In questi giorni, per allontanare, per un attimo almeno, il vociare delle guerre, due avvenimenti a loro modo esemplari: a Ravenna un coro di 3116 cantori provenienti da tutta Italia, sotto la direzione di Riccardo Muti. Sulle Dolomiti, il maestro Renato Brunello che fa musica in mezzo ai camosci. Due avvenimenti in cui è la musica a riaprire la speranza, invitare all’armonia e alla bellezza, e con esse invitare alla pace, sempre invocata, sempre lontana, misura ultima delle follia umana.
Il maestro Muti al Ravenna Festival: c’è tutta l’Italia, il canto supera le differenze,unisce come una preghiera.
Irrompe sul palco correndo come una rockstar, il Pala De André di Ravenna esplode, la ola diventa boato. Davanti a Riccardo Muti ci sono 3.116 cantori, dai 4 agli 87 anni, ovvero 104 cori, specie amatoriali, più 1.202 coristi singoli e 208 voci bianche.
Arrivano da tutta Italia. Da Tassullo in Val di Non a Rutigliano nel Barese. Hanno risposto alla chiamata del maestro, compiere insieme un «viaggio nella coralità, come unione dei popoli e dei sentimenti», viatico di pace. Exploit del «Ravenna Festival»: due giorni di lezioni e prove, sotto il titolo agostiniano «Cantare amantis est», «Cantare è proprio di chi ama».

Tema, tre grandi cori verdiani. Ma è il 2 giugno e Muti accende un’altra fiamma: tutti in piedi, si canta l’inno d’italia. Travolgente, roba da azzurri campioni del mondo. Muti, però: «Ho guardato il manoscritto di Mameli, il “sì!” finale non c’è, suona volgare, rifacciamo!». Bis dell’inno, ovazioni da stadio…
«Questo incontro meraviglioso non è solo un cantare insieme», spiega Muti. «Sant’agostino dice anche “chi canta prega due volte”, il canto in sé è già una preghiera. E io spero che nelle nostre chiese tornino a risuonare le grandi polifonie, Palestrina e non solo. Vi lascio questo compito. Per me sta diventando una specie di follia, perché conosco il valore della nostra terra e della nostra cultura.
Poi, al lavoro. Muti è in forma rutilante, scherza e rimprovera, racconta aneddoti, cita Eduardo, recita Salvatore Di Giacomo in napoletano, canta, vola al piano, suona, perfino salta. Attacca Va’, pensiero e l’effetto delle tremila voci è commovente. Dice un mezzosoprano: «Poi ho chiamato mio marito a Livorno, ma non riuscivo a parlare, mi veniva da piangere». Muti smonta e affina frase per frase. «Non è vapensiero, è va’ virgola pensiero. Un desiderio, un incitamento. Verdi non lascia nulla al caso, pensa alla diversificazione dell’emissione vocale. Se non si cura questo, si offende l’opera italiana e la nostra cultura». Riprende. «Legato! Non spezzate le parole! Del Giorrrdano, la “r” ha un peso sonoro!». Esplode «O mia patria», da brividi, ma il maestro ferma tutto. «E qui viene fuori lo spirito italico. Ma c’è scritto forte? No. Il crescendo è su “sì bella”».
Significati, stile, verità: stessa analisi per Patria oppressa da Macbeth. «Mi appello al Meridione: pensate alle confraternite, al sabato santo, come a Molfetta». Dai bassi si leva un uragano: lo stuolo dei molfettesi. «Qualcuno dei bassi canti l’ottava sotto». Perbacco, un mi sotto il rigo, ce la faranno? «No, questo è un rutto. Molfettesi, non fatemi fare brutta figura». «Da capo, la “a” dev’essere coperta, potrio oppresso, devo sentire l’oppressione». Poi la Processione dai Lombardi. «Qui state piangendo, non è…», intende Wagner, e intona «Il Nazaren piangea» sul tema dell’olandese volante! «No, questo è Verdi, qui le pause sono dolore».
Incredibile come tremila cantori rispondano con tanta prontezza a un gesto del maestro. «Sembra che abbiano sempre cantato insieme», ammette Muti.
«Mi ha colpito il suono, ma ancor più gli intenti espressivi di questi cori. Anch’io ho imparato qualcosa: che Sant’agostino aveva ragione, cantare è di chi ama. I fiori ci sono, basta innaffiarli, il nostro è un terreno fertilissimo, qui c’è tutta l’italia. Il senso della nostra cultura accomuna tutte le regioni al di là delle differenze. Il canto unisce il sentimento della nazione e della nostra storia. Mai avuto un’esperienza del genere. Forse vale la pena continuare anche negli anni futuri. Questa unità di intenti e di sentimenti è un miracolo. L’italia che canta è migliore di quelli che cercano di non farla cantare».
