ALBERT SPAGGIARI

ALBERT SPAGGIARI

SPAGGIARI MALAVITOSO FRANCESE CHE TANTO AFFASCINO’ KEN FOLLETT- AUTORE DELLA RAPINA DEL SECOLO SCORSO A NIZZA, IN FUGA PER TUTTA LA VITA DELLE POLIZIE DI MEZZO MONDO-FASCISTA AUTOIRONICO E ROMANTICO NON CESSA DI INTERESSARE BIOGRAFI E NOSTALGICI. 

 

Ogni tanto si torna a parlare di lui. Sconosciuto ai più, Albert Spaggiari ispira la penna di giornalisti e scrittori di biografie. Le figure ribelli e irregolari, dalla vita spericolata alla Steve McQueen, come canta Vasco Rossi, tirano molto nel piatto panorama dell’editoria italiana. L’ultimo libro a lui dedicato è quello di Giorgio Ballario: Vita spericolata di Albert Spaggiari, Idrovolante editore, 2016.

Morendo presto Albert Spaggiari ha evitato le miserie della vecchiaia, cui per legge implacabile anche personaggi come lui devono sottostare. Sarà per questo che è rimasto nell’immaginario, amato come un rocambolesco ladro gentiluomo, un Fantômas moderno visto con un filo di simpatia inconfessata e magari col rammarico di non averlo conosciuto in un bar di Nizza o di Saigon.spaggiari1

Una sola rapina, clamorosa, tre libri sulla sua vita, dove si rivela anche un discreto scrittore, solide amicizie nella destra politica e fascista convinto. Ecco un ricordo del personaggio in un articolo di Silvio Botto per Linea quotidiano.

 

Bandito, gentiluomo e fascista. Un trinomio insolito, che descrive solo in parte la complessa e affascinante personalità di Albert Spaggiari, il “Rocambole” del grande furto di Nizza nell’estate del 1976. Uno dei tanti “colpi del secolo”, come i giornali definiscono abitualmente le più spettacolari rapine commesse ai danni delle banche, ma con un sapore romantico e avventuriero in più. Perché Spaggiari, ex paracadutista in Indocina ed ex militante dell’Oas, è la prova che molto spesso la realtà supera la fantasia di romanzieri e sceneggiatori.

Il suo nome è tornato a galla nei giorni scorsi, in occasione del 34° anniversario del furto alla Société Générale di Nizza, compiuto fra il 17 e il 19 luglio del 1976. Su Facebook è circolato un singolare saluto e omaggio alla “vecchia canaglia” (deceduta nel 1989) a firma di Paolo Signorelli, un altro “maudit” accusato d’ogni nefandezza – compresa la strage di Bologna – ma poi sempre assolto, dopo aver trascorso svariati anni in galera. Signorelli, che conobbe Spaggiari prima del famoso colpo alla banca di Nizza, lo definisce «Un simpatico guascone, un viandante, un viaggiatore dei sogni».

«Il prosciugamento del caveau della Société Générale di Nizza? Una beffa per i benpensanti e per gli usurocrati della banca. Gai Saber e gusto della dissacrazione – scrive Signorelli – E poi, è più colpevole l’uomo che rapina una banca o la banca come predazione istituzionale? Sicuramente la banca. Così, non a caso, sosteneva Bertold Brecht. Per Albert il colpo rappresentò un’opera d’arte. Anche perché a lui era il gesto estetico che interessava, non il danaro». Un omaggio che si è diffuso rapidamente sul social network più famoso del mondo, dove, fra l’altro, la pagina dedicata ad Albert Spaggiari ha già più di 7 mila fans.

 

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Del fenomeno Spaggiari si è occupato anche Ugo Maria Tassinari, autore di numerosi libri e massimo esperto della storia della destra radicale italiana, che nel suo blog “Fascinazione” ha dedicato un corposo articolo al ricordo dell’avventuriero francese. Tassinari descrive il famoso colpo alla filiale di Avenue Jean Medecin, nel centro di Nizza (la banda lavorò per tre mesi nelle fogne cittadine per arrivare sotto il caveau), la rocambolesca evasione dal palazzo di giustizia (Spaggiari si lanciò dalla finestra dell’ufficio del giudice, atterrando sul tettuccio di una macchina parcheggiata lì sotto e fuggì a bordo della moto di un complice), la lunga latitanza in Sud America e nel Veneto, dove alcuni camerati gli procurano una nuova identità e una baita in montagna, nei pressi di Belluno. Infine la morte prematura, a soli 56 anni, per un cancro alla gola; e l’ennesima beffa con il rimpatrio clandestino della salma, poi tumulata nella tomba di famiglia a Laragne, un paesino dell’Alta Provenza.

La breve vita del fuorilegge gentiluomo sembra uscita dalla penna di un romanziere d’avventura, un Dumas o un Salgari contemporaneo. Nato nel 1932, Albert rimane orfano di padre ad appena due anni e mezzo e segue la madre che si risposa a Hyères, in Costa Azzurra. A 18 si arruola nelle esercito e combatte per quattro anni in Indocina, dove viene ferito e decorato ma trova anche modo di manifestare la sua naturale irrequietezza: viene arrestato dopo aver rapinato un bordello di Hanoi, i cui tenutari avevano maltrattato alcuni suoi compagni d’armi. Nel ’54 torna in Francia a scontare la pena ed esce di galera nel ’57.spaggiari-libro

Si sposa con Marcelle Audi e lavora per una società che produce casseforti, per la quale si trasferisce alcuni anni in Senegal. Nel 1960 torna in Francia e comincia a frequentare gli ambienti nazionalisti e dell’estrema destra, diventando militante dell’Oas (Organisation Armée Secrète), il gruppo paramilitare che si oppone alla decolonizzazione dell’Algeria voluta da De Gaulle. Finisce in carcere un altro paio di volte, per reati legati all’attività clandestina dell’Oas, poi nel ’68 Albert Spaggiari sembra optare per una vita tranquilla: apre un negozio di fotografia a Nizza e si trasferisce a vivere in un casolare sulle colline dietro la città, ribattezzato “Le oche selvagge” in onore alla Legione straniera.

