QUE VIVA MEXICO!

QUE VIVA MEXICO!

 

 

La morte di Fidel Castro ha coinciso con una iniziativa d’arte che dalla rivoluzione castrista volge il pensiero a quella zapatista del Messico, cioè a quello spartiacque, culturale e ideologico, che ancora oggi fa un unicum socio-politico di questi due paesi dell’America latina.

 

 

La mostra, aperta dal 5 ottobre al Grand Palais di Parigi e che chiuderà il 23 gennaio 2017, è intitolata: Messico 1900-1950. Diego Rivera, Frida Kahlo, José Clemente, Orozco e le avanguardie. Quattro i nuclei tematici principali: l’Arte prima della Rivoluzione, il Messico e la Rivoluzione, le altre facce della scuola messicana; l’Ibridazione con l’incontro di due mondi.

Vi sono esposte 203 opere in parte inedite che includono 20 collezioni principali messicane, 10 internazionali e  31 di privati. 119 sono quadri, 25 disegni, 27 sculture, 11 incisioni, 19 fotografie (quelle dell’italiana Tina Modotti)  e due video.

Già l’anno scorso sempre a Parigi si è tenuta un’esposizione di Frida Kahlo e Diego Rivera, con un grandissimo successo di pubblico. Segno dell’interesse che questi artisti, non ancora tutti conosciuti, sanno suscitare.

Di seguito il bel articolo di Francesco Poli per la Stampa di Torino. Giornalista, ma soprattutto storico dell’arte, insegna a Brera e a Parigi.

 

 

Francesco Poli

Forse l’ opera che sintetizza meglio tutti i principali ingredienti storici, ideologici, culturali, ed estetici di cui è impregnata questa grande rassegna sull’ arte messicana della prima metà del XX secolo al Grand Palais di Parigi, è quella di un autore russo, e cioè il film incompiuto Que viva Mexico! di Sergei Eisenstein.

 Alla fine del 1930, dopo la rottura del contratto con la Paramount, il regista se ne va da Los Angeles e arriva in Messico. Qui nel 1931-32 lavora al progetto di un grandioso film-documentario sulla tragica ed esaltante epopea del popolo messicano, dove entrano in scena i miti delle civiltà native, le atrocità della colonizzazione spagnola, la nascita della nazione indipendente e infine il trionfo della rivoluzione zapatista, con spettacolari riprese di massa nell’ ultima sezione.

 Anche se ci si deve accontentare di un collage postumo curato da uno dei suoi collaboratori, la forza scioccante ed evocativa del montaggio delle immagini da vita a straordinari frammenti di «murales in movimento» (per usare una definizione del regista stesso che era amico di Diego Rivera). E in effetti, dal punto di vista compositivo, si può ben dire che anche l’ impianto iconico degli immensi affreschi in edifici pubblici realizzati a partire dagli Anni 20 dalla «trinità muralista» (Diego Rivera, José Clemente Orozco, David Alfaro Siqueiros), e da altri pittori, è basata su operazioni di montaggio.

 Un montaggio compositivo che si sviluppa attraverso la raffigurazione di personaggi e paesaggi, di scene di vita contadina, di enfatizzazioni allegoriche e immaginifiche, con accenti realistici, di epico populismo e retoricamente ideologiche. La fondamentale esperienza dell’ arte pubblica monumentale muralista (che negli Anni 30 ha avuto un ruolo cruciale anche negli Usa) è naturalmente il tema su cui maggiormente si incentra l’ esposizione.

 Gli artisti si sentono in prima linea nella costruzione della nuova identità culturale, e del nuovo immaginario collettivo che trae la sua linfa dalle radici mitiche per aprirsi a utopistici scenari sociali nella modernità. Grazie all’iniziativa del ministro Vasconcelos le pareti di palazzi istituzionali diventano il teatro di vaste narrazioni pittoriche.

 

 In mostra ci sono vari esempi di bozzetti e quadri connessi con le grandi realizzazioni, ma viene documentata anche la specifica qualità della pittura dei vari protagonisti. Di grande rilievo è in particolare la ricerca di Rivera, a partire dalla sua notevole fase cubista, degli anni parigini. Interessante è anche, per esempio, la debordante energia espressiva e plastica delle figure di Siqueiros, tra cui spicca un mirabolante autoritratto in scorcio, con un enorme pugno che sembra uscire dal quadro e colpire lo spettatore.

Siqueiros

 Ma in mostra troviamo opere di molti altri artisti, circa sessanta in tutto, che documentano da un lato l’ evoluzione in direzione moderna dei linguaggi con influenze cubiste, futuriste e astratte (tra cui vanno ricordati gli esponenti del movimento «stridentista», come Charlot, Alva de la Canal, Revueltas); e dall’ altro lato, in particolare, quelle caratterizzate soprattutto delle forme più vitali e significative del tradizionale folklore autoctono.

Frida Kalo, autoritratto con scimmie

E sono proprio i lavori degli artisti che si ispirano all’ iconografia popolare quelli più affascinanti e anche più sorprendenti. È il caso, per esempio, di Ramon Cano Manilla; di Antonio Ruiz «El Corcito» (bellissimo è la fantastica figura addormentata sono delle coperte che diventano un paesaggio fantastico); e una artista eccezionale come Maria Izquierdo, amica di Antonin Artaud che scrive cose di immaginifica intensità sulla sua creatività sorgiva e «primordiale». E c’ è naturalmente anche la grande Frida Kahlo, legata visceralmente alle radici più profonde della «messicanità».

Della Kahlo sono esposte solo due opere, tra cui una grande tela che è un enigmatico capolavoro. Si intitola Le due Frida (I939) e rappresenta l’ artista sdoppiata in due figure sedute che appaiono come gemelle, e che indossano due eleganti abiti tradizionali.

