SI VIVE UNA SOLA VOLTA

SI VIVE UNA SOLA VOLTA

Un mestiere in cui smetti di appartenerti e spendi tutto quello che hai per il produttore, per il film e per il pubblico. Si vive una volta sola è una storia di amicizia e quando mi sono trovato a scrivere con Giovanni Veronesi ho pensato soprattutto a loro. Agli amici perduti. Ai rapporti che quando avevo vent’anni credevo fossero indissolubili. Eterni.

Verdone col cast del film Si vive una sola volta

Tutti i battiti del suo cuore: «Da bradicardico, se stiamo ai freddi numeri, ho cinquanta pulsazioni al minuto. Ma ai tempi dei sudori improvvisi, dei giramenti di testa, dei formicolii sul labbro e dei frangenti in cui mi sembrava di morire da un momento all’altro, ne avevo 160». Era l’epoca dei primi successi: «In cui io, riservato, introverso e un po’ malinconico ero stato lanciato come un sasso da una mazzafionda al solo scopo di invitare tutti alla leggerezza e provocare la risata negli altri.

Compito terribile, al quale non ero preparato e una forma di violenza che mi costrinse, da peggior nemico di me stesso, a mettere in discussione il mio carattere». Per farsi forza, sostiene Carlo Verdone «ricorrevo a una frase che mi ripeteva sempre mia madre. “Si vive una volta sola” diceva e aveva ragione». Nel suo ventisettesimo film che recupera nel titolo il precetto materno e mette al centro della scena quattro persone incapaci di trovare fuori da corsie e operazioni una ricetta utile a guarire da insicurezze e nevrosi, Verdone, medico mancato, si traveste da dottore e guardandosi indietro si scopre diverso da ieri: «Potrei dire migliore».

Formuli una diagnosi.

«Oggi affronto ostacoli che non mi sarei mai immaginato di superare a trent’anni. E dalla maggior parte dei miei problemi sono guarito».

Che problemi erano?

«Per un timido la vita non è una passeggiata. Crede che fosse facile dover rispondere alle aspettative della gente o essere riconosciuti per strada da un giorno all’altro? Non sapevano neanche come mi chiamassi. “Lei è quello dei due cervi? Quello che alza gli occhi al cielo in tv?”».

La popolarità gliela restituì Non Stop di Enzo Trapani.

«Enzo, teorico dell’improvvisazione selvaggia, ci sequestrò per tre mesi a Torino in pieno inverno. Aveva facoltà di girare anche il sabato e io a Roma non riuscivo a tornare mai. Prima di andare in scena e dare sfogo ai miei sketch attraversavo atroci tormenti». 

Che tipo di tormenti?

«Farò ridere? Parlerò bene? Risulterò simpatico? I miei colleghi d’avventura erano sciolti, disinvolti, tranquilli. Io passavo una notte in bianco dopo l’altra e riproponevo un repertorio che avevo sperimentato soltanto nei teatrini off».

Andò bene.

«Ma la televisione mi cambiò la vita e la popolarità rappresentò una tempesta interiore. Mi tremavano le gambe. Ero bloccato. Fragile. L’ansia mi divorava».

Come ne uscì?

«Grazie a Piero Bellanova, uno dei più autorevoli psicanalisti italiani. Con mio padre, di cui era amico, condivideva la passione per il futurismo e accettò di incontrarmi un paio di volte alla settimana. Andò subito al punto: “Carlo, qui non c’è niente da analizzare”, disse. “Il tuo corpo reagisce a uno stravolgimento e i farmaci non servono a niente: ti devi adattare al destino che cambia e piano piano il quadro si addolcirà”».

Messa così sembrerebbe semplice.

«Avevo una 127 bianca. L’avevo acquistata a 27 anni, nel 1978, con i risparmi di Non Stop nonostante il dirigente Rai di allora, Bruno Gambarotta, mi avesse vivamente sconsigliato di farlo: “Li spenda meglio i primi soldini che ha guadagnato, dell’auto non ha nessun bisogno, molto presto avrà chi la accompagnerà guidando al suo posto”».

I tempi non erano ancora maturi.

«All’epoca ero fidanzato con Gianna che sarebbe poi diventata mia moglie. Abitava a Vitinia, vicino a Ostia e io non andavo più a trovarla perché mi girava sempre più spesso la testa e avevo paura di svenire o di avere un infarto mentre guidavo. Lo raccontai a Bellanova e lui decise di sottopormi a delle sfide: “Dobbiamo andare alla radice del problema e devi metterti alla prova”».

In cosa consistevano le sfide di Bellanova?

«Non solo mi intimò di mettermi al volante, ma pretese di farmi allungare la strada passando per Ostia: “Prima di andarla a trovare arrivi sul lungomare, fai due giri della rotonda, respiri forte e poi riprendi il cammino”. Ostia a fine anni ’70 era più o meno il Bronx. “No professore” piagnucolai: “Ostia de notte no, la prego. Lei me vuò fa’ morì”. “Non morirai, ma se non farai come dico, da me non tornare proprio”.  Andai. La prima volta stipai le tasche di gettoni e arrivai a Ostia in condizioni pietose. Telefonai a Gianna: “Sto malissimo, per favore, vienimi a prendere”. Riaccadde la stessa cosa almeno quattro volte e alla fine, pur ridotto uno straccio, riuscii a tornare a casa da solo. Esanime, ma vivo. Bellanova aveva capito tutto».