Articolo di Gian Mario Benzing, Corriere della Sera
SULLE VETTE DELLA MUSICA: I CAMOSCI AMANO BACH
L’idea fu di Paolo Manfrini, ma Mario Brunello la cullava nei suoi sogni già da ragazzo. E in questi trent’anni il musicista di Castelfranco Veneto, dei Suoni delle Dolomiti è stato anima, icona, ambasciatore mondiale e ideatore, suonando il suo violoncello tra pareti di rocce, su prati, in riva a un laghetto o al sorgere del sole.
Maestro, che cosa rappresentano per lei i «Suoni»?
«L’inverarsi di un sogno. Ho una baita in montagna, tra le vette feltrine, da cui si vedono le Pale di San Martino. Ci andavo sempre a studiare e già da ragazzo amavo suonare all’aria aperta; violoncello in spalla e scarponi, alla ricerca di un prato o una balza dove esercitarmi in solitudine. Quando Paolo Manfrini mi chiese cosa ne pensassi di un festival tra le Dolomiti, vidi il mio sogno realizzarsi».

Pensava che avrebbe avuto un tale successo?
«Sinceramente, non era un mio problema. Per noi voleva essere un fatto culturale, per questo quando il successo è stato “troppo”, abbiamo cercato dei correttivi».
In che senso troppo?
«Siamo arrivati a suonare davanti a dieci, quindicimila persone, al primo concerto ce n’erano sessanta. Non ne faccio una questione di numeri, anzi, è bello che tanti partecipino, ma è il modo: essendo i concerti a luglio e agosto, c’erano già tanti turisti al rifugio o nella zona che ospitava l’evento, e durante l’esecuzione chiacchieravano e schiamazzavano come fosse mero sottofondo da pianobar. Invece la gente deve scegliere di venire a sentire un concerto, e deve camminare per farlo. Anche per questo abbiamo spostato il festival da fine agosto a inizio ottobre».
Anche ai concerti all’alba c’era tanta affluenza?
«Sono quelli che hanno avuto l’incremento maggiore, ho visto più di tremila persone che alle sei del mattino erano già schierate nel luogo del concerto».
Come nacque quest’idea?
«Da bambino mi hanno insegnato che per andare in montagna si parte il più presto possibile, le prime ore sono le più belle, quando la luce crea atmosfere magiche. Come quella creata da Margherita Hack, che spiegava il cosmo in modo così bello che sembrava di toccare le stelle a una a una. Mentre stava parlando, il primo raggio del sole è arrivato proprio a illuminare lei e poi via via tutta la gente; quando toccò lei si levò un “oh” corale di stupore».
In questi concerti gli occhi contano tanto quanto le orecchie?
” Esecuzione All’aria aperta il suono parte via e non lo si sente più, così deve essere il più bello possibile
«Le risponderei di sì, ma… Le racconto un aneddoto. Terminato un concerto, mi si avvicina una signora tenuta a braccio da una ragazza, e mi dice: “Sono cieca, sono venuta apposta per sentire la musica e la montagna”. Al momento fu un pugno allo stomaco, e solo dopo ho realizzato la grandezza di ciò che ci aveva comunicato quella signora che, guidata, aveva camminato per due ore su un sentiero di montagna».
I «Suoni» hanno approfondito il suo rapporto con la montagna?
«Me l’hanno fatta conoscere meglio. Per noi veneti esistono le Dolomiti del Cadore, del Bellunese, dell’agordino, i “Suoni” mi hanno fatto conoscere tutte le altre. Le mie preferite sono le Dolomiti di Brenta, dove farò i tre giorni di trekking musicale».
La montagna ha cambiato il suo modo di fare musica?
«Sì, e radicalmente. Quando si suona in un teatro, in una sala, si sta attenti a come l’acustica diffonde il suono e lo restituisce all’esecutore. All’aria aperta il suono parte via e non lo si sente più, così deve essere il più bello possibile nell’istante stesso che lo si crea sulle corde del violoncello. La montagna ha migliorato il mio suono».
L’impresa più difficile? «Un concerto al rifugio Dodici Apostoli con Francesco Sansalone, che fumava due pacchetti di sigarette al giorno e voleva continuamente fermarsi per accendersene una; non arrivavamo mai». C’è un sogno irrealizzato? «Suonare ai 3535 metri del rifugio Vioz. Ci provammo, ma si scatenò un terribile temporale e dovemmo rinunciare. Ma ci andremo».
L’autore montagna?
«Bach, quando l’ho suonato al Boè s’è fermato ad ascoltarlo anche un brando di camosci».
Articolo di Enrico Parola, Corriere della Sera


