Guerra o non guerra: questo è il problema? by Geppetto

Guerra o non guerra: questo è il problema? by Geppetto

 

GeppettoSe dobbiamo giudicare dai fatti e dai guasti prodotti  quella in Medio Oriente è una guerra. Il Papa ha precisato che è “la terza guerra mondiale a pezzi”. Gli storici dicono che è in realtà la quarta, essendo la terza quella passata alla storia come “guerra fredda”. I generali parlano di guerra asimmetrica o atipica, alludendo alla disparità delle forze in campo e alle tattiche usate dai contendenti. Non siamo in guerra, dicono invece i nostri governati. E sotto fanno le corna. Il presidente Obama nega sia guerra e nega sia scontro di religioni. Dalla Casa bianca sembra, a volte, più che un pragmatico capo di stato, un santone ispirato. E noi qui a non capirci niente, a vivere nell’incertezza, come avvolti nella nebbia, cominciando ad aver paura. Come stanno le cose?

Possiamo prendere come criterio per raccapezzarci, un fatto incontestabile: dal mondo bipolare siamo passati a quello multipolare e la globalizzazione dei mercati ha prodotto la globalizzazione della violenza. Da qui voglio partire, da uomo della strada, per fare il mio ragionamento. Lo faccio, paradossalmente, partendo dalle conclusioni, poiché esse sono in grado di spiegare i giudizi divergenti che ho appena ricordati: la verità e che qui ognuno sta facendo la sua guerra, la chiama come gli fa comodo, si sceglie nemici o alleati, pretende di recitare tutte le parti in commedia, opziona modi di combattere intercambiabili al pari degli obiettivi tattici e strategici, asseriti o reali, i mezzi di propaganda e di reclutamento sembrano quelli di una multinazionale alla conquista dei mercati.  Solo un esempio fra i tanti può bastare. L’Arabia Saudita copre e sostiene Isis e nello stesso tempo sfida gli USA sul prezzo del petrolio e detiene il 20% della ricchezza statunitense. E non parliamo della Turchia! Questo stato di cose non è da oggi. Parecchi degli Stati che hanno reso il mondo incerto e violento, sono quelli che lamentano incertezze e conflitti, ma che da decenni continuando a fornire armi alla varie fazioni in lotta (Italia compresa). Passato il bipolarismo, i centri di potenza che l’ha sostituito hanno preso a lottare con qualunque mezzo per la spartizione dei profitti e il controllo di aree strategiche, a cominciare del Golfo e dal Medio Oriente. Basta ricordare le guerre sanguinose e fallimentari: nel 1991 il Kuwait, nel 2001 l’Afghanistan, nel 2003 l’Iraq,  e dopo la crisi economica  del 2008, Siria, Libia, Mali, Yemen.

Nel vuoto creato dalla contesa multipolare, si sono inseriti l’ISIS, il cui nucleo originario è composto in gran parte dai quadri del disciolto esercito iraniano di Saddam Hussein, la Russia e l’Iran che, dopo l’accordo con gli USA sul nucleare, guida il fronte sciita e quelle forze non statali a base religiosa, quali Hezbollah in Libano e Siria, Hamas nella striscia di Gaza, gli Houthi in Yemen.

Stati Uniti e Russia sembrano avere, ognuno per motivi suoi, interesse affinché la Siria non sia ridotta al caos libico, diventando la base operativa del terrorismo sunnita. L’intervento russo in Siria, che tanto ha galvanizzato i nostri “interventisti”, secondo una vecchia volpe come Henry Kissinger, è solo in superficie funzionale alla politica iraniana, in realtà Putin vorrebbe così allontanare il pericolo sunnita dai confini col Caucaso e dalle regioni mussulmane meridionali. Kissinger sul Wall Street Journal, giudica sbagliata la politica di “moderazione strategica” e neoisolazionista di Obama, che avrebbe portato alla disintegrazione del ruolo americano per la stabilizzazione dell’area medio orientale. Nello stesso tempo formula un piano per punti che non dovrebbe dispiacere all’Obama sentito nel discorso alla nazione dei primi di dicembre 2015. In sintesi dice Kissinger: 1) la distruzione dell’Isis è più urgente del rovesciamento in Siria di Bashar-al-Assad. 2) bisogna accettare il ruolo militare della Russia in Siria, per evitare che i territori in mano all’Isis siano riconquistati dagli sciiti collegati all’Iran. 3) le terre liberate dovrebbero essere consegnate al governo locale sunnita che dovrebbe impegnarsi per un assetto “federale”, con l’assenso degli Stati del Golfo, Egitto, Giordania e Turchia. 4) Bisogna premere per separare Mosca da Teheran e trattare con l’Iran affinché cessi l’espansionismo sciita. Quanto questo piano è realistico? Difficile dirlo, ma provare è sempre meglio che stare fermi.