Anche se non è molto ampia, è altamente significativa la sezione dedicata alla fotografia, con immagini di Tina Modotti (e anche di Weston, del periodo del suo soggiorno messicano), di Rosa Rolanda, di Lola Àlvarez Bravo e del suo più famoso marito Manuel, che è uno dei grandi pionieri del realismo sociale impegnato, ma anche con valenze espressive cariche di tensione visionaria.

 

 

 

 

 

 

 

 

MICA MIKA

MICA MIKA

 

 

MICHAEL PENNIMAN, AL SECOLO MIKA– QUAL E’ IL SEGRETO DEL SUO SUCCESSO?-  SEMIOLOGI, CRITICI MUSICALI E TELEVISIVI SI INTERROGANO DAVANTI AL FENOMENO MIKA- PIACE A CHI ASCOLTA PLAY LIST, AL PUBBLICO DI FABIO FAZIO E DI X-FATTOR, A JOVANOTTI E FEDEZ- DAI TRAUMI SCOLASTICI ALLA ROYAL ALBERT HALL, ALLO STUDIO DI MUSICA E CANTO, AL SUCCESSO TV- NEL RACCONTO CHE NE FA SUL FOGLIO MARIANNA RIZZINI LA VITA DI UN PIFFERAIO MAGICO DEI NOSTRI GIORNI.

 

C’ era una volta il Pifferaio magico, quello della fiaba nera che non piace ai bambini: ragazzo segaligno che spunta dal libro di storie della buonanotte, apparentemente innocuo fino a quando non si capisce l’ antifona. Ma a quel punto è troppo tardi per non andare avanti a leggere la storia del musicista che con il suono del flauto allontana i ratti che impensieriscono il borgomastro (alle prese con problemi da Roma 2016, pantegane e monnezza) e che però, non ascoltato, si porta via anche tutti i bambini, ipnotizzandoli con le sue melodie e facendoli scomparire verso il nulla, oltre le porte della città.

Ma oggi, di fronte agli ascolti televisivi milionari di “Stasera casa Mika”, trasmissione condotta in prima serata su Rai 2 dal cantante anglo -libanese Michael Penniman (il Mika della casa), trentatreenne poliglotta vissuto tra Beirut, Parigi, Londra e l’ Italia, già star del pop, già autore di dischi di platino, già giudice dal volto umano di “X Factor”, è come se la leggenda del Pifferaio vivesse un suo momento di gloria e stravolgimento in positivo: ovunque ti volti c’ è il Mika che piace ai bambini e agli adulti democratici e riflessivi.

Mika intervistato, Mika lodato, Mika che dice la cosa giusta al momento buono e giusto (matrimoni gay, disoccupazione, perdita delle speranze giovanili, guerre, Dario Fo, Donald Trump).

Mika che fa cose in linea con il suo romanzo di formazione apolide e va con l’ Onu nei campi profughi siriani in Libano, e poi canta e balla canzoni colorate e di zucchero filato, ma anche malinconiche e crudeli e pur sempre edificanti (“Big girl, you are beautiful” ha consolato schiere di ragazzine in sovrappeso come mai ha potuto fare “La donna cannone” di Francesco De Gregori).

E però intanto Mika mostra anche un lato dolente di ex studente incompreso dalla professoressa megera, ragazzo perduto che si riscatta con la musica e grazie alla famiglia, e nonostante la dislessia aggravata dal trauma scolastico. E quel Mika redento va avanti, diventa famoso, macina classifiche, famoso in Sudamerica come una Laura Pausini senza retaggi da profonda Emilia rossa, e mette giacche floreali con farfalle appuntate, e non sbaglia un colore e un ritmo, anche quando la ballata si fa triste. “Se non fosse un cantante sarebbe un conduttore”, dicevano anni fa: eccolo.

Amico di tutti, ma non insincero, diceva di se stesso Mika nelle interviste, quando, ai tempi di “X Factor”, si soffermava sulla necessità di dire sempre dritta in faccia la verità ai ragazzini che volevano sfondare nello spettacolo, uno dei mondi più brutti che esistano, diceva il Mika Pifferaio -salvatore, un mondo brutto “come quello della politica”.

E nella mente dell’ ascoltatore si produceva l’ effetto magico: sentirsi dire, senza alcuna discesa negli inferi del populismo, quello che pensano gli indignati moderati, miti, ragionevoli, quelli che non urlerebbero mai in piazza che i politici e i manager sono un “potere forte”, come farebbe Beppe Grillo, ma che comunque guardano a politici e manager come ai figuranti di un Eldorado malato, disfunzionale, e si sentono protetti quando a dirlo è uno che è dentro al sistema ma anche no.

Tanto per cominciare perché fa tutto in famiglia, con la madre un po’ manager un po’ stylist, la sorella illustratrice e la carovana di parenti che arrivano da ogni dove, tutti sul minivan come in “Little Miss Sunshine”, il film che raccontava l’ odissea americana della piccola Olive e del suo pazzo nonno, con contorno di madri e padri altrettanto pazzi, verso la partecipazione dissacrante a un concorso di bellezza per bambine.

Tiene accuratamente lontana da sé la politica, Mika, anche se spesso parla come un presidente della Camera in carica: rifugiati, diritti, ingiustizie sociali.

