PAOLINO, IETTATORI E ALTRE COSE

PAOLINO, IETTATORI E ALTRE COSE

UN CESSO DI CANE CHE BEVE CHAMPAGNE- COME DIFENDERSI DALLE IETTATURE- CAVALIER SPIZZICO E VECCHIE PUTTANE AL TETRO  SAN CARLO- I RICORDI DI PAOLINO ISOTTA FRA ERUDIZIONE E NOSTALGIE

“La città mi pareva fiaba. I venditori ambulanti che la mattina passavano sotto le finestre con le loro voci più cantate che strillate; la devozione del popolo; le donne dei vicoli; le vendemmie ad Anacapri, le passeggiate a dorso di ciuccio e mia nonna che mi insegnò il francese e il tedesco e mi diede i primi rudimenti musicali. Fu un mondo unico fatto di solerzia e ironia, di provocazione e fatalismo, di bellezza e stravaganza.”

 

Il diavolo veste Isotta, verrebbe da dire, dopo aver incontrato il più sulfureo e talentuoso tra i critici musicali italiani. Il “diavolo” vive in un dettaglio di Napoli, un edificio di foggia razionalista con vista sul Golfo. ” Paolino”, così lo chiamano gli amici, mi riceve affiancato dal suo cane Ochs ( il nome è un omaggio al barone protagonista del Rosenkavalier di Strauss): un bassotto esuberante.

Più che a un maschio alfa Ochs somiglia a un maschio alfetta: «A chisto cessu piace vino e champagne », dice ridendo Isotta che di animali se ne intende. Ha da poco pubblicato un libro strepitoso ( Il canto degli animali, edito da Marsilio) bello per armonia, pathos, erudizione e conoscenze del mondo classico.

Ama più gli animali degli uomini?

il canto degli animali paolo isotta-208x300«Sono più attendibili e anche più esposti alla violenza gratuita dell’ uomo. Provano sentimenti e li esprimono con il loro linguaggio che, in origine, è comune all’ uomo. Lucrezio comprese perfettamente questa loro natura. Cartesio l’ ha condannata riducendo l’ animale a una macchina non senziente. Fu il primo errore ripugnante della modernità».

Sempre in ambito bestiario si è paragonato a un elefante.

«Animale fantastico, per noi napoletani tra l’ altro è considerato potentissimo apportatore di buon augurio».

Ne avverte il bisogno?

«Il mondo è pieno di jettatori«.

Comincia l’ anno con questo tono?

«Mi difendo da forze che la scienza non è in grado di spiegare. Bisogna cominciare l’ anno con determinazione».

PAOLO ISOTTAE come lo ha chiuso?

«In teoria sarei un “piromane”, ma non ho sparato, quel bassotto lì ha otto mesi e si spaventa dei botti».

Lei è nato a Napoli?

«Come è vero che ora le parlo. Ma le origini della mia famiglia sono in parte piemontesi. Gli Isotta provengono da un paese sopra Omegna chiamato Agrano. Sul lago d’ Orta. Ma scelsero di migrare al Sud nella convinzione che Napoli fosse il più bel posto del mondo. Mai decisione fu più azzeccata».

PAOLO ISOTTA LIBRO ALTRI CANTI DI MARTEChe famiglia era?

«Benestante. A Napoli comprarono un palazzo a via Medina, affittarono ville godendo di tutti i privilegi della ricchezza. C’erano proprietari terrieri e professionisti. Personaggi stravaganti, minorati mentali (a volte accadeva di avere dei cugini o delle zie mentalmente incerte, persone verso le quali più forte era l’ affetto), o autorevoli, come lo zio Mario che era stato in Congo Belga a studiare le malattie tropicali. Visitò Proust a Parigi e curò Stravinskij a Napoli, guarendolo da una grave polmonite. Mio padre era avvocato civilista. Piaceva a tutti quella vita scandita da vacanze a Capri, di racconti avventurosi e di viaggi fantastici».

In questo ambiente lei che faceva?

«Avevo con Napoli lo stesso rapporto incantato che ricreavo con la lettura delle favole.

paolo isotta 1412525261 isottaLa città mi pareva fiaba. I venditori ambulanti che la mattina passavano sotto le finestre con le loro voci più cantate che strillate; la devozione del popolo; le donne dei vicoli; le vendemmie ad Anacapri, le passeggiate a dorso di ciuccio e mia nonna che mi insegnò il francese e il tedesco e mi diede i primi rudimenti musicali. Fu un mondo unico fatto di solerzia e ironia, di provocazione e fatalismo, di bellezza e stravaganza.

C’era di tutto in quel mondo: indimenticabili ricchioni, come il cavalier Spizzico capoclaque del San Carlo, vecchie puttane che rattristavano i miei pensieri, abili commercianti e mitici posteggiatori, incalliti frequentatori della riffa e devoti, come me, di San Gennaro.

Sono uno degli ultimi testimoni di una Napoli che non c’ è più».

In questa rievocazione di una Napoli sparita accennava a sua nonna che le ha trasmesso le prime nozioni di musica.

«Nonna Laura mi cantava meravigliose canzoni francesi e tedesche trasmettendomene il valore e il significato. Ma non vengo da una famiglia di musicisti. Studiai di nascosto un po’ di musica e solo dopo confessai a mio padre di questa passione e del fatto che nella vita avrei voluto diventare direttore d’ orchestra. Lui mi stette ad ascoltare e poi disse che avrebbe voluto che proseguissi nella sua professione. Gli risposi che non era quella la mia strada. Dammi retta aggiunse: un mediocre musicista sarà un fallito per tutta la vita, un mediocre avvocato troverà sempre di che campare dignitosamente».

E lei che fece?

« Pensai che mi disprezzasse e che non credeva minimamente nelle mie attitudini. Cominciai a prendere lezioni da Vincenzo Vitale che fu maestro mio e di Riccardo Muti. Ero determinato a proseguire, solo che non avevo capito che mi mancava il talento. Il maestro mi incoraggiava a insistere sottovalutando i miei limiti».

Da cosa se ne accorse?

LA VIRTu? DELL'ELEFANTE ISOTTA«Dal fatto che un direttore deve possedere un’ autorità innata. Muti, ad esempio, l’ aveva. E poi la qualità del gesto, la lettura del tempo e infine l’ orecchio. No, purtroppo, la natura non mi ha dotato dell’ orecchio assoluto. Sarei stato un mediocre direttore d’ orchestra e improvvisamente mi tornarono alla mente le frasi di mio padre».

Fu quel monito ad aiutarla a rinunciare?

«No, fu San Gennaro a illuminarmi e a farmi capire un momento prima che fallissi che avrei dovuto lasciar perdere. In fondo, mi dissi, potevo scegliere di occuparmi di musica in tutt’ altro modo».

Che cos’ è per lei San Gennaro?