Isis

La posizione di Barak Obama è diversa, ma è anche quella sbagliata? Troppo presto e superficialmente, a mio parere, è stata liquidata come debole, ondivaga, peggio priva di ogni prospettiva strategica. Difetto che sarebbe esiziale per un super potenza. Ma è così? Obama nel suo discorso si è fatto ispirare dalle parole degli eroi liberal americani: da John Dewey a John Rawls a Martin Luther King.

Parlando ai connazionali Obama, senza preannunciare un cambio di strategia, ha sostenuto con efficacia le proprie tesi e la giustezza delle proprie scelte. In sintesi:

1)Il Califfato è un nemico orrendo e insidioso, ma non è una seria minaccia al nostro modello di vita e ai suoi fondamenti illuministici e democratici; Quindi nessun cambio strategico, nessuna legge speciale, nessuna riforma antiterroristica. Le minacce vengono da un branco di “predoni e assassini… che aderiscono ad una interpretazione perversa dell’Islam”, e che non rappresentano niente se non una minoranza infinitesimale di un gruppo religioso largamente pacifico e desideroso di stare dentro la modernità aperta e pluralistica”.

2)Non dobbiamo farci trascinare una volta ancora in una lunga e costosa guerra di terra in Iraq e Siria. Questo è quello che Isis vuole. Sanno che non possono sconfiggerci sul campo di battaglia… Ma sanno anche, se occupiamo terre straniere, che potranno mantenere le rivolte per anni, uccidendo migliaia di soldati, prosciugando le nostre risorse e usando la nostra presenza per attirare nuove reclute”  Obama vuole evitare di posare gli anfibi (ndr: scarponi militari) americani sul terreno per non fomentare un movimento di reazione contro l’occupante occidentale in chiave anticolonialista.

Quindi guerra dai cieli supertecnologica, accompagnata da una intensa azione diplomatica, volta a creare una coalizione che non si limiti a liberare i territori assoggettati da Isis, ma metta insieme i pezzi di un mosaico di interessi che per essere composti devono venire alla luce del sole e risolti con realismo politico e col massimo risultato possibile di stabilità. Può sembrare una posizione riduttiva, poco o nulla calzante con l’immagine dell’America yankee, ma mi sembra di buon senso. Resta il fatto che, nel frattempo, le bombe continuano a piovere in testa a povera gente innocente. Non mi sembra un buon motivo per gettarsi a testa bassa nella mischia, semmai per moltiplicare gli sforzi, svegliando dal lungo letargo la comunità internazionale, a cominciare dall’ONU.

 

 

Fonni, by Mario Mirto (seconda parte)

Fonni, by Mario Mirto (seconda parte)

Stemma di Fonni

Stemma di Fonni

“Fonni quel bizzarro paese adagiato sulla cima di un monte come un’avvoltoio in riposo …D’inverno il paese era quasi deserto, perché i numerosi pastori nomadi che lo popolavano (uomini forti come il vento e astuti come volpi) scendevano con le greggi nelle tiepide pianure meridionali; ma durante il bel tempo un bizzarro viavai di cavalli, di cani, di pastori vecchi e giovani animava le straducole…”

(GRAZIA DELEDDA)

 

 

 