Il realtà l’ex paracadutista non si adatta a un’esistenza borghese, continua a frequentare gli ambienti nazionalisti e il milieu dei criminali marsigliesi, maturando l’idea di fare un colpo memorabile, che gli avrebbe cambiato la vita. Comincia a studiare la filiale della Société Générale e scopre che è possibile arrivare ai suoi caveaux passando dal sistema fognario. Mette insieme una piccola banda e lavora per mesi, scavando gallerie e tunnel sotto il centro di Nizza: Spaggiari e i suoi sospendono o preparativi solo il 10 luglio del 1976, in occasione della visita in Costa Azzurra del presidente Giscard d’Estaing.

Una settimana dopo il colpo viene realizzato: in due giorni e mezzo, da sabato 17 alle prime ore di lunedì 19 luglio, i ladri aprono 371 casseforti e portano via dalla Société Générale 50 milioni di franchi, l’equivalente di circa 25 milioni di euro attuali. Nel caveau svaligiato i poliziotti troveranno solo una scritta: «Sans arme, ni haine ni violence» (Senza armi, senza odio né violenza). La polizia brancola nel buio per mesi, poi riesce a trovare una traccia. Arresta un po’ di complici, qualcuno fa il suo nome. Interrogato per ore, Spaggiari nega ogni coinvolgimento, ma quando i flic minacciano di arrestare pure la moglie (estranea al colpo) ammette le sue responsabilità, senza però coinvolgere nessun altro. Il 10 marzo del ’77, mentre viene interrogato per l’ennesima volta nell’ufficio del giudice Richard Bouazis, l’ex paracadutista si lancia dalla finestra e fugge ancora una volta. Il proprietario della Renault 5 danneggiata dalla sua caduta si vedrà poi arrivare un assegno di risarcimento di 3 mila franchi.

Durante la sua latitanza Albert Spaggiari diventa un celebrità. Concede interviste in località segrete, scrive tre libri di memorie, persino lo scrittore di thriller Ken Follett gli dedica un volume: “La grande rapina di Nizza”. «Io non ho tenuto un soldo – dirà poi Spaggiari – la mia parte è andata agli oppressi di Portogallo, di Jugoslavia, d’Italia», alludendo forse al finanziamento di movimenti nazionalisti. Ispirandosi a lui, nel 1979 il regista Josè Giovanni gira il film “Les egouts du paradis” (Le fogne del paradiso), cui seguiranno una pellicola inglese (“The Great Riviera Bank Robbery”) e nel 2008 “Sans arme, ni haine ni violence” di Jean-Paul Rouve.

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Per anni viene avvistato un po’ dovunque, dall’Argentina al Paraguay al Cile, dove dicono abbia trovato riparo grazie al regime di Pinochet. In realtà, almeno negli ultimi anni, è molto più vicino alla sua amata Nizza: nella primavera dell’89 chiama l’anziana madre dall’Italia o dall’Austria, annunciandole di averne ancora per poco a causa di un cancro alla gola. Il 10 giugno la sua ultima compagna e un gruppo di amici italiani si presentano a Hyères con il suo cadavere nascosto nel bagagliaio dell’automobile. La madre lo farà seppellire nel paese natale, Laragne. L’ultima beffa di Albert Spaggiari.

 

 

 

 

PAPA SI’, PAPA NO.

PAPA SI’, PAPA NO.

 

LA SITUAZIONE OLTRE TEVERE IN UN DOCUMENTATO ARTICOLO DE LA STAMPA- CRESCE LA GALASSIA DEL DISSENSO A PAPA BERGOGLIO- “FRANCESCO NON HA AGGIORNATA LA DOTTRINA, L’HA DEMOLITA- IL PAPA TRASFORMERA’ IL VATICANO IN UNA CENTRALE CATTOMASSONICA”- PERICOLO DI UNO SCISMA?- MACCHE,’ DICE INTROVIGNI, SONO TROPPO DIVISI- LA STRANA VICINANZA CON PUTIN DELLA DESTRA CATTOLICA.

 

 

Murale a Roma di Maupal, subito ricoperto dal Comune.

Murale a Roma di Maupal, subito ricoperto dal Comune.

 

 

A tenerla unita è l’ avversione a Francesco. La galassia del dissenso a Bergoglio spazia dai lefebvriani che hanno deciso di «attendere un Pontefice tradizionale» per tornare in comunione con Roma, ai cattolici leghisti che contrappongono Francesco al suo predecessore Ratzinger e lanciano la campagna «Il mio papa è Benedetto». Ci sono gli ultraconservatori della Fondazione Lepanto e i siti web vicini a posizioni sede vacantiste, convinti che abbia ragione lo scrittore cattolico Antonio Socci a sostenere l’invalidità dell’elezione di Bergoglio soltanto perché nel conclave del marzo 2013 una votazione era stata annullata senza essere scrutinata. Il motivo?papa-ortodossi

 Una scheda in più inserita per errore da un cardinale. La votazione era stata immediatamente ripetuta proprio per evitare qualsiasi dubbio e senza che nessuno dei porporati elettori sollevasse obiezioni. Ancora, prelati e intellettuali tradizionalisti firmano appelli o protestano contro le aperture pastorali del Pontefice argentino sulla comunione ai divorziati risposati e sul dialogo con il governo cinese.

