Alla salute di Angelina Jolie

Alla salute di Angelina Jolie

 

Amazzone

Amazzone

Quando mi tolsero un dente sano, quello del giudizio, perché premeva sugli altri, ne feci una tragedia. Mi sentivo  mutilato e il vuoto che sentivo con la lingua mi sembrava peggio del male temuto. L’episodio mi è venuto in mente  leggendo la storia della doppia mastectomia di Angelina Jolie, la bellissima attrice americana. Fonti mitologiche  affermano che le Amazzoni, esperte donne guerriere, si tagliavano il seno destro per meglio tendere l’arco. Oggi le  donne americane si sottopongono alla chirurgia preventiva non per lanciare frecce, né per sconfigge il male, ma solo  per evitarne uno geneticamente probabile. Anzi, secondo le evidenze della medicina genetica, per alcune di esse, fra  cui la dolce Angelina, che la stampa ci informa essere portatrice sana dei geni Brca 1 e Brca 2, quasi certo. Secondo  osservatori superficiali, il problema della deriva cui è soggetta la chirurgia preventiva sarebbe trascurabile,  interessando, in definitiva, una piccola popolazione di ricchi stravaganti disposti, se potessero e se qualcuno  vendesse,  a comprarsi l’immortalità.

In realtà, il numero delle donne che in America hanno proceduto a pratiche di chirurgia preventiva, è decuplicato nell’ultimo decennio: “solo nel 2006 è cresciuto del 15% il numero delle donne fra i 18 e 39 anni che si sono fatte togliere almeno un seno”, informa una ricercatrice dell’Università del Minnesota in uno studio apparso sul “Journal of Clinical Oncology”. Non una moda passeggera, dunque, ma qualcosa destinata a prendere piede ovunque, come molte delle tendenze americane, quindi anche in Italia. L’hanno capito benissimo le assicurazioni private  in USA che spingono sulle cure preventive, non perché siano diventate paladine della salute degli americani, ma per evitare futuri e più pesanti esborsi o risarcimenti. Vediamo di fare un poco di chiarezza. Intanto, il termine preventivo, per questi tipi di intervento, non mi sembra appropriato, meglio sarebbe usare il termine di chirurgia predittiva. E’ infatti sulla base di una previsione che essa viene motivata, dalle sue stesse vittime consenzienti. Prevenzione in campo medico, per dirlo con semplicità, vuole significare impedire, con un approccio globale e multidisciplinare, l’insorgenza di una malattia o ritardare e minimizzare le sue conseguenze, una volta insorta. Asportare un organo sano è un’altra cosa; possiamo parlare di mutilazione assistita fatta, come dice la splendida Angelina, “sotto l’ombra della paura del cancro”?  Forse esagero e minimizzo il peso opprimente di una malattia latente? Può darsi, ad ogni modo del suo problema Angelina ha voluto farne una cosa pubblica, perché fosse di esempio alle altre madri. Ma è esemplare procedere così, al di là dei costi proibitivi per la generalità delle persone? Poi, lo dico sottovoce, avrebbe fatto bene a tacere: chi è famoso è anche condannato a rimanere coerente alla propria icona: nel suo caso di bellezza perfetta e intangibile. Forse perciò mi sento ora come se mi avessero tolto un altro dente sano.

In generale, sono convinto che l’asportazione di organi sani nella previsione che si ammalino resta un non-senso, anche in un’epoca di perfezionamento dei test genetici e di capacità inusitate nelle indagine diagnostiche. Se si parte dall’assunto che del proprio corpo ognuno fa ciò che vuole, il tema non evoca problematiche etiche, quindi non varrebbe, per i sostenitori di questa tesi, la regola che non tutto ciò che è possibile è moralmente lecito. Senza invocare aspetti controversi, possiamo però certamente richiamare la semplice regola utilitaristica secondo la quale tutto ciò che è possibile non sempre risponde al rapporto costi e benefici, né a stato di necessità, né ad appropriatezza. Faccio tre domande semplici, le prime due alle donne, la terza al medico, perché da solo non saprei rispondere.