Non a caso piace al cantante ecumenico Jovanotti (e viceversa), e non a caso Maurizio Crozza, anni fa, diceva che Matteo Renzi puntava a diventare “non come Obama, ma come Mika” – che intanto, da neo -conduttore, ha raggiunto il 14 per cento di share la sera della prima puntata e oltre il 10 la seconda. Sono ascoltatori e non elettori, ma la battuta ogni tanto gliela fanno: “Eh, se ti candidassi!”, e lui dice per carità neanche per idea, e si schermisce come solo può farlo chi ha già vinto, a livello di popolarità, molto più di una poltrona. E infatti Mika presenta il suo programma con il vezzo di chi non vuole andare oltre il palco, e però c’ è già andato: “…

Che cos’ hanno gli italiani da imparare sul loro paese e su loro stessi?”, dice, “… non lo so, io non ho questa voglia pedagogica. Non voglio insegnare le cose alla gente. Non mi interessa per niente. Io guardo l’ Italia, interagisco con la cultura italiana anche parlando di cose serie, senza cercare di spiegare o giustificare, solo raccontando attraverso i miei occhi e la mia cultura”.

Qual è il segreto di Mika?, si domandano semiologi, critici musicali e critici televisivi, di fronte al fenomeno della pop star che piace a chi ascolta play list rasserenanti da inizio vacanza estiva ma anche al pubblico di Fabio Fazio (che a “Che tempo che fa”, nel 2015, faceva parlare Mika di che cosa voglia dire cambiare vita nel giro di tre anni, e un Mika dubbioso era spuntato dal Mika di successo seduto sulla poltroncina. “A un certo punto del cammino mi sono sentito perso, isolato, ossessionato dal lavoro”, diceva il cantante, intento a proteggere se stesso, chiuso al mondo.

E allora, dopo gli anni rutilanti del boom, per riprendersi e festeggiare i trent’ anni, Mika aveva organizzato un viaggio in Italia per tutta la famiglia: il fratello, le tre sorelle, la nonna, le zie, le infermiere della nonna, e poi ovviamente il suo compagno (Mika non è d’ accordo con chi critica “l’ imborghesimento gay”) e la mamma -manager che un giorno, alla tv francese, seduta accanto a Mika, aveva raccontato di quanto il figlio le fosse sembrato “artista” nell’ animo a pochissimi anni di età, quando si divertiva a spostare e rispostare suppellettili, e lei si ritrovava ogni sera una casa diversa.

E il Mika del salotto di Fazio appariva in perfetta continuità con quello che a Radio Dimensione Suono diceva di voler “raccontare storie di vita vera”, e di voler fare come Serge Gainsbourg: mischiare “lo scuro con la luce” e “lo zucchero con il salato”, e coccolare l’ idea di finire in uno strano “Inferno” creativo (“il Paradiso è già qui”, è il mantra di Mika), dove incontrare tutte le grandi menti della letteratura e della storia, da George Orwell a Gengis Khan.

E però non è un Inferno maledetto, quello di Mika, che del cantante maledetto non ha nulla, neanche nel suo video meno festoso e neanche mentre canta “Billy Brown”, epopea triste dell’ uomo ordinario che, dopo aver sposato la donna dello schermo e fatto due figli, scopre di essere omosessuale ma non riesce a reggere la pressione.

Mika è comunque e sempre “cantante benedetto”, nel senso dell’ aderenza a un immaginario di “impegno” non rivoluzionario ma costante, un impegno che può avere come compagni ideali (su Twitter) Jovanotti ma anche Fedez, che con il cantante -conduttore ha composto “Beautiful disaster”, con strofe ossimoro di rabbia e consolazione: “…

Me lo ripeto in testa giusto per non dormire / Resta sveglio perché il meglio deve ancora svanire / per poi sognare un altro modo per potersi rialzare / Come la pioggia che cade senza mai farsi ma le / Da dove siete usciti dice una voce incerta / Non lo so ma siamo entrati da una ferita aperta / Le cicatrici dicono di starcene fra i deboli / Parliamo col linguaggio dei segni indelebili…”.

Mika con Fabio Fazio

D’ altronde Mika la sua cicatrice la racconta tutte le volte che parla di come ha deciso di abbracciare la musica. Erano i primi anni Novanta, la famiglia già da un lustro era scappata da Beirut per riparare in Francia, e il piccolo Michael Penniman, lungi dall’ immaginare un futuro da popstar, affrontava il suddetto trauma da prof. cattiva.

L’ incontro con la più terribile delle insegnanti che aveva fatto scattare nei suoi genitori l’ istinto da madre e padre “non -tigre”: basta, togliamolo dalla scuola per un anno, non è lui a non essere adatto a questo ambiente, è l’ ambiente che lo inchioda a un se stesso bloccato, tanto che non parla e non legge più (Mika ha più volte detto che la sua dislessia è peggiorata dopo le angherie scolastiche). Cominciava così l’ altro viaggio: giornate liberatorie ma pesanti, tra il parco e lo studio matto e disperatissimo di spartiti, ritmi, intonazione, respirazione e melodia, sotto la guida di una cantante lirica esigente ma capace di estrarre il meglio dal ragazzino ancora troppo scosso per credere in se stesso.

E siccome quell’ anno maieutico portò dritto alla Royal Albert Hall, e a un lavoro retribuito nonostante la giovane età, Michael detto Mika cominciò a pensare che la sua scuola fosse il palcoscenico. Seguirono anni di lirica e composizione compulsiva di canzoni non ancora lanciabili sul mercato, poi evolutesi nei brani di successo che segnano il passaggio all’ identità di Mika “cittadino del mondo e musicista” che con la madre manager “litiga molto” e con la sorella illustratrice “discute parecchio”, perché il Mika-buono, dice Mika, diventa perfezionista e poco simpatico, anche se nessuno potrebbe mai immaginarlo, dopo averlo visto in azione, a “X Factor”, come giudice paterno e ilare, lontano abissi dagli incupimenti bisbetici alla Morgan.

“La trasmissione di Mika è il nuovo varietà, commistione di antica e nuova tv”, hanno scritto i fan del cantante in veste di conduttore, forse vedendo, in nuce, la suddetta anima nazional-popolare da “buono&giusto”, tenuta in seconda fila eppure incapace di restarci.