Cosa aveva capito?

«Che i problemi non si aggirano. Devi combatterli e puoi anche vincere. Il difficile è esserne consapevoli. Da quel giorno comunque non ho avuto più un solo attacco di panico e invece di imbottirmi di farmaci ho imparato a conoscere meglio me stesso».

Chi è Carlo Verdone?

«Sotto tanti aspetti, un uomo molto fortunato. È successo tutto quello che sognavo potesse succedere. Però poi se rifletto, non è vero che non abbia avuto momenti di grande difficoltà. Quando mia madre si è ammalata di una sindrome neurologica rara e spietata per me furono quattro anni di merda. Era la persona a cui volevo più bene al mondo, la vedevo sfiorire e il solo guardarla mi faceva disperare. Era arrivata a pesare 39 chili.

Con la tristezza e il cuore rotto, dovevo continuare a far ridere e la scissione era brutale. Durante il giorno giravo Acqua e sapone e al tramonto tornavo da lei. Nuotare tra Natasha Hovey, la Sora Lella, Padre Spinetti e il dolore reale fu un’esperienza tremenda. Stavo perdendo mia madre e mi ricordo che faticavo a perdonarmi perché desideravo morisse il prima possibile. Non si poteva vedere una persona ridotta così. Non si poteva accettare di sapere che soffrisse così tanto». (Qui la voce di Verdone si incrina e si affaccia la commozione, ndr).

Momenti tristi.

«Fu triste anche il momento della separazione. Il giorno in cui io e Gianna andammo in tribunale per le pratiche mi presentai senza legale. Il giudice era sconvolto: “Ma lei non ha un avvocato?”. Implicitamente mi stava dicendo: “Guardi che sua moglie vincerà su tutta la linea”.

Lo anticipai: “Decida lei, per me non è cambiato niente”. Fu brutto, ma Gianna si dimostrò speciale. Accettai ogni decisione senza fiatare e poi alla fine della liturgia lei si avvicinò: “Che fai quest’estate? Parti? Hai programmi?”. Allargai le braccia. “Cosa vuoi che faccia?”. “Io vado in Sardegna con i bambini, se non hai niente da fare vieni, loro saranno contenti”. Aveva già prenotato una stanza perché sapeva che le avrei detto di sì. Fu una cosa molto bella». 

Perché finisce l’amore?

«Ah, vattelo a spiega’. Non lo so, dirlo è difficile. Non lo so, non lo so davvero. Il tempo gioca sicuramente la sua partita. Poi credo ci abbia messo un macigno la pesantezza del percorso che ho fatto e che sto tuttora facendo. Un mestiere in cui smetti di appartenerti e spendi tutto quello che hai per il produttore, per il film e per il pubblico.

Sposi loro. Sposi un lavoro. Sposi le aspettative. Sei sempre sotto esame, non sei libero e questo incide. Forse ero io a non riuscire più a dare tanto al rapporto o forse mi serviva la grande alleanza degli inizi. Fino a un certo punto resse, poi la distanza si allargò e probabilmente su certe cose non andavamo più d’accordo. Una consolazione però mi resta».

Quale?

«Pur nella tristezza della separazione io e Gianna siamo stati intelligenti. Ci siamo detti: “Va bene, non stiamo più insieme però facciamo sì che i nostri ragazzi non soffrano oltre misura”. Lo abbiamo fatto, credo e spero, nel migliore dei modi. Siamo stati uniti e assennati. I miei amici e le mie amiche che si sono separati sono ancora increduli: “Ma come ci siete riusciti? Io ho passato la vita a litigare, a far scrivere l’avvocato, a discutere di tutto e a litigare su ogni cosa”. Giulia e Paolo, i nostri figli, questa amarezza non l’hanno vissuta. Sono il nostro orgoglio. Hanno una dignità enorme, non hanno mai chiesto niente e non si sono mai sentiti i figli “di”. Se io o Gianna ci azzardavamo ad alzare il telefono per provare ad aiutarli non ci rivolgevano la parola per una settimana». 

Quello che ci ha dato, l’ha sottratto alla vita privata?

 «Assolutamente sì e l’ho sottratto anche ai miei amici. Si vive una volta sola è una storia di amicizia e quando mi sono trovato a scrivere con Giovanni Veronesi ho pensato soprattutto a loro. Agli amici perduti. Ai rapporti che quando avevo vent’anni credevo fossero indissolubili. Eterni.

L’amicizia era veramente importante. Condividevamo le stesse passioni: lo studio, il cineclub, la musica, le cantine umide in cui recitare. Eravamo un gruppetto di 6 o 7 persone e non facevamo altro che stare insieme. A volte qualcuno si fidanzava con la compagna di quello con il quale il rapporto era ormai logoro. Ma non c’era né gelosia né rabbia. Dicevi: “Vabbè, m’è andata male, però se è felice con lui va bene così”».

Poi che accade nell’amicizia?