Conviene di più mutilarsi nel corpo, per di più in una parte dove si concentra lo specifico femminile, oppure sottoporsi periodicamente a controlli appropriati, in grado di cogliere la malattia al suo esordio con altissima probabilità di debellarla, di più della chirurgia stessa?

Conviene rispettare il nostro corpo, avendone una matura consapevolezza, senza agire emotivamente sotto lo spettro della paura e finire di violentarlo, con quel danno psicologico irreversibile che molte donne descrivono?

Conviene (è lecito) veramente sottoporre a pratiche mediche o chirurgiche di controversa appropriatezza un paziente sano, asportando un organo nella previsione che dovrà/potrà ammalarsi?

Si pongono, in definitiva, due problemi fra di loro correlati: quale sia la vera natura della prevenzione in campo sanitario e quali siano i limiti delle pratiche c.d.prevenzionali.  Spingersi a intervenire su un organo sano e rimuoverlo traumaticamente sulla base di evidenze statistiche o predisposizioni genetiche, a mio giudizio, non è prevenzione. Viceversa, il forte contenuto prevenzionale che la medicina e le pratiche di educazione alla salute oggi sono in grado di mettere in campo trovano modo di esprimersi in pieno specialmente nelle malattie croniche, quelle che causano il maggior numero di decessi e costituiscono un forte esborso economico per il SSN, come infarti, obesità, diabete, malattie respiratorie, tumori.

Ancora una volta, a ben vedere, ciò di cui stiamo discutendo è attorno al confine che esiste fra salute e malattia, che sappiamo essere molto labile e precario, secondo il concetto dinamico ed evolutivo che abbiamo codificato essere la salute, confine che anche l’operatore sanitario deve conoscere e rispettare.

Se avessi vicino la incantevole Angelina, mi limiterei perciò a ripeterle le parole di Wittgenstein: “Non è affatto chiaro quale problema concernente la vita pensiamo di risolvere, se immaginiamo che si prolunghi per sempre.” Forse non c’entrano niente, ma aiutano a ragionare e a dare il giusto peso alle cose della vita, anche per chi come lei, qualcosa che assomiglia all’eternità se l’è già guadagnata.

16.5.2013

De senectute

De senectute

 

L'attore Giorgio Albertazzi, esempio di vecchiaia attiva

L’attore Giorgio Albertazzi, esempio di vecchiaia attiva

Questo articolo è destinato a chi, essendo nato a metà del secolo scorso, ha più ricordi che propositi. Un caro amico, non potendo più  dare cattivo esempio, come nella canzone di De Andre’,  mi invia un promemoria di buoni consigli. Mai destinatario è stato più  indovinato

 Ad una certa età parecchie cattive abitudini presentano il conto. L’inerzia degli anni si allea col pregiudizio che vuole che un  legno storto non può raddrizzarsi. Ma non è così, mai, anche se fra gli alti e bassi della vita vincere l’inerzia e riprogettarsi è uno slancio    per reni ben più giovani.  Ma l’esperienza e il metodo aiutano. Essi suggeriscono che nulla è veramente impossibile e che un grosso    problema non è più tale se lo dividiamo nelle sue parti. Il saggio amico le passa in rassegna: la salute, il lavoro, l’amicizia e gli affetti, cose  che con l’età cambiano destinazione, hanno il fiato corto, non sono più quelle che pensavamo da giovani. Forse la cosa più difficile è  capire come per noi esse sono cambiate, prima tappa di adeguamento ad uno status nuovo, che ci evita giovanilismi fuori luogo e ci  permette di capire che la vecchiaia può essere, se non una risorsa, uno stato fecondo e sereno (malattie permettendo o forse nonostante  esse). Ecco, per ognuna, cosa il buon senso  del mio amico suggerisce.

