FINALMENTE! UNA SCRITTRICE CHE NON SCRIVE

FINALMENTE! UNA SCRITTRICE CHE NON SCRIVE

 L’ULTIMO SUO ROMANZO RISALE A 40 ANNI FA- ORA “LA VITA È QUALCOSA DA FARE QUANDO NON SI RIESCE A DORMIRE” VIENE TRADOTTO IN ITALIANO PER BONPIANI- DISINVOLTA ED ECLETTICA FRAN LEBOWITZ E’ PASSATA DAI RACCONTI EROTICI ALLE FIABE PER BAMBINI- “IL MIO RUOLO E’ ACCUSARE LA GENTE, DI TUTTO”

Fran Lebowitz aveva diciannove anni quando, dal New Jersey, si trasferì a New York. Era il 1969, aveva in tasca duecento dollari e credeva di essere ricca, o comunque di avere con sé abbastanza denaro per poter vivere senza mai dover lavorare, cosa che odiava e, tuttora, odia fare.

Trovatene un’altra che sia arrivata a New York pensando di avere le tasche piene anziché di doversele riempire; di stazionare, anziché scalare. Non ce n’è una nemmeno fra le agiate, linfatiche aristocratiche di Edith Wharton, le sole capaci di dire che a New York, più che altrove, “presto e bene non vanno insieme”.

Finiti i duecento dollari, Lebowitz si mise a fare le prime cose che le erano capitate tra le mani, pulire gli appartamenti del Greenwich Village e di Manhattan, guidare il taxi, scrivere racconti erotici. Poi aveva cominciato a collaborare con alcune riviste fino a essere assunta da Interview di Andy Warhol, con il quale non andò mai troppo d’accordo. Dirà: «È andata meglio dopo la sua morte». Peste.

Dieci anni dopo, nel 1978, pubblicò il suo primo libro, Metropolitan Life, vendette ottantaseimila copie e per la prima volta nella sua vita ricevette un assegno così corposo (centocinquantamila dollari) che non potette riscuoterlo come faceva sempre, ovverosia pagando un panino al roastbeef con l’assegno mensile per farsi poi dare il resto in contanti. Dovette andare in banca. 

Durante la pandemia è stata data per morta.

«È come la battuta di Mark Twain: “La notizia della mia morte è ampiamente esagerata”. In realtà c’ è molta invidia e odio nei confronti di New York, proprio per la sua imprescindibile centralità.

Generalmente chi parla della sua morte è chi qui non ce l’ ha fatta. Inoltre c’ è da aggiungere che in maniera ricorrente leggiamo della morte del romanzo, la morte della pittura, la morte della civiltà, la morte di Dio». 

Lei è credente?

«No, ma non credo Dio sia morto. Sono atea da quando avevo otto anni, e vengo da una famiglia ebraica dove entrambi i genitori erano osservanti».

Cosa succede dopo la vita?

«Non ne ho la più pallida idea, ma chi crede nella vita non crede nella morte».

Dall’intervista di Antonio Mondo per La Repubblica

La racconta come una gran seccatura in Pretend It’s a City, il secondo documentario che Martin Scorsese le ha dedicato, e che l’ha fatta conoscere anche in Italia, dove prima di questo libro non era stato tradotto niente di suo, ma il suo nome suonava familiare anche a chi non aveva idea di chi fosse e l’ha scoperta su Netflix, e l’ha ascoltata parlare per ore con Scorsese, in decine di appuntamenti tutti uguali, ai quali arrivava vestita come si veste da sessant’anni, occhiali tartarugati, stivali da cowboy, Levi’s, camicia da uomo con gemelli da uomo, caschetto. Appuntamenti durante i quali lei parlava di cosa ama (i libri, il suo appartamento) e di cosa non sopporta (quasi tutto il resto).

Fran Lebowitz non scrive un libro da quarant’anni, l’ultimo è stato un racconto per bambini del 1994, lo stesso anno in cui uscì una sua raccolta di pezzi in parte già editi e al New York Times spiegò che non avrebbe mai pubblicato il romanzo per il quale aveva firmato un contratto con la Random House perché la sola cosa che le piaceva meno di scrivere era allenarsi. 