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In questa piccola piazza, incorniciata da uno splendido murale, raffigurante la processione di S.Giovanni Battista,  si svolge la rievocazione degli antichi mestieri dei fonnesi, con protagonisti semplici paesani e sopratutto donne del luogo, vestite nei classici colorati costumi, mentre gli uomini portano rigorosamente abiti neri con sa berrita in testa.Le anziane vestono tutte allo stesso modo, con la lunga gonna nera gonfia e pieghettata, camicia e scialle entrambi scuri e scarpette nere con leggero tacco. A “palcoscenico “allestito i mestieranti arrivavano alla spicciolata, accudendo ognuno il proprio laboratorio. I rumori, i suoni, i profumi che ben presto riempiono il paese danno la sensazione di un tuffo nel passato, quando veramente il borgo era isolato della natura e separato per scelta orgogliosa di autosufficienza.

 

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Le pecore ed i loro prodotti, i suini e derivati, il grano erano le colonne portanti del sostentamento della comunità. Il pesce era quasi totalmente sconosciuto ed intere generazioni, pur vivendo in un’ isola, non avevano mai visto il mare. Il grano duro, macinato spessissimo in casa o, in presenza di grandi quantità, lavorato nei mulini ad acqua, produceva diversi tipi di farine ideali per produrre pane, dolci e pasta, cotti in casa nei forni a legna da espertissime mani femminili. Il ruolo della donna nell’economia domestica era essenziale. Su di lei si riversava gran parte del peso della famiglia e dell’educazione dei figli. In cambio, la donna era veramente la regina della casa e la sua autorità matriarcale era indiscussa, anche dal marito, spesso assente, anche per lunghi periodi, per accudire le greggi e seguire le transumanze.

 

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Il latte messo in un grande paiolo di rame stagnato all’interno, viene portato ad una temperatura ben precisa, che il casaro intuisce per consumato mestiere, poi si aggiunge il caglio  e dopo poco il latte inizia ad aggrumarsi, il grumo viene mescolato e frantumato, ogni tanto il casaro entra con una mano nel paiolo e quando capisce che è della giusta consistenza estrae grossi pani di formaggio che depone nelle forme, ora di plastica, ma una volta di legno o di giunchi intrecciati, perché asciughi.

 

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Con la farina di semola di grano duro qualcuno si fa ancora la pasta in casa. Una volta essiccata dura molto tempo, ma i più oramai la comprano. Le donne preparavano diversi formati di pasta, ma il più noto e caratteristico in tutta l’isola è il gnocchetto sardo, che oggi viene preparato in collaborazione con altre donne, come in una catena di montaggio dove ognuna ha il suo ruolo specifico.La pasta viene lavorata a rotoli lunghi e sottili quanto un dito mignolo, tagliato a pezzettini che vengono strisciati ad uno ad uno su un setaccio, facendo loro assumere la caratteristica forma scavata e zigrinata per meglio raccogliere il condimento.

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Nonostante la vita sia stata sempre molto dura in questi territori montani e impervi, nelle famiglie, anche le più povere, non mancavano mai i dolci, nella preparazione dei quali le donne sarde erano fantasiose e bravissime, sempre utilizzando i prodotti del territorio, pasta, uova, ricotta, mandorle, miele, uva passa,  mosto d’uva ed altri aromi naturali, che poi decoravano con grande maestria.Tuttora i dolcetti sardi sono rinomati per la loro bontà.

 

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Altra pasta tipica sarda è la fregola, piuttosto veloce da preparare e poi saporitissima da gustare in piatti famosi come la fregola con le arselle (prelibate vongole veraci allevate negli stagni e lagune sparsi un po’ in tutta l’isola). In una terrina di terracotta si mescola con maestria semola e un po’ d’acqua (in alcune località si aggiunge anche un po’ d’uovo sbattuto per legare meglio l’impasto), fino al formarsi di minuscole palline che poi vengono essiccate e passate in forno per una leggera tostatura, dopodiché si possono usare con le minestre oppure come se fossero riso.