1- Con l’avanzare dell’età distaccarsi dal lavoro, come una nave si stacca man mano dalla riva. Ci accorgeremo che le cose funzionano anche senza di noi. La cosa ci sorprenderà, ma presto l’amarezza sarà addolcita dalla autonomia inaspettata di cui potremmo godere. Questo ci permetterà di guardarci attorno, vecchi interessi si affacceranno. Non resta che coltivarli. La cosa più semplice è sviluppare qualche talento sepolto, qualche abilità inespressa. Applicarsi ad essi dà un senso di libertà sconosciuto poiché alludono a percorsi di vita che non sono stati, ma che possono essere in limine riacciuffati. Se non si hanno talenti, darsi allo sport, ai viaggi, al non profit, ecc. Obiettivo: fino all’ultimo dobbiamo sentirci utili a noi e agli altri e soprattutto non avere tempo per covare pensieri oziosi.

2- Recuperare e mantenere un tono psicofisico adeguato, applicandosi sistematicamente ad attività ludico-sportive. Ma farlo sistematicamente, con la stessa serietà che scorgiamo nei bambini quando giocano. Attenzione, non stiamo parlando di una pratica che assicura l’eterna efficienza fisica, ma un dignitoso, graduale allineamento delle “intenzion dell’arte”, cioè le nostre pulsioni,  ad un corpo destinato a rispondere sempre meno.

3- Limitare e controllare l’alimentazione, spostando la libido e la golosità senile verso pochi cibi e bevande di ottima qualità e serviti in un contesto sereno e conviviale. Una diffusa catena alimentare usa questo slogan: la vita è troppo breve per mangiare male. Non so se la vita sia breve o meno, certo a mangiar male si accorcia. Non si vive per mangiare, ma alimentarsi può essere una esperienza e un’arte, che si rinnova ogni giorno. Evitate di mangiare da soli,  perché la solitudine è un ingrediente che rovina il pasto più succulento. State in compagnia, magari in una  tavola calda, mai da soli, piuttosto farsi una tisana e mettersi a leggere un buon libro o ascoltare una romanza.  Il  menù settimanale è importante perché evita gli assilli, attua una rotazione razionale degli alimenti e li mette in relazione alle stagioni e al fabbisogno calorico. Coloro in sovrappeso, dopo un mese di pasti” pochi ma buoni” non avranno bisogno della bilancia, perché tutto sarà più leggero per loro: fare le scale, camminare, alzarsi da una poltrona, raggiungere uno scaffale. Potranno guardarsi allo specchio e vedersi per la prima volta, fieri di accettarsi.

4- Non trascurare il ruolo che sentimenti e affetti hanno per contrastare l’ipocondria della vecchiaia e la tendenza a ripiegarsi su se stessi. In vecchiaia, se abbiamo seminato bene e la stagione è stata propizia, non dovrebbero mancarci affetti filiali o coniugali. Ma se intorno vediamo solo il vuoto, non c’è motivo per disarmare. L’amore è sempre intorno a noi, poiché “muove le stelle e le altre cose”, basta essere recettivi. L’età avanzata ci fa spesso e a torto troppo selettivi, schizzinosi  ed esigenti. Forse perché sentendoci un peso non accettiamo quello degli altri; o forse perché siamo chiusi nelle nostre convinzioni come dentro una armatura, che ci protegge ma ci esclude. Maggiore correntezza, tolleranza e indulgenza possono assicurare una cerchia di contatti sufficienti per una vita di relazioni ricca di stimoli. Se ci sentiamo in grado di dare una carezza, ebbene quello è il momento più probabile che qualcuno ci preceda, accompagnando la carezza perché la illumini con un sorriso.

