E’ IL TEMPO DELLA POP-ART ITALIANA

E’ IL TEMPO DELLA POP-ART ITALIANA

Un recente articolo apparso sul sito collezionedatiffany.com è dedicato alla rinascita di interesse dei collezionisti per le opere degli artisti che, negli anni del boom economico, diedero vita alla pop-art italiana. E’ l’occasione per ricordarne le storia e le idee e rivederne le opere, oramai quotatissime, che bene figurerebbero in una grande retrospettiva collettiva nazionale.

   

Salutata da Mario Ceroli come una ventata che «spazzò via la soffocante accademia informale che ancora imperversava in Europa», la Pop Art pur avendo indubbiamente un Dna anglo-americano trova radici in tempi precoci anche in Italia, come storicamente testimoniato dalla Biennale di Venezia del 1964. rotellaQuesta importante vetrina, che fa conoscere il fenomeno Pop all’Europa e che premia per la prima volta un artista americano quale Robert Rauschenberg, ospita infatti nel Padiglione Italia opere di artisti come Mimmo Rotella, Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Concetto Pozzati e Mario Schifano. Ma la Pop Art italiana, a differenza di quella inglese o americana, ha caratteri tutti suoi, è un’arte che potremmo definire della “dolce vita” o del “boom economico”, momenti cruciali nell’evoluzione della società e del costume italiano del XX secolo.

Mimmo Rotella, I comanceros

Mimmo Rotella, I comanceros

Se in generale in Europa l’ondata Pop corrisponde, infatti, a una messa in discussione di società, cultura, stili di vita e gerarchie dei valori estetici, tra le caratteristiche peculiari della Pop Art italiana emerge il rapporto irrinunciabile con la cultura alta, con l’arte e la sua storia.

Mario Schifani

Mario Schifani

«Un americano dipinge la Coca Cola come valore, per me  – dirà a tal proposito Tano Festa – Michelangelo è la stessa cosa nel senso che siamo in un paese dove invece di consumare cibi in scatola consumiamo la Gioconda sui cioccolatini». Mentre a New York la storia è chiusa in un museo, a Roma, Milano o Pistoia si incontra camminando per strada. Schifani operaL’interesse degli italiani ruota, quindi, intorno alle nuove immagini del contesto urbano e, contemporaneamente, a quelle della cultura tradizionale italiana. Anche per questo fino al 1962 nessuno cita il termine “pop” a proposito degli artisti italiani, poiché la confusione con la cultura bassa è sentita più come pericolo che come opportunità di scambio.

Mario Schifani:Le biciclette

Mario Schifani:Le biciclette

Gli italiani non riescono ad azzerare l’arte precedente e in generale il passato. La storia non è qualcosa di distante e sostituibile con l’attualità, ma è una continua presenza.

Enrico Baj

Enrico Baj

Precursori dell’ondata Pop che investirà la nostra Penisola sono Mimmo Rotella ed Enrico Baj che già tra il 1958 e il 1959 abbandonano le precedenti esperienze per dedicarsi a questo nuovo mondo di immagini. Il primo creando i suoi celebri decollages mentre le composizioni del secondo diventano lo slogan del kitsch contemporaneo.

Enrico Baj: il caporale

Enrico Baj: il caporale

Centri propulsori della “stagione” Pop made in Italy divengono, fin da subito, Roma, Milano e Pistoia. Nella capitale incontriamo gli artisti della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo i cui maggiori rappresentanti sono Tano Festa, Mario Schifano, Franco Angeli

Tano Festa

Tano Festa

e Giosetta Fioroni che si riunivano al Caffè Rosati a Piazza del Popolo

Tano Festa: a livello del mare

Tano Festa: a livello del mare

o presso la Galleria della Tartaruga di Plinio de Martiis.

Fioroni: nascita di Venere

Fioroni: nascita di Venere

A questo primo nucleo si unirono presto nuovi artisti come Sergio Lombardo, Renato Mambor, Cesare Tacchi, Enrico Manera e Umberto Bignardi.

Accanto a questi nomi, va ricordato poi il gruppo milanese, vicino allo Studio Marconi – uno dei luoghi centrali di diffusione e affermazione della Pop nel nostro Paese, assieme alle storiche gallerie romane come La Tartaruga e La Salita – tra i quali spiccano i nomi di Valerio Adami, Emilio Tadini e Lucio Del Pezzo, autori di una Pop Art tesa a dialogare più con le coeve esperienze europee che con quelle americane.

Emilio Tadini

Emilio Tadini

E ancora la cosiddetta Scuola di Pistoia, che ha avuto la sua figura di punta in Gianni Ruffi autore di sculture come Intervallo del 1965, dove un televisore scolpito nel legno rievoca nello schermo una visione ideale della celebre immagine del Carosello.