Lebowitz con Andy Warhol

A Toni Morrison, sua grande amica, «la persona più saggia che io conosca», disse invece che scrivere le piaceva perché altrimenti non le sarebbe rimasto che vivere, e che ammirava il fatto che usasse sempre il noi, che cercasse di includere e coinvolgere i lettori, ma lei era di un’altra scuola, lei voleva starsene per conto suo, non aprire porte, non offrire specchi, non spalancare finestre: «Il mio ruolo è accusare la gente!».

Di cosa? Di tutto, o quasi. Di come roviniamo le cose inventando complicazioni: il succo di lime nelle patatine, la segreteria telefonica, gli orologi digitali, le calcolatrici tascabili, le diete, le riviste, il tennis, il giardinaggio. Di come la ostacoliamo ciondolando per strada, dicendo benissimo di libri bruttissimi, straparlando di natura, andando in vacanza a sfiancarci come prigionieri di guerra, servendo uva bianca al posto del dessert.

È seccata perché corre a una velocità diversa, vede prima e vede meglio: quando s’affatica non è perché una cosa non le riesce, ma perché non le va di farla. Se ci ha messo sette anni per scrivere il suo primo libro non è stato per tormento, irrisolutezza, studio: è stato perché le mancava il tempo, doveva mantenersi. 

«Il talento è distribuito in maniera del tutto irregolare e casuale: non lo compri, non lo impari». Era già una scrittrice magnifica quando spolverava le case dei ricchi e osservava il mondo da sotto e leggeva e imparava tutto senza studiare niente, mai studiato in vita sua se non lo stretto indispensabile all’alfabetizzazione.

Noi, invece, giacché del talento non accettiamo che sia come la grazia, del tutto casuale e immeritata, studiamo tantissimo per accaparrarcelo.

Noi, più piccolini e lenti di lei, più smarriti, più bisognosi di consolarci, esprimerci, mentirci e illuderci, la rallentiamo. E allora lei ce lo dice, ci mostra quanto siamo fessi, e lo fa con i test, i quiz, le concioni, i teoremi, gli elenchi.

Questo libro è pieno di manuali per il disvelamento della fesseria, istigazioni all’autarchia, requisitorie contro ignoti e pure contro inanimati, teoremi, calcoli, deduzioni. Scientifico, anche se «la scienza moderna è stata in larga parte concepita come risposta ai problemi dei domestici e in generale è praticata da persone prive di talento per la conversazione»

In Italia non siamo abituati a scrittori che non scrivano, del resto non siamo abituati a persone che non scrivano, e allora in lei vediamo una comica, un’attrice, un’intrattenitrice, una battutista. In fondo, ha un incedere così logico e chiaro da sembrarci poco letterario – non siamo abituati neppure a scrittori che abbiano le idee chiare, che non parlino di fuoco sacro, lavori importanti, missioni, salvezze, ruoli imprescindibili, che abbiano quell’idea di sé che fa sì che “a tre anni cominciano a considerarsi una trilogia”.

«The words are in the cigarettes», disse a un giornalista del New York Times che la ascoltava affascinato e, tra un inciso e l’altro, tra una sua intemerata contro i tosaerba e un’altra contro i parchimetri, scrisse che lei era politicamente scorretta (lo hanno fatto in molti, e ci dispiace per tutti), e soprattutto una mondana festaiola molto ricercata, come Dorothy Parker e Truman Capote.

Di Dorothy Parker, però, Fran Lebowitz non ha mai avuto l’angoscia e neppure l’allegria, perché Fran Lebowitz s’aspetta poco dalla vita, sa che è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire, non si cruccia delle donne che non ha sposato, né delle cose irraggiungibili. Ha preoccupazioni concrete, niente di ineffabile. Il suo sorriso è aperto anche quando ghigna. Le piacciono i bambini perché «non ti si siedono di fianco a discutere delle loro irragionevoli speranze per il futuro». 

Simonetta Sciandivasci

Le piace restare uguale e ferma, unica newyorkese non insonne di tutta New York. Quanto si diverte. Sarà che viene dal New Jersey e non ha mai creduto, nemmeno per un momento, che il mondo sia altro che artificio. Un artificio che è bene che rimanga al suo posto, come noi dovremmo starcene nel nostro. A New York, possibilmente, dove vivere altrove sembra a tutti un’assurdità. E forse lo è.