«Quello che rappresenta per tutti i napoletani: più che una fonte miracolistica un’ assicurazione sulla vita. Non credo in Dio ma mi affido volentieri ai santi. Sono convinto che il cristianesimo abbia distrutto la potenza e la ricchezza della cultura classica. Il merito della Chiesa cattolica è stato di rovesciare questo cristianesimo delle origini e di aver introiettato nel proprio corpo aspetti fondamentali del paganesimo, di cui i santi sono una delle espressioni più belle e riuscite«.

paolo isotta giuliano ferrara pietrangelo buttafuoco

Isotta con Giuliano Ferrara e Pietrangelo Buttafuoco

Lei è uno strano tipo.

«Cioè?».

Diciamo fornito di una stravaganza raffinata e pittoresca.

«Non voglio essere pittoresco, ed è la ragione per cui ho smesso di fare il critico musicale. E la mia stravaganza è nel non aver mai coltivato il potere, né chiesto niente a nessuno. Se uno va all’ etimologia della parola sa che essere stravaganti significa uscire dai sentirei battuti. Non è un caso che io abbia sempre adorato la cultura classica, soprattutto il latino».

opere del bernini (8)Sindrome da vecchio professore?

«Ma no; senza il latino, mi dia retta, non si va da nessuna parte. È il sistema linguistico sovrano per avere un giusto rapporto con la vita».

Un altro omaggio alla controriforma.

«Non me ne vergogno. Ci hanno insegnato che la controriforma è stata in Italia una delle peggiori catastrofi perché ha lasciato che trionfasse l’ oscurantismo. Beh non la penso così. Nonostante le raffinate analisi di Max Weber sull’ etica protestante e lo spirito del capitalismo, giudico il protestantesimo una religione angusta e tormentatrice. Mentre la controriforma è stata una delle epoche più dedite al culto del Bello e alla glorificazione della natura. Tra Lutero e Bernini non avrei dubbi da che parte stare».

E Bach?

«Bach è un caso quasi unico. Sebbene provenisse dall’ ambiente del pietismo luterano, le sue Cantate e Passioni sono intrise di una tale teatralità e di una forza figurale estranee allo spirito della Riforma. Più vicino a Bernini che non a Lutero».

Perché ha smesso di fare il critico musicale?

celine lucette

Ferdinand Cèline

«Glielo ripeto: per non essere confuso con il pittoresco e poi se mi guardo intorno noto che la vita musicale è scaduta a livelli impensabili qualche anno fa. Mi sono detto: che me ne fotte di stare all’opposizione. L’ho fatto per quarantuno anni, dando molto di più di quello che mi si chiedeva. La nausea era diventata più forte del disprezzo per l’ambiente. Un paio di anni fa mi sono fermato. Basta, cambio vita. Oggi viaggio molto meno. Ho tagliato l’ottanta per cento delle mie frequentazioni. Vedo chi mi piace, scrivo libri e leggo molto di più».

Che genere di lettore ritiene di essere?

«Totale, del resto non farei distinzione tra ascolto, lettura e visione. Amo il cinema come la letteratura. Per quest’ ultima sono in debito con mia madre che è stata una grande lettrice di romanzi».

Quali quelli che l’ hanno formata?

«Ovviamente i classici e poi da Manzoni a Flaubert non c’ è pista narrativa ottocentesca che non abbia percorso. I più grandi del Novecento sono stati Céline e Gadda. Il più sopravvalutato, da noi, Calvino. Ho amato lo stile di Croce e quello di Sciascia che ho cercato in qualche modo di imitare».

Cosa le manca dei suoi genitori?

preghiere san gennaro«Di mio padre l’ intelligenza, di mia madre l’ intelligenza e la capacità di comprendere e amare».

Si è sentito poco amato da suo padre?

«Nonostante i suoi lati buoni non credo che sia stato un padre affettuoso. Dall’ ingresso nell’ adolescenza fino alla maturità mi ha sempre ispirato un certo terrore».

Provocato da cosa?

«Quelli della sua generazione pensavano che la severità fosse un dovere educativo. Vede, io non è che brillassi a scuola. Me ne disinteressavo fino all’ ultimo mese, quando recuperavo tutto il programma non fatto. Ma intanto arrivavano le pagelle, spesso pessime e mio padre mi guardava con disprezzo. La sua presenza mi ha reso la vita infelice. Però era anche un gioco delle parti. Tra un padre e un figlio».

Le dispiace non avere avuto figli?

«Non lo so, non c’ ho mai pensato. Ho una specie di figlio adottivo che adoro, un nipote. Il solo difetto che è troppo serio».

Lo vorrebbe come?

«Se dovessi pensare a un figlio mio lo avrei incoraggiato a essere giocatore e puttaniere. Non sarei mai stato capace di essere severo. Avrei goduto della sua dissipazione».

Contro l’educazione repressiva?

«Contro ogni forma di repressione».

Come interpreta la parola “eros”?

«Della parola me ne frego, l’ eros deve essere piacere, anche solo fisico. Vengo da un’ educazione in cui la strada ha contato molto ».

TOTO'Le piace la canzone napoletana?

«Adorabile, anzi “adorabile” non è l’ espressione giusta. Intensa, profonda, effusa. Ho amato i cesellatori della mezza voce come Gennaro Pasquariello, il cui erede ai giorni nostri fu Robertino Murolo, quasi un parente per la nostra famiglia. Ho amato la sceneggiata e il varietà. Mio padre soffriva di insonnia. Erano gli anni in cui dilagavano le televisioni commerciali e private. E lui si metteva in poltrona davanti al piccolo schermo e passava le nottate a guardare certe commedie e sceneggiate napoletane. Ho appreso in quel contesto cose talmente mirabili da immaginarle come pura avanguardia culturale».

Gode a essere una specie di bastian contrario?

ovidio

Ovidio, poeta latino

«Non è che ci soffra. Lo riconosco. Sono stato la bestia nera dei salotti culturali e musicali di sinistra, soprattutto quelli milanesi».

E oggi?

«C’ è ben poco con cui valga la pena polemizzare».

Su che cosa sta lavorando?

«Ho finito di scrivere un breve saggio su Totò e uno molto lungo su Ovidio».

Totò e Ovidio sembra il titolo di una commedia.

« Non c’ avevo pensato. In fondo pochi come Totò conoscono l’ arte della metamorfosi».

Lo ha conosciuto?

«No, ma andai al suo funerale. Seppi della sua morte quando per i vicoli di Napoli le donne disperate gridavano “È muorto Totò”. Avevo sedici anni. Con un amico ci recammo nella piazza gremita di gente. C’ era una ressa soffocante. Poi il feretro uscì dalla chiesa. Ci fu la commemorazione toccante di Nino Taranto. Sulla bara era stata posta l’ immancabile bombetta. Tutti volevano sfiorarla, toccarla, abbracciarla. Fu la prima adunata di massa spontanea attorno a una morte che divenne rappresentazione teatrale».

