quello che si preparava, “retorica aiutando, spirito critico mancando”, come scrive il 10 gennaio 1987.

Ma ci sono anche gli articoli scritti in occasione della vicenda Tortora, i maxi-processi e i “pentiti”, la loro gestione, il caso di Roberto Calvi, la mafia, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa… Insomma di questo libro si potrebbe parlare, ragionare, riflettere per ore. Qui lo si può solo segnalare. È un libro radicale, nel senso più vero e autentico del termine. Sono scritti d’occasione che restano, un libro importante e intenso quanto Il giorno della civetta, L’Affaire Moro, La scomparsa di Majorana, La morte dell’Inquisitore, Il contesto, Porte aperte, ammesso che si possa fare una discriminazione nella vasta produzione di Sciascia, che va piuttosto considerata un tutt’uno, tanti capitoli di un grande, unico libro.

Un libro che, a volerlo racchiudere in una definizione, si potrebbe dire: del diritto, della giustizia, della dignità dell’uomo.

Articolo di Valter Vecellio(Sciascianamente) apparso su www.lavocedinewyork.com il 13 aprile 2017

 

La pianta va sradicata tutta

La pianta va sradicata tutta

Secondo  l’ultimo rapporto Istat i poveri assoluti in Italia sono 3,4 milioni: si tratta di gente che vive in condizioni di povertà grave non riuscendo  ad affrontare neanche  i consumi minimi ed essenziali.

La maggioranza di essi risiede al Sud, e in particolare in Sicilia, dove l’incidenza dei poveri assoluti è del 27,3%.

Ma della Sicilia le cronache si occupano in questi giorni anche perché è la Regione col più alto debito pubblico, pari a oltre 21 miliardi di euro. L’autonomia siciliana, che trova origini oramai lontane e ragioni superate, in questi decenni si è trasformata in una macchina per lo sciupio di risorse pubbliche scandaloso. Gli esempi hanno riempito svariati libri e articolesse e non vale la pena riprenderne il triste, incredibile elenco.

E’ invece utile, incrociando le due informazioni, porsi la domanda: ma dov’ è finito tutto questo mare di soldi? Nelle tasche di pochi ricchi, oggi straricchi, evidentemente, se il 27,3% della popolazione non riesce a mettere il pranzo insieme alla cena.

Il caso siciliano è l’ennesima dimostrazione che il benessere vero, quello cioè duraturo perché frutto di una società laboriosa ed equamente distribuito, non ha nulla a che spartire con il bengodi della allocazione clientelare delle risorse pubbliche.

Dare un poco a tutti, magari il superfluo, raschiare il fondo del barile tanto poi “ a piè di lista” qualcuno dovrà pure ripianare, garantisce una certa popolarità nel breve periodo, ma porta al collasso certo ogni sistema e economico e alla dissoluzione di ogni corpo sociale.

Naturalmente gli effetti di questo fenomeno, che trova in Sicilia più eclatante esemplarità,  è calzante anche in altri ambiti nazionali, a volte inaspettati.

Operare in ambito pubblico, al centro come in periferia, negli enti statali come nei servizi sul territorio, al di fuori di rigorose regole di trasparenza, economicità, efficienza ed efficacia, come molti episodi ci dimostrano, vuole dire operare al di fuori di ogni correttezza, ignorando il proprio dovere e, spesso, la stessa legalità.

Credo perciò, che all’interno dei  temi delle politiche dell’antimafia e dell’anticamorra, riprendendo lo spirito di Leonardo Sciascia o le pagine di Roberto Saviano, occorra inserire anche quello del cattivo agire pubblico, per domandarsi se esso, magari per insipienza se non per calcolo deliberato, non abbia alla fine gli stessi effetti perniciosi della illegalità mafiosa o camorrista.

Oggi si fa un gran parlare della trattativa “Stato-mafia”, con il postulato – che i magistrati dovranno dimostrare- che il nodo politica-mafia, in Sicilia e non solo, secondo alcuni autorevoli rappresentanti dello Stato, potesse essere sciolto come conviene fra Stati sovrani, con l’accomodante  via diplomatica, con la negoziazione di nuove regole di convivenza.

Questa idea è più perniciosa di una collusione occasionale o uno scambio di favori per questa o quella gara di appalto (cosa che al politico viene spesso imputata)  perché fra cattivo agire pubblico per sprechi e clientele e cattivo agire del mafioso o camorrista nella sfera pubblica per favorire gli interessi criminali in realtà non c’è soluzione di continuità, è in sostanza la stessa cosa. L’interesse del crimine non può  essere la saggia e onesta amministrazione, ma appunto lo sciupio, l’ingrasso delle clientele, l’intreccio soffocante delle connivenze illegali.

Mi rendo conto che diverso è lo spirito e la gravità dell’operare del politico scriteriato e clientelare rispetto a quello messo in campo da un mafioso o un camorrista come atto di criminalità, ma a me pare (se vogliamo valutare la cosa per gli effetti  devastanti sulla cultura della legalità) che siano i frutti di una stessa pianta e che, se vogliamo girar pagina, non resta che sradicarla tutta intera.

 

 

 

 

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