Opera di Emilio Tadini

Opera di Emilio Tadini

Oltre a Ruffi il gruppo toscano ruotava, sostanzialmente, attorno ad altri due nomi; Roberto Barni e Umberto Buscioni, cui spesso si aggiunge il nome dell’architetto Adolfo Natalini.

Da ricordare, poi, figure anomale ma estremamente significative come quelle del toscano Alberto Moretti, del milanese Silvio Pasotti – autore di assemblage capaci di giocare ironicamente con il nuovo gusto “medio” italiano del tempo – e del bolognese Concetto Pozzati, tutti in diverso modo testimoni di un cambiamento fondamentale nella storia e nel costume dell’Italia del dopoguerra.

Domenico Gnoli

Domenico Gnoli

Accanto a questi nomi, unanimemente considerati protagonisti di questa stagione e di questo stile, ci sono poi autori che attraverso il linguaggio Pop sono passati solo per una breve stagione della loro vicenda creativa, ma che hanno contribuito a determinare le sorti e le immagini di questo periodo e di questa tendenza.

Domenico Gnoli, opera

Domenico Gnoli, opera

 

 

 

Si tratta di artisti come Domenico Gnoli, Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Aldo Mondino, Pino Pascali, artisti tra i più noti dell’arte italiana della seconda metà del secolo, le cui figure sono divenute, a loro volta, icone del mondo artistico contemporaneo.

 

 

 

 

 

 

GIOSETTA E LA POP-ART ROMANA

GIOSETTA E LA POP-ART ROMANA

MOMENTO MAGICO PER LA POP-ART ROMANA DEGLI ANNI ’60- VALE LA PENA DI RILEGGERE L’INTERVISTA A GIOSETTA FIORONI, UNA DELLA PROTAGONISTE DI QUEGLI ANNI. L’ANTIPATIA PER ELSA MORANTE, LO STRAZIO PER PASOLINI, L’AMICIZIA CON SANDRO PENNA. UNA SUPERBA TESTIMONE E UNA VALENTE PITTRICE CHE IL TEMPO SEMBRA SOLO SFIORARE. IN UN VIDEO IL RACCONTO SULLA SUA ARTE.

 

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Giosetta Fioroni per l’obiettivo di Marco Delogu

 

Articolo di Gianluigi Colin per “La Lettura – Il Corriere della Sera”11.11.2013

Goffredo Parise le ripeteva affettuosamente in dialetto veneto: «Giosetta se la fa e se la dise ». Ma Giosetta Fioroni, grande ragazza dell’arte italiana, quando parla della sua avventura fatta di colori, amori, tradimenti, dolori e passioni, non sembra affatto alimentare un’icona di se stessa, anzi. Sembra soffermarsi piuttosto sui dubbi, sulle complessità delle prove della vita: «Non è stato facile. Essere artista e donna. Avevo 25 anni. Avevo portato delle opere alla galleria di Carlo Cardazzo, allora una tra le più importanti in Italia.

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Galleria La Tartaruga Roma, anni ’60. Mostra di Mimmo Rotella (primo a sn.). Si riconoscono Tano Festa, Plinio de Martiis, Mario Schifano

Stavamo aspettando un collezionista e, quando arrivò, Carlo mostrò le mie opere appoggiate a terra. Io ero lì, intimidita, nascosta nella penombra. Ascoltavo la conversazione in silenzio. Il collezionista guardava incuriosito, sembrava davvero interessato, apprezzava il lavoro.

Poi, poi si soffermò sulla firma scandendo a tratti il mio nome: Gio , Gio , setta … chi è questa Giosetta? Un’artista bravissima, promettente, rispose il gallerista. Ma il collezionista lo bloccò subito: no, no, una donna no, poi si sposa, fa i figli, non dipinge più… No, non dà sicurezza… Questo è stato il mio primo contatto con il mondo dell’arte visto dagli uomini».

Giosetta Fioroni ricorda quel momento con distacco, quasi divertita, ma permane in lei un senso di amarezza: nonostante i suoi successi («Sono una donna fortunata, ho avuto molto dalla vita») sa che quell’esperienza racconta una verità difficile da rimuovere.

Elegante, una collana colorata, l’artista si muove nel suo silenzioso studio a pochi passi da Regina Coeli con la stessa leggerezza di quella bellissima ragazza che ha affascinato poeti, artisti, scrittori non solo per i suoi occhi luminosi e malinconici, ma anche per la sua determinazione nel seguire quella che considerava una vera vocazione: «Al liceo c’era una ragazza che improvvisamente dichiarò la sua conversione a Gesù. Anch’io ebbi, improvvisa e assoluta, una rivelazione simile. Da quel momento non ho concepito nient’altro che l’arte come unica possibilità di sopravvivenza».