Come vive il rapporto con la morte?

«Sono nato sotto un vulcano. E so che tutto è provvisorio ma al tempo stesso sento che la terra mi dà energia. Non ne ho paura. Semmai temo le circostanze del morire: la sofferenza innanzi tutto. Ben venga la legge sul biotestamento. La considero un fatto di civiltà. Anche se purtroppo ci sarà ancora a lungo una torbida alleanza tra quei medici che vogliono accanirsi e i preti che intendono gestire la vita e la morte delle persone. Quanto a me, mi auguro di campare ancora a lungo. C’ è un detto napoletano: “ogni juorno è truvato in terra”, ossia è regalato. Vorrei che il tempo che mi resta fosse dedicato alle cose meno effimere. È il mio proposito per l’ anno nuovo».

Cosa si aspetta o cosa vorrebbe che accadesse nel 2018?

«Dall’ anno nuovo vorrei: in politica: la sconfitta dei demagoghi, dei venditori di fumo e degli impostori (possibile forse, ma solo per breve tempo); nella cultura, e quindi anche nella musica: la sconfitta dei demagoghi, dei venditori di fumo e degli impostori, impossibile per definizione».

Intervista di Antonio Gnoli per “la Repubblica”

 

Altri articoli su Paolo Isotta in questo sito:

https://www.ninconanco.it/ricchione/

https://www.ninconanco.it/ti-cerco-e-ti-respingo/

https://www.ninconanco.it/isotta/

Nel video potrete assaporare lo schietto carattere partenopeo di Paolino Isotta:

NEET

NEET

COSA SIGNIFICA AVERE VENT’ANNI E CERCARE LAVORO IN ITALIA- CHI E QUANTI SONO I NEET NEL NOSTRO PAESE- ATTENTI AGLI INGANNI: DAI CORSI A PAGAMENTO, AI TIROCINI NON RETRIBUITI, AI NETWORK  MARKETING O MULTILEVER MARKETING,

“Io nelle statistiche sono dipinto come un giovane che non studia, non ha un lavoro e non lo cerca. Però le statistiche sono una cosa, i dati di fatto un’altra”. Alessandro ha in testa un cappello scuro da cui spunta un groviglio di capelli castani e mentre parla non mi guarda negli occhi.

Ha 28 anni e secondo l’Istat è uno dei 2,2 milioni di neet italiani (not in education, employment or training), ossia giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non si stanno formando. “Io in teoria sono uno di loro, ma la verità è che se domani mi proponessero un lavoro, lo accetterei, non è una mia scelta trovarmi in questa situazione”, dice.

Nel 2015 si è laureato all’università di Bologna e l’anno dopo si è abilitato come assistente sociale, superando l’esame di stato. Poi si è messo a cercare lavoro: “Facevo sei chilometri al giorno a piedi a Bologna per portare il curriculum di qua e di là, e parallelamente mandavo decine di candidature online. Su internet però sono scettico, più l’annuncio è graficamente accattivante e meno mi fido. Quando poi c’è scritto ‘lavoro sicuro’ è quasi sempre una fregatura”.

Dopo tanti mesi senza risultati si è stancato e oggi ha smesso di cercare: “All’inizio mi sono dedicato alla lettura e alla scrittura, poi ho cominciato a fare volontariato con alcuni ragazzi disabili. Mi sono detto: ho già 28 anni, cosa posso fare? Non ho progetti, non ho una casa, non ho un lavoro, però ho un cervello, posso ancora rendermi utile in qualche modo”.

I numeri su giovani e lavoro
L’Italia è il paese dove ci sono più neet in Europa: secondo il rapporto Occupazione e sviluppi sociali in Europa della Commissione europea, il 20 per cento tra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro né sta studiando, quasi il doppio rispetto alla media europea, che è dell’11,6 per cento.

Anche il tasso di disoccupazione giovanile è preoccupante: nel 2016 toccava il 37,8 per cento e piazzava l’Italia al terzo posto in Europa dopo la Grecia (47,3 per cento) e la Spagna (44,4 per cento). Chi riesce a trovare un lavoro, poi, in più del 15 per cento dei casi ha contratti atipici, mentre chi ha meno di trent’anni guadagna in media il 60 per cento in meno di chi ne ha più di sessanta.

Nel nostro paese, dice l’Istat, più della metà dei neet è residente nel Mezzogiorno, solo uno su quattro non è interessato a lavorare e tre su quattro vivono ancora a casa dei genitori. Il livello di istruzione di questi giovani non è necessariamente basso, anzi: la metà ha il diploma e il 22,9 per cento è laureato.

Una neolaureata in cerca di lavoro
Ognuno di questi numeri nasconde una storia, come mi ha detto Alessandro, e le storie aiutano a capire meglio delle sigle e delle percentuali cosa significa cercare lavoro oggi in Italia. Per questo ho provato a fare un esperimento: ho costruito una storia che somigliasse alla mia e ho cominciato a inviare curriculum. Il nome che ho usato è Alessia Simoni, una ragazza di 23 anni con una laurea triennale in lettere moderne a Bologna, presa con il massimo dei voti. La mia alter ego parla inglese e francese, non ha avuto esperienze lavorative rilevanti e sta provando a entrare nel mondo dell’editoria.

Come molti giovani neolaureati, ho fatto qualche ricerca su internet in cerca di consigli su come valorizzare le competenze acquisite con gli studi e su come convincere un potenziale datore di lavoro. Insieme al curriculum ho scritto una lettera motivazionale e ho creato un finto profilo Facebook. Navigando ho trovato anche siti che propongono revisioni dei curricula e delle lettere. Il tutto fatto a pagamento da “esperti del cv”, ovvero professionisti delle risorse umane che dicono di sapere cosa interessa ai selezionatori e che affermano di poter aumentare le possibilità di trovare lavoro.

I videocurriculum sono sempre più utilizzati dalle grandi aziende

I costi vanno dai 30 ai 200 euro, così ho contattato alcuni di questi siti per chiedere come mai ci fosse tutta questa differenza di prezzo. Mi hanno risposto che dipende da quanto è qualificato l’esperto, ma soprattutto da quali servizi si vogliono includere oltre alla scrittura del curriculum: colloquio telefonico o di persona, scrittura della lettera motivazionale, traduzione in altre lingue, revisione del profilo LinkedIn o seduta di counseling.

Quando però ho chiesto se ci fossero dei dati per capire quanto fossero davvero efficaci tutti questi aiuti, nessuno mi ha saputo rispondere. Uno degli esperti che ho contattato usando l’identità di Alessia Simoni – uno psicologo del lavoro, esperto di scrittura curriculum – mi ha spiegato che “non si possono avere statistiche precise perché contano diversi fattori: quanto l’offerta di lavoro è adatta al candidato, come ci si pone al colloquio, se c’è qualcuno più preparato… Noi facciamo una parte del lavoro, il resto dipende dagli stessi candidati”.