Da Repubblica FI G.P.Donzelli 13.5.2013

Immagine in evidenza: Norberto Bobbio, che ha scritto un saggio con lo stesso titolo: De senectute

Ultima milonga

Ultima milonga

Paolo Conte

Paolo Conte

Serata al Regio con Paolo Conte. Lo affianca, quasi sorregge, una ensemble strepitosa, di veri virtuosi ed eclettici musicisti.  Su palco almeno 12 elementi: piano, tre chitarre, violino, batteria, vibrafono, due fax, fisarmonica, clarinetto. Un volume di  suono travolgente, come i ritmi che produce, a volte persino eccessivi.Conte esce dalla penombra del palco, fronte coperta dalla mano sinistra, come a volersi proteggere dalla luce o dallo  scrosciante applauso che lo saluta. Sembra traballare sulle  gambe, si appoggia al pianoforte, risponde con una smorfia e  impercettibili scuotimenti del capo. Il viso scavato sembra  addirittura prosciugato, i gesti delle lunga braccia sono  meccanici, compulsivi.  Mi viene in mente Edith Piaf, il suo ultimo  concerto, il suo offrirsi al pubblico già fra gli spasimi della morte.

Conte poi attacca, la milonga sensuale, il naso di Bartali lungo come una salita, le topolino amaranto, Genova lontana, una giornata al mare, le stelle del jazz…. le fisarmoniche di Stradella….Così eravamo noi.. così eravamo noi…  Un autentico groppo alla gola. Un tuffo nel passato, un brivido di emozioni che percorre la platea.  La sua voce è ancora più rauca, fievole, si appoggia sulle note, perdendosi in suoni, in suggestioni sonore più che in parole, ricamando fra un za-za-ra-zzar è una ubriacatura di jive. Sa che il pubblico le conosce a memoria e le completa dove lui le tralascia o farfuglia du-du-du-da. Ad un certo punto, sul finale del concerto improvvisa, con un guizzo si butta quasi sul pianoforte, tamburella sul legno, accompagna con le dita ossute le note che smorzano, mentre le luci si spengono.

“Sei un genio” urla uno dalla platea affascinata, lui abbozza un sorriso schivo.

Riemerge dalle quinte richiamato dagli applausi insistenti, ma è come un’ombra fugace, che ondeggia nel diradarsi delle tenebre, in cui sparisce come sparisce nella mente l’immagine di un lontano ricordo…. Ci vediamo al Mocambo!

Ilare Ilario

Ilare Ilario

 

Cristo deposto Torino

Cristo deposto Torino

Mi è giunta la notizia della morte di Ilario B…… Si trovava a Roma per un incontro dei direttori dei conservatori musicali, una delle sue ultime cariche. E’ morto nel sonno in albergo. Mi chi è stato Ilario?