Biennale 1964

Biennale Venezia 1964. Insieme alla Fioroni, G.T. Liverani, Tano Festa. Mario Schifani

Tensione per la sopravvivenza che assume la sostanza delle tele, dei colori argentei sulle carte, che diventa quasi carne nelle sculture presentate in questi giorni alla Galleria d’arte moderna e contemporanea di Roma con due inedite mostre («L’Argento» a cura di Claire Gilman e «Faïence» a cura di Angelandreina Rorro) che racchiudono stagioni importanti, quella che va dal 1960 al 1975 e quella del presente, dal 1993 a oggi.

Tensione confermata anche da un bel volume edito da Corraini che già nel titolo dichiara il senso del contenuto: My story . E della «sua storia» Giosetta Fioroni parla con dolcezza, quasi sottovoce, ma nel tono c’è insieme passione e fermezza, leggerezza mista a un dolore che ogni tanto riaffiora e appare insostenibile.

Lei che è stata compagna di una vita di Goffredo Parise («È morto a 56 anni con le sue mani tra le mie») sembra aver mutuato dall’autore de Il prete bello un modo rigoroso, ironico, profondo e disincantato di vedere il mondo: sceglie con cura le parole quasi a costruire un proprio sillabario esistenziale, ricordando la stagione che l’ha vista allieva di Toti Scialoja e compagna di viaggio di Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli.

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Giosetta Fioroni: La maison du peintre

Erano i ragazzi della Scuola di piazza del Popolo animati da una forza vitale potentissima, ma anche da una pulsione autodistruttiva che la giovane Giosetta non ha mai condiviso: «Trovavo la vita già complessa, non ho mai usato droghe, qualche spinello magari, ma su di me aveva solo un effetto calmante». E aggiunge: «Mario usava cocaina. E quando gli venne un infarto gli dissi quasi implorandolo: smetti, ti verrà un coccolone. Non è servito a niente». Non a caso, la sua arte appare più poetica dei suoi compagni di viaggio: un racconto in cui le tensioni del mondo femminile trovano forma in un dialogo tra pubblico e privato, tra visione intima e dimensione collettiva.

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Giosetta Fioroni: Liberty viennese, smalti colorati su tela

Nella sua pittura c’è sempre un richiamo alla speranza, all’idea di bellezza come promessa di salvezza. E anche il suo studio riporta a quest’idea utopica: appare come uno spazio sospeso nel tempo, qua e là opere recenti e pezzi storici. Intorno, tra pennelli e colori, un insieme di manifesti, ritagli di giornali, foto di Parise, schizzi, fotografie di amici: su tutto, isolato, un ritratto di Mario Dondero («Mario ha il dono della grazia, che uomo speciale»). Certo, di incontri Giosetta ne ha fatti tanti: in una foto con un giovane Cy Twombly, lei, capelli cortissimi, gli è accanto, seduta su una poltroncina, quasi stupita di essere al centro di un’avventura artistica che aveva in Roma un centro di gravità internazionale.

In quella Roma, benché di passaggio, c’erano personaggi come Duchamp: «Per un anno fu ospite di Gianfranco Baruchello e passava i pomeriggi alla galleria La Tartaruga . Ero stupita di una cosa: quando qualcuno si avvicinava a lui, cercando di presentargli un progetto o semplicemente per parlargli d’arte, sul suo volto si manifestava subito una smorfia. Non riusciva a nasconderla, non parlava più ed emetteva una specie di grugnito. Si illuminava soltanto se giocava a scacchi». E allora Giosetta Fioroni mima divertita la faccia di Duchamp: piega le labbra, arriccia il naso come se un cattivo odore aleggiasse intorno. Poi ride.

Quadro Fioroni

Opera di Giosetta Fioroni

In quella Roma approdavano gli americani: «Eravamo a Fregene e c’era Rothko con moglie e figlia. Tre obesi. Grassissimi e timidissimi». Se c’è una cosa che colpisce di Giosetta Fioroni è come ogni percorso della memoria sia ricondotto all’interno di una esperienza estetica. Forse anche per questo è rimasta nella capitale: «Il cambiamento di colore delle foglie d’autunno lungo il Tevere è indimenticabile». Quattro anni a Parigi, dal 1959 al 1963, non le hanno fatto cambiare idea. E neanche gli Stati Uniti: «No, l’America è a basso regime estetico».

La sua era una Roma animata da poche amiche («con Elsa Morante avevamo un’istintiva e reciproca antipatia»), tantomeno cercava la complicità delle artiste («francamente non ce n’erano e poi, forse, ho sempre preferito l’amicizia degli uomini») e aveva soprattutto un’ammirazione per scrittori e poeti. Tra questi, l’amato Paul Celan, Andrea Zanzotto, Sandro Penna: nel ricordare quest’ultimo, cita sottovoce due suoi versi quasi fossero il simulacro di un universo intimo, nascosto:«Io vivere vorrei addormentato/ entro il dolce rumore della vita».