Un professionista per il curriculum
Dopo qualche giorno ho deciso di ricontattarlo. Gli ho inviato il mio curriculum per una prima consulenza gratuita e lui mi ha risposto che “indubbiamente necessita di un intervento”. Ma per intervenire bisogna pagare. Così pago 35 euro e vado avanti.

Per prima cosa c’è un colloquio telefonico di un’ora, dove l’esperto mi chiede: “Che tipo di lavoro stai cercando? Il curriculum si scrive in modo diverso a seconda del ruolo a cui aspiri”. Poi mi sconsiglia il formato europeo: “Molto meglio optare per un formato personalizzato, ma sobrio. È importante che il selezionatore si ricordi di te, quindi inseriamo anche una tua foto”.

Il curriculum è analizzato punto per punto: “Ti devi domandare quali abilità ti hanno lasciato le varie esperienze che hai avuto, e poi devi metterle in evidenza”. Ci salutiamo rimanendo d’accordo che dopo un paio di giorni mi avrebbe mandato via mail il curriculum riscritto. Due giorni dopo, puntualissimo, arriva: ha una grafica curata, è più ordinato ed emergono con chiarezza attitudini e interessi. Con il curriculum mi invia anche una revisione della lettera motivazionale, scorrevole e accattivante.

Vale quindi la pena di pagare per un servizio di questo tipo? Secondo Marco Fattizzo, esperto di risorse umane a capo del sito Euspert e del blog BiancoLavoro, “i pochi che in Italia utilizzano servizi di scrittura professionale del curriculum hanno risultati eccezionali, tanto è vero che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è una pratica ormai consolidata”.

La pensa diversamente Gabriele Morandin, direttore del master in Human resources and organization della Bologna business school: “Non mi sentirei di consigliare questi siti ai giovani in cerca di un lavoro”, dice. “L’utilità è modesta, visto che il curriculum tradizionale sta ormai andando in pensione”.

Tradizione o innovazione?
Morandin non è il solo a pensare che oggi il curriculum classico sia destinato a sparire. Le grandi aziende stanno cambiando il modo in cui ricercano il personale. “I videocurriculum sono sempre più utilizzati e per un selezionatore un video di autopresentazione caricato su Linkedin può fare la differenza”, spiega Gabriele Morandin. “Ma la vera rivoluzione è quella dell’intelligenza artificiale: si stanno affermando algoritmi capaci di analizzare le espressioni, le parole usate, gli atteggiamenti, e di formulare previsioni sulle probabilità di successo di un candidato”.

Anche lo smartphone sta diventando parte integrante del processo di selezione del personale, attraverso giochi digitali che valutano la capacità di concentrarsi sotto pressione e la reattività: “Aziende come Unilever e Vodafone stanno puntando moltissimo sulla cosiddetta gamification”, racconta Morandin. “Il curriculum tradizionale è sempre meno utilizzato, ecco perché consiglierei ai giovani di non focalizzarsi solo sulla forma e di impegnarsi di più sulla sostanza: meglio fare esperienze che li differenzino e che li facciano emergere dalla massa. Il mantra è stand out from the crowd, distinguiti”.

Chiara Sonaglioni, responsabile della selezione del personale di Lamborghini, dice che “il curriculum classico è ormai superato, oggi lo si richiede sempre di più in formato digitale, o un videocurriculum. Per questo non credo che affidarsi a un esperto di scrittura di curricula faccia la differenza, almeno per quanto riguarda la nostra azienda. Basta che sia semplice, chiaro e sintetico, e che metta in evidenza le competenze caratterizzanti della persona: per tutto il resto c’è il colloquio, che in Lamborghini è ancora un passaggio fondamentale”.

Dalla Ferrero invece dicono che “il curriculum ha ancora un’importanza fondamentale nel percorso di selezione: è il primo biglietto da visita con cui ci si presenta all’azienda, anche se i nostri selezionatori usano molto anche Linkedin. Ogni anno riceviamo decine di migliaia di curricula: nella selezione dei giovani diamo particolare rilievo al voto di laurea e a eventuali esperienze professionali, anche se di breve durata”.

La ricerca di lavoro su Facebook
Vecchio o no, il curriculum per cui ho pagato un professionista ormai è bello e pronto, per cui comincio a inviarlo alle principali case editrici italiane e lo uso per iscrivermi a diverse agenzie del lavoro online. Intanto, spulcio i siti di annunci che contengono offerte di lavoro e creo un profilo su LinkedIn.

Sempre con il nome di Alessia Simoni mi iscrivo ad alcuni gruppi Facebook di ricerca lavoro, anche per chiedere consigli ad altri giovani nella mia situazione. Diverse ragazze mi parlano di network marketing o multilevel marketing, raccontandomi di aziende che permettono a chiunque di diventare un venditore e crearsi una propria rete di clienti a partire dai propri amici e parenti. L’esempio classico è quello dei prodotti per l’estetica e la cura del corpo – creme, profumi, trucchi.

In questi casi, per cominciare l’attività, quasi sempre bisogna comprare un kit di campioni, pagando dai 20 ai 150 euro. Le ragazze con cui parlo mi spiegano che “è un investimento irrisorio” vista la serietà delle aziende in cui loro stesse lavorano, “i soldi si riprendono molto in fretta”, e quasi tutte ripetono le stesse frasi: “I prodotti si vendono da soli, all’inizio ci vuole pazienza per crearsi la propria rete ma poi i risultati arrivano, non c’è niente da perdere e tutto da guadagnare”. Per convincermi parlano di ricavi che crescono in maniera progressiva, bonus carriera, e una di loro promette anche un’auto aziendale completamente gratuita.

Informandomi scopro che il network marketing può nascondere alcune insidie: “Bisogna saper distinguere tra due tipi di network marketing”, spiega Marco Fattizzo. “C’è il network marketing fine a se stesso, che mira a vendere solo il kit iniziale a più persone possibile, e poi ci sono le aziende serie che puntano invece a vendere i propri prodotti. Solo un 10 per cento degli annunci andrebbe preso in considerazione, le ditte affidabili sono poche e sempre le stesse. È importante quindi fare una ricerca approfondita su internet, avere una persona fidata che ti inserisca nel giro e controllare anche sul sito dell’agenzia delle entrate da quanto tempo esiste l’azienda e dove si trova la sede”.