«Irrompono le famiglie, il lavoro, i figli, la stanchezza. La tragedia è dai 30 a 40 anni e il primo segnale d’allarme suona quando getti la spugna, preferisci restare a casa e dici: “Non andiamo all’ultimo spettacolo, ve prego, che domattina me devo alza’ presto”. Non ce la fai più, ti mancano le energie e lasci per strada tante cose fino a quando, magicamente, a 50 anni la situazione migliora perché ti aggredisce uno sconfinato desiderio d’evasione.

Ti fa piacere parlare o andare a mangiare con qualcuno. Torni a confrontarti, a incontrarti, a scambiarti qualcosa. Finalmente, arrivato quasi a 70 anni, riesco a rivedere delle persone che avevo perso: non gente di cinema, per carità di dio. I miei veri amici, salvo pochissime eccezioni, non fanno parte del mio mondo. E mi creda, è bellissimo».

Lei 70 anni li compirà a novembre. 

«Ogni tanto mi guardo allo specchio e mi ripeto: “Ma io ho davvero 70 anni?”. Ancora mi domando come sia stato possibile arrivarci e cosa mi sia davvero successo nella vita. Il primo biglietto di un mio spettacolo teatrale venne venduto nel 1977. Quasi 45 anni fa. E sto ancora lavorando».

Le sembra incredibile?

«Mi dico: “Ma non è che la mia vita non è altro che un sogno? Che magari non è successo niente?”. Sembra una battuta, ma me lo domando veramente».

Cosa significa avere 70 anni?

«Esteticamente non li dimostro però nel corpo ogni tanto si rompe qualcosa. È come una macchina antica dalla carrozzeria che sembra reggere e il cui motore a volte si blocca».

E la immalinconisce?

«Per niente. Non sono mica triste di andare verso i 70: l’arco della vita è quello perché mi dovrei disperare? Si disperavano altri attori, tutti morti depressi, Alberto Sordi compreso. Ringraziando dio ho figli, passioni, un percorso credo ineccepibile e molti ricordi magnifici. Mi chiedono: “Ma il giorno che lascerai il tuo mestiere, come farai?”. Rispondo che sarà un grandissimo giorno: la missione è stata compiuta nel migliore dei modi».

Bilanci?

«Ho fatto esattamente quello che dovevo. I personaggi, i film da protagonista, quelli corali come Si vive una volta sola».

Momenti nascosti, quasi sepolti?

«La prima volta che mi spinsi oltre Roma lo feci per andare all’Hop Frog di Viareggio. Era un circolo di estrema sinistra dove si erano esibiti Lucia Poli, Donato Sannini, il Patagruppo e dove io arrivavo con il mio prete di campagna, terrorizzato dall’accoglienza che avrei ricevuto. La gente mi guardava con aria truce, l’eskimo addosso e i volti ostili. Ero nervoso, andai a pisciare e accanto al cesso trovai una siringa: “Ma dove sono capitato?”, mi dissi. Andò bene, ma non era scontato. Niente è stato scontato».

Orgogli?

«Grande Grosso e Verdone. Di solito sono molto critico con me stesso e non faccio altro che dirmi: “Questa la dovevi di’ meglio, quest’altra avresti potuto girarla in modo diverso, questa scena è inutile e sarebbe stata da tagliare”. Ma sapevo che quello era il mio ultimo film da mattatore e mi permisi dei virtuosismi. Ci misi dentro personaggi cupi e raffinatissimi come il professor Cotti Borroni. Quando sei sicuro di te stesso puoi anche osare».

Che segno credi di aver lasciato?

«Non tanto il successo che è effimero, né il rapporto con il pubblico che è profondo, solido e non cambierà. Sono stato felice perché mi hanno capito. I miei film erano pieni di dettagli poetici e mi chiedevo sempre: “Ma la gente li apprezzerà?”. Mi ricordo una sera di tanti anni fa, era l’82, Borotalco era in sala da una settimana e tornavo a casa. A un certo punto mi accorgo che alcuni  ragazzi mi inseguono in motorino. Mi fermo. “Ci faresti un autografo?”.

È notte, con me non ho niente. “Come si fa?”, dico. “Aspetti un attimo”, fa uno “io abito qui vicino, porto dei pezzi di carta con una penna”. Aspettiamo al freddo il suo ritorno e un ventenne mi dice:  “Ma lei si rende conto di quello che ha fatto per noi?”, “Vuoi la verità? No”, “Ci ha regalato la leggerezza e una felicità interiore che neanche se la immagina”. Mi colpì tantissimo. “Ma guarda te”, mi dissi, “io che non lo volevo fare questo lavoro. Io che avevo paura di tutto”».

Quali erano le sue paure da bambino?

«Perdermi. Stare negli spazi grandi e smarrirmi. Non sapere come tornare dalle persone che mi volevano bene. Essere con mio padre in un posto, circondati dalla folla e improvvisamente non trovarlo più. Una volta mi accadde allo stadio e fu una cosa disperante. A un tratto, come in Un sacco bello, si sentì dall’altoparlante la voce di una poliziotta: “Il bambino Carlo Verdone è pregato di portarsi vicino all’ingresso della tribuna Montemario”. Quando rividi papà lo abbracciai fortissimo e gli disse: “Non mi lasciare mai più”. Non era la prima volta che mi perdevo».