 Il dissenso verso il Papa unisce persone e gruppi tra loro molto diversi e non assimilabili: ci sono le prese di distanza soft del giornale online «La Bussola quotidiana» e del mensile «Il Timone», diretti da Riccardo Cascioli. C’è il quasi quotidiano rimprovero al Pontefice argentino messo in rete dal vaticanista emerito dell’«Espresso», Sandro Magister. Ci sono i toni apocalittici e irridenti di Maria Guarini, animatrice del blog «Chiesa e Postconcilio», fino ad arrivare alle critiche più dure dei gruppi ultratradizionalisti e sedevacantisti, quelli che ritengono non esserci stato più un Papa valido dopo Pio XII.

La Stampa ha visitato i luoghi e incontrato i protagonisti di questa opposizione a Francesco, numericamente contenuta ma molto presente sul web, per descrivere un arcipelago che attraverso Internet ma anche con incontri riservati tra ecclesiastici, mescola attacchi frontali e pubblici a più articolate strategie.papa-bambino

In prima linea sul web contro il Papa, lo scrittore Alessandro Gnocchi, firma dei siti Riscossa cristiana e Unavox: «Bergoglio attua la programmatica resa al mondo, la mondanizzazione della Chiesa. Il suo pontificato è basato sulla gestione brutale del potere. Uno svilimento della fede così capillare non si è mai visto».

Tra le mura paleocristiane della basilica di Santa Balbina all’Aventino, accanto alle terme di Caracalla, la Fondazione Lepanto è uno dei motori culturali del dissenso a Francesco. Tra libri pubblicati, l’agenzia di informazione «Corrispondenza romana» e gli incontri tenuti nel salone del primo piano qui opera una delle cabine di regia del fronte anti-Bergoglio.

«La Chiesa vive uno dei momenti di maggiore confusione della sua storia e il Papa è una delle cause – afferma lo storico Roberto De Mattei che della Fondazione Lepanto è il presidente -. Il caos riguarda soprattutto il magistero pontificio. Francesco non è la soluzione ma fa parte del problema». L’opposizione, aggiunge De Mattei, «non viene solo da quegli ambienti, definiti tradizionalisti, ma si è allargata a vescovi e teologi di formazione ratzingeriana e wojtyliana».

Più che di dissenso, De Mattei preferisce parlare di «resistenza», la stessa che si è recentemente espressa attraverso la critica all’ esortazione apostolica «Amoris Laetitia» di 45 teologi e filosofi cattolici e la dichiarazione di «fedeltà al magistero immutabile della Chiesa» di 80 personalità, divenute poi alcune migliaia, tra cui cardinali, vescovi e teologi cattolici. Tra gli italiani c’è il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna.

 

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Uno dei principali centri di resistenza, sottolinea ancora lo storico, «è l’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia, i cui vertici sono stati recentemente decapitati dal Bergoglio». Nel mirino dei tradizionalisti c’è anche il «contributo che la politica migratoria di Francesco fornisce alla destabilizzazione dell’Europa e alla fine della civiltà occidentale».

L’attacco a Bergoglio è globale. «Nella galassia del dissenso a Francesco c’è una forte componente geopolitica – osserva Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea all’Università Cattolica ed esperto di dialogo con la Cina -. Accusano Bergoglio di non annunciare con sufficiente forza le verità di fede, ma in realtà gli imputano di non difendere il primato dell’Occidente. È una opposizione che ha ragioni politiche mascherate da questioni teologiche ed ecclesiali».

La Cina ne è l’esempio. «C’è un’ alleanza fra ambienti Hong Kong, settori Usa e destra europea: rimproverano a Francesco di anteporre alla difesa della libertà religiosa l’obiettivo di unire la Chiesa in Cina – continua -. Sono posizioni che trovano spazio spesso nell’agenzia cattolica Asianews. Il Papa, secondo questi critici, dovrebbe affermare la libertà religiosa come argomento politico contro Pechino, invece di cercare il dialogo attraverso la diplomazia».

A dar voce al dissenso, che ha innegabili sponde interne alla Curia, sono anche ecclesiastici con entrature vaticane, come il liturgista e teologo don Nicola Bux, consultore delle Congregazioni per il Culto divino e per le Cause dei Santi. «Oggi, non pochi laici, sacerdoti e vescovi si chiedono: dove stiamo andando?- spiega alla Stampa -. Nella Chiesa c’è sempre stata la possibilità di esprimere la propria posizione dissenziente verso l’autorità ecclesiastica, anche se si trattasse del Papa.

Il cardinale Carlo Maria Martini, notoriamente esprimeva spesso, anche per iscritto, il suo dissenso dal pontefice regnante, ma Giovanni Paolo II non l’ha destituito da arcivescovo di Milano o ritenuto un cospiratore». Il compito del Papa, continua Bux, è «tutelare la comunione ecclesiale e non favorire la divisione e la contrapposizione, mettendosi a capo dei progressisti contro i conservatori».

E «se un Pontefice sostenesse una dottrina eterodossa, potrebbe essere dichiarato, per esempio dai cardinali presenti a Roma, decaduto dal suo ufficio». In un crescendo di bordate, con un’intervista al Giornale nei giorni scorsi è sceso in campo anche il ricercatore Flavio Cuniberto, autore di un libro critico col magistero sociale del Papa, studioso di René Guenon e del tradizionalismo vicino alla destra esoterica.