Nei vari gruppi Facebook di ricerca lavoro a cui mi sono iscritta, conosco anche ragazzi e ragazze che cercano altri tipi di lavoro. Elisabetta ha 24 anni, è di Taranto e mi racconta che negli ultimi mesi ha mandato moltissimi curriculum, usando soprattutto i siti di annunci e LinkedIn: “Il mio lavoro era cercare lavoro. Guardavo ovunque, ma ho capito che su Facebook non si trovano offerte serie. Anche a me hanno proposto di fare la venditrice di prodotti di bellezza, ma prima mi hanno chiesto un investimento di 120 euro per un kit. Ovviamente ho rifiutato. Altri offrono posti da front office o da back office, e poi quando vai al colloquio scopri che è un posto da venditore o da venditrice porta a porta”.

Fattizzo conferma che “capita molto spesso che al colloquio il candidato scopra che la posizione è diversa da quella proposta nell’annuncio. Di solito si tratta di aziende che cercano venditori porta a porta e che prenderebbero chiunque, ma per avere più candidature scrivono nell’annuncio che si tratta di un posto da segretaria o magazziniere”.

Ci sono inoltre aziende che promettono una posizione lavorativa stabile e ben retribuita e poi al colloquio precisano che prima è necessario frequentare un corso di formazione a pagamento oppure che prima dell’impiego bisogna fare un tirocinio non retribuito. “Il problema è che spesso ti lasciano intendere che dopo il corso o lo stage l’assunzione è assicurata, anche quando non è affatto così”, spiega Fattizzo. “Nell’annuncio le condizioni non vengono specificate in maniera chiara, sembra un’offerta di lavoro a tutti gli effetti”.

Flessibili e sfruttati
Mentre continuo le ricerche, un ragazzo mi segnala la possibilità di lavorare con Supermercato24, un sito che permette di fare la spesa online e di ricevere i prodotti a domicilio. Il mio ruolo sarebbe quello della “shopper”: dopo aver ricevuto un sms di richiesta, dovrei accettare la chiamata, fare la spesa per il cliente e consegnargliela a casa. È molto semplice, basta avere uno smartphone e un motorino o un’auto per spostarsi.

È così che il mio alter ego entra in contatto con il mondo della gig e della sharing economy. Attraverso siti e app il lavoratore può essere chiamato in ogni momento ed è lui a decidere quando e quanto lavorare. Molti giovani sono attirati da impieghi che sembrano flessibili e poco impegnativi, ma la verità è che spesso dietro questi lavori si nascondono nuove forme di sfruttamento: il basso compenso obbliga a lavorare molte ore al giorno per arrivare a guadagnare abbastanza e le condizioni sono molto sconvenienti per i dipendenti e vantaggiosissime per l’azienda.

Un anno fa a Torino si è svolto quello che La Stampa ha definito il primo sciopero della sharing economy. I rider di Foodora, i fattorini che portano a casa i pasti pronti, avevano organizzato una protesta e hanno diffuso un comunicato stampa in cui spiegavano: “Dietro i nostri sorrisi, i nostri ‘grazie’ e i nostri ‘buona cena, arrivederci’, si cela una precarietà estrema e uno stipendio da fame. Le decine di chilometri che maciniamo ogni giorno, i rischi che corriamo in mezzo al traffico, i ritardi, la disorganizzazione, i turni detti all’ultimo momento, venivano ripagati con 5 miseri euro all’ora, mentre adesso addirittura vengono pagati 2,70 euro per ogni consegna effettuata, senza un fisso, con l’ovvia conseguenza che tutto il tempo in cui non ci sono ordini non viene pagato, quindi è a tutti gli effetti tempo regalato all’azienda”. Oggi un fattorino è pagato quattro euro lordi a consegna e fa in media due consegne all’ora, spiega l’azienda.

Quando si parla di gig economy, la domanda giusta da farsi è: produce un reddito vero?

Anche Uber è stata messa sotto accusa per i salari bassi e le poche garanzie ai dipendenti. “Uber è a metà fra il lavoro dipendente e quello in proprio, e chi lavora per l’azienda paga gli svantaggi di entrambi questi tipi di lavoro”, racconta Carlo, autista di UberPop fino al 2015. “Gli autisti devono sottostare all’azienda, che stabilisce le tariffe – spesso troppo basse – e decide se puoi o non puoi lavorare, in che raggio di azione puoi farlo, ma in cambio non dà tutele legali. Godi della flessibilità degli orari, ma alla fin fine questo si traduce in più ore di lavoro pur di ottenere un guadagno accettabile”.

Quando lavorava con Uber, Carlo guadagnava in media dieci euro all’ora, ai quali “bisognava togliere le spese di benzina, la revisione, il cambio gomme e gli altri costi di manutenzione dell’auto, per non parlare delle tasse”, spiega. “Alla fine rimanevano circa due o tre euro all’ora. E non essendoci controlli da parte dell’azienda e dello stato, molti autisti finivano per risparmiare sulla manutenzione dell’auto, con ovvie ripercussioni sulla sicurezza, o non denunciando i redditi, il che era molto semplice visto che Uber pagava con bonifici e fatture provenienti dall’estero”.

Carlo faceva l’autista di Uber, ma aveva già un altro lavoro, così come la maggior parte dei suoi colleghi: “Dubito ci siano persone che di fronte a una scelta tra impiego tradizionale e Uber preferiscano quest’ultima. Quando si parla di queste nuove app e dei lavoratori della gig economy molti si chiedono se si tratta di un lavoro vero, mentre la domanda giusta da farsi è: produce un reddito vero?”.

Epilogo
Sono passati tre mesi da quando il mio alter ego Alessia Simoni ha cominciato a cercare lavoro. La sua casella di posta elettronica è intasata da avvisi automatici. Segnalano offerte che in teoria dovrebbero essere adatte per il suo profilo, ma che in realtà promuovono posti da addetto vendite, da commesso, da operaio, da magazziniere, da addetto alle pulizie, da babysitter, da insegnante privato di inglese o di pianoforte. L’offerta più interessante è quella per unhttp://www.internazionali.it tirocinio nel settore delle risorse umane, peccato che non sia retribuito.

Di annunci sul mondo dell’editoria neanche l’ombra. Niente colloqui. Niente risposte dalle case editrici che avevo contattato. Eppure Alessia è giovane, laureata con il massimo dei voti e parla tre lingue: se questa ragazza esistesse davvero avrebbe tutte le carte in regola, ma per cominciare a lavorare dovrebbe probabilmente accontentarsi di un impiego in un settore diverso dal suo. Chissà se avrebbe la forza di continuare a provarci o con il tempo diventerebbe anche lei parte delle statistiche sui giovani che non studiano e non lavorano, una storia in più che si perde nei grandi numeri.