Davvero?

«Andai per la prima volta a Siena, una città labirintica che mi colpiva per la sua severità, la sua bellezza austera e il suo mistero, che ero piccolissimo. Giocavo in via Di Vallepiatta e la mia palla cominciò a rotolare in discesa. Più la seguivo più non sapevo dove mi trovassi fino a quando non persi il senso dell’orientamento. Mi ritrovai a piangere ai bordi della strada e arrivò una signora: “Cittino? Che ti è successo? Dove sono i tuoi genitori?”. Mi riportò a casa e li vidi, come in una fotografia, tutti ad aspettarmi sull’uscio. Preoccupati. Stravolti. Sogno di perdermi ancora oggi. Incubi che ciclicamente tornano a farmi visita. Non so più dove sono e non riesco a trovare la via di uscita. Cerco mamma o papà, ma non ci sono. In un Luna Park, in un labirinto di vetro, non entrerei mai».

È una prefigurazione quasi psicanalitica del futuro. A un certo punto si cammina da soli e si rischia di perdersi.

«È vero. Ed è difficile da accettare. Non è un caso che tante paure le abbia cancellate, ma mi resta quella del giorno in cui me ne andrò. Non temo il dolore fisico, ma la disperazione dei miei figli. So che per loro sarà una catastrofe, mi atterrisce e così, ingenuamente, li preparo».

E loro?

«Si incazzano. L’altro giorno dico a Giulia: “Guarda, ho trovato queste 7 foto e questi 7 video, sono bellissimi. Un domani, quando non ci sarò più”. Non mi ha fatto neanche finire la frase: “ahhh, mo’ ricominci?”, “No Giulia, ascoltami, un domani, quando non ci sarò più, devi prendere questi video e queste foto e farci un documentario. Ci siamo io te, Paolo. È bellissimo”. “Papà”, ha alzato la voce, “adesso hai rotto veramente le palle”. Esorcizzano, però so che si preoccupano esattamente come capitava a me quando ero bambino, mia madre non tornava e io diventavo pazzo. Alla fine un po’ della mia ansia l’ho trasmessa anche a loro, soprattutto a Paolo. Se non rispondo al telefono, va subito in fibrillazione».

I suoi figli hanno poco più di 30 anni. L’età che aveva quando Lietta Tornabuoni la incontrò a casa di Sergio Leone. Disse che lei sembrava un burocrate cinquantenne: insicuro, bislacco, spaventato, oppresso dall’idea dell’affermazione. 

«Ricordo bene quell’incontro, ma Lietta non comprese che per Leone io avevo una specie di devozione. Ero intimidito dalla sua presenza, ma non ne ero schiacciato. Dentro di me avevo le idee chiarissime. È stata la mia grande fortuna».

Che rapporto ha con la noia?

«Un rapporto meraviglioso. La noia è una carezza, una bella coperta che mi avvolge e mi fa ricaricare le batterie. Detesto quelle persone che affollano le estati di programmi assurdi saltando da Mykonos a Ibiza, perché “ti devi” divertire, “non puoi” annoiarti e se non ti diverti ti incazzi. Ma chi l’ha detto? A me d’estate piace non avere nessuno tra i piedi. Voglio stare da solo. È il periodo che mi aiuta a creare, a inventare, a riflettere. Se poi vogliamo parla’ di chi s’annoia perché non ha un cazzo da fa’ parliamo di tutt’altro». (Sorride)

L’ha visto il film di Zalone? Le è piaciuto? Si è annoiato?

«Ha fatto un tentativo: alcune cose funzionano, altre meno. Ma anche se da spettatore posso criticare, apprezzo lo sforzo, il coraggio e l’intenzione di fare qualcosa di lontano dai suoi precedenti. In fin dei conti pur essendo due persone completamente diverse e pur essendo la sua comicità molto lontana dalla mia, capisco le mille tensioni che ha avuto. Lo rispetto. Non è certo uno sciocco. Ha rischiato sapendo di rischiare».

E lei, con Si vive una volta sola ha rischiato?

«Temevo che l’interazione tra i personaggi si rivelasse un gioco sterile e senza spessore. Dal secondo giorno però è accaduto un miracolo e ho irrobustito un film che un regista meno esperto avrebbe potuto facilmente sbagliare e che invece ha una sua filosofia. Quindi, no, io e il film rischiamo poco. E lo dico per la prima volta. Faccio sempre mille “corna” e sono scaramantico perché so che l’esito di un film dipende dal pubblico e da quanti biglietti staccheremo, ma su quello che abbiamo fatto non ho mezzo rimpianto. È stata un’opera di concentrazione straordinaria tra 4 amici che sono felici di ritrovarsi anche fuori dal set. Non accade quasi mai: di solito, a film finito, ognuno va per la sua strada e chi si è visto si è visto».

Mi ha detto che il film parla di amicizia.

«Sono 4 medici. Una équipe chirurgica di prim’ordine che tra i propri pazienti ha addirittura il Papa. Tanto sono imperatori tra i ferri, tanto miserabili nel privato. Hanno una vita di una solitudine spaventosa e si fanno forza stando sempre insieme anche fuori dal lavoro. Ma tutta questa vicinanza, porta all’insofferenza e a una cattiveria feroce, da liceali. A un certo punto la dinamica subisce uno scossone e accadono cose sorprendenti: ahò, non è che stamo a parla’ di un film de Bergman, però sono fiducioso e contento del risultato».