Foto-fioroni di Delogu

Giosetta Fioroni in una foto di Marco Delogu

Di lui ricorda con affetto il pessimo profumo, i suoi vestiti eccentrici e gli scherzi un po’ goliardici che gli faceva Parise: «Goffredo lo inseguiva quando andava con la sua biciclettina a cercare uomini lungo il Tevere. Gli diceva: “Allora, hai combinato stasera?” E lui si rivolgeva a me dicendomi: “Senti Giosetta, portamelo via, portamelo via…” Era molto spiritoso».

Pier Paolo Pasolini. «L’ho incontrato poche volte, era amico soprattutto di Goffredo: lo apprezzavo come poeta, ma c’era qualcosa in lui che mi teneva lontana. Ci davamo del lei. Era il 1975 e uscimmo a cena noi tre. La mattina dopo Goffredo e io saremmo partiti per New York. Ricordo ancora com’era vestito, quei jeans aderenti che segnavano il suo corpo magro, il rumore sinistro degli stivaletti di coccodrillo.

Si tingeva i capelli e ormai, a furia di tingerli, erano completamente divorati, come stoppa dipinta: “Adesso vado a battere”, ci disse e, di fronte alle nostre domande sulle aggressioni che aveva subito, si tolse il giubbino e sotto la maglietta ci fece vedere una lunga cicatrice provocata da un colpo di cacciavite. “Non vada Pier Paolo, non vada”, dissi forse con una dose di ingenuità. Quando Pier Paolo uscì di casa, Goffredo era esterrefatto e mi disse: “Lo ammazzeranno”. Dopo due mesi fu assassinato».

Giosetta Fioroni riavvolge i fili di quella disperata memoria: «È morto di omosessualità, era la sua religione, la sua vocazione. Ha scritto delle bellissime poesie, gli ho dedicato una scultura con un verso dedicato alla madre: “È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia” . È stato una figura straziante, cristologica».

Il tempo sembra aver accarezzato Giosetta senza toccarla. Sicuramente non ha sfiorato lo spirito che ha animato il lavoro di una vita. Con la volontà di spiegare il senso della sua ricerca prende le distanze dalla Pop Art rivendicando una forte matrice nella cultura europea: «La mia arte è ancorata alla storia dell’arte, alla tradizione. Nei miei quadri c’è la manualità della pittura, il legame a uno spazio metafisico. È una pittura volutamente a-ideologica.Fioroni davanti sua opera

Soprattutto, inseguo un racconto, una narratività. Eravamo coetanei del Pop, ma profondamente lontani da quella cultura». Giosetta Fioroni si ferma, poi aggiunge con un sussurro: «Sono più vicina a Morandi che a Andy Warhol». Ma sorridendo e ricordando il suo amore che la prendeva in giro: «Goffredo mi diceva sempre: Giosetta è perfetta: se la fa e se la dise ».

 

 

 

 

STAI SERENO, ROTTAMATORE

STAI SERENO, ROTTAMATORE

ASSALTO ALLA INFORMAZIONE: DA UN PARTE DE BENEDETTI, DALL’ALTRA AVANZA URBANO CAIRO. MEDIASET IN SURPLACE. RENZI, SENZA FARE FERITI, CONQUISTA LA RAI NELL’ILLUSIONE CHE GLI PORTI I VOTI CHE GLI MANCANO. LA LEOPOLDA E’ MORTA E SEPOLTA, ORA SI FA SUL SERIO. FRA PROMESSE, TWITTER, NANI E BALLERINE SI CONSUMA LA PARABOLA DEL FU ROTTAMATORE.

 

Geppetto

 

Articolo di Geppetto per Ninconanco

 

Renzi sta prendendo troppo sottogamba la questione RAI. Sarà perché deve grattarsi la rognosa questione del Monte dei Paschi, la senese più antica banca al mondo, parecchio malconcia dopo la cura del suo partito e di un tal Mussari, ai bei tempi dello scialo, quando il sunnominato rivestiva la carica di capo dei banchieri italiani (sic!). Se le bugie hanno le gambe corte, più lunga è la memoria degli italiani, ahimè per Renzi. Nel programma del PD leopoldiano si leggeva: «La grande scommessa è quella di provare a cambiare non soltanto le facce di chi sta lì da 30 anni, ma anche di provare a cambiare le idee e portare speranza» Bene, anzi benissimo! Ma poi? Prendiamo la RAI, perché l’informazione è la ciccia di ogni sistema democratico. Non a caso un autocrate come Erdogan, dopo lo pseudo golpe turco, ha fatto piazza pulita nella redazioni di giornali e tv.

Matteo Renzi, segretario PD e premier

Matteo Renzi, segretario PD e premier

In Italia il sistema è duale: “servizio pubblico” da una parte, monopolio privato in mano a Mediaset. Da poco si è affacciato Cairo, che in termini di audience è marginale. La legge Gasparri, col suo gioco di prestigio compromissorio su frequenze e budget pubblicitari, ha consolidato tale sistema.