Articolo di Alessia Facchini per www.Internazionale.it

 

 

ALDA

ALDA

Accarezzami, amore/ma come il sole/che tocca la dolce fronte della luna./Non venirmi a molestare anche tu/con quelle sciocche ricerche/sulle tracce del divino./Dio arriverà all’alba/se io sarò tra le tue braccia (Alda Merini)

 

«Lo so, me lo fanno notare tutti. Sei uguale a tua madre, Oddio, ti ho intravista dietro i vetri e mi è sembrato di vedere l’Alda…. Ogni volta che sento assomigli a tua madre mi cadono le braccia. Tutti sappiamo di assomigliare ai nostri genitori, ma sentirselo dire di continuo è asfissiante.

La gente alla fine non ti vede come sei tu, ma come figlio di…. È difficile. Le donne, poi… Sono sempre mogli di, madri di, figlie di…».

Alda Merini e i navigli

Moglie di un ragazzo che la portò via di casa giovanissima, madre di due figli ormai grandi, figlia maggiore di Alda Merini, Emanuela Carniti ha gli stessi occhi, lo stesso anello, la stessa eleganza nel fumare, la stessa voce prima bassa e poi squillante della mamma. Ci sono tante cose uguali tra loro. Ma la cucina della sua casa, nel centro storico di Omegna, sul lago d’Orta, è molto più grande e luminosa del piccolo appartamento di ringhiera di Alda Merini, sui Navigli.

Emanuela carniti figlia di alda merini

Emanuela Carniti, figlia di Alda Merini

«A Omegna arrivai quando me ne andai di casa, ero una ragazzina. Quindes ann. Se ci penso… Io vivevo coi miei, proprio nella casa sui Navigli. Una sera il mio ragazzo, che sarebbe diventato il mio primo marito – ride, citando Donna Flor… – litigò con papà, per una sciocchezza. E mio padre gli urlò di andarsene via. E tu vai con lui, mi disse. Ci pensai un po’. Non volevo sposarmi, ma volevo andarmene. La seconda cosa la feci subito, la prima poco dopo: nel ’71, a 15 anni e mezzo. Lui era di Omegna. Ed eccomi qui. Ormai non potrei più vivere a Milano, preferisco una vita più a misura umana, non so se mi capisci… Insomma, sto bene qui».

«Qui» è una cittadina di quindicimila abitanti, incastrata nel ramo più settentrionale del lago d’Orta, in un Piemonte che sembra ancora Lombardia, a nord del profondo Nord. «È stata dura all’inizio, non c’era niente, solo uno stradone, nient’altro, mi sentivo male. Poi ho cominciato a lavoricchiare, dopo ho fatto la scuola per infermieri, che è stata la mia salvezza. E quando nel ’78 è arrivata la legge Basaglia, la 180 che chiudeva i manicomi, ho iniziato il tirocinio in psichiatria, all’ospedale di Verbania.

Alda Merini_3

Alda Merini

Arrivavano pazienti devastati dai farmaci, violentati nel fisico e nella testa, e con loro arrivavano anche gli infermieri dei manicomi, che erano poco meno che guardie carcerarie. Mi dicevano di stare attenta, di non dare mai le spalle ai malati, che era pericoloso… Non potevo lavorare così, e allora ho scelto di andare nelle strutture sul territorio: visite a domicilio, negli ambulatori, attività di gruppo, assistenza in casa… L’ho fatto per 32 anni. Intanto ho avuto due figli. Il maschio fa il programmatore informatico. La femmina la psicologa…». «…?!». «Non dirmelo, lo so, avere a che fare coi disturbi mentali è una cosa di famiglia… È un destino».

Quella di venire a vivere a Omegna è stata una scelta. La cucina di Emanuela Carniti è linda, accogliente, alla parete una riproduzione d’artista della Darsena e del Naviglio Grande («oggi è tutto così diverso da allora…»), un ritratto a matita colorata di Alda («ne ho tanti di là, nel sancta sanctorum dedicato alla mamma, ma questo è quello che mi piace di più, guarda com’è bella!») e un tavolo apparecchiato. Pranziamo con pollo alla birra, insalata, un dolce al cioccolato, vino rosè e diverse Yesmoke. «Per un po’ ho fumato l’elettronica, ma sono una tabagista.

Alda MeriniSono cresciuta con papà e l’Alda… La casa era una camera a gas. Io ho iniziato a 25 anni. Mamma s’arrabbiava, mi diceva di non fumare, come dicono tutte le mamme, ma lei non ha mai smesso. Ha fumato fino a quando è entrata in coma, fumava durante i ricoveri, persino in terapia intensiva. Anche negli studi televisivi. Contro ogni regolamento sanitario, al di fuori da ogni limite di legge».

Contro ogni regola, al di fuori di ogni limite, Alda Merini – «un carattere molto molto fragile e molto molto forte» – ha fatto tutto quello che voleva nella vita, quando voleva. «Non l’ho mai vista come una donna legata da obblighi e imposizioni, lei così anarchica. All’inizio, quando io ero piccola e lei stava ancora bene, ha provato a interpretare la perfetta donna di casa, fare la spesa, tenere i conti, era anche attenta a me, perfino troppo, era molto severa, non potevo fare niente… Poi quando è nata mia sorella, la seconda figlia, c’è stata la svolta.

La mamma ha avuto una depressione post partum e da lì le cose sono sempre peggiorate. Fu come voltare pagina. L’Alda non era fatta per occuparsi della casa e della famiglia. Non era in grado. Forse non era neanche tagliata».

ALDA MERINI 3Emanuela è stata l’unica a rimanere in famiglia. Le altre tre sorelle, Barbara, Simona e Flavia, furono date in affido. «Io ho molti ricordi della mamma. Il più bello? Quando ridevamo per niente come pazze, senza smettere, solo per una sciocchezza. Il più brutto? Il suo primo ricovero: ero piccola, ma non così tanto da non capire. La sentivo urlare quando l’hanno portata via».

Più bella della poesia è stata la mia vita. Ma è davvero stato così? «Mah… La mamma faceva dentro e fuori gli ospedali. E finito un ricovero poteva capitare che dopo poco tempo chiedesse di nuovo di rientrare in ospedale perché si sentiva depressa. Per il resto, le immagini più lontane che ho sono quelle di lei che scriveva, a mano o a macchina. Ha sempre scritto. Sì, poi dava qualche lezione di pianoforte, ai bambini, o faceva ripetizioni… Mi ricordo a 11 anni, che facevo avanti e indietro dal Paolo Pini a trovarla… E anche quando sono andato via di casa continuavamo a vederci, certo. Io venivo spesso a Milano, e lei e papà, in macchina, venivano qui a trovarmi… Che rapporto avevamo?

ALDA MERINIConflittuale, come tra qualsiasi figlia e madre normali. Con in più il fatto che lei non era una madre normale. Era una figura così… imponente. Ero piccola ma me lo ricordo: da casa nostra passavano Quasimodo e sua moglie, la ballerina Maria Cumani. Lo psicanalista Franco Fornari era uno dei suoi grandi amici. Poi noi andavamo da Giovanni Scheiwiller – aveva un cane super isterico, peloso, magrissimo, g’aveva tacà nient… – mentre Vanni fu padrino al battesimo di una delle mie sorelle. Il mondo che ci girava attorno era quello».