Mika con Renzo Arbore

Capita infatti che un Mika improvvisamente istituzionale parli di quando ha cantato “in paesi dove era vietato portare certi temi… ma la musica arriva al cuore di tutti, è un messaggio universale” o si faccia incarnazione dello spirito del tempo (sullo sfondo della legge Cirinnà), come nell’ intervista a Vanity Fair di qualche mese fa: “Non sono d’ accordo con chi sostiene che ormai solo i gay vogliono sposarsi”, è stata la dichiarazione di intenti.

 “E’ molto pericoloso denigrare la normalità”, diceva Mika, “non stiamo parlando di diventare tutti uguali, stiamo parlando di garantire la libertà di scelta, di proteggere le persone dalle discriminazioni, di dare a tutti gli stessi strumenti per poter riuscire nella vita”. E se una volta “la comunità gay era più creativa perché emarginata”, bisogna “ricordarsi che l’ obiettivo di tutte quelle espressioni artistiche, musicali, letterarie era arrivare all’ uguaglianza. Non si è lottato per la normalità, ma per gli stessi diritti. Ci sono posti nel mondo dove uomini e donne vengono linciati, persino uccisi, perché omosessuali. Dire che la normalizzazione dell’ omosessualità ha reso i gay meno creativi sarebbe come dire che la lotta per l’ eguaglianza fra i sessi ha reso le donne meno interessanti”.

Altro scenario (festival di Giffoni 2016), ed ecco che il Mika istuzionale esprimeva preoccupazione per le elezioni americane: “Trump?… Bruttissima figura… inizialmente faceva ridere, adesso non più. Io sono dalla parte di chi gli ha vietato di utilizzare le proprie canzoni per supportare i suoi discorsi…”. Né, in giorni di Brexit, il cantante tardava a twittare il suo disappunto: “Orgoglioso di essere in Europa anche se il mio paese la sta lasciando”.

E il segreto di Mika, allora, sembra comporsi dei tasselli di correttezza politica e trasgressione tenute nella cornice dell’ estrosità apolide e della grande famiglia per cui Mika volentieri cucina, anche sotto gli occhi dei documentaristi francesi che quest’ inverno hanno girato il lungo reportage “Les mondes de Mika” (e nella “Masterchef” casalinga il cantante si mostra ai fornelli o accanto a pareti dipinte come quadri di Gauguin).

Ed è sempre lui quello che dice ai giovani aspiranti cantanti che “il futuro non va vissuto con angoscia” e che “bisogna dare valore a quel che è presente: cadere e fallire non deve essere una paura, bisogna temere l’ essere mediocri”. E il filo rosso da “cantante benedetto” non si spezza: fan di Dario Fo, ma anche aspirante epigono di Freddie Mercury.

Marianna Rizzini per il Foglio

 

 

ATTRAVERSARE I MURI

ATTRAVERSARE I MURI

 

“METTO CONTINUAMENTE SOTTO PRESSIONE GLI AMORI DELLA MIA VITA. TROPPE RICHIESTE, TROPPA OSSESSIONE, TROPPA GELOSIA”- A 70 ANNI SI CONFESSA MARINA ABRAMOVIC , PIONIERA DELLA BODY ART ESTREMA- L’INFANZIA VIOLENTA  FRA ABUSI E SADISMO IN UNA FAMIGLIA CHE SI ODIA-LA FUGA DAL COMUNISMO, POI AMSTERDAM E NEW YORK E LE PERFORMANCE, LE MASTURBAZIONI, LE SCUDISCIATE, UN CALVARIO PER ESPIARE NEL DOLORE LA BRUTTEZZA, I TRADIMENTI, LE OSSESSIONI DEL PASSATO.  

 

 

All’ inizio non mi rendevo conto del significato inconscio delle mie performance, di quanto fosse labile il confine tra lavoro e vita: l’ ho capito solo invecchiando».

Marina Abramović

A riconoscere di aver sempre messo a nudo la propria anima, oltre che il proprio corpo, davanti al pubblico di mezzo mondo, è l’ artista che si è frustata a sangue fino a non sentire più le sferzate; ha urlato fino a perdere la voce; ha stuzzicato un pitone (finché a strisciar via non è stato lui). In Rythm 10, la sua prima performance, nel ’73, spalancò una mano su un foglio bianco e, impugnando con l’ altra un coltello, prese a colpire velocemente gli spazi tra un dito e l’ altro: quando sbagliava il bersaglio, ferendosi, cambiava pugnale e via, tac-tac-tac-tac. In Balcan Baroque, con cui vinse il Leone d’ oro alla Biennale di Venezia del ’97, rimase sei giorni seduta su una montagna di ossa putride, pulendole una per una, come a lavar via le atrocità della guerra nei suoi Balcani.

 Marina Abramovic, pioniera della body art svettata dall’ underground all’ olimpo delle star, è fuggita dalla Belgrado di Tito senza mai liberarsi del suo passato plumbeo. La sua casa di campagna sull’ Hudson, vicino a New York, da cui ora parla via Skype, è un cottage di legno a forma di stella, come il simbolo del comunismo. Come la stella in cui si è sdraiata nel ’74 in Rythm 5 – testa, braccia e gambe nelle cinque punte – per poi farla incendiare (e perdere i sensi, perché le fiamme hanno divorato l’ ossigeno). Come la stella che si è incisa sul ventre con un rasoio in Thomas Lips, per poi scudisciarsi e sdraiarsi sul ghiaccio…

 Oggi quel passato tetro, minaccioso, che è stato storico ma anche familiare, esplode con forza nei ricordi di un’ autobiografia che esce da Bompiani in occasione dei suoi 70 anni – li compie il 30 novembre – scritta con l’ aiuto di James Kaplan, già biografo di Jerry Lewis e Frank Sinatra. Si intitola Attraversare i muri, perché «nel clima oppressivo della Jugoslavia postbellica, i veri comunisti dovevano saper superare ogni ostacolo con la loro fermezza» (parole sue, in un inglese dal forte accento slavo). «Perché a suon di botte e ceffoni mia madre mi ha addestrato a essere un soldato come lei, che dal dentista non voleva anestesia, quando si toglieva un dente».