 

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Fonni, by Mario Mirto

Fonni, by Mario Mirto

Dopo ore di strade tortuose lungo le pendici settentrionali del Gennargentu giungo alla meta: Fonni, provincia di Nuoro. Lungo la strada rarissime le macchine. E’ presto e il sole è appena salito all’orizzonte, il paesaggio che ammiro, avvolto da un’aria fine e pungente, è mozzafiato. Molte volte siamo attratti dai viaggi esotici e in paesi lontani, e non ci accorgiamo di quanta bellezza abbiamo a portata di mano.

 

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Sono nella sub regione Barbagia di Ollolai, fra i comuni di Desulo, che sta oltre il passo Tascusi, e Orgosolo, a circa 1000 metri di altitudine. Fonni supera i 4000 abitanti, una buona parte di essi, lasciata la pastorizia e le silvicultura in crisi dai lontani anni ’60, si è buttata negli ultimi decenni sul turismo, sfruttando le invidiabili bellezze naturali e la vita semplice e riposante che può assicurare ai suoi ospiti. Mentre mi avvicino al paese ammiro i colori della campagna autunnale, e un sottile strato di vapore, che si stende come una impalpabile coltre di neve, rende il paesaggio remoto ed evanescente.

 

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Un amico mi ha consigliato di estendere la visita alla valle del Rio Perdas Fittas, al lago di Gusana, e poi di raggiungere il monte Spada, quasi a 1600 metri di altezza.

Nidiata di falco pellegrino a Fonni

Nidiata di falco pellegrino a Fonni

A seconda delle stagioni è possibile vedere volteggiare l’aquila reale, i falchi pellegrini, le poiane. Addentrandosi nei boschi non è raro incontrare daini o mufloni, in sosta vicino a vecchi tassi, lecci o roverelle.

 

 

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In primavera o estate, mi dicono le donne del paese, che dalle loro finestre vedono distese di ginestre e elicrisio, mentre dai prati giunge il profumo di timo e rose selvatiche.

 

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Fonni è anche conosciuto per la chiese campestri di N.S. del Monte e di S. Cristoforo, oltre che per la sua cattedrale, intitolata alla SS. Vergine dei Martiri, in stile tardo barocco, rimaneggiata agli inizi del 1700.

 

 

 

Inedito fotografico

Inedito fotografico

 

Dal sito BIT CULTURALI riprendo le interessanti recensioni relative a due eventi che vedono protagonisti due fotografi. Una mostra a Lecce in cui vengono esposte le immagini realizzate con l’iPhone da Robert Herman, e la mostra antologica di Arturo Zavattini  a Roma. La prima recensione è firmata da Diego Pirozzolo, mentre il secondo pezzo è della redazione del sito (http://www.bitculturali.it/).

Nato a Brooklyn, Herman  (robert@robertherman.com) scopre il valore delle immagini facendo l’usciere nel cinema di famiglia. Regolari studi di fotografia e poi fotografo di scena. Ma al set preferisce le strade di N-Y. , la vita di periferia. Si segnala per la sapiente scelta di immagini, sorrette da una robusta cultura estetica,  che si richiama al meglio della cultura informale e pop.

Robert Herman

Robert Herman

Scrive Herman sul sub blog: “ New York City è come una miniera di diamanti. La pressione la trasformerà in una polvere di carbone o un gioiello dalle mille sfaccettature. Per sopravvivere  in uno stato di grazia, è assolutamente necessario  sviluppare una coscienza Zen, scegliere consapevolmente  uno stato di apertura mentale è utile per fare fotografie. Per parafrasare il critico d’arte John Berger: una fotografia che sorprende il fotografo quando la fa, a sua volta, sorprende lo spettatore. Lo studio dei  newyorkesi è iniziato quando ero ancora studente alla New York University, quando stavo imparando ad essere un fotografo. Vivevo a Little Italia e tutti intorno a me sembravano essere buoni soggetti: l’uomo che ha cambiato le gomme, il sovrintendente del palazzo accanto. Ovunque ci sono sincronicità e coincidenze. La fotografia è un modo di rivelare relazioni nascoste che sono presenti solo per un momento, nello spazio e nel tempo, visto da un punto di vista unico. Fotografando i newyorkesi  per le strade della città ho toccato il massimo della mia scoperta come fotografo.” 