C’è un’evoluzione. Prima dell’uscita di Un sacco bello, per la tensione, non riusciva neanche a dormire. 

«Ero tesissimo. Non ci capii niente. Lo andai a vedere alla sesta settimana di programmazione, da clandestino. Mi vergognavo di vedermi sullo schermo. Oggi sono più equilibrato, più paziente, anche meno egoista. Vedo le cose in maniera più distaccata, cerco di non drammatizzare e sono sicuramente più sensibile ai problemi del prossimo, degli amici come dei giovani artisti, a differenza di tanti miei colleghi che fanno i liberali ma se la tirano un po’ troppo e che se poi gli chiedi una cosa è come se gli chiedessi chissà che. Poi rido e cerco di far ridere gli altri».

Perché?

«Perché ridere è fondamentale. Uscire la mattina e avere sempre il grugno, non fa bene».

Cosa fa quando sta da solo?

«Ero insonne, adesso cerco di dormire presto. Prima di abbandonarmi alla mia playlist, guardo Roma dall’alto. Sconfinata e buia perché Roma è una città tremendamente buia. Mi sembra sempre bella, ma immalinconita. Depressa».

Come mai?

«Perché ci siamo ridotti così? Perché non ci sono esempi, ma solo follie. Perché manca l’educazione civica e la burocrazia ha divorato tutto. Mancano i sacerdoti del bello. Ma dove cazzo sono i sacerdoti del bello? Senza una scuola che insegni ad amministrare questo patrimonio non ne usciremo».

E le dispiace?

«Moltissimo. Prima Roma era una grande città. Ora è solo una città grande».

Intervista di Malcom Pagani per Vanity Fair

VERDONE IL PEDINATORE

VERDONE IL PEDINATORE

IL PEDINATORE DI ITALIANI SI CONFESSA- CARLO VERDONE RACCONTA I DIFFICILI ESORDI-LA MADRE: “SE NON SALI SUL PALCO TI PRENDO A CALCI IN CULO”- L’AMICICIA CON SORDI, LA SBERLA DI LEONE, LE CAMMINATE ALL’ALBA CON FELLINI PER ROMA, LE ALLEGRIE FORZATE E LA SOLITUDINE DEI SUOI PERSONAGGI CHE ERANO ANCHE LE SUE- “IO NON VOGLIO SOLO VIVERE, VOGLIO ESISTERE”. VIDEO

 

Anatomia di un mestiere: «Sono stato un pedinatore di italiani, un osservatore maniacale del dettaglio, un analista del peccato veniale. Assorbivo debolezze, tic e fragilità e le riproponevo in chiave di commedia. Il fumatore con il dito giallo di nicotina, il macho che si toccava il pacco per sentirsi un vero uomo o il playboy che partiva per Cracovia con il sedile ribaltabile e il pettinino nella tasca della giacca, non esistevano soltanto nei film. Erano intorno a me. Li avevo visti con la stessa curiosità che fin da bambino, dal bagno di servizio della casa in Via Lungotevere dei Vallati, mi aveva spinto a guardare il sarto cucire per ore orli e pantaloni o la ragazza dai lunghi capelli castani con cui un giorno sognavo di fidanzarmi, indirizzare parole a chissà chi riempiendo grandi fogli bianchi».

verdone leone brega

Verdone con l’attore Mario Brega e Sergio Leone

Per scrivere la storia di Carlo Verdone, 66 anni, 25 film, un doppia dozzina di David, Nastri e Globi d’oro a occupare le scansie, servono più numeri che parole: «Ho iniziato a fare l’attore esattamente 40 anni fa, al Teatro Alberichino, nel momento in cui la cassiera ha strappato il primo biglietto di Tali e quali».

Sotto il cartellone che annuncia Rosmunda con Paolo Poli, lei sosta di fronte all’ingresso.

«Dopo il diploma al Centro Sperimentale, un paio di documentari, un esperienza da assistente alla regia in un film un po’ scollacciato di Franco Rossetti, un’infinità di porte in faccia, altrettanti le faremo sapere e un notevole freddo preso nelle cantine dell’underground romano, mi chiedevo cosa dovessi fare della mia vita. Meno male che ho preso la laurea mi dicevo. Prospettive nel mondo dello spettacolo ne avevo poche. Andai a cena con il direttore dell’Alberichino, Obino, e nacque quell’occasione».

Cosa cambiò dopo quella cena?

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«Obino si disse certo che nascondessi un talento comico e mi propose di scrivere qualche testo e di affittare il teatro per un paio di settimane. Mi misi d’accordo con Daniele Formica che però a un passo dal debutto mi disse Non me la sento. Mi ero impegnato a pagare trecentomila lire, una cifra enorme. Ero disperato e provai a fuggire telefonando a Obino per rinunciare. Quello fece orecchie da mercante e più secca ancora fu mia madre che quella conversazione l’aveva ascoltata dal primo all’ultimo minuto: Se non vai sul palco ti prendo a calci in culo».