 Ed ecco 410 pagine di ossessione tutta Abramovic: il resto del mondo dell’ arte compare poco o nulla nell’ universo autoreferenziale della matriarca della performance. Ma ecco pure confessioni franche (ai limiti dell’ esibizionismo), come quando racconta d’ essere stata così disperata per i tradimenti di Ulay, già compagno di vita e di arte, da accettare di far l’ amore a tre con la sua amante, soffrendone allo spasimo. In fondo Attraversare i muri è l’ ultima performance di Marina Abramovic, tra le più azzardate. Perché l’ artista delle azioni estreme non sfida i limiti del corpo, ma quelli dell’ emotività.

Un altro muro attraversato?

«Credo di sì. A 70 anni dovevo pur liberarmi del passato, come un serpente che fa la muta, per crescere, finalmente. E dovevo farlo con sincerità, perché nella mia famiglia si teneva celato tutto. I miei genitori si odiavano – donnaiolo lui, coriacea lei, dormivano nella stessa stanza con la pistola sul comodino – ma di volersi separare neanche un cenno.

 Nemmeno la morte ammettevano: tennero nascosto alla nonna anche il decesso di suo figlio, dicendole che era partito per un lungo viaggio in Cina. Io invece voglio riconoscere che dietro alla super Marina, al guerriero che in pubblico sopporta qualsiasi ordalia, c’ è una Marina insicura, incasinata, che da ragazza si sentiva brutta e goffa: naso troppo grande, occhiali troppo spessi, scarpe ortopediche per i piedi piatti. E da grande si sente brutta e vecchia, rottamata, ogni volta che un uomo l’ abbandona. Il che succede sempre».

L’ ha lasciata Ulay dopo dodici anni di convivenza – in un furgone, in una comune, in una tenda nel deserto – anni di azioni insieme come un unico performer, Marinaeulay. E l’ ha lasciata l’ artista Paolo Canevari, dopo nove anni di divergenze sempre meno trascurabili a New York e un matrimonio. Come lo spiega?

«Metto continuamente sotto pressione gli amori della mia vita. Troppe richieste, troppa ossessione, troppa gelosia: una tempesta di emozioni tragicamente balcanica. Unita a un accanimento sul lavoro che nessuno riesce a reggere. Anche perché finisce per porli in secondo piano. Gli uomini mi abbandonano perché, insaziabile, pretendo tutto l’ amore che non ho avuto da bambina. E perché non mollo mai: devo sempre dimostrare di vincere. Contro chissà chi».

I suoi genitori, forse?

«Temo di sì. Prima eroi di guerra, poi membri di rilievo del Partito, erano fissati con il coraggio, la disciplina marziale, la determinazione. Siccome ero terrorizzata dall’ acqua, a sei anni mio padre mi buttò giù dalla barca e si allontanò a remi: a furia di bere e scalciare, imparai a tenermi a galla. Mia madre invece era ossessionata dall’ ordine e dalla pulizia: la notte mi svegliava urlando, se dormivo scompigliando le coperte. E al minimo sgarro mi picchiava fino a farmi blu.

 

 

Abuso di minore?

Probabilmente. Ma quei maltrattamenti mi hanno fatto diventare quel che sono. Devo il mio successo a quelle regole umilianti, alle pene fisiche, allo spauracchio di mia madre. Da lei ho ereditato anche terribili emicranie, che sono state una valida palestra per imparare a tollerare il dolore. Così oggi sono molto severa con i miei studenti: impongo loro giorni di digiuno e di silenzio, ore e ore a contare chicchi di riso, escursioni sotto la neve o nel caldo torrido».

Forse anche sadismo e masochismo si ereditano…

«Non credo, perché nella vita di tutti i giorni detesto il dolore fisico. Lo accetto (e sconfiggo) solo durante le mie performance. Perché ho imparato, nelle mie lunghe frequentazioni dello sciamanesimo e delle filosofie orientali, che il dolore è un muro, straziante, insopportabile, ma chi riesce a trapassarlo accede a un diverso stato di consapevolezza.

A una nuova fonte d’ energia. Illimitata. E la Marina impaurita diventa la Marina eroica. Una sensazione inebriante. Che raggiungo solo davanti al pubblico, perché è dagli spettatori che traggo forza. Senza di loro non arriverei in fondo».

Il passare degli anni non aiuta.

«Solo il fisico è più debole. La mente più salda che mai. La prima volta che realizzai Thomas Lips, azione faticosissima – la stella incisa sul ventre, le scudisciate, il ghiaccio – avevo 29 anni e durò un’ ora. L’ ultima volta ne avevo 59 e ne durò sette.

Era il 2005, al Guggenheim di New York, dove riproposi sette performance storiche, mie e altrui: Seven Easy Pieces. Per una settimana, sette ore al giorno, feci di tutto: compreso masturbarmi dalle 17 a mezzanotte sotto una pedana, con un altoparlante che amplificava gemiti e fantasie sessuali, come aveva fatto Vito Acconci in un lavoro degli Anni 70. Da giovane non ce l’ avrei fatta neanche con un allenamento olimpionico».

Ebbe molto successo. Ma fu con la retrospettiva del 2010 al Moma che sfondò i confini del mondo dell’ arte, raggiungendo il grande pubblico. Clou: lei seduta immobile per tre mesi, otto ore al giorno senza bere, mangiare, fare pipì, sostenendo lo sguardo degli spettatori. Che furono 850 mila dal vivo e milioni sul web.