Prefazione di Simonetta Sciandivasci a LA VITA È QUALCOSA DA FARE QUANDO NON SI RIESCE A DORMIRE” (Bompiani)  – pubblicata su Linkiesta.it

In copertina un disegno di Federico Fellini

LE OSSESSIONI DI BASQUIAT

LE OSSESSIONI DI BASQUIAT

 

AL CHIOSTRO DEL BRAMANTE DI ROMA UNA MOSTRA DI BASQUIAT- CONTROVERSO E DISTURBANTE ESPONENTE DALL’AVAGUARDIA USA NEGLI ANNI ’80, ISPIRATO DALLA CULTURA  AFRO, DALLA MUSICA E DALLA SCRITTURA, SPESSO PRESENTE NELLE SUE OPERE DI ANGOSCIANTE RIBELLISMO

 

Spaziando di tecnica in tecnica, dall’olio all’acrilico, dal disegno alla serigrafia, arrivando fino alla ceramica, passando per alcune importanti collaborazioni con Andy Warhol, il percorso riunisce circa cento opere realizzate tra 1981 e 1987, provenienti dalla collezione di Yosef Mugrabi.

 

Jean-Michel Basquiat, morto a soli 27 anni per overdose

Ovvio che anche la morte prematura a soli 27 anni per un’ overdose abbia contribuito a far di lui, Jean-Michel Basquiat, una sorta di leggenda: l’ artista afroamericano maledetto tutto genio e sregolatezza, the king delle rutilanti notti newyorchesi anni Ottanta, il sodale di Andy Warhol e Madonna, futura star con cui l’ allora novello Caravaggio dell’ underground ebbe una fugace ma intensa love story.

Da antologia, per capire il clima del tempo, un articolo di qualche anno fa che Louise Veronica Ciccone affidò alle colonne del Guardian : «…Aveva la presenza fisica di una star del cinema ed ero pazza di lui. Aveva le tasche di quei suoi abiti Armani macchiate di vernice, piene di mucchi di soldi stropicciati.

L’ avere soldi lo faceva sentire in colpa. Non faceva altro che darli agli amici meno fortunati. Mi ricordo il tag di Jean-Michel, Samo, accompagnato da una piccola corona, e ricordo che pensavo fosse un genio. E lo era. Ma non ci si sentiva a proprio agio con lui.

Era il disegno il gioco di Jean-Michel Basquiat, quando era bambino. Incoraggiato dalla madre, schizzava su foglio i personaggi delle serie animate tivù, sognando di diventare, un giorno, un grande artista

Mi ricordo tutte quelle ragazze innamorate… una notte mi affacciai dalla finestra del suo loft e vidi una ragazza a cui aveva spezzato il cuore che bruciava i suoi quadri in un falò. Volevo fermarla, salvare i quadri, ma a lui sembrava non importare».

Ed ora a questo celebre, anzi celeberrimo James Dean dell’ arte secondo Novecento il Chiostro del Bramante dedica un’ ampia antologica, la stessa grossomodo vista a Milano pochi mesi fa, con più di un centinaio di opere provenienti dalla mastodontica collezione di Jose Mugrabi, imprenditore israelo-americano che possiede migliaia di opere, Warhol e lo stesso Basquiat in primis.

Dipinti, disegni, serigrafie, ceramiche, alcuni tra i famosi lavori realizzati a quattro mani con Andy (il sodalizio Basquiat-Warhol si spezzerà sfociando poi in una rottura mai sanata): la mostra romana, curata da Gianni Mercurio, descrive bene la veloce ma intensa parabola creativa di JMB, quasi tutta compresa nel breve volgere di un lustro abbondante, dal 1981 al 1987; una parabola turbolenta dove è impossibile scindere segno ed esistenza.

Basquiat usa le parole come elemento grafico per dare ritmo al lavoro. A ispirarlo, l’arte antica, greca e romana, ma soprattutto, la musica. Interessante la sezione dedicata alle ceramiche sulle quali realizza, con pochi segni veloci, i ritratti di amici e personaggi noti, da Keith Haring a Andy Warhol, da Cy Twombly a Walt Disney.

E sia del primo sia della seconda nel tempo s’ è detto tutto: il graffitismo originario, l’ elemento tribale, quello materico, l’ importanza della scrittura nei suoi lavori, il carattere drammatico e di denuncia della sua opera, il riuso di materiali di scarto, l’ altro sodalizio importante con Keith Haring, la divorante ambizione di un artista celebrato già a vent’ anni come una superstar.