Ha dichiarato che «Bergoglio non ha aggiornato la dottrina, l’ha demolita, si comporta come se fosse cattolico ma non lo: l’idea stravolta di povertà eleva alla sfera dogmatica il vecchio pauperismo». Il Papa elogia la raccolta differenziata e così «le virtù del buon consumatore tardo-moderno diventano le nuove virtù evangeliche».papa-che-cade

Nella sua pagina ufficiale su Facebook, Antonio Socci sostiene che Benedetto XVI non si sia voluto davvero dimettere ma si consideri ancora Papa volendo in qualche modo condividere il «ministero petrino» con il successore. Interpretazione che lo stesso Ratzinger ha smentito seccamente a più riprese a partire dal febbraio 2014 fino al recente libro-intervista «Ultime conversazioni», dichiarando pienamente valida la sua rinuncia e manifestando pubblicamente la sua obbedienza a Francesco.

La teoria ha tratto nuova linfa dall’interpretazione da alcune parole pronunciate nel maggio scorso dall’ arcivescovo Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e segretario di Benedetto XVI. Don Georg, intervenendo alla presentazione di un libro, aveva affermato: «Non vi sono dunque due papi, ma di fatto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo». Socci pubblica a fine settembre, una accanto all’altra, le foto di Bergoglio e Ratzinger sotto la scritta «quale dei due?».

E scrive: «C’ è chi si oppone l’ amore alla verità (Bergoglio) e chi le riconosce unite in Dio (Benedetto XVI)». Tra i tanti commenti in bacheca, Paolo Soranno risponde: «Francesco I sembra che sia messo al servizio del Dio Arcobaleno (quello che non impone obblighi religiosi e morali) e non del Dio Cattolico».

È nella Rete che il dissenso a Bergoglio assume i toni più accesi, con persone che dietro il paravento del computer si lasciano andare a furiose invettive, come si legge nei commenti sotto gli articoli postati sui social. Sul sito «messainlatino», che si dedica a promuovere la liturgia antica, ma ospita spesso anche commenti al vetriolo sul Papa, si parla di «noiosa monotonia ideologica dell’attuale pontificato».

In rete si leggono commenti sulla Chiesa che «sarà spinta a sciogliersi in una sorta di Onu delle religioni con un tocco di Greenpeace e uno di Cgil», dato che «oggi i peccati morali sono derubricati e Bergoglio istituisce i peccati sociali (o socialisti)». Sul blog ipertradizionalista di Maria Guarini, «Chiesa e Postconcilio», si leggono titoli tipo questo: «Se il prossimo papa sarà bergogliano, il Vaticano diventerà una succursale cattomassonica». Il dissenso viene dall’ area più conservatrice, ma trova sponde anche in qualche ultraprogressista deluso.

E’ il caso del prete ambrosiano don Giorgio De Capitani, che attacca senza tregua Francesco da sinistra, e dunque non è assimilabile ai gruppi finora descritti. Sul suo sito web non salva nulla del pontificato. «Quante parole inutili e scontate – inveisce -. Pace, giustizia e bontà. Il Papa ci sta rompendo le palle con parole e gesti strappalacrime. Francesco è vittima del proprio consenso e sta suscitando solo illusioni, butta tanto fumo negli occhi, stuzzica qualche applauso manda in visibilio i giornalisti ignorantotti sulla fede».

 Giuseppe Rusconi, il giornalista ticinese curatore del sito «Rossoporpora», si chiede: «il nostro Pastore è veramente in primo luogo “nostro” o non mostra di privilegiare l’indistinto gregge mondiale, essendo così percepito dall’ opinione pubblica non cattolica come un leader gradito ai desideri espressi dalla società contemporanea? Lo farà per strategia gesuitica o per scelta personale? E quando il Pastore tornerà all’ovile, quante pecorelle smarrite porterà con sé? E quante ne ritroverà di quelle lasciate».

Questa composita galassia del dissenso ha eletto come suoi punti di riferimento alcuni vescovi e cardinali. Magister sul suo blog ha lanciato la candidatura papale del cardinale guineano Robert Sarah, attuale ministro per la liturgia di Francesco, amato da conservatori e tradizionalisti e molto citato nei loro siti e nelle loro pubblicazioni.

Rischio scisma? Tra coloro che vengono considerati stelle polari da parte di questo mondo ci sono soprattutto il porporato statunitense Raymond Leo Burke, patrono dei Cavalieri di Malta, e il vescovo ausiliare di Astana, Athanasius Schneider. Ma al di là dell’amplificazione mediatica offerta dalla rete, non sembra proprio che vi siano all’orizzonte nuovi scismi, dopo quello compiuto dal vescovo Marcel Lefebvre nel 1988. Ne è convinto il sociologo Massimo Introvigne, direttore del Cesnur: «I vescovi cattolici nel mondo sono più di cinquemila, il dissenso riesce a mobilitarne una decina, molti dei quali in pensione, il che mostra appunto la sua scarsa consistenza».

Introvigne sostiene che questo dissenso «è presente più sul web che nella vita reale ed è sopravvalutato: ci sono infatti dissidenti che scrivono commenti sui social sotto quattro o cinque pseudonimi, per dare l’impressione di essere più numerosi». Per il sociologo è un movimento che «non ha successo perché non è unitario. Ci sono almeno tre dissensi diversi: quello politico delle fondazioni americane, di Marine Le Pen e di Matteo Salvini che non sono molto interessati ai temi liturgici o morali – spesso non vanno neppure in chiesa – ma solo all’immigrazione e alle critiche del Papa al turbo-capitalismo.