Sul tema televisioni Renzi, pur confermando la necessità di un servizio pubblico, aveva allettato molti prefigurando la secca alternativa fra canone o pubblicità, oltre alla riduzione delle reti pubbliche a favore del mercato.

Con la penuria di soldi che lo Stato ha e il malloppo del debito pubblico sul groppone, non mi sembravano le sue cattive idee: più soldi per le politiche del lavoro, per pagare meglio gli insegnanti, per l’assistenza di poveri e malati cronici. Un programma di “sinistra” per dirla alla Civati. Inoltre, le reti, se cedute con oculatezza, potevano innescare un maggiore pluralismo a tutto vantaggio della concorrenza e della qualità.

Per tale programma avrei messo da parte la mia obiezione di fondo, cioè a che serve il servizio pubblico televisivo in una democrazia parlamentare avanzata? Poteva andare bene nel regime sovietico, ma oggi?

Oggi lo Stato deve (dovrebbe) fare una sola cosa: il regolatore, per evitare abusi, senza impicciarsi di più. Magari con l’autority che già esiste.

opr - Fotografo: opr

Qual è il risultato della riforma leopoldina? Se non paghi la tassa più odiata dagli italiani vai in penale (!) ti spengono la luce e ti sguinzagliano dietro Equitalia. La pubblicità imperversa peggio di prima e per vedere la fine di un film devi fare le ore piccole, fra sbuffi e cristonate. Il CdA Rai è ancora più lottizzato e dipendente dai partiti, strapaghiamo persone senza incarichi, mentre ne assumiamo di nuove “fedeli alla causa”, le “consulenze” agli amici sono una greppia vergognosa. Tutto ciò mentre l’Istat ci dice che 4 milioni e mezzo di italiani sono sotto la soglia della povertà! Una controriforma gabbata per buona, amen. Tutto annegato nell’euforia vacanziera? 

carosello - fotografo: carosello

Antonio Campo Dall'Orto

Antonio Campo Dall’Orto

La RAI, con quasi 12 mila dipendenti (votanti e con famiglia), di cui 550 (!) dirigenti, ha più personale di tutte le altre tv messe insieme. E’ una struttura elefantiaca, dove tutto è triplicato secondo la magica ripartizione partitica, eredità della prima repubblica (Renzi, a proposito di rottamare, non dimentichi nulla?!). Nove sono i centri di produzione Rai, 21 le sedi regionali (misteriose entità che spuntano a mezzodì e verso sera, come le lumache quando piove, per i tg regionali con la cronaca della sagra del paese), 8 sono le testate giornalistiche (un miracolo paragonabile per fantasia alla moltiplicazione dei pani e dei pesci). Gubitosi, ex d.g. voleva poereto accorparle: l’hanno cacciato via subito! Ah, no!, qualcosa hanno tagliato: i poveri maestri d’orchestra. Prima le orchestre Rai erano due, Roma e Torino, oggi resta solo a Torino. Esempio preclaro di investimento in cultura, quintessenza del servizio pubblico nella patria del bel canto.

Adesso viene fuori la questione stipendi, resi pubblici, dopo lungo e penoso tira e molla e con supremo sprezzo autolesionistico, sul sito ufficiale della tivù di stato. Naturalmente tutti cadono dal pero: la sedicente commissione di vigilanza, convocata d’urgenza (sic!), persino tale Matteo Orfini presidente del PD, il partito che lì ha messa questa allegra brigata. Rallegriamoci con loro, al bando ogni invidia: abbiamo vertici aziendali e giornalisti nulla facenti e demansionati che beccano più di Obama, della Merckel, forse anche di Marchionne. Chi dice che l’Italia è in crisi? Gufi! Gufi! Possiamo stare al passo con la BBC, ma forse aveva ragione Arbore: no, non è la BBC.  Questa è la Rai, dove si dice: è il mercato, la qualità bisogna pagarla. Così si ostina a ripetere con ammirevole faccia di bronzo il miracolato d.g. RAI Campo dall’Orto. Peccato che i soldi sono i nostri e non di Elckan. Peccato che i soldi in via Mazzini o Saxa Rubra continuano a darli anche a chi non ha più incarico. E’ mai successo a voi di essere pagati per mansioni che non svolgete più, peggio per non far nulla? A loro succede, un’altra razza. Come mai sia venuta in mente a Renzi l’idea che un sistema simile potesse essere riformato? Ingenuità, certo, ma letale per il premier, ‘sta storia alla gente brucia. Ha ragione Carlo Freccero, uno che se ne intende: questi hanno gettato una tanica di benzina in un incendio.