Che il Salento abbia deciso di ospitare le sue opere è il segno della sensibilità che questa bellissima terra sa riservare agli artisti di spessore e originalità, com’è Robert Herman, che così viene presentato da Diego Pirozzolo:

Uno i-foto di Robert Herman

Unq foto i-phone di Robert Herman

“Per le strade di New York muovendosi accompagnato da una Nikon F, impressionando colori, volti, negozi, vetrine, catturando lo spirito ed il fermento di una città incredibile con eleganza formale ed in modo del tutto personale; ci riferiamo al primo grande lavoro di Robert Herman raccolto in un libro dal titolo “New Yorker“.

Sul piano dell’estetica dell’immagine Herman è uno street photographer che parte dalla città per cogliere aspetti non altrimenti visibili se non attraverso il disvelamento operato dal mezzo fotografico. Non vi è attimo decisivo, ma principalmente una rivelazione dove i colori, i volti assumono un ruolo chiave, quasi concettuale, nella tradizione della scia lasciata da William Egglestone, ma con un certo dinamismo barocco.

Una foto di Robert Herman

Una foto di Robert Herman

A Lecce, dall’ 8 al 22 dicembre 2015, presso la galleria LO.FT – Locali Fotografici sarà possibile ammirare 30  immagini a colori realizzate con l’iPhone e tratte dal libro “The Phone Book”, pubblicato ad ottobre 2015 da Schiffer Publishing.

Curata da Roberta Fuorvia, la mostra documenta l’evoluzione di stile di Herman, che utilizzando un iPhone riesce a muoversi celermente nelle città, rendendosi quasi invisibile, per cogliere la vivacità e l’essenza dei luoghi visitati in giro per il mondo.

In ogni foto sono indicati luogo, data, ora, latitudine e longitudine. È un modo questo per attribuire una propria identità alle immagini e per “tracciare una mappa del mondo fatta di luci e colori, di eccitazione e trasparenza, di illusioni e speranze”.

All’articolo ho aggiunto un video che meglio illustra l’opera dell’artista.

 

 

 

Il Ministero del beni culturali, nella sua pagina web, così presenta la mostra di Andrea Zavattini:

“Arturo Zavattini è noto, oltre che come operatore cinematografico e direttore della fotografia di molti film importanti, non solo italiani, come fotografo in ambito etnografico per aver accompagnato Ernesto de Martino, nella sua spedizione in Lucania nel 1952. Egli ha continuato, tuttavia, a praticare la fotografia per molti anni producendo un numero cospicuo di immagini. La sua cultura fotografica è maturata a stretto contatto con il Neorealismo italiano e con il realismo americano (ebbe modo di conoscere Paul Strand nel corso della realizzazione del celebre volume fotografico Un Paese). Arturo Zavattini ha saputo legare aspetti della cinematografia e della fotografia, con curiosità, arguzia, spirito critico.
Zavattini, preziosa memoria dell’epoca, ha lavorato, negli ultimi anni, a reperire immagini e a mettere ordine nel suo archivio in modo che si può ora realizzare una mostra completa su di lui, che copre un decennio (1950-1960), di grandissimo interesse per la storia dell’immagine e per quella del nostro Paese.”

Uno scatto di Zavattini in Lucania

Uno scatto di Zavattini in Lucania

Questa la recensione di BIT Culturali:

A Roma l’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia ospita, nelle sale del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, la mostra antologica di Arturo Zavattini, ideata e curata da Francesco Faeta e Giacomo Daniele Fragapane.

Zavattini in Lucania

Zavattini in Lucania

L’esposizione, aperta al pubblico dal 5 dicembre 2015 fino al 28 marzo 2016, presenta oltre 170 fotografie di grande formato, in massima parte inedite, che illustrano l’intensa attività fotografica di Zavattini tra il 1950 e il 1960, decennio cruciale della storia del Novecento.

