LA DOPPIA MORSA
Questo articolo di Federico Fubini chiarisce, in maniera semplice ma rigorosa, cosa aspetta sul piano economico all’Europa e al mondo dalla politica di Trump sui dazi e dalla aggressiva invadenza cinese.
L’Europa è stretta in una morsa fra gli Stati Uniti e la Cina, ma non sembra volerlo ammettere a se stessa. L’assenza di qualunque sostanziale reazione allo scivolamento di questi mesi ed anni rischia di passare alla storia come un esempio da manuale di declino strategico; di preferenza da parte di ciascuno dei leader per la difesa (illusoria) del proprio orticello rispetto a una reazione collettiva efficace. Vediamo cosa sta accadendo.
L’università di Penn Wharton ha creato un simulatore che stima le entrate del bilancio americano grazie ai dazi di Donald Trump. Ai livelli attuali di circa il 15% in media, ipotizzando che i flussi del commercio si adeguino di conseguenza, nei prossimi dieci anni le tariffe produrrebbero circa 3.200 miliardi di dollari. Coprirebbero così i tagli alle tasse (in gran parte) agli americani più ricchi, imponendo un onere sugli stranieri sotto forma di tasse all’ingresso e sul resto degli americani sotto forma di prezzi più alti dei prodotti esteri.
Come tutte le proiezioni, anche queste vanno prese con un granello di sale. Ma Penn Wharton registra anche un raddoppio delle entrate doganali nella prima metà del 2025, rispetto a un anno prima. Non era difficile immaginarlo.
Gli Stati Uniti stanno importando beni per 3.200 miliardi di dollari all’anno dal resto del mondo, dunque un dazio medio al 10% (cioè più basso di oggi, ma quattro volte più alto rispetto a gennaio) genererebbe meccanicamente entrate per circa trecento miliardi l’anno e tremila in un decennio: più o meno il costo del «Beautiful Budget Bill» di Trump approvato ieri dal Congresso.
Naturalmente non è detto che vada così. Le aziende europee o cinesi potrebbero cercarsi altri mercati, praticare degli sconti, trasferirsi a produrre in America per non pagare i dazi. E in ogni caso quei trecento miliardi di dollari in più non bastano certo a un bilancio americano che ne genera duemila all’anno di sempre nuovo deficit e deve finanziarsi o rifinanziarsi per undicimila miliardi all’anno: una somma quasi incomprensibile, un decimo del prodotto lordo del mondo. Non sarà facile in ogni caso trovare compratori per la carta del Tesoro degli Stati Uniti, infatti il suo prezzo sta già scendendo sotto forma di rapida svalutazione del dollaro.
Ma ciò che conta adesso è che Trump non vede ragioni di ammorbidire il suo approccio. Anzi. L’economia americana si è ripresa e oggi non rischia più una recessione, Wall Street è risalita grazie ai colossi tecnologici ed è ai massimi. Il presidente sa che ha bisogno di quei soldi, in pratica un’imposta sul valore aggiunto (Iva) questa sì discriminatoria, perché riservata solo al resto del mondo. Dunque affonderà i colpi sull’Europa, perché vede che essa «non ha le carte» — direbbe lui — per ribellarsi. Lo scenario migliore prevede un dazio al 10% su tutto il nostro export, senza reazioni da parte nostra. Ma Trump intuirà rapidamente se può andare più in là: già oggi il dazio sulle auto è al 25%, su acciaio e alluminio al 50% e gli Stati Uniti hanno aperto un’indagine sui presunti comportamenti scorretti del nostro settore farmaceutico. A oggi non sembra probabile che la Casa Bianca si accontenti di un semplice 10% generalizzato. E ai piani alti di Bruxelles si percepisce paura e impotenza: sembra si sia concluso che oggi l’Europa non ha le risorse politiche, tecnologiche, militari e commerciali per affrontare uno scontro con gli Stati Uniti come invece ha fatto la Cina.
Il quadro con quest’ultima non è molto diverso. L’export tedesco verso la Repubblica popolare per il secondo anno di seguito sta crollando a meno 12%, quello dell’Italia anche, mentre le vendite cinesi in Europa salgono di oltre il 6%. Al recente Forum della Banca centrale europea a Sintra un’analista della Federal Reserve, Ana Maria Santacreu, ha mostrato cosa succede fra i due grandi blocchi: la Cina è sempre più forte nei settori un tempo dominati dall’europa — auto, chimica, macchine utensili, robotica, presto anche aeronautica civile —, dunque ci sottrae quote di mercato nel mondo e non compra più i nostri prodotti. Invece l’Europa è sempre più dipendente dalla Cina per i beni ad alta tecnologia, che dal 2017 abbiamo iniziato a comprare dalle sue fabbriche a ritmo crescente.
Così il ritardo tecnologico indebolisce l’Europa nei rapporti con la prima e la seconda economia del mondo. Avremmo un grande punto di forza, siamo l’unica area del pianeta ormai dove valgono lo stato di diritto, l’imparzialità dei poteri pubblici, la stabilità finanziaria. Ma la stiamo sviluppando? Il rapporto di Enrico Letta sul mercato unico è di più di un anno fa, quello di Mario Draghi sulla competitività è di quasi un anno fa. Tutti ne hanno applaudito i contenuti, eppure per entrambi non si vede neanche l’ombra di un calendario di realizzazione. I principali governi — Italia inclusa — agiscono spesso in senso opposto alle raccomandazioni di Letta e Draghi. A Bruxelles intanto Ursula von der Leyen ha accentrato più poteri rispetto ai suoi predecessori e si consulta con pochissimi. Anche lei, come gli altri leader, sarà giudicata dai risultati.
Articolo di Federico Fubini per Il Corriere della Sera