L’élite di Milano. Poi arrivò la popolarità nazional-popolare. «L’escalation cominciò col Maurizio Costanzo Show, negli anni Novanta. È la tv che ti dà la fama. La sua popolarità continuò a crescere e crescere, sempre di più, tanto che è più popolare adesso che è morta di quando era in vita». Il mercato e i media l’hanno anche sfruttata, spolpata, banalizzata. «Fa parte del gioco. Se diventi cibo per tutti, ti cannibalizzano. Lei si arrabbiava, ma era anche contenta. Aveva dei veri fan. Che spesso trattava anche male. Venivano su dalla Sicilia per vederla e lei magari non gli apriva la porta, perché quel pomeriggio c’ero lì io che ero andata trovarla. Mi diceva: Mi vogliono toccare come fossi una santa!. Era una primadonna, avrebbe potuto fare l’attrice. Tutti ci teniamo a essere notati, ma lei più di tutti. Ti ricordi quei versi? Spazio spazio, io voglio, tanto spazio…».

alda meriniLo spazio che Emanuela ha dato al ricordo della madre – «furiosa e bellissima» – è una grande stanza, il sancta santorum. Dentro ci sono i suoi quadri con l’Alzaia e il tram 19, «che passava davanti a casa nostra», i fumetti che gli dedicava Arnoldo Mosca Mondadori – «Guarda che belli: L’Alda che suona il piano per il cardinale Ravasi. L’Alda in barca a Lampedusa. L’Aldina dalle uova d’oro…» – e poi i disegni di Luzzati, ritratti, le foto di Giuliano Grittini, e una massiccia libreria: dentro una copia di tutti i libri, le plaquette, le raccolte, i libri d’artista, gli economici, le copie uniche dell’immensa produzione di Alda Merini, morta otto anni fa, il 1º novembre. «Anche io da piccola scrivevo poesie. Ma poi… Immagini cosa significa pensare di pubblicare qualcosa con una mamma così? L’ho fatto soltanto tre anni fa, una raccolta di versi. S’intitola Chirurgia d’affetto»

Aldo Busi MeriniAffetti. Alda Merini – poetessa non a caso molto amata da chi solitamente non ama la poesia – dava e riceveva moltissimo. Generosa («regalava tutto a tutti, soprattutto poesie»), spigolosa («le persone più vere sono sempre le più difficili»), autentica («non indossava mai maschere, ecco perché piaceva così tanto»), viveva di affetti e passioni. Che declinava a suo modo.

«Lei diceva sempre che le sue poesie più belle sono state le sue figlie. Balle. Le sue poesie più belle sono state le sue poesie. Punto. Quella era la sua strada, il suo dáimon. Poteva e doveva fare soltanto la poetessa. Questo non significa che non ci volesse un bene immenso o che noi non ne volessimo a lei. Anzi. Ma non era facile. Ancora quando ero grande e discutevamo, alzava il dito e la voce: Non si risponde così a una Poetessa!. Non a una mamma, a una poetessa. Hai capito?».

Articolo di Luigi Mascheroni per il Giornale

 

LA CUCINA? IN CONVENTO

LA CUCINA? IN CONVENTO

ostie ripieneIl Cristianesimo non è solo una religione del libro. È anche una religione del cibo e l’ abbondanza è sempre servita a santificare le feste. Mettendo d’ accordo lo spirito e i sensi.

Molte delle eccellenze gastronomiche italiane, infatti, nascono proprio da questa superalimentazione festiva che trasforma Natale, Pasqua e altre feste comandate, in altrettante orge sacre. In pantagrueliche liturgie della gola. Non è un caso che spesso i dolci e le leccornie di precetto abbiano nomi di santi e che siano nati nei monasteri. È il caso della Santa Rosa, l’ antenata della sfogliatella napoletana, che prende il nome dall’ omonimo convento domenicano di Amalfi.

sfogliatelleLì le novizie seguivano una ricetta particolarmente ricca, con crema pasticcera e sette amarene poggiate sopra, come “sette occhi piangenti”. Altrettanto celebri sono i frutti di marzapane, in origine prodotti nel convento palermitano della Martorana, che una volta contenevano al loro interno dei santini. E ancora i brigidini toscani, le cialde all’ anice a forma di aureola dorata che sin dal Cinquecento le monache di santa Brigida preparavano con le piastre roventi delle ostie. Un luminoso esempio di gastronomia eucaristica. Come quello delle Clarisse della Santissima Trinità di San Michele Arcangelo, sul Gargano, famose per aver inventato le ostie chiene. Farcite di mandorle caramellate e miele. Un dolce che alla semplicità francescana unisce la raffinatezza aristocratica di santa Chiara, che era di ascendenze nobili.

brigidini toscaniE, dulcis in fundo, la pasta di mandorla immacolatissima delle Benedettine di San Giovanni Evangelista, nel cuore barocco di Lecce, che dal segreto della clausura, fanno passare i loro celestiali pasticcini attraverso la ruota degli esposti.

Pasta di mandorla immacolatissima delle benedettine di san Giovanni Evangelista

Così se generazioni di monache hanno trasformato l’ ora et labora in religione del gusto lo hanno fatto in seno a una tradizione religiosa in cui il nutrimento del corpo è simbolo del nutrimento dell’ anima, dall’ ultima cena alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, dalle nozze di Cana alla cena in Emmaus. A cominciare dal pane e dal vino, che sono la sostanza stessa del dio incarnato. Tanto che nel Nuovo Testamento Gesù viene chiamato “il pane della vita” o “il pane vivo disceso dal cielo”. E certamente non è un caso che nasca a Betlemme, che in ebraico significa proprio la città dei pani. Insomma la tavola è uno dei linguaggi centrali della devozione.

Marino Niola, autore dell’articolo

Perché mangiare come Dio comanda fa la differenza tra credenti e indifferenti. Non consumare carni e grassi animali nei giorni di vigilia, osservare l’ astinenza come prescrive il fondatore dei Gesuiti sant’ Ignazio de Loyola, praticare la temperanza come comanda san Paolo, convertirsi alla frugalità come raccomanda san Francesco e adesso anche Papa Bergoglio, costituiscono il decalogo alimentare del buon cristiano. Sia per difetto, sia per eccesso. Perché se la rinuncia mette alla prova la fede, è vero anche che la pienezza la alimenta.

Marino Niola per la Repubblica

In copertina opera di Andy Warhol

 

NERIO RICORDA

NERIO RICORDA

 

LA STORIA DELL’OLIVETTI NEI RICORDI DI NERIO NESI, PARTIGIANO PIEMONTESE, POLITICO E BANCHIERE:un simbolo anche dell’ “approdo mancato” di tutta l’Italia, la traiettoria incompiuta della modernizzazione del nostro Paese.