Una foo di rturo avattini

Una foto di Arturo Zavattini

In mostra un nucleo omogeneo è costituito dalle immagini realizzate a Tricarico nel giugno del 1952 nell’ambito della famosa spedizione etnografica in Lucania di Ernesto De Martino e qui concesse dal Centro di Documentazione Rocco Scotellaro. Vi sono poi immagini realizzate a Roma, a Napoli e in altre città e contrade italiane, che documentano la vita sociale in strada, e in particolare la condizione dei bambini del popolo. Zavattini, effettua nel 1956 un reportage a Bangkok, a Phetchaburi e nel nord della Thailandia, che qui è esposto per la prima volta: sono immagini scattate a latere delle riprese del film La diga sul Pacifico di René Clément, tratto dall’omonimo romanzo di Marguerite Duras: rare immagini di quei luoghi in quell’epoca.

Sono invece del 1960 le immagini realizzate a Cuba che includono un inedito Ernesto “Che” Guevara, incontrato casualmente subito dopo la rivoluzione, in occasione delle riprese del film del regista Tomás Gutierréz Alea, Historias de la revolución, alle quali Zavattini collaborò in veste di operatore nell’ambito di un progetto italiano di sostegno alla nascente cinematografia cubana.

Suggestiva è la sezione dedicata al rapporto dell’autore con il set: fotografie di backstage con personaggi di grande popolarità come Federico Fellini, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni e Sofia Loren colti nelle pause delle lavorazioni da uno sguardo curioso e confidenziale.

La mostra, accompagnata da un catalogo edito da Contrasto, è realizzata dall’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia/Museo Nazionale Arti e Tradizioni Popolari – MiBACT, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, in collaborazione con l’Università degli Studi di Messina (Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne), l’Archivio Cesare Zavattini, Roma, con il patrocinio delle associazioni AISEA (Associazione Italiana di Scienze Etno-Antropologiche), ANUAC (Associazione Nazionale Universitaria degli Antropologi Culturali), SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici), SISF (Società Italiana di Studi sulla Fotografia).

 

 

KIKI

KIKI

 

Pubblico un capitolo del mio libro Cartoline da Parigi. Ancora una volta una donna, per completare la galleria dei ritratti delle protagoniste di quei anni a cavallo fra fine ‘800 e inizi del’900. In questo caso è Alice Prin, la più giovane, forse la meno fortunata, perché sopravvive ad un’epoca che non c’è più.

Alice fa in tempo a vedere il mondo sconvolto dalla seconda guerra mondiale e già avviato a chiudersi nella lunga fase di un’altra guerra, quella “fredda” che vede la contrapposizione di due blocchi antagonisti, quello occidentale e quello sovietico. Fa in tempo a scrivere le sue memorie, edite in Italia da Longanesi nel 1975 col titolo Le memorie di una modella. Ma lei era stata di più: la regina di Montparnasse. Le frasi riportate fra virgolette sono tratte appunto da questo suo libro.

 

Kiki di Montparnasse

Kiki di Montparnasse

Sulla figura di Kiki di Montparnasse, al secolo Alice Prin, va detto qualcosa.

Nel 1929 a 28 anni pubblica Mémoires, uno scarno resoconto dei suoi inizi come tuttofare e modella, a contatto con l’ambiente multietnico del quartiere che ha sostituito Montmartre nelle preferenze degli artisti. Anche lei legge le avventure di Fantômas, e quando riesce a mangiare va da Rosalie, in rue Campagne Primière, dove a volte incontra Utrillo e Modigliani. Vedendo Amedeo, confessa, di sentirsi tremare tutta, tanto è bello. Rue Campagne Primière la trovate uscendo dal métro a Raspail; è una tranquilla ed elegante strada di Montparnasse, per un tratto parallela con Passage d’Enfer che poi vi confluisce.

Kiki nella foto di Man Ray

Kiki nella foto di Man Ray

Kiki è anche artista di cinema e cantante, quando può si esibisce al Boeuf di  rue de Penthièvre, strada sempre nel quartiere, adiacente all’odierno Hotel Bristol. Vale la pena, se amate la pittura contemporanea figurativa, visitare nella vicina rue Matignon la Galerie Fleury e la contigua Art France.

Intenso per Kiki il periodo di amore con il fotografo americano, dadaista/surrealista della prima ora, Man Ray.