Un doroteo, si definiva lui stesso fregandosi le mani, un gesto che fatto da lui comunicava energia e sollecitudine. In origine è stato professore di disegno. Ma non era il suo mestiere, anche se i suoi allievi non ne parlavano male, forse per la forte carica comunicativa. Ben presto divenne amministratore in Comune di R…., poi per lunghi anni si impegnò nel mondo lucroso della sanità privata convenzionata. Stava giusto costruendo una nuova sede della casa di cura di cui era socio, in un posto che solo amministratori compiacenti potevano permetterglielo, su un terreno di un convento, mondo ecclesiale al quale non era estraneo. Uomo poliedrico, dunque, mai problematico, a tratti superficiale. Gli ostacoli li superava più che con la forza delle convinzioni e l’analisi dei fatti, con l’impeto e l’entusiasmo di fare, che erano i suoi tratti distintivi come uomo pubblico. Forse per questo non si pensò mai a lui come uno della prima fila, quando queste erano occupate da uomini come Bisaglia o Bernini, per rimanere in famiglia. Fu con me assessore nella giunta P….., ma lo era stato ancora prima; essendo io assessore alle Finanze mi industriai per coprire alcuni buchi da lui lasciati. In particolare per l’onorario di un famoso restauratore di Bologna, che aveva restaurato un bel dipinto che sta in una nicchia nel salone d’onore, un magnifico Cristo risorto di scuola belliniana. I fini in Ilario erano buoni, le strade che sceglieva impervie e a volte sul limite della legalità. Ma non perché gli piacesse profanare le regole, ma perché le regole in fondo sono delle bardature che noi stessi ci diamo per appesantire i nostri sforzi. Un discorso, questo, che ha nobili ascendenze filosofiche, ma poco adatto agli affari pubblici, anche ai tempi dei rimborsi a pie’ di lista o delle sanatorie di bilancio. Nel privato non lo conoscevo, una figlia, la moglie rigorosamente lontano da scene pubbliche. Si sussurrava di tresche amorose, ma forse erano solo chiacchere di provincia. Al contrario di parecchi suoi amici dorotei veneti, non credo fosse assoggettato al denaro, o peggio corrotto. Era un uomo di partito ma non di apparato; per la sua mentalità a volte semplicistica, credo avesse in uggia le burocrazie. Condusse una vita normale, senza sfarzi, si sentiva e definiva rigorosamente polesano, quindi erano forti il suo attaccamento alla terra e alle tradizioni. L’orizzonte per lui più lontano poteva al massimo essere Venezia, che rimaneva sempre la Serenissima. Credo sia stato fra quelli che vollero l’allestimento del Museo dei due fiumi, inaugurato con sfavillio da Vittorio Sgarbi, che abitava allora sulla sponda opposta del Po di Polesella.

Iliario è stato un personaggio di una provincia povera e arretrata, di un territorio ancora segnato dalla terribile alluvione del 1952, ma positivo, consapevole che il bene lo possiamo fare anche nel nostro piccolo, con pochi mezzi, ma con leggera, pervasiva volontà di vivere. La morte lo ha colto nel migliore dei modi, per non guastare con livide sofferenze il suo sorriso.

 

 

Sum’mastru Giuliani

Sum’mastru Giuliani

Sum'mastro Giuliani

Sum’mastru Giuliani

Nel muro di ingresso della mia casa è appeso il piccolo viso di un putto in legno di noce che proviene dal tabernacolo dell’altare della chiesta di santa Lucia in R…., dove venni battezzato.

Alcuni anni or sono un misterioso incendio distrusse l’altare. Mia zia Iolanda, fra le ceneri, intravvide il viso del putto, lo custodì e volle poi donarmelo. Da allora lo tengo come una reliquia.

L’altare andato in fumo era opera dei maestri intagliatori di R…….., noti e apprezzati fra 800 e 900 in tutto il Mezzogiorno. Studiosi di storia locale ne hanno rintracciato le commesse fin nel Regno d Napoli. Opere di stile barocco, ma senza le preziosità e gli appesantimenti che contraddistinguono gli arredi sacri delle chiese più importanti e ricche. Uno stile fresco e diretto e un modellato senza ricercatezze, una iconografia semplice e immediata, come si conviene  a opere di devozione popolare.

Mio zio Franco, valente falegname, non è stato un intagliatore. Sulle orme del padre,-  nonno Vincenzo, che ancora troneggia con severa austerità nel salottino di casa di mio zio da una vecchia fotografia ritoccata,- Mastro Franchino(così lo chiamavano), è stato valente in una arte che rispondeva ai bisogni di una clientela poco esigente e pratica: porte, finestre, qualche mobile, per lo più credenze o scrivanie. Solo ora da anziano, per passatempo e per vincere la malinconia della vecchiaia, il suo estro si è cimentato in una prodigiosa produzione di oggetti d’uso in miniatura. Per lui, più un gioco che altro. Nonno Vincenzo, invece, fra le due guerre e anche dopo, oltre a zoccoli, al prete per sostenere i bracieri, alle madie e cassapanche, costruiva botti per il vino, sagomava abilmente testate di letti, stipiti e alzate di mobili. Ebbe anche commesse per costruire scafi di barche e un telaio meccanico, il primo in provincia di C……. In mancanza di utensili se li costruiva da sé. Alcuni ancora giacciono impolverati nella rastrelliera sopra il bancone di lavoro, macchiati di mordente e incrostati di colla di pesce.