Mantenne la promessa?

«Me lo diede davvero e fece bene. Al quinto giorno si presentò un solo spettatore. Recitammo comunque e alla fine, di fronte ai lamenti crepuscolari dei miei compagni d’avventura: È stata un’umiliazione, non ci sarà mai una seconda occasione, siamo finiti ancora prima di aver iniziato, dissi seriamente, non so quanto credendoci, che eravamo stati degli eroi e che il senso del teatro era proprio in quella recita per una singola persona. Che ringraziò andandosene e il giorno dopo, su Paese Sera, occupò una pagine per scrivere: È nato il nuovo Fregoli, correte a vederlo. Era Franco Cordelli. Quella sera mi ha cambiato la vita».

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Con chi sente di aver debiti?

«Con quelli che come lo scenografo e regista Franco Bottari o Filippo Paolone, il titolare della Giada Film, quando ho chiesto aiuto non si sono voltati dall’altra parte. Sono stati in pochi. Dopo il Centro Sperimentale andavo a offrirmi in giro gratis come assistente, ma le produzioni non volevano pagare neanche l’assicurazione».

Paolone le offrì un lavoro?

VERDONE furio

«Mi offrì di realizzare due piccoli film, uno sui castelli nel paesaggio laziale e un altro sull’Accademia musicale chigiana. Intervistai Giuranna, Navarra, Accardo, Gazzelloni e Franco Ferrara, mi sentii utile e onorato».

Lei non aveva ancora esordito.

«Mio padre Mario, importante studioso di cinema, era stato selezionatore al Festival di Venezia e scriveva saggi su Bianco & Nero. Non era raro che alla porta si presentassero Pasolini o Fellini. Federico era insonne, proprio come me. Una volta lo incontrai di notte, in Via del Babuino, in attesa di salire su una macchina della Polizia. Mi faccio un giretto, sai com’è, non dormo niente.

bianco rosso e verdone 1

Su una macchina della Polizia?

«Andava a curiosare nell’umanità che poi descriveva nei suoi film. Per un certo periodo, dopo aver chiesto permesso: Ti posso rompere i coglioni alle 7 del mattino? mi telefonava per raccontarmi quelle avventure notturne. Le scene che vedeva, l’allegria forzata, le solitudini».

Le ha raccontate anche lei.

«È la mia vena malincomica e non ci posso fare niente. C’è in tanti film: Un sacco bello, Bianco Rosso e Verdone, Compagni di Scuola».

Uno dei suoi film più riusciti.

«L’organizzatore lesse il copione e mi disse Non si ride, non ci ho capito niente, non è una commedia. Mario Cecchi Gori mi tirò letteralmente il copione addosso: È verboso, logorroico, ci sono 19 personaggi e non si ride. Prenderemo schiaffi da tutti. Andai da Benvenuti e De Bernardi, gli sceneggiatori, per annunciargli che forse il film non si sarebbe fatto. Fu drammatico».

Cecchi Gori cambiò idea?

VERDONE UN SACCO BELLO

«Mi aspettò al varco per criticarmi brutalmente e invece il film gli piacque. Avanzò con il sigaro in bocca a passi lenti: Mi freghi sempre, li giri meglio di come li scrivi».

Era vero?

«Non era vero, ma capivo il suo punto di vista. Fino a quel momento ero ancora quello che faceva i personaggi, i Furio o gli Oscar Pettinari e lo spiazzamento di Compagni di scuola gli sembrava eccessivo. Il primo politico che dice parole di sinistra e intanto si rinserra nel bagno a tirare cocaina, comunque, l’ho immaginato io in quel film. Ed era il 1988».

Otto anni prima Sergio Leone aveva prodotto il suo esordio.

Alberto Sordi

«Il ponte tra noi fu mio fratello Luca. Leone mi cercò e mi diede un appuntamento a modo suo: Puoi passà domani che te devo parlà?. Non me lo feci dire due volte e il giorno dopo arrivai in perfetto orario sulla porta della sua grande villa all’Eur. C’era un campanello mezzo rotto, ci misi il dito, presi la scossa tirando giù sei moccoli e poi entrai.

Dentro regnava una confusione indescrivibile. Animali, copioni accatastati, voci miste. Poi si sentì solo il rombo di Sergio. Un tuono: Te devi tenè libbero, forse ho una proposta che te può piacè. Mi esaltai e gli passai con aria furtiva due o tre soggettini che mi ero portato dietro. Torna domani disse, mi offrì un bicchiere d’acqua e mi congedò».

UN SACCO BELLO VERDONE

Il giorno dopo?

«Era incazzato nero, sbraitava: Ma che monnezza m’hai portato? Non dovemo piagne qui, dovemo ride. Un sacco bello iniziò in quel momento. Dentro avevo la nitroglicerina, non mi pareva vero. Ennio Guarnieri, il più veloce operatore del cinema italiano, era sconvolto: Carlo io corro, ma tu te devi calmà, nun te riesco a stà dietro, se continui così il film lo finiamo in tre settimane».

Ne impiegaste cinque.

«Non sempre ero così veloce e avevo bisogno di fissare con la necessaria attenzione quell’istante magico: una Roma che conoscevo a memoria, quella dei vicoli di Trastevere, che stava sparendo per sempre».