Marina con Ulay

La sua vita è cambiata?

«Da giovane mi accusavano di andare contro le convenzioni, oggi di far parte del mainstream. Prima ti rendono una star, poi ti incolpano di esserlo. Per questo ho dedicato l’ autobiografia “ad amici e nemici”: sono intercambiabili. Mi scontro con fiumi di gelosia. E di lavoro: la lista degli impegni arriva al 2020.

Festeggerò i 70 anni al Guggenheim, l’ 8 dicembre, e andrò a ricaricarmi in India. Poi una retrospettiva a Stoccolma, dove esporrò per la prima volta i dipinti kitsch della mia gioventù: ho imparato a esibire anche ciò di cui mi vergogno. Quindi mostre in Danimarca, Svizzera, Germania, Cina. Uno show per sole donne nel Qatar. Soldatino ligio, non mollerò».

 È ancora convinta che l’ arte sia sinonimo di libertà, come quando fuggì dalla Jugoslavia?

«Quando si è giovani e senza soldi si viaggia leggeri: fino ai 45-50 anni sono stata povera in canna. Ma la libertà ti è inesorabilmente preclusa, se ti obbligano a essere sempre la migliore».

Marina in Balkan Baroque

E a sfidare il destino: a 14 anni giocava alla roulette russa con la pistola carica di suo padre…

«Ebbrezze da ragazzi. Il vero problema è l’ imperativo a svettare. Il cui prezzo da pagare è la solitudine. Perché è difficile trovare un uomo che non si senta minacciato dal tuo successo. E io reggo la sofferenza fisica, non quella emotiva.

Le rivelo un segreto, però: sto per innamorarmi di nuovo… Non mi chieda altro: su di me incombe sempre il rischio che vada tutto a rotoli».

Maria Abramovic in una foto di Thomas Lips

  Articolo di Antonella Barina per Il Venerdì – la Repubblica

 

 

 

NON CI RESTA CHE GUARDARE LE STELLE?

NON CI RESTA CHE GUARDARE LE STELLE?

 

VIGOROSO RICHIAMO DI STEPHEN HAWKING, COSMOLOGO, FISICO E MATEMATICO BRITANNICO, ALLA RESPONSABILITA’ DELLE CLASSI DIRIGENTI CIRCA LE SORTI DEL MONDO- NONOSTANTE LA GRAVE INFERMITA’ SI CONSIDERA UN PRIVILEGIATO ED E’ IL PRIMO A VOLERE USCIRE DALLA TORRE D’AVORIO DEI PRIVILEGI- IL MIX MICIDIALE FRA GLOBALIZZAZIONE E TECNOLOGIA DESTINATO A CREARE, SE NON GOVERNATO, SEMPRE MAGGIORI INGIUSTIZIE E DISORDINI.

L’articolo, uscito prima del voto italiano sul referendum costituzionale si adatta alla nostra situazione sociale ed è un monito autorevole affinchè l’Italia e l’Europa, scossi dai populismi e sotto il peso dei flussi migratori, sappiano rapidamente trovare la strada per rispondere ai bisogni dei giovani e contrastare le nuove povertà.

 

Stephen Hawking

Stephen Hawking

Essendo un fisico teorico che vive a Cambridge, ho vissuto la mia vita in una bolla di eccezionale privilegio. Cambridge è una città insolita, tutta incentrata su una delle grandi università del pianeta. All’interno di questa città, la comunità scientifica di cui sono entrato a far parte quando avevo vent’anni è ancora più esclusiva. E all’interno di questa comunità scientifica, il gruppo ristretto di fisici teorici internazionali con cui ho trascorso la mia vita lavorativa potrebbe a volte essere tentato di vedersi come un apogeo.

In aggiunta a tutto questo, con la celebrità che mi hanno procurato i miei libri e l’isolamento imposto dalla malattia, ho la netta impressione che la mia torre d’avorio diventi sempre più alta.

Pertanto, faccio parte senza dubbio di quelle élite che recentemente, in America e in Gran Bretagna, sono oggetto di un inequivocabile rigetto. L’elettorato britannico ha deciso di uscire dall’Unione Europea, i cittadini americani hanno scelto Donald Trump come prossimo presidente.

Qualunque cosa possiamo pensare di queste decisioni, non c’è alcun dubbio, nella mente dei commentatori, che siamo di fronte a un grido di rabbia da parte di persone che si sono sentite abbandonate dai loro leader.

Tutti sembrano d’accordo nel dire che è stato il momento in cui i dimenticati hanno parlato, trovando la voce per rigettare il consiglio e la guida degli esperti e delle élite di ogni latitudine.

Ilary Clinton dopo la sconfitta alle presidenziali USA

Hilary Clinton dopo la sconfitta alle presidenziali USA

Io non faccio eccezione a questa regola. Prima del voto sulla Brexit ho lanciato l’allarme sugli effetti negativi che avrebbe avuto per la ricerca scientifica in Gran Bretagna, ho detto che uscire dall’Unione Europea sarebbe stato un passo indietro: e l’elettorato — o almeno una parte sufficientemente ampia di esso — non si è curato del mio parere così come non si è curato del parere di tutti gli altri leader politici, sindacalisti, artisti, scienziati, imprenditori e personaggi famosi che hanno dato lo stesso consiglio inascoltato al resto del Paese.

Quello che conta adesso, molto più delle vittorie della Brexit e di Trump, è come reagiranno le élite. Dovremmo, a nostra volta, rigettare questi risultati elettorali liquidandoli come sfoghi di un populismo grossolano che non tiene in considerazione i fatti, e cercare di aggirare o circoscrivere le scelte che rappresentano? A mio parere sarebbe un terribile errore.