Fra tutti i compensi, scusate, ma proprio non mi vanno giù quelle 200 mila corrisposte alla svenevole, impalpabile e crepuscolare conduttrice (per mancanza di prove) delle Invasioni barbariche, programma spentosi, dopo un penoso travaglio di audience, come una miccia bagnata. Questa giornalista per chiamata diretta, di cui mi sfugge il nome, che non era nemmeno riuscita a laurearsi al DAMS, oggi dirige Rai Tre. D’accordo, nella vita ci va culo, purché nei limiti della decenza!

cavallo rai

 

Come spera di prendere il consenso degli italiani Renzi? Per disperazione? Perché è un simpatico bullo e D’Alema è antipatico? Imperversando come fa nelle tv? Vedremo. Nel frattempo, stai allegro anche tu, o almeno sereno, Renzi!

 

 

 

 

 

QUESTI CARI E PICCOLI MOSTRI

QUESTI CARI E PICCOLI MOSTRI

IMPAZZA POKEMON GO, IL NUOVO GIOCO DELLA INTENDO, CHE IN BORSA RADDOPPIA LE QUOTAZIONI. CACCIA NELLE CITTA’ ALLA RICERCA DEI MOSTRI. IL GIAPPONE, STRETTO FRA TRADIZIONI E INNOVAZIONI, SEMBRA AVERE PERSO LA BUSSOLA DEL BUON GUSTO. DAL TRAGICO DEL TEATRO KABUKI ALL’AMORE PER I VIRTUALI FOLLETTI.

   Suzumiya Haruhi Un articolo di kyokosuzumiya per Ninconanco

 

 

Ogni estate porta la sua moda. E i suoi luoghi prediletti. Spesso, com’è ovvio, le spiagge, il mare, i dancing. Ci fu così il tempo del “muretto di Alassio”, poi i balli sulla “rotonda sul mare” per la tintarella di luna, l’hula-hoop su arene improvvisate, lo skateboarding lungo le pareti delle piscine. L’estate 2016 ha un teatro più universale: le città, dove si annidiano Loro, e dove impazza un nuovo game: la caccia ai Pokémon.pokemon-go

Un’invenzione giapponese, del 1996, di un tale di nome Satoshi Tajiri, ma allora i mostricciattoli vivevano nei video giochi in quanto non esisteva google maps. Oggi se n’è appropriata la Nintendo, colosso giapponese dell’informatica, che, a poche settimane dal lancio planetario di Pokémon Go, ha raddoppiato in borsa le sue quotazioni.

Ma perché proprio in Giappone nasce e si espande la mania di animare questi fantastici mostricciattoli, che in realtà sono graziosi, per molti adorabili? (ndr:Il vocabolo per dire mostro in giapponese è un altro, e precisamente kaibutsu). Chi non ricorda i Hello Kitty, gatti che sono l’essenza stessa della carineria nella versione giapponese? Chi non ha scaricato la app Neko Atsume, in cui i suddetti felini si aggirano mansueti in un giardino virtuale, del tutto simile al nostro?

Moda kawaii

Moda kawaii

Per trovare una risposta convincente bisogna risalire alla cultura del Giappone, nella quale convivono da sempre due tendenze, in un contrasto soft che è tipico di questo paese, anche quando esso prende le sembianze trasgressive e pseudo rivoluzionarie della moda Ganguro.

Una ragazza che veste alla moda ganguro

Una ragazza che veste alla moda ganguro

Tratto caratteristico della cultura giapponese è la tendenza a rappresentare la realtà addolcendola, nel tentativo di renderla meno ruvida e prosaica. Come il barocco in Italia esprimeva, in un vortice di linee, l’estasi e la trascendenza del divino, così in Giappone il Kawaii esprime, accanto al rifiuto delle durezze e delle disillusioni della vita, soprattutto una visione estetica che contiene in sé una forte spinta verso la spiritualità. Nella cultura giapponese è molto accentuata la differenza fra la realtà e la sua rappresentazione; l’immagine è evocazione della natura, ma trasfigurata in un slancio verso l’ideale.

Lo stile moe

Lo stile moe

Semplicità e candore, simbolo di purezza spirituale, in Occidente hanno trovato l’iconografia più adatta nei visi delle madonne, nelle sofferenze dei martiri, nei gesti icastici dei profeti. Il Giappone ha invece dato vita alla tendenza alla infantilizzazione delle immagini, finendo per sovrapporre il bello spirituale alle fattezze graziose dei bambini o delle fanciulle in fiore. In slang si dice moe l’attrazione per i personaggi dei videogiochi, come anima e manga, descritti come carini, dolci e innocenti.

L’età della infanzia ha così assunto nel giapponese adulto medio l’aurea del rispetto e della contemplazione in nessun modo profanabile.

Moda ganguro

Moda ganguro

A questa tendenza prevalente si è opposta nel tempo un’altra, più elitaria, avversaria della cultura di massa, vicino ai modelli occidentali. Essa sconfessa la visione infantile di kawaii e moe, ritenute immature e puerili, a favore di una sensibilità adulta, matura e più realistica.ganguro

Degno di nota, in questo breve escursus, è il movimento femminile giapponese degli anni 90 del secolo scorso, che ancora persiste, seppure sotto traccia. Le ragazze del movimento Ganguro, all’immagine socialmente imposta della fanciulla carina, vollero sostituire un look trasgressivo e provocatorio.