Resta famosa la foto che ritrae Kiki sontuosamente nuda, di spalle, con sovrapposti i segni ad effe del violoncello all’altezza dei reni.

Fra i due, specialmente nel periodo in cui Kiki balla il can can al Jockey, sono frequenti le scenate pubbliche del geloso Man, spesso concluse a suon di ceffoni, pugni e stoviglie all’aria.

Il fatto è che Kiki balla mostrando le cosce (e non solo), tanto più che sembra non porti le mutande.

Trasgressioni, amori e dissolutezze, provocazioni gratuite, sono il lessico familiare delle giovani generazioni di quei mitici anni ’20.

Il libro tocca solo fugacemente questo clima e non restituisce nulla del loro valore epocale.

Man Ray

Man Ray

Ma, pur senza avere la statura delle donne che ho finora descritte, Kiki merita di essere ricordata, perché la sua vita e la maniera di affrontarla sono le stesse di tante donne di quegli anni, come lei venute dalla provincia, come lei povere, dai mille, saltuari, improbabili mestieri, compagne per sorte di artisti e scrittori destinati a diventare famosi; più per condividerne gli stenti che per capirne le opere o le idee, quando quest’ultime c’erano e affioravano dai fumi dell’alcool, dal grigiore del tedio, dalla atona, emarginata contemplazione del mondo e dalla sua comprensione.

B. Sèbastopole Parigi

B. Sèbastopole Parigi inizi ‘900

Una Parigi crudele la sua, senza cuore, se non nelle persone semplici.

“Un giorno mi sono trovata sul boulevard Sébastopol, stanca da morire e giù di morale..Piango e non riesco a vedere più nulla, sono tanto scoraggiata..Poi una tale che batte il marciapiede mi mette una mano sulla spalla e dice:Va male la vita, eh, povera piccola? Non ho neanche una lira, ma eccoti quattro francobolli, prova a vedere se riesci a venderli!- Non ci sono parole per descrivere donne così. Loro sì, hanno un cuore.”

Nella prefazione alle Mémoires, Hemingway così descrive Kiki: “era molto bella da guardare. Aveva un corpo meraviglioso e una bella voce (quando parlava, non quando cantava); certamente dominò l’Epoca di Montparnasse più di quanto la regina Vittoria non abbia dominato l’Epoca vittoriana.” ).

Gallerie Fleury, oggi

Gallerie Fleury

Assurta grazie al suo libro a una certa notorietà, fa un poco di soldi… “ma quanto durano i soldi…soprattutto se siete una celebrità? (…), poi tenta senza molto successo di farsi pittrice, ma le sue opere, come lei stessa con obiettività riconosce “non valgono più di una cartolina illustrata” .

Ernest Hemingway

Ernest Hemingway

Nel 1940 Parigi parla tedesco, Kiki viene coinvolta in una storia di manifesti antitedeschi ed è ricercata dalla Gestapo.

Hotel Raspail Montparnasse e Metro

Hotel Raspail Montparnasse e Metro

Tenta allora la fortuna in America; sono passati 25 anni dai bei  tempi di Montparnasse. Incontra a New York Papà Hemingway, asserragliato nel lusso dell’Hotel Waldorf-Astoria, gli scrocca del denaro, lo stesso fa con l’impresario editore Roth, cui a suo tempo aveva ceduto i diritti sulle Mémoires. Non riesce a inserirsi nella nuova realtà, Parigi le manca troppo. Rifiuta l’ospitalità dell’amica Francine e torna ancora a Parigi dove si perde nell’anonimato. La sua vecchiaia è una storia di decadenza; abusa di droga, si riduce a leggere la mano nei bristot. Né poteva essere diversamente; anche lei appartiene, come tanti, ad un’epoca che non c’è più. Muore nel 1953, non ancora del tutto dimenticata, e viene sepolta al cimitero del quartiere del quale era stata regina.

 

Di seguito potete vedere un filmato con foto di Man Ray e opere di Moise Kisling, amico di Picasso e Modigliani, che mostra parecchi ritratti che il pittore fece a Kiki.

 

 

 

 

 

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