 

«Come diventare Re? Prima di tutto crederci. È un requisito fondamentale per chi ha un obiettivo così ambizioso e il giovane Jean-Michel – scrive Mercurio nell’ azzeccato incipit del suo saggio – sembra avere già le idee chiare in proposito. A diciassette anni, al suo rientro in famiglia dopo l’ ennesima fuga da casa, dice al padre: Papà un giorno diventerò molto, molto famoso».

 

Opera di Baquiat comprata da Di Caprio

Profezia avverata, in un vorticoso mix di arte, colori urlanti, ribellismo, Tribeca, East Side, e notti selvagge che hanno valso a Basquiat il gallone di celebrità planetaria.

 

 

 

 

 

Articolo di Edoardo Sassi per il Corriere della Sera – Roma

Il diavolo in cucina

Il diavolo in cucina

In concomitanza con l’Expo milanese dedicata al cibo, il tema degli stili alimentari ha avuto una sua rinascenza. Ma ben presto, sulle prime pagine dei giornali, il tema che avrebbe dovuto rimanere centrale, cioè quello di come fare ad assicurare ai milioni di poveri al mondo cibo sufficiente, è sparito a favore di campagne pro o contro quel alimento o quella dieta. L’articolo che pubblico, ripreso da Rivistastudio, si inserisce in questo dibattito in maniera documentata e con obiettività, esponendo i vari punti di vista e mettendo in guardia da eccessi totalizzanti che contraddicono una corretta prospettiva salutogenica.

Alberto Sordi in Un americano a Roma

Alberto Sordi in Un americano a Roma

 

 

Non molto tempo fa Report ha dedicato un servizio all’olio di palma. Gran parte del reportage era incentrato sull’impatto ambientale della coltivazione della palma da olio, responsabile della deforestazione dell’Indonesia e di altri Paesi del Sud-est asiatico, ma non mancavano riferimenti all’insalubrità di questo ingrediente, quasi onnipresente nei cibi industriali, e reo di essere ricco di grassi, povero di antiossidanti e spesso raffinato chimicamente. Colpiva il titolo del servizio, “Che mondo sarebbe senza…”, che oltre a fare il verso allo slogan di un noto prodotto dolciario contenente olio di palma, ha anche un sentore salvifico. Immagina un mondo senza olio di palma: sarebbe un posto migliore, senza deforestazione, e noi saremmo tutti più belli, più sani e più magri. Prendi un alimento, eliminalo del tutto, e vedrai che la tua vita cambierà. La carne, per esempio. Oppure il latte, i carboidrati, o i dolci. Meglio ancora: individua un ingrediente comune nei cibi di largo consumo, proietta su di esso tutti i tuoi malanni o disagi, e comincia la battaglia. Come l’olio di palma. Ma anche il glutine, il lievito, il glutammato di sodio. Più che perseguire il bene, si tratta di rifuggire il Male. Vegetariani (niente carne), vegani (niente cibi di origine animale), gluten-free (niente glutine), paleo-diet (niente di “moderno”, dove per “moderno” s’intende successivo alla Rivoluzione del Neolitico, quella che introdusse l’agricoltura 12 mila anni fa), gli anti Ogm (niente cibi geneticamente modificati) e, nel caso più estremo, i sedicenti brethariani (niente cibo, punto). Libera nos a malo.

Homo dieteticus

Homo dieteticus

All Candy Expo Sweetens Up Chicago Alan Levinovitz, studioso di filosofia delle religioni alla James Madison University, è convinto che tutte le mode alimentari contemporanee abbiano una componente di redenzione, e che quest’elemento messianico abbia molto a che vedere una certa tendenza totalizzante, che si concentra sull’eliminare, ergo a liberarci da qualcosa. Levinovitz attacca e analizza questi “mantra alimentari”, parole sue, nel suo ultimo libro The Gluten Lie: And Other Myths About What We Eat (Regan Arts 2015). Il mangiar sano – o, meglio, il convincersi di mangiare sano – è una nuova religione, sostiene lo studioso. In primis perché fa appello a un antico desiderio umano di purezza e leva sui nostri sensi di colpa – e sul desiderio di sentirci in colpa per qualcosa – e poi perché si tratta di credenze in larga misura irrazionali. Non a caso spesso i loro sostenitori utilizzano termini vaghi, e dalle esplicite implicazioni morali, come “naturale” e “innaturale”, “cibo chimico”, “additivi chimici” o “tossine”. Cos’è un “alimento chimico”? Una definizione certa non esiste, dal momento che ogni alimento, per definizione, ha una sua chimica. E cosa significa definire un cibo “naturale”? In natura (se per “natura” intendiamo lo stato di cacciatori raccoglitori antecedente alla Rivoluzione del Neolitico, ma anche qui si potrebbe obiettare che “natura” è un termine assai impreciso) l’homo sapiens non consumava alcun vegetale coltivato.