Donand Trump, da gennaio sostituisce Obama alla presidenza USA

Donand Trump, da gennaio sostiuisce Obama alla presidenza USA

Le inquietudini che sono alla base di questi risultati elettorali e che concernono le conseguenze economiche della globalizzazione e dell’accelerazione del progresso tecnologico sono assolutamente comprensibili. L’automatizzazione delle fabbriche ha già decimato l’occupazione nell’industria tradizionale e l’ascesa dell’intelligenza artificiale probabilmente allargherà questa distruzione di posti di lavoro anche alle classi medie, lasciando in vita solo i lavori di assistenza personale, i ruoli più creativi o le mansioni di supervisione.

Brexit secondo Dagospia

Brexit secondo Dagospia

Tutto questo a sua volta accelererà la disuguaglianza economica, che già si sta allargando in tutto il mondo. Internet, e le piattaforme che rende possibili, consentono a gruppi molto ristretti di persone di ricavare profitti enormi con un numero di dipendenti ridottissimo. È inevitabile, è il progresso: ma è anche socialmente distruttivo.

Tutto questo va affiancato al crac finanziario, che ha rivelato a tutti che un numero ristrettissimo di individui che lavorano nel settore finanziario possono accumulare compensi smisurati, mentre tutti gli altri fanno da garanti e si accollano i costi quando la loro avidità ci conduce alla deriva.

Complessivamente, quindi, viviamo in un mondo in cui la disuguaglianza finanziaria si sta allargando invece di ridursi, e in cui molte persone rischiano di veder scomparire non soltanto il loro tenore di vita, ma la possibilità stessa di guadagnarsi da vivere. Non c’è da stupirsi che cerchino un nuovo sistema, e Trump e la Brexit possono dare l’impressione di offrirlo.

C’è da dire anche che un’altra conseguenza indesiderata della diffusione globale di Internet e dei social media è che la natura nuda e cruda di queste disuguaglianze è molto più evidente che in passato. Per me la possibilità di usare la tecnologia per comunicare è stata un’esperienza liberatoria e positiva. Senza di essa, già da molti anni non sarei più stato in grado di lavorare.

Ma significa anche che le vite delle persone più ricche nelle parti più prospere del pianeta sono dolorosamente visibili a chiunque, per quanto povero, abbia accesso a un telefono. E visto che ormai nell’Africa subsahariana sono più numerose le persone con un telefono che quelle che hanno accesso ad acqua pulita, fra non molto significherà che quasi nessuno, nel nostro pianeta sempre più affollato, potrà sfuggire alla disuguaglianza.

Metteo Renzi annuncia le sue dimissioni

Metteo Renzi annuncia le sue dimissioni

Le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: i poveri delle aree rurali affluiscono nelle città spinti dalla speranza, ammassandosi nelle baraccopoli. E poi spesso, quando scoprono che il nirvana promesso da Instagram non è disponibile là, lo cercano in altri Paesi, andando a ingrossare le fila sempre più nutrite dei migranti economici in cerca di una vita migliore. Questi migranti a loro volta mettono sotto pressione le infrastrutture e le economie dei Paesi in cui arrivano, minando la tolleranza e alimentando ancora di più il populismo politico.

Per me, l’aspetto veramente preoccupante di tutto questo è che mai come adesso, nella storia, è stato maggiore il bisogno che la nostra specie lavori insieme. Dobbiamo affrontare sfide ambientali spaventose: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare, il sovrappopolamento, la decimazione di altre specie, le epidemie, l’acidificazione degli oceani.

Insieme, tutti questi problemi ci ricordano che ci troviamo nel momento più pericoloso nella storia dello sviluppo dell’umanità. Possediamo la tecnologia per distruggere il pianeta su cui viviamo, ma non abbiamo ancora sviluppato la capacità di fuggire da questo pianeta. Forse fra qualche secolo avremo creato colonie umane fra le stelle, ma in questo momento abbiamo un solo pianeta, e dobbiamo lavorare insieme per proteggerlo.

Per farlo è necessario abbattere le barriere interne ed esterne alle nazioni, non costruirle. Se vogliamo avere una possibilità di riuscirci, è indispensabile che i leader mondiali riconoscano che hanno fallito e che stanno tradendo le aspettative della maggior parte delle persone. Con le risorse sempre più concentrate nelle mani di pochi, dovremo imparare a condividere molto più di quanto facciamo adesso.

Non stanno scomparendo solo posti di lavoro, ma interi settori, e dobbiamo aiutare le persone a riqualificarsi per un nuovo mondo, e sostenerle finanziariamente mentre lo fanno. Se le comunità e le economie non riescono a sopportare gli attuali livelli di immigrazione, dobbiamo fare di più per incoraggiare lo sviluppo globale, perché è l’unico modo per convincere milioni di migranti a cercare un futuro nel loro Paese.

Possiamo riuscirci, io sono di un ottimismo sfrenato sulle sorti della mia specie: ma sarà necessario che le élite, da Londra a Harvard, da Cambridge a Hollywood, imparino le lezioni di quest’ultimo anno. Che imparino, soprattutto, una certa umiltà.

 

Testo di STEPHEN HAWKING per “The Guardian” ripubblicato da “la Repubblica”

 

 

 

 

AGNESE ERA LI’

AGNESE ERA LI’

AGNESE ERA LI’, GLI ERA ACCANTO, ESPONENDO LA SUA COMPLICITA’ DI MOGLIE, LA SUA CONDIVISIONE DI SENTIMENTI, LA SUA INDISCUSSA SOLIDARIETA’, TESTIMONIANDO COME DI SOLITO, SOLO LE MOGLI VERE, SONO LE UNICHE DESTINATE A STARE VICINE AI MARITI NEI MOMENTI PEGGIORI.