VERDONE COMPAGNI DI SCUOLA

Fu un set facile da guidare?

«Quando Leone mi ordinò di fare due giri del palazzo a Ferragosto per rendere più credibile con il sudore la mia difficoltà finsi di dargli retta. Poi aspettai 15 minuti in fondo alle scale, bagnandomi la fronte con una bottiglia d’acqua prima di risalire. Lui si era messo in finestra e mi tese un tranello: Fa caldo fuori, eh Carlè?, Una cosa tremenda risposi e prima di finire la frase una botta di calore arrivò davvero. Era la sberla che presi a mano piena da Leone. Una mano enorme».

Ha avuto maestri severi.

«Mi è servito a non montarmi la testa. A casa mia non mi hanno mai detto: Bravo, hai fatto un bel film, ma hanno sempre tenuto l’atteggiamento di chi pensava: l’hai scampata, adesso pensa rapidamente a migliorare con il prossimo».

VERDONE

La sincerità è un valore?

«Nel mio ambiente è quasi impossibile essere sinceri. Se provi a dire con franchezza quello che pensi a un collega, se solo ti azzardi a non gridare al capolavoro, quello si offende e non ti saluta più. Devi sempre dire È straordinario, non c’è nessuna amicizia, solo desiderio d’adulazione. Un atteggiamento che mi fa schifo».

Laicità per laicità, suo padre la esaminò all’Università.

«Storia del cinema. La sera prima della prova entrai nella sua stanza, interruppi il ticchettare della sua Lettera 22 e gli dissi: Papà, mi raccomando, ho studiato solo Fellini o Bergman, chiedimi di loro. Lui annuì e ci salutammo. Chiusi la porta e andai a dormire tranquillo».

verdone, cecchi gori, carlo e enrico vanzina foto andrea arriga

Verdone con Cecchi Gori e i fratelli Vanzina

Il giorno dopo?

«L’aula sembrava il Colosseo e io la vittima da sbranare. L’emiciclo pareva la curva sud: È parente, è parente, vergogna, vergogna. Mi siedo e papà, freddissimo, mi gela con una domanda su Pabst e sull’espressionismo tedesco. Cerco di pronunciare il nome di Fellini e Rossellini, improvviso un labiale, lo guardo malissimo.

Lui imperturbabile, mi fa alzare: Si prepari meglio la prossima volta. A casa litigammo, ma papà era fatto così. Serio fino ai limiti della spietatezza e fanciullesco quando ci accompagnava a giocare a calcio a Villa Borghese o prendeva un aereo al volo per Praga e mi ci infilava dentro. Con i miei figli, Paolo e Giulia, oggi faccio così anch’io».

carlo verdone foto andrea arriga

Che rapporto ha con i suoi figli?

«L’ho recuperato grazie a un film che non andò secondo le aspettative, C’era un cinese in coma. O il pubblico si è stancato di me – mi dissi- oppure non era il film che voleva vedere. Come si può vincere una battaglia? Non partecipando alla battaglia. Così mi fermai per due anni e ritrovai il mio ruolo paterno viaggiando con loro, un dodicenne e una quattordicenne, per tutta l’estate tra l’America e il Medioriente. Mesi meravigliosi, indimenticabili».

La sua prima cinepresa ce l’ha ancora?

«È del 1970 ed è appesa a una parete della mia casa di campagna. Dentro c’era una bobina, ancora mi ricordo il titolo: la vendetta dei visi pallidi.

La vendetta è un sentimento lecito?

«Avrei avuto occasione di sperimentarla, ma a molti di quelli che mi hanno scartato con sufficienza agli inizi, negli anni successivi ho trovato persino lavoro. Non ho mai sentito il bisogno della vendetta perché non provo e non ho mai provato alcun rancore».

Cosa prova allora?

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«Nostalgia per questa città così sacra e così miserabile, per le contrabbandiere di Vicolo del cinque che ti passavano i pacchetti mosci di Marlboro sussurrandoti complici: So’ appena arrivate dall’America o per la tessera del Filmstudio all’epoca in cui vedevo anche tre film al giorno. Roma era un sogno, aprivi una serranda e trovavi la cultura. Un teatro off, un locale blues, un cineclub. C’era voglia di stare insieme, il contrario di quel che accade oggi. Tutti vogliono rimanere da soli, vedere le serie in tv dal divano e orientare la propria esistenza con il mouse. Sa cosa che le dico?».

Cosa?

«Forse si stava meglio quando avevamo di meno e non c’era bisogno di vivere nel bisogno»

Certe pellicole proiettate al Filmstudio andavano oltre lo sperimentalismo

«Alcune, sono d’accordo, erano una rottura di palle. Anna di Alberto Grifi, con tre ore e quaranta di ripresa ossessiva di una ragazza con seri problemi, non lo era? Lo era. Però era anche cinema intelligente che inseguiva un linguaggio vicino alla verità assoluta».

VERDONE GIORGI BOROTALCO

Verdone con Eleonora Giorgi in una scena del film Borotalco

Ma la verità assoluta non esiste.