Il cibo e l'uomo secondo Arcimboldo

Il cibo e l’uomo secondo Arcimboldo

La realtà è che molte di queste buzzword stanno a significare due cose: “buono” o “cattivo”. «Tanti di questi mantra partono da una base di verità, incluso il movimento anti-glutine. Alcune persone sono celiache, mentre altre pur senza essere celiache possono comunque beneficiare dal non mangiare glutine. Ciò che è irrazionale è sostenere che se qualcosa nuoce a una piccola parte della popolazione, allora deve fare per forza male a tutti. È qui che entra in gioco l’idea di purezza religiosa», spiega Levinovitz in un’intervista via email. «Se una sostanza è “corrotta” per alcune persone, allora deve essere impura e corrotta per tutti, deve essere trasformata in un tabù. Che si tratti di [mettere al bando] il glutine oppure i cosiddetti “alimenti raffinati”, spesso esiste anche una dimensione di colpa, perché si tratta anche di cibi altamente calorici: in una cultura patologicamente spaventata dall’ingrassare, consumare cibi e bevande che contengono glutine, come il pane, la pasta o la birra, diventa un guilty pleasure, un atto che richiede penitenza». Levinovitz non è il solo a muovere critiche di questo tenore. Nel suo recente saggio Homo dieteticus (Il Mulino 2015) l’antropologo italiano Marino Niola definisce l’ossessione del mangiar sano «una religione senza Dio», una «pratica fisica, ma anche morale, che riguarda salute e salvezza, corpo e anima», fatta di «rinunce spontanee, penitenze laiche, sacrifici che hanno a che fare più con la coscienza che con la bilancia». Come Levinovitz, lo studioso delle religioni, anche Niola, l’antropologo, è convinto che il rifiuto dei chili di troppo non sia che una delle componenti che spingono molti ad abbracciare questa nuova fede: «Siamo tutti alla ricerca dell’alimento che ci rimetta in pace con noi stessi. Tutti alla ricerca del regime salvifico», scrive. Come Levinovitz, inoltre, anche Niola trova significativo che i mantra contemporanei nascano dal desiderio di escludere ciò che è corrotto, più che dalla ricerca di ciò che è sano. «Una volta si diceva che siamo quello che mangiamo», mentre oggi invece le tribù urbane tendono a identificarsi in ciò che non mangiano: «La nostra diventa un’alimentazione in levare. Senza uova, senza latte, senza sale, senza zucchero, senza carboidrati, senza lieviti […] È una sorta di esorcismo dietetico che espelle dalla tabella alimentare i cibi proprio come se fossero il diavolo». A quest’urgenza di purezza per esclusione, Niola cerca di dare una spiegazione con la necessità di ripristinare un rapporto con l’assoluto in assenza di una divinità: «In una società secolarizzata come la nostra, da cui è svanito ogni orizzonte trascendente, religioso o laico, la sacralità si è ormai trasferita al corpo, che è diventato il simulacro di Dio. Il tabernacolo di un culto a sé che ha messo l’Io al posto del Dio, rendendo nel contempo ciascun individuo responsabile della cura e della conservazione del simulacro», scrive. Inoltre, sostiene l’antropologo, il desiderio di rinunce alimentari potrebbe essere una reazione all’abbondanza di cibo, senza precedenti, di cui gode il mondo industrializzato: «Il fatto è che in una società come la nostra il grande nemico non è la fame, ma l’abbondanza. Che si porta dietro il suo minaccioso carico di sensi di colpa, fobie e idiosincrasie».