Quello nostalgico di Benedetto XVI, che però non contesta il Vaticano II. E quello radicale della Fraternità San Pio X o di de Mattei e Gnocchi, che invece rifiuta il concilio e quanto è venuto dopo. Nonostante vi sia qualche ecclesiastico che fa da sponda, le contraddizioni fra le tre posizioni sono destinate a esplodere, e un fronte comune non ha possibilità di perdurare».

Introvigne fa notare una sorprendente caratteristica comune a molti di questi ambienti: «È l’idealizzazione mitica del presidente russo Vladimir Putin, presentato come il leader “buono” da contrapporre al Papa leader “cattivo”, per le sue posizioni in materia di omosessuali, musulmani e immigrati. Con il dissenso anti-Francesco collaborano fondazioni russe legatissime a Putin».

 

Giacomo Galeazzi e Andrea Tornielli per “la Stampa”

 

 

 

PROPERZIO: DI TE, CINZIA, SARO’ VIVO, DI TE MORRO’!

PROPERZIO: DI TE, CINZIA, SARO’ VIVO, DI TE MORRO’!

 

PROPERZIO: DI TE, CINZIA, SARO’ VIVO, DI TE MORRO’!

 

Sesto Aurelio Properzio (Assisi, 47 a.C. – Roma, 14 a.C.), dopo una rapida carriera politica, assurse ai massimi livelli letterari dell’epoca con il primo libro delle Elegie, nel 28 a.C., avvicinandosi anche al potente circolo di Mecenate. Tema centrale della sua opera fu l’amore, spirituale e fisico, per la bellissima Cinzia, ma cantò anche la gloria di Roma e le grandi leggende italiche. Feltrinelli ha pubblicato nei “Classici” Poesie a Cinzia (2012).

 

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Libero adattamento dall’elegia XV del Libro II

 

Oh me felice, o notte per me splendida.

Sul dolce letto reso beato dalla mia delizia

quante parole ci siamo detti distesi accanto alla lucerna,

allontanato il lume, quante battaglie d’amore abbiamo ingaggiato.

Lottavi con me a seni nudi, Cinzia,

poi indugiavi a lungo coperta dalla tunica.

Con le labbra mi aprivi gli occhi assonnati,

poi sussurravi: “Così, insensibile, giaci?”

intrecciando già nell’amplesso le tue con le mie braccia.

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Quanti lunghi baci ho impresso sulle tue labbra!

Rovina il piacere errare alla cieca:

se non lo sai, gli occhi sono la guida dell’amore.

Si dice che lo stesso Paride si consunse vedendo nuda la Spartana,

mentre si alzava dal letto di Menelao;

nudo anche Endimione, narrano, conquistò la sorella di Febo,

e giacque a sua volta insieme con la dea nuda.

Se invece tu ostinata ti adagerai vestita,

ti strapperò la veste e proverai la forza delle mie mani;

che mosse dal furore lasceranno i segni

e dovrai mostrare a tua madre le povere braccia ferite.

Non hai seni cadenti che ti impediscano i giochi dell’amore:

né ti imbarazzano i segni del parto .

Finché i fati ce lo permettono, saziamoci gli occhi di amore:

viene per te una notte senza fine, non verrà più giorno.

Una catena ci avvince, così forte

che nessun alba ci potrà più separare.

Ti siano d’esempio le colombe congiunte in amore,

gli amanti stretti in un connubio totale.

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Erra colui che cerca la fine di un folle amore:

un amore vero non conosce limite né misura.

La terra ingannerà con false messi gli aratori,

il sole spingerà i cavalli neri,

la acque dei fiumi rifluiranno alla sorgente

e i pesci moriranno nei gorghi disseccati,

prima che io possa distogliere da te i miei affanni d’amore.

Di te, Cinzia, sarò vivo, di te morrò!

Se tu volessi concedermi anche una sola notte così,

un solo anno di vita sarà lungo.

Se poi me ne concederai molte, allora in esse diverrò immortale:

chiunque in una sola notte può trasformarsi in un dio.

———-

Tu ora, mentre il giorno splende, non lasciare i frutti della vita:

se mi darai tutti i tuoi baci, me ne darai pochi.

E come i petali si distaccano dai serti avvizziti

e galleggiano sparsi nelle coppe,

così per noi, che ora amanti ci nutriamo d’amore,

forse il domani concluderà il destino.

VINTAGE ANTICONCETTUALE FRA TELE E PENNELLI

VINTAGE ANTICONCETTUALE FRA TELE E PENNELLI

LA PITTURA INCOMBENTE DI ROTHKO E L’ACTION PAINTIG DI POLLOCK ALFA E OMEGA DELL’IMPRESSIONISMO ASTRATTO MADE IN USA- UNA OPERAZIONE VINTAGE NELLA ROYAL ACADEMY DI LONDRA CERCA UN COMUNE DENOMINATORE FRA ARTISTI ANTEGUERRA DALLE PERSONALITA’ SPESSO DIVERGENTI.   

 

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Jackson Pollock

Mostra strepitosa, intensa e radicale, questa. Curata da David Anfam e Edith Devaney in collaborazione con il Guggheneim Museum di Bilbao, ci conduce all’interno della vibrante e drammatica atmosfera artistica degli USA, all’inizio del secondo dopoguerra. In un percorso che rende visibile e comprensibile come l’arte americana sia diventata “maggiorenne”, in grado di dialogare alla pari con le altre avanguardie europee. E anche grazie a quante fatiche creative e sofferenze umane, tutto ciò sia potuto accadere.