«Ma esiste la libertà dell’esperimento e non la puoi recintare in nome di un gusto prestabilito. Non è che Yoko Ono o John Lennon, con la loro super8 montata su una mongolfiera e venti minuti di schermo bianco e muto facessero poi qualcosa di così diverso da Grifi. E noi eravamo ragazzi capaci di parlare per un’ora di un piano sequenza di Miklós Jancsó».

Di cosa è orgoglioso?

«Di aver fatto sempre con la mia testa e di non aver delegato agli altri le mie scelte. Quando il mio primo agente mi suggeriva una strada, prendevo regolarmente quella opposta».

Qualcuno l’ha paragonata a Sordi.

«Paragone improprio. Sordi era un gigante che passò accanto alla storia, alla guerra, alla ricostruzione, al boom economico. A quel tempo la letteratura lavorava per scrivere cinema, oggi non mi pare accada lo stesso e anche se accade, la differenza di valore sul tavolo è enorme. Poco prima che si ammalasse, Sordi mi disse una cosa che non ho dimenticato».

WURSTEL LA COLAZIONE DI AMETRANO BIANCO ROSSO E VERDONE

Quale?

«Che gli facevo tenerezza. Eravamo a pranzo: Sai che c’è Carlo? Per voi sarà complicato far ridere domani. Gli domandai il perché e lui, disilluso: Perché nessuno si stupisce più di niente, Non c’è più pudore né senso del ridicolo, non ci si scandalizza più di un cazzo».

Roma è addolorata e in parte scandalizzata per il forzato addio di Totti.

«Oggi sarò allo stadio. Francesco è stato immenso e se si sente ancora di giocare fa benissimo a continuare. Se invece vorrà fare il dirigente, sorprenderà comunque tutti. Deciderà lui, come sempre».

Il prossimo sarà il suo film numero 26.

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«Sarà molto diverso e articolato dagli ultimi e ci sarà accanto a me Ilenia Pastorelli. Spero di dare divertimento e poesia. Devo essere bravo».

In che cosa si sente bravo?

«Forse nel coltivare tante passioni diverse tra loro. Se non hai passioni ti lasci andare in una vita inutile. E io non voglio solo esistere, voglio vivere».

Intervista a cura di Malcom Pagani per “il Messaggero”

https://www.youtube.com/watch?v=URbAS82Hho0

David Bowie, nel ricordo di Carlo Verdone

David Bowie, nel ricordo di Carlo Verdone

 

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Ho appena sentito alla radio che David Bowie è morto. Sono sconvolto, ho preso a telefonare agli amici per condividere un senso di smarrimento, di lutto. Venerdì scorso fa avevo preso quello che sarebbe stato il suo ultimo disci, “Blackstar”, e subito dopo postato su Facebook queste parole: «Buon week-end a tutti, oggi ho comprato il nuovo cd di David Bowie». Sapevo, da amici comuni nel mondo del rock, che stava molto male, ma non credevo fino a questo punto.

E tuttavia “Blackstar”, un titolo che suona come un oscuro presagio, un disco così ostico e non convenzionale, forse inciso sulla sua pelle, è un capolavoro, un testamento artistico, anche la testimonianza di come un artista così gigantesco abbia saputo fino all’ultimo rinnovarsi, qui forse, se posso dirlo, influenzato da Scott Walker, un musicista da molti considerato “minore”, non da Bowie, che gli aveva dedicato anche un documentario.?

Con la morte di Bowie si chiude davvero un’epoca: l’epoca dei grandi della musica rock. Di coloro che ci hanno accompagnato sin dagli anni Sessanta, la colonna sonora di molte generazioni. Era una rockstar, certo, capace di sconvolgerci con le sue trasformazioni estetiche, i suoi camuffamenti istrionici, i suoi alter-ego fantasiosi; ma anche un artiste fine e colto, sottile nell’inseguire i percorsi sotterranei della passione, a suo modo rivoluzionario. ?

Conservo tutti i suoi dischi, dico tutti, a partire da “David Bowie” del 1968, e spesso mi capitava di risentirli, specie “Aladdin Sane” e “Space Oddity”, ma anche “Hunky Dory” e “Heroes”.?L’avevo conosciuto personalmente a Milano, nel 1991, mentre giravo lì con Margherita Buy “Maledetto il giorno che l’ho incontrato”.

Fu Gianni Versace a invitarci a casa, dopo il concerto allo Smeraldo di Bowie e suoi Tin Machine. Lui era con la moglie somala Iman, fu subito gentile e disponibile. Ricordo che ci si mise a parlare di pittura, mio padre era un esperto di Futurismo e glielo dissi, lui rispose parlandomi di Prampolini, mica di Balla o Boccioni, i più famosi, io quasi non potevo crederci.

Diciamo la verità: quanti, nel mondo musicale italiano, conoscono Prampolini? Fu una serata felice. Uscendo da quella casa con Margherita ci mettemmo a canticchiare “Absolute Beginners”. Qualche anno dopo l’avrei rincontrato sul set del “Mio West” di Giovanni Veronesi, conservo ancora, con affetto, l’autografo sulla copertina di un suo disco.

Carlo Verdone per “il Secolo XIX”

 

https://www.youtube.com/watch?v=N4d7Wp9kKjA

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