Nonno Vincenzo dicono fosse un uomo imponente, con un viso aperto, profondi occhi marroni, una eleganza che nemmeno gli abiti da lavoro riuscivano a nascondere. Zio Franco, con foga e sguardo orgoglioso e lucido di emozione, racconta che Vincenzo doveva farsi accompagnare sempre da un discepolo per evitare le trappole d’amore con le quali comari o giovani vedove di guerra volevano catturarlo, fra una piallata e l’altra.

Zio Franco ebbe l’onore di essere discepolo dell’ultimo  intagliatore di R……., sum’mastru Giuliani.

Correvano gli anni ’50, R….. era allora un paese povero ma sereno. Un gruppo di piccoli proprietari terrieri, residuo del latifondo pre-unitario, che stava in cima, beandosi di sentirsi chiamare ancora “don”; qualche agricoltore divenuto imprenditore lavorando la lana, le castagne o i fichi secchi, oppure vendendo il vino prodotto nella vicina valle del S….., su terreni scoscesi , ben esposti a settentrione e rivolti alla marina lontana. D’estate si incontravano sparuti professionisti o funzionari pubblici trasferitesi nella vicina C……. o addirittura al Nord, ma ancora legati per affetti o interessi al paese d’origine.

L’apertura dell’autostrada che da Salerno porta a Reggio, che risale alla fine degli anni 60, rompendo l’isolamento apriva quelle contrade ad un cambiamento, tuttora  in atto e destinato a snaturarne il carattere.

Sum’mastru Giuliani aveva una bottega che dava direttamente sulla rotabile nazionale, l’attuale SS 19 aperta da Gioacchino Murat quando venne nominato nel 1808 re di Napoli.  In quegli anni sessanta,  le automobili che passavano erano così rare che si poteva camminare in mezzo alla strada e, secondo l’abitudine locale, fermarsi di frequente per sottolineare con un vigoroso agitarsi delle mani, i punti più scabrosi o ostici dei  discorsi.

Ricordo Giuliani come un uomo piccolo e  silenzioso, un poco curvo, macilento nel volto. Rideva raramente. Allora gli occhi si illuminavano e coglievi nello sguardo una interna fragilità, il peso di un’ombra.

Aveva delle mani piccole e delicate, quasi femminee, con le quali accarezzava il legno, poi sistematasi una coppola di feltro blu che teneva sempre in testa, prendeva a  saggiare a piccoli colpi di sgorbia, inseguendo un disegno che aveva in testa, per quelle vie che l’antica arte tramandata e il suo estro gli indicavano.

Alcuni anni fa, visitando la casa di un ricco commerciante del paese, il mio sguardo fu attratto da una imponente stanza da pranzo, credenza, tavolo e sedie, angoliera, in legno massiccio, finemente intagliata. Il proprietario mi confermò: sì quella l’aveva fatta il maestro Giuliani.

Allora, tutto veniva fatto a mano, quanti mesi di lavoro erano stati necessari? Probabilmente il costo, oggi esorbitante, sarà stato contenuto per quella inveterata abitudine di allora di considerare il lavoro manuale di poco valore, anche quando, come in questo caso, si fa arte.

Oggi ho preso il putto della V…….. per nutrirlo con un poco di olio di lino. Il lucido ravvivante ha tirato fuori la traccia di un sorriso che non avevo notato.

Certo, il putto non è uscito dalle mani delicate di Sum’mastru Giuliani, magari da quelle del suo maestro sì.

 

 

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