 Un’ epoca dove l’arte visiva sapeva esprimersi con emozione ed esuberanza (o almeno quella che trasuda da un paese, magari ingenuo ma di certo giovane e dinamico). Davanti alle opere si provano sensazioni profonde ed inconsce che non lasciano spazio alla riflessione e soprattutto ai cerebralismi dell’arte concettuale. Un modo di esprimersi che si accorda perfettamente (nel bene e soprattutto nel male, ovviamente) con il sentire della politica, della società e della comunicazione dei nostri tempi: sensazioni viscerali prima e (poca) razionalità dopo.

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Opera di Jackson Pollock

 Opere potenti di sessanta/settanta anni fa e che, paradossalmente, si trasformano in chiavi di lettura per meglio comprendere ciò che succede oggi. Inevitabile, in chi guarda, anche tanta nostalgia per un passato magari difficile ma sicuramente grondante di un certo ottimismo e freschezza. Tutto questo tra l’altro a dispetto della biografia di molti di questi artisti, costellata da morti tragiche. Inquietante comunque il fatto di rapportare il nostro presente e le sue contraddizioni non tanto a ricerche artistiche contemporanee ma, per l’ennesima volta, al vintage (seppure di grandissima qualità).

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Mark Rothko

 Il termine “Espressionismo Astratto”, usato per la prima volta nel 1949 dal critico Robert Coates, più che un gruppo o un movimento con precisi obiettivi artistici, rappresenta una tendenza.  La squadra degli artisti è varia e numerosa anche se un po’ machista e misogina (oggi si direbbe “sessista”); di fatto le uniche donne realmente riconosciute del gruppo sono infatti la bravissima Lee Krasner paziente moglie di Jackson Pollock e l’ineffabile Helen Frankentaler.

 I due fuoriclasse, senz’altro Mark Rothko e Jackson Pollock. Non solo i più celebrati e famosi di questa avventura americana ma anche quelli che meglio incarnano le due polarità fondamentali che vi convivono.  Movimento e l’azione da una parte (Pollock, sostenuto dal potente critico d’arte newyorkese Clement Greenberg è il campione dell’action painting) e grandi campiture di colore fermo e spaventosamente immobile dall’altra (la pittura quasi teologica di Rothko, ugualmente promossa da Greenberg, formulata in termini di vuoti e pieni di colore, incombenti e sospesi).

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Opera di Mark Rothko

 Sorprendenti alcune loro opere giovanili che mostrano come entrambi siano partiti da una figurazione più o meno tradizionale, secca e nervosa, per poi approdare a strade diversissime. Il personaggio dietro le quinte che in un certo senso tiene a battesimo entrambi (ma certo la sua influenza è direttamente e decisamente visibile su Rothko) è l’artista Hans Hofman, che, fuggito dalla Germania negli anni trenta, da vita alla mitica scuola d’arte delle Black Mountains e porta agli artisti americani, fresche e di prima mano, le ricerche pittoriche europee.

Male and Female è un piccolo quadro del 1942 dove il Pollock che conosciamo e amiamo è ancora acerbo, lontano. Due opere di Rothko, rispettivamente del 1936 e del 1944, che non solo mostrano chiaramente la sua ispirazione surrealista ma sembrano addirittura imparentate con certi quadri italiani di Carrà e di Ottone Rosai. In questa sezione anche un suo notevole e commovente autoritratto, prestato alla mostra dal figlio Christopher.

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Clyfford Still

Arshile Gorky, artista di origine armena, è comunque il vero pioniere dell’ Espressionismo Astratto a New York. Affascinato all’inizio dalle esperienze surrealiste europee, trova poi una sua strada “americana”. Scoperto da Harold Rosenberg, rappresenta lo snodo iniziale da cui in quegli anni partono l’action painting e il colour field, in una sorta di surplace tra le due tendenze. Muore suicida nel 1948, dopo una vita di stenti e delusioni, senza poter assaporare il meritato successo postumo al suo lavoro.

La grande sala dedicata a Jackson Pollock ci mostra cose rare e straordinarie tra cui spicca Blue Poles (1952), opera insuperabile e praticamente definitiva. Morirà poco dopo, ubriaco in un incidente automobilistico in un atto (forse) di inconscia autodistruzione celebrando così alla perfezione l’esistenza caotica, dura, sostanzialmente infelice, decisamente solitaria dell’americano medio.

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Opera di Clyfford Still

Nella direzione dell’espressionismo gestuale, le tele violente e monocrome di Franz Kline, quelle esplosive e piene di colore dell’olandese Willem De Kooning oltre naturalmente alle opere di Lee Krasner. Poi Adolph Gottlieb, la cui influenza in quegli anni fu importante soprattutto a New York e Roberth Motherwell, il più politicizzato (personalmente coinvolto nella Guerra Civile Spagnola) con la sua gestualità polemica e disperata.

L’opera di Mark Rothko distribuita nel corso degli anni di attività ha il posto d’onore nella suntuosa rotonda centrale della Royal Academy (solitamente riservata alle opere di maggior rilievo). Nato in una famiglia ebraica di origine russa, dopo una vita costellata da eccessi di ogni tipo e crisi depressive, si taglia la gola con un rasoio a New York nel 1970. La sua implacabile e fragile irrequietezza è palpabile in ognuna delle sue grandi tele esposte. Un artista con un talento eccezionale e una speciale aura sacerdotale da “celebratore di misteri”.