Personaggio teatro kabuki

Personaggio teatro kabuki

Non a caso, fonte di ispirazione fu il teatro Kabuki, con i suoi costumi e le sue maschere, che all’inizio del 600 permise alla borghesia delle città di esprimere con libertà e anticonformismo il proprio protagonismo, rappresentando in palcoscenico fatti concreti della vita, anche nei suoi risvolti più drammatici. 

 

 

ALLE ORIGINI DEL ROMANZO A FUMETTI GIAPPONESE

ALLE ORIGINI DEL ROMANZO A FUMETTI GIAPPONESE

MOLTO PRIMA DELLA BALLATA DEL MARE SALATO DI UGO PRATT, MOLTO PRIMA DELLE STORIE UNDERGROUND DI ROBERT CRUMB, MOLTO PRIMA DI ANDREA PAZIENZA. IN UN ARTICOLO DI FRANCESCO BOILLE LE ORIGINI DEL ROMANZO A FUMETTI GIAPPONESE. OPERE REALIZZATE DA PERSONE CHE CERCAVANO, ATTRAVERSO LA POESIA, DI USCIRE  DALLA POVERTA’ MATERIALE E ESISTENZIALE. 

 

di Francesco Boille, esperto di cinema e fumetti. Rivista Internazionale 20.7.2016

E se fossero stati i giapponesi a inventare il romanzo a fumetti intimista e autobiografico? Già alla fine degli anni cinquanta, ben prima delle graphic novel – definizione lanciata dallo statunitense Will Eisner nel 1978 – trovava la sua concettualizzazione e la sua affermazione pratica il geki-ga (storie drammatiche) in contrapposizione al man-ga (storie d’intrattenimento). Ora una collana della Coconino Press-Fandango, che si chiama appunto Gekiga, intende portare in Italia questo genere con sistematicità. Storie poetiche e innovative, profonde e umane, forti nella rappresentazione della società. Soprattutto, storie raccontate da angolazioni inedite che possono arrivare a tutti.

Ugo Pratt

Ugo Pratt

Con i titoli notevolissimi editi dalle edizioni 001 (ma con il logo di Hikari) e gran parte della bibliografia di Shigeru Mizuki pubblicata in Italia da Rizzoli Lizard (Mizuki fu membro della società antropologica giapponese e un autore ultra-pacifista che rilesse con poesia e profondità tradizioni e archetipi giapponesi) ora il lettore italiano può finalmente inoltrarsi nella foresta del fumetto giapponese più adulto.

Shigeru Mizuki

Shigeru Mizuki

Se il romanzo a fumetti già esisteva in occidente e spesso con alcune caratteristiche tipiche della graphic novel – basti pensare a un’opera dal carattere molto intimista celato dietro all’avventura come Una ballata del mare salato di Hugo Pratt, o i racconti dal sapore autobiografico di Robert Crumb, figura simbolo dell’underground statunitense, o più tardi di Andrea Pazienza – questa cominciò a imporsi in occidente alla fine degli anni settanta per esplodere in seguito, tra gli anni novanta e duemila. Ma in Giappone tutto arrivò molto prima. Iniziatore, e in qualche modo alfiere, ne fu un autore storicamente ormai fondamentale da poco scomparso, Yoshihiro Tatsumi (1935-2015), la cui voluminosa ma molto bella autobiografia Una vita tra i margini è stata pubblicata in Italia da Bao publishing.

Mizuki -Opera

Mizuki -Opera

Capire Yoshiro Tatsumi è necessario per capire l’intero gekiga: fumetti realizzati da persone che cercavano di tirarsi fuori dalla povertà e dalla depressione esistenziale creando opere poetiche e introspettive che stimolassero una riflessione, una consapevolezza nel lettore, ma sempre con una certa delicata modestia. Opere come quelle di Tadao Tsuge, autore settantenne di cui Coconino Press presenta lo straordinario La mia vita in barca. Concepito tra il 1996 e il 2000 per la rivista Tsuritsuri, è forse il nostro preferito dei due titoli inaugurali della collana.

Copertina rivista Garo

Copertina rivista Garo

Malgrado le perplessità della famiglia, Tsuge compra una barca e la rimette a posto con quattro soldi per passarci tre giorni al mese e cercare di uscire dall’alienazione e trovare la forza e l’ispirazione di finire il suo romanzo a fumetti. L’autore farà incontri incredibili, altri alienati come lui oppure altri esseri umani che rifuggono il mondo dell’ovvietà, della mercificazione, un mondo che sta andando verso il proprio suicidio. Tsuge li presenta come incontri incredibili, a tratti onirici, quasi paranormali, aggiungendo al tutto il sapore della meraviglia, dell’incanto. Un po’ tutti i personaggi sembrano irreali e ci si chiede se siano esistiti veramente. Siamo in un luogo indefinibile: lungo un fiume che sembra una palude, un acquitrino in lunghezza circondato da erba alta e qualche piccola collina.