 

  “Il saggio di Nesi, costruito secondo la tripartizione classica Camillo-Adriano-Roberto a cui si aggiunge la sezione su Laura (la figlia di Adriano, scomparsa due anni fa), va ad arricchire la corposa libreria della memorialistica olivettiana.

Macchina da scrivere Olivetti Lettera 22, esposta al Moma di N.Y.

Ha, però, due caratteristiche che lo distaccano dalla maggioranza degli altri volumi: alla conoscenza diretta dei protagonisti di una storia anomala nel capitalismo europeo si aggiunge una capacità analitica fatta di cultura e di esperienza, che riesce a collocare le figure della famiglia Olivetti nel contesto storico, leggendone gli aspetti intimamente drammatici alla luce del loro tempo.” (dall’articolo di Paolo Bricco sul Sole 24 Ore di dicembre 2017)

 

Libro Olivetti di Nerio NesiPer comprendere la fine ingloriosa di una delle più gloriose esperienze imprenditoriali della storia d’ Italia, bisogna risalire a ragioni private e pubbliche, a contrasti familiari ma anche a responsabilità gravi della politica, incapace di partorire una visione industriale all’ altezza di quell’ azienda e del Paese. Da questa prospettiva, Le passioni degli Olivetti (Aragno, pp. 126, euro 18) di Nerio Nesi, saggio genealogico sulla dinastia Olivetti osservata, lungo tre generazioni, da un testimone di eccezione che in quell’ azienda ebbe un importante ruolo direttivo, aiuta a spiegare, senza certo giustificare, come sia stato possibile depauperare in pochi anni un patrimonio immenso di conoscenze e di innovazione, un capitale umano e aziendale, oltre che economico.

 

La famiglia. Ivrea, 1919: in piedi da sinistra Adriano, Elena e Massimo. Seduti Luisa Revel e Camillo Olivetti con il figlio più piccolo Dino. In basso da sinistra Silvia e Laura. Courtesy Fondazione Adriano Olivetti

Determinante, secondo Nesi, fu l’ azione, o meglio l’ inazione, della politica nella fase più delicata, il periodo di passaggio seguito alla morte di Adriano Olivetti, in cui la guida dell’ azienda fu assunta dal cosiddetto Gruppo di intervento composto da Fiat, Pirelli, IMI, Centrale, Mediobanca, a indiretta supervisione statale. In quella transizione, nonostante a presiedere il gruppo fosse stato mandato Bruno Visentini, vicepresidente della più importante holding dello Stato italiano, l’ IRI, il governo di allora – l’ esecutivo Moro, il primo di centrosinistra nella storia repubblicana – non fornì all’ azienda alcun aiuto.

Aldo Moro

Aldo Moro, democratico cristiano e più volte capo del governo. Fu ucciso nel 1978 delle Brigate Rosse

Non solo: lo stesso Visentini si oppose strenuamente a tutti i piani di innovazione promossi dal figlio di Adriano, Roberto, allora vicepresidente della Olivetti, che intendeva in modo lungimirante spostare il core business dell’ azienda dalla meccanica all’ elettronica, aprendola alle nuove tecnologie informatiche. Né Aldo Moro uomo di punta delle Dc e del compomesso storico, né, tanto meno, l’ allora ministro del Tesoro Emilio Colombo seppero invertire la rotta, forse condizionati da pressioni degli Stati Uniti che vedevano in una Olivetti forte una minaccia alla competitività delle proprie imprese.

bruno visentini

Bruno Visentini, esponente politico repubblicano e ministro delle finanze. E’ morto nel 1995.

Esito estremo di una diffidenza, se non ostilità, della politica italiana nei confronti del gruppo di Ivrea, maturata già ai tempi in cui era in vita Adriano che, da impolitico qual era, si sentì sempre un estraneo in Parlamento (al punto che preferiva entrarci dalla porta di servizio anziché dall’ ingresso di piazza Montecitorio), e confermata alla morte di quello, allorché al funerale non partecipò alcun esponente dell’ esecutivo, fatta eccezione per un oscuro sottosegretario.

Ma sarebbe riduttivo e disonesto ricondurre il progressivo declino della Olivetti esclusivamente alle omissioni o alle colpe della politica. Influenti, rileva Nesi, furono anche i dissidi familiari che emersero dopo la morte di Adriano quando, come ricordava il figlio Roberto, «l’ intenzione di accontentare tutti significò la distribuzione di cariche e quindi di funzioni manageriali ai diversi membri della famiglia, creando la premessa per la ramificazione delle discordie nell’ ambito dei più alti dirigenti della società».

ADRIANO OLIVETTI A IVREA

Adriano Olivetti, riferimento mitico per tanti contadini e allevatori del Canavese diventati operai e tecnici

Certo, nella mancata formazione di una classe dirigente in grado di sostituirlo, qualche responsabilità ebbe lo stesso Adriano, decisore iper-individualista e autoritario, che non prevedeva meccanismi di divisione o di delega dei propri poteri, accentratore che fece coincidere il destino dell’ azienda con il proprio nel momento stesso (e qua è il paradosso) in cui auspicava una proprietà collettiva dell’ impresa, nonché uomo ostile al cosiddetto “capitalismo dinastico”. La sua stessa successione al padre Camillo avvenne sì nel segno della dedizione filiale, ma anche di una feconda discontinuità, segnata da contrasto di visioni e dalla consapevolezza, da parte del “discepolo” Adriano, di aver superato il “maestro”.

roberto olivetti

Roberto Olivetti

Ancor più nettamente l’ascesa ai vertici aziendali di Roberto rappresentò uno scarto rispetto alla figura paterna, sia per ragioni caratteriali (il figlio di Adriano era molto meno decisore rispetto a lui), sia per il senso della propria missione in azienda (Roberto non era animato da un’ ispirazione quasi religiosa come il padre) sia per scelte strategiche (mentre Adriano rifiutò sempre l’ adesione alla Confindustria, il figlio preferì dialogare con le rappresentanze del mondo industriale).

Nerio Nesi

Neri Nesi. Venne assunto alla Olivetti nel 1958 a 32 anni.

Più probabilmente, tuttavia, la spiegazione della sconfitta del modello olivettiano va trovata nella natura stessa delle politiche industriali del nostro Paese, basate su un capitalismo leggero, quello delle piccole e medie imprese, e non in grado di promuovere o sostenere i grandi gruppi, facenti capo alle grandi famiglie proprietarie. Destinate, loro malgrado, a restare anomalie, eccezionali, ma pur sempre anomalie di breve durata.

Articolo di Gianluca Veneziani per Libero Quotidiano

 

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