Arshile Gorky

Arshile Gorky

Tra chi in quegli anni, come lui, sceglie una pittura di grandi masse colorate sicuramente Barnet Newman con le sue enormi tele monocrome di deriva minimalista ma soprattutto Clifford Still, un po’ la sorpresa di questa rassegna, con una splendida serie di opere davvero inedite sino ad ora in Europa. Insieme a Sam Francis egli rappresenta la cosiddetta West Coast dell’Espressionismo Astratto, che, sfatando il luogo comune che associava il movimento unicamente alla leggendaria “New York School”, ci dimostra come in realtà questa esperienza abbia in fondo coinvolto tutti gli Stati Uniti.

Una mostra, questa, che ci fa riflettere ugualmente sull’uso innovativo e determinante della superficie di grandi dimensioni nell’arte contemporanea.  Tutto parte, infatti, parte proprio da quegli anni cinquanta in America, dove ogni cosa è più grande che in Europa: le case, le strade, le razioni alimentari e ovviamente anche gli studi degli artisti e le gallerie.

Opera di Arshile Gorky

Opera di Arshile Gorky

Prima di allora le tele, anche importanti, (forse con la sola eccezione del Guernica di Picasso) non superavano certe misure, per lo più banalmente legate alle dimensioni di porte e ambienti. La consacrazione di questi artisti americani conferì a tutta la geografia dell’arte una nuova dimensione. Da lì nacque un vero e proprio standard.

Le ricerche di Philip Guston e di Adolph Gottlied, ben illustrate dalla mostra, si situano in un terreno assai particolare con una propria individualità che ne rende difficile qualsiasi collocamento. Con le opere in metallo di David Smith, disseminate nelle varie sale, si può invece ammirare infine la scultura. Non sempre entusiasmante forse il suo lavoro, ma certo  interessante. In mostra infine anche alcune curiosità fotografiche sugli artisti e un po’ di inedito backstage.

Opera Barnet Newman

Opera Barnet Newman

Che dire… se ne esce un po’ storditi, pensierosi, sinceramente emozionati.

Barnett Newman

Barnett Newman

PS Per sorpasso e il trionfo vero e proprio dell’arte americana  bisogna naturalmente aspettare negli anni sessanta la Pop Art, ma qui siamo almeno ad una parità (assolutamente meritata).

 

 

 

 

 

 

 

Opera di Adolph Gottlieb

Opera di Adolph Gottlieb

 

Opera Franz Kline

Opera Franz Kline

 

Opera di Willem De Kooning

Opera di Willem De Kooning

 

LONDRA MOSTRA MAESTRI ESPRESSIONISMO ASTRATTO  24 Settembre – 2 Gennaio 2017

ROYAL ACADEMYPiccadilly, London W1J

 

Articolo di Antonio Riello per Dagospia

 

 

 

 

97 ANNI E ANCORA MORDE. LAWRENCE FERLINGHETTI E LA BEAT GENERATION

97 ANNI E ANCORA MORDE. LAWRENCE FERLINGHETTI E LA BEAT GENERATION

97 ANNI E ANCORA MORDE. LA BEAT GENERATION NEI RICORDI DI LAWRENCE FERLINGHETTI, UN ITALO AMERICANO CHE PUZZAVA DI PEPERONE E CIPOLLA, AMICO ED EDITORE DI UNA SCHIERA DI ARTISTI CHE SONO ORMAI NELLA STORIA    

 

 

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Ferlinghetti e Ginsberg davanti alla tomba di Kerouac

«Bravo Bob, bravo», sussurra in un italiano felice Lawrence Ferlinghetti. Per il grande poeta e scrittore americano, che ha vissuto quasi un secolo su questa Terra, «il Nobel di Dylan è il Nobel di una generazione. Chi è rimasto di noi dovrebbe esserne fiero. Bob Dylan è la vera, unica eredità della Beat Generation nel XXI secolo».

A 97 anni, dorati da una rara e toccante lucidità, Ferlinghetti è l’ultimo padre vivente della Beat Generation. La generazione che ha coccolato Bob Dylan, prima che anche lui se ne andasse on the road, per la sua strada.

Dagli anni Sessanta lo frequentò anche Ferlinghetti quel menestrello del Minnesota: «Una volta eravamo io, Bob Dylan e Allen Ginsberg a un Cafè in San Francisco e ci cacciarono perché eravamo troppo bohémien, troppo matti. Ma non posso definire Dylan un amico, quello semmai era Allen Ginsberg. Io non sento Bob da molti anni».beat2

Lawrence Ferlinghetti, in Italia pubblicato da Minimum Fax che di recente ha riproposto il suo capolavoro A Coney Island of the Mind, parla dalla sua casa di San Francisco, nel quartiere italiano North Beach. «Oramai sono quasi cieco», confessa. Gli sfugge una lacrima: «Dopo il glaucoma, non riesco a leggere più niente. Questa è la cosa che mi fa più male, alla mia età. Non può capire quanto».

Si sposta dalla sua camera in soggiorno, a fatica. Ha il fiatone. Non vuole svegliare suo figlio Lorenzo: «Dorme ancora». Lorenzo, nome italiano, come il suo quartiere, come il nipote (Leonardo), come mezza famiglia: il padre veniva da Chiari, Brescia, e morì sei mesi prima che Lawrence nascesse. Adesso, “Ferling” è fiero della sua italianità, clandestina in gioventù: il suo cognome per decenni gli fu dimezzato. La sua famiglia si vergognava di essere associata «a chi puzzava di peperoni e cipolla ».beat3

Tutti i “beatniks”, dagli anni Cinquanta in poi, si incontravano da Lawrence. L’appuntamento era nella sua storica libreria ed editrice City Lights, angusto epicentro di una rivoluzione che ha sconvolto il mondo pubblicando Ginsberg (una performance del maledetto Urlo gli costò persino il carcere nel 1957), Burroughs, Kerouac, Kaufman, Corso, e poi Prévert, Chomsky, Bukowsky. Ma non Dylan.

