I TRE SOGNI DELL’AFRICA

I TRE SOGNI DELL’AFRICA

“Il futuro del pianeta si giocherà in larga misura nel continente africano e questa svolta costituirà il principale evento economico, culturale e filosofico del XXI secolo.” Nella bella intervista al filosofo e politologo Achille Mbembe si parla dei problemi dell’immigrazione, agitati come spauracchio dai populismi, del neo colonialismo di Francia e Inghilterra “detriti del passato che rallentano il nostro sviluppo”, della Cina che per prima ha capito in che direzione va la storia.  

La ricchezza di materie prime e la crescita demografica spingono il continente. Autonomia dai lacci coloniali, relazioni con la Cina, autocoscienza del proprio ruolo internazionale sono per Achille Mbembe, teorico del Postcolonialismo, le strade per la rinascita.

Sistemi democratici poco solidi, guerre civili, estremismo religioso, primavere arabe che non hanno prodotto i risultati sperati, dipendenza economica. Il filosofo e politologo camerunense Achille Mbembe, tra i più autorevoli esperti di studi postcoloniali, non nega i problemi che l’Africa deve affrontare ancora oggi e che spingono parte della popolazione a fuggire. Ma, è sicuro, «il mio continente si rialzerà, prima di quanto molti si aspettino».

Docente a Johannesburg dopo la formazione alla Sorbona di Parigi e l’ insegnamento in atenei prestigiosi come la Columbia University di New York, Mbembe analizza con «la Lettura» il ruolo dell’Africa nell’attuale scacchiere geopolitico e in quello del futuro. Acquisire piena autonomia sciogliendo definitivamente i lacci coloniali, costruire un’alleanza con la Cina, concepirsi in relazione con il mondo, andando oltre la pur legittima rivendicazione dell’identità africana, sono le linee guida della possibile rinascita. Il filosofo ne parla in occasione della pubblicazione in italiano, per Meltemi, del suo saggio Emergere dalla lunga notte. Studio sull’Africa decolonizzata e in attesa che esca a marzo, per Laterza, la traduzione di Politiques de l’inimitié (La Découverte, 2016).

Oltre mezzo secolo dopo la decolonizzazione, l’Africa è ancora immersa nella «lunga notte»?

«L’alba potrebbe essere ancora lontana, ma il futuro non è segnato. La stessa percezione dell’Africa non è più solo quella di un focolaio di problemi irrisolvibili, ma di un laboratorio planetario. Il nostro continente è l’ultimo deposito di una ricchezza non sfruttata: minerali nel sottosuolo, piante e animali, acqua, sole, tutte le forme di energia sotto la crosta terrestre. Senza contare la rivoluzione demografica. In meno di trent’anni l’Africa rappresenterà il 26,6% della popolazione mondiale. Il futuro del pianeta si giocherà in larga misura nel nostro continente e questa svolta costituirà il principale evento economico, culturale e filosofico del XXI secolo. Dobbiamo accompagnarlo perché andrà a beneficio di tutta l’umanità. Solo l’Europa lo considera una minaccia».

Si vedono già segni di rinascita?

«Ovunque vada nel continente africano, sono testimone dell’emergere di una nuova coscienza storica e decolonizzata, specie tra le giovani generazioni. Si basa sulla convinzione che la storia non è una ripetizione. Non ci serve imitare gli altri. Molti di noi ora credono che, con l’auto-organizzazione e piccole aperture, si possa cambiare la direzione dei prossimi 25-30 anni».

Quanto alla memoria della colonizzazione, in «Emergere dalla lunga notte» lei osserva che l’atteggiamento delle potenze europee è stato «una miscela di laissez-faire, di indifferenza, di volontà di non saperne nulla e di prontezza nel disfarsi delle proprie responsabilità». Che cosa dovrebbero fare oggi?

«L’Europa non sarà mai in grado di restituire quanto ci ha sottratto. Noi vivremo con questa perdita. L’Europa, da parte sua, deve assumersi la responsabilità dei suoi atti, di quella parte oscura di storia condivisa di cui ha cercato di disfarsi. Per tessere nuovi legami, bisogna onorare la verità. Dovremmo imparare a ricordare insieme. La strada non è ritirarsi in sé stessi, ma contribuire al sorgere di un mondo in cui potremmo tutti abitare».

L’Europa si sta ritirando in sé stessa? In «Politiques de l’inimitié» lei ricorda che non è più un «centro di gravità» del mondo.

«Il contributo dell’Europa alla storia è stato oneroso, ma di grande valore. Ora non è più il luogo a cui rivolgersi per reinventare il mondo. Rimarrà un enorme