Tadao Tsuge

Tadao Tsuge

Si parla tanto di viaggio in barca, ma alla fine è un’illusione, in realtà si rimane quasi immobili. Allegoria della vita vera dove ci si agita tanto, forse insensatamente, perché un solo luogo è certo: la morte. Qui, però, la morte ha il sapore del sogno, anche dolce. Vita e morte sembrano un unico lungo fluire sospeso nel tempo, come quando dormiamo lungo la riva di un fiume, su una spiaggia. O su una barca. Mai angosciante, spesso capace di suscitare una sottile inquietudine, affabulatore, Tsuge è bravissimo nel disegno minimale, grazie al quale suggerisce le azioni, le espressioni dei personaggi o i paesaggi grazie a un pennino di grande delicatezza, espressione di una cultura antica.

Tavola di Tsuge

Tavola di Tsuge

Deve tutto a suo fratello Yoshiharu, maestro celebrato del manga che fu iniziatore con Tatsumi del gekiga: il fratello infatti è un raffinato virtuoso, al massimo livello, del minimalismo e della sottrazione grafica, che si è espressa in capolavori come l’introspettivo Munō no hito (L’uomo senza talento). A lui la rivista di fumetto d’avanguardia Garo (nata nel 1964) dedicò un numero speciale già nel giugno del 1968. La mia vita in barca è un viaggio d’iniziazione verso il movimento, non della vita fisica, ma della vita interiore nell’apparenza di un viaggio immobile. Un viaggio zen.

Senchi Hayashi

Seiichi Hayashi

Le opere dei fratelli Tsuge sono espressione di sofferenza, di povertà e depressione, espressione di una giovinezza e anche in parte di una vita adulta disturbata che ricorda quella di certi scrittori (anche se con il genio, per riprendere una formula trita, ma senza la sregolatezza). Fumetti per gente povera disegnati da poveri che in parte si finanziavano mediante i cosiddetti tankobon, cioè prodotti pensati per le librerie a prestito che in un’epoca caratterizzata da politicizzazione e impegno sono arrivati anche sulle pagine di riviste mitiche per sperimentazione e innovazione come Garo. Altri autori invece arrivarono a tematiche praticamente identiche attraverso un percorso diverso, partendo proprio dall’impegno politico.

Tavola di Hayashi

Tavola di Hayashi

Seiichi Hayashi, autore del secondo titolo della collana Gekiga, Elegia in rosso, fu uno di questi. Se i fratelli Tsuge commentano il mondo mettendosi a distanza da esso, il libro di Hayashi costituisce quasi l’antefatto ideologico di La mia vita in barca. Concepito tra il 1970 e il 1971 sulla rivista Garo, quando la rivista era cioè al massimo della sua influenza e del suo successo commerciale, con una tiratura di 80mila copie, l’opera è figlia della grande disillusione post 1968, del fallimento delle utopie spesso radicali dei giovani di allora, colpiti da una feroce repressione. Elegia è quasi più intimista del libro di Tsuge, ma è un intimismo di ripiego e di protezione dopo la caduta delle grandi speranze. Storia di un amore tra un lui e una lei, concettuale ante litteram, è un crogiolo d’influenze e citazioni: si va da precisi riferimenti pop, come il James Dean di Gioventù bruciata, all’influenza della nouvelle vague.

Coconito press, della casa editrice Fandango

Coconito press, della casa editrice Fandango

Ma Elegia ha influenzato a sua volta non solo il fumetto giapponese ma anche altri settori culturali, suggerendo per esempio motivi musicali a importanti gruppi rock. In seguito l’autore ha preferito altre attività come l’illustrazione o anche l’animazione, da cui del resto Hayashi proveniva (aveva lavorato per la Toei, la casa che produsse molte animazioni dei “Superobot” come Goldrake). Ma resta quest’opera di svolta: una parabola più o meno autobiografica su quell’incomunicabilità che Antonioni pose come tematica centrale.

Hayashi è capace di costruire immagini metaforiche o allegoriche ad alta densità espressiva, lavorando per esempio sul taglio dell’inquadratura e operando la sottrazione grafica nel punto giusto. Si creano così immagini forti che immesse nella sequenza ne aumentano la forza espressiva complessiva. Anche se qua e là può confondere, l’opera esprime una dolcezza e una poesia da cui è difficile separarsi e affiora soprattutto una capacità di suggerire i non detti e il silenzio per evocare l’assenza, il lutto e la malinconia, ancor oggi straordinaria.

 

 

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