«Uno dei miei rimpianti più grandi è quello di non essere riuscito a pubblicare Bob. Quanto ho agognato e sperato di pubblicare in poesia almeno una versione del suo primo album omonimo! Che versi profondi, irraggiungibili! Ma allora, a metà degli anni Sessanta, era già troppo famoso».

E cosa successe?

«Quando provai a chiedere i diritti, me ne andai con la coda tra le gambe. Quei soldi non li avrei mai avuti in vita. E comunque aveva già deciso di essere un uomo “song and dance”, canto e ballo».

Norman Mailer diceva che «se Dylan è un poeta, io sono un giocatore di basket».

«Che stupidaggini. Bob Dylan è un poeta, prima di ogni cosa. Lo è sempre stato. Ha scritto i migliori poemi surrealisti della nostra generazione. E, grazie alla musica, è riuscito a far arrivare la poesia dove non era mai arrivata, neanche con Ginsberg. L’Accademia di Svezia ha avuto grande coraggio per una scelta giusta e doverosa».

Il Nobel a Bob Dylan è anche il Nobel ai “beatniks”, a Lawrence Ferlinghetti e a un’intera generazione?beat-4

«In un certo senso sì. Anche se noi abbiamo cominciato negli anni Cinquanta, lui poco dopo. Ma è indubbio che le commistioni tra Beat Generation e quel revival folk aspirato dal primo Dylan si sovrapponessero molto rispetto alla stessa intellighenzia liberal di sinistra.

 

Bob era uno di noi, basti vedere il flusso di coscienza dei suoi primi testi. E, dalla pace alle droghe, dalla psichedelia al buddismo, ha articolato in maniera irraggiungibile slogan e temi della nostra generazione. Soprattutto negli anni a venire, è stato il vero padre culturale della hippy generation».

Più di Ginsberg, ponte tra beat e hippy?

«Allen è stato una leggenda, ma non era niente al confronto di Bob Dylan. Piangeva mentre ascoltava le sue canzoni. Non a caso, presto lo capì e anche lui si portò un’armonica dall’India e cominciò a musicare i versi, persino i Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza di William Blake».

Dylan era di origini ebraiche, ha cantato le storie degli ultimi come i neri e il jazz amato dalla Beat Generation e ha riportato la questione sociale in primo piano, come fece Steinbeck anni prima.

«Vero. Poi certo, la musica di Dylan è una storia impossibile da riassumere in poche righe: partì da Woody Guthrie e sappiamo dove è andata a finire. Anche il paragone con Steinbeck è azzeccato. Non a caso era uno degli idoli di Dylan, e anche di Jack Kerouac».

Qual è secondo lei la “canzone” più letteraria di Dylan?beat5

«Non saprei. Solo Masters of War ne meriterebbe due di Nobel: per la Letteratura e per la Pace».

Che ne pensa degli intellettuali oggi? C’è chi dice che spesso sono troppo silenti di fronte ai mali del mondo.

«Silenti? Questi dormono proprio! Va bene che la sinistra sta perdendo pezzi giorno dopo giorno. Ma io vedo solo un grande sonno».

Perché, secondo lei?

«Oggi gli intellettuali hanno lo stomaco pieno. Hanno tutto, da subito, soprattutto i più giovani. Quando arrivai a San Francisco negli anni Cinquanta non avevo niente in tasca. E così molti miei colleghi. Avevamo una fame dentro, una tale rabbia, che non potevamo star zitti».

Lei invece, a 97 anni, dopo una carriera indimenticabile, cosa fa il giorno?

«Niente. Passo tutto il tempo a casa. Sono cieco».

Non va mai nella sua storica libreria?

«Ogni tanto. Ma oramai c’è gente straordinaria che ci lavora al posto mio, io non servo più».

Nel secolo scorso sfidavate la censura facendo arrivare dall’Europa i libri proibiti, Bob Dylan fece lo stesso con “Pasto Nudo” di Burroughs nel 1959. Oggi lo stesso meccanismo, nell’era di Amazon e della grande distribuzione, rischia di far chiudere parecchie librerie indipendenti, anche la vostra.

«Ma noi, City Lights, siamo sopravvissuti. E non moriremo mai. Perché la nostra non è solo una libreria. È una comunità. Quando la inaugurai, nel 1953, decisi di restare aperto fino a notte, sette giorni su sette.

Le altre piccole librerie che chiudevano alle 5. Loro sono morte, noi no. Quei predatori di Amazon non ci avranno mai. Perché non riusciranno mai a essere come noi. Per esempio, la settimana prossima ci verrà a trovare Ralph Nader (ex candidato presidente in America, verde,ndr) ».

A proposito, lei da anarchico e ribelle antisistema, cosa voterà alle elezioni? Sceglierà un altro Nader, i cui voti da sinistra fecero perdere il democratico Gore a favore di George Bush?

«Stavolta no. Mi turerò il naso con due mani e voterò per Hillary Clinton. Trump è troppo pericoloso e rischieremmo davvero con una guerra mondiale con lui al comando. Ma, il giorno dopo la vittoria di Clinton, sperò che il movimento “Occupy” occupi la Casa Bianca stavolta, dopo Wall Street. Questo sistema politico è insostenibile, crea troppe disuguaglianze. Prima o poi, toccherà cambiarlo»

Articolo di Antonello Guerrera per La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

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