Agnese era lì, nel salone di Palazzo Chigi, a tre passi di distanza dal marito premier sconfitto, mentre lui annunciava le sue dimissioni irrevocabili dalla guida del governo nella sua tragica notte del referendum. Agnese era lì, in piedi, dignitosa, composta e silenziosa,con le mani raccolte,vestita non con i pizzi di Scervino delle grandi occasioni ma in pantaloni neri e maglione chiaro a collo alto, come quando si sta in famiglia in inverno, lontano dagli impegni ufficiali,e come pronta a prendere per mano il marito e riportarlo a casa tra il calore degli affetti veri.

 

AGNESE LANDINI E MATTEO RENZI DURANTE LE DIMISSIONI

Agnese era lì, nella sede del governo, nel giorno più amaro di Matteo Renzi, illuminato dalle telecamere di tutte le reti televisive nazionali, mentre di fronte al podio lui pronunciava il suo discorso di addio. Agnese era lì, gli era accanto, esponendo la sua complicità di moglie, la sua condivisione di sentimenti, la sua indiscussa solidarietà, testimoniando come di solito solo le mogli vere sono le uniche destinate a stare vicino ai mariti nei momenti peggiori, di matrimonio, di vita o di malattia.

 

Agnese era lì, senza un sorriso, senza espressione, ma quella sua presenza in piedi, in quel salone, parlava più di tanti discorsi, di tante battute e diceva: «Io sono qui, ti sono vicina come sempre, ti aspetto, quando avrai finito ti accompagno a casa dai nostri figli, che la cena è pronta».

AGNESE LANDINI E MATTEO RENZI DURANTE LE DIMISSIONI

 

Agnese era lí, impassibile e a ciglio asciutto, lontana mille miglia dalle lacrime del ministro Maria Elena Boschi nella stanza accanto, lontana dalle polemiche rumorose del giglio magico sulla catastrofe referendaria, lontana dalle faide interne con a capo D’ Alema e Bersani, lontana da quelli che avevano cantato vittoria sul filo di lana, ed anche lontana dalla valanga di No rovesciata dagli italiani addosso a Renzi.

 

Agnese era lí per Matteo, per suo marito, per il bullo di Rignano sicuro e spaccone che davanti a lei recitava con voce incrinata il suo ultimo discorso da capo del governo italiano.

AGNESE LANDINI E MATTEO RENZI DURANTE LE DIMISSIONI

Agnese era lì non da first lady, ma da moglie e da madre, da compagna di vita dell’ ex boy scout abituato a vincere, a prendersi quello che voleva con arroganza e spocchia, con coraggio e con violenza, dal ragazzo che calpestava le regole con disprezzo, che esercitava il potere acquisito ridicolizzando i ruoli degli amici di partito, che denigrava i suoi predecessori, che tentava di governare con un personalismo inesperto che lo ha condotto in un colpo solo alla sua catastrofe politica.

 

Agnese era lì, sorda agli sghignazzi festanti dei grillini in piazza, agli attacchi duri dei leghisti davanti ai microfoni, alla soddisfazione beata dei forzisti nel salotto di Bruno Vespa e ai sorrisi ironici della sinistra del Pd radunata nella sede di via del Nazareno.

Agnese era lì, a schiena dritta, con lo sguardo fisso sul marito e con il dolore ben nascosto, con la delusione mascherata, senza isterie, senza drammi e soprattutto senza parole.

AGNESE LANDINI E MATTEO RENZI DURANTE LE DIMISSIONI

 

Agnese era lì nel giorno della caduta, come nessuna moglie di premier aveva mai fatto fino ad oggi, né quella di Andreotti, di Craxi, di Ciampi,di Prodi, di Berlusconi, di Monti e di Letta, e come nessuna di loro ci ha messo la faccia, il corpo e il cuore a sostegno del marito che da rottamatore si è ritrovato rottamato.

 

Agnese era lì, di fronte all’ Italia che ha detto No, di fronte ai consensi divenuti dissensi, di fronte al suo uomo fino a poco prima protagonista assoluto di un’ invasione mediatica e di una campagna referendaria senza precedenti, di una battaglia dura, dai toni esasperati, di una lotta corale persa con l’ onore dei vinti, e lei era lì immobile e impassibile di fronte ai giornalisti che vergavano frenetici il disonore da mandare nei titoli in prima pagina all’ alba.

 

MATTEO RENZI DURANTE LE DIMISSIONI

Agnese era lì, pacata e rassicurante, mentre in mente le scorrevano veloci le immagini degli ultimi mesi, le visite di Stato, i ricevimenti, le cene con la Merkel, le foto con gli Obama, le Leopolde affollate, un mondo finito, un sipario sceso all’ improvviso, una scenografia cambiata e capovolta, più reale, dalla quale emergevano con forza solo le macerie dei recenti terremoti, i barconi zeppi di immigrati che continuano ad arrivare sulle nostre coste, le strade e i ponti che crollano sotto le alluvioni, i giovani senza speranza di lavoro, la ripresa economica promessa e mai arrivata e gli italiani che non ci credono più.

 Agnese era lì per stare accanto a suo marito durante il suo ultimo discorso da presidente del Consiglio, il suo annuncio più sincero, per non fargli tradire l’ emozione, per accoglierlo quando lui si è poi avvicinato a lei, quando le ha messo il braccio sulle spalle e si è lasciato portare via, per tornare a casa al riparo dai tanti nemici, dagli odi e dai rancori, come un marito qualunque, che si appoggia alla moglie quando ha bisogno, quando è smarrito, ma che le riconosce la forza femminile e il conforto sicuro. Agnese era lì.

Melania Rizzoli, Libero Quotidiano, 6 dic. 2016

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