 

La famosa zuppa dipinta da Warhol

La famosa zuppa dipinta da Warhol

Quarant’anni fa lo psicologo dell’Università della Pennsylvania Paul Rozin ha coniato il concetto del «dilemma dell’onnivoro». Ogni animale capace di mangiare praticamente tutto per nutrirsi deve compiere delle scelte. I carnivori mangiano la carne che gli capita a tiro, gli erbivori l’erba. Gli onnivori tuttavia, avendo una scelta potenzialmente più ampia, devono fermarsi a pensare cosa conviene loro mangiare, a seconda della situazione (vale per gli umani, ma anche per i topi, soggetto originario delle ricerche di Rozin): vale la pena di allontanarsi dal branco alla ricerca dell’alimento più calorico, che però comporta rischi e un dispendio di energie, oppure meglio accontentarsi di cibo dall’apporto nutrizionale minore, ma più rapidamente disponibile?, è una domanda che gli animali onnivori si pongono quotidianamente. L’onnivoro deve scegliere. Per l’uomo, in passato, questa scelta è stata relativamente ridotta, data la scarsità del cibo. Nelle società benestanti, tuttavia, possiamo mangiare ogni cosa, perché il nostro corpo digerisce tutto, e possiamo mangiare ogni cosa perché tutto è a disposizione. La scelta diventa di fatto infinita. In alcuni individui, si sa, l’essere posti davanti a una scelta infinita genera ansia.

La mancanza di limiti si traduce nella necessità di imporre a se stessi dei limiti: mi impongo di non mangiare carne, mi impongo di non mangiare glutine, mi impongo di non mangiare latte, per esorcizzare il mio disagio. Alcuni psicologi riconducono l’“ortoressia nervosa”, termine coniato nel 1997 dallo psichiatra Steven Bratman per descrivere l’ossessione per le “diete sane”, a un disturbo dell’ansia, ergo alla necessità di esercitare controllo alla propria esistenza: «La necessità di eliminare certi tipi di cibo come la carne o il grano, o gruppi interi come i carboidrati e i grassi, ricorda i disordini dell’ansia e i disordini ossessivo compulsivi», spiega la psichiatra inglese Deanne Jade, presidente del Centro Nazionale per i Disturbi Alimentari, in un’intervista via email. «Ho incontrato molti pazienti che non mangiano proteine perché ‘sono vegetariano’, ‘sono allergico ai latticini’ oppure perché ‘i cereali mi fanno sentire gonfio’». Nei casi più estremi, seguire mantra alimentari può avere conseguenze nocive sulla salute fisica. Per esempio uno dei problemi, come faceva notare un’inchiesta del New Yorker, è che molti dei cibi senza glutine in commercio spesso sono insolitamente ricchi di sale, grassi e zuccheri: «Cos’è che vende il cibo. Sale, zucchero, grassi e glutine. Dunque se i produttori devono togliere un elemento, devono aggiungerne un altro per rendere il cibo appetibile».

cibo mondo 1Resta da chiedersi dove porre il confine tra chi, magari anche sbagliando, intende semplicemente seguire una dieta sana e chi è invece è guidato da un’ossessione: «Bisogna fare una distinzione tra le persone che mangiano i cibi sani, senza idee estreme, con chi invece segue regole rigide e immotivate», risponde Jade. Levinovitz, lo studioso di religioni, la mette giù in termini più esistenzialisti: «Fatti una domanda: alla fine della tua vita, ti renderà felice pensare al tempo che hai sprecato preoccupandoti di ciò che mangi? Al tempo che hai trascorso davanti allo specchio chiedendoti quale dieta ti avrebbe reso una persona migliore? Conosco persone terrorizzate dall’idea di partecipare a una cena o a una riunione di famiglia perché temono di entrare in contatto con cibi malsani o impuri. Questa è la mentalità dell’ortoressico».

Nell’estate del 2014 una delle più celebri blogger vegane degli Stati Uniti ha annunciato di essere ortoressica. Per oltre un anno Jordan Younger aveva spopolato su Instagram, sotto il nome di “Vegan Blondie” con immagini di frullati ipocalorici, insalate di quinoa e pietanze al tofu sapientemente impiattate. Con oltre 115 mila follower, aveva anche lanciato una sua linea di T-short, con slogan del tipo: “la vodka è vegana?”. Poi, una giornata di luglio e senza preavviso, il dietrofront: scusate tanto, m’ero sbagliata, pensavo di essere vegana invece ero solo ortoressica. Il problema è che Jordan questa ortoressia se l’era diagnosticata.cibo fame

Proprio come molti suoi (ex) colleghi blogger ultra-salutisti continuano ad auto-diagnosticarsi intolleranze al glutine o al lattosio. Ad oggi l’ortoressia non figura nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.

Anna Momigliano per http://www.rivistastudio.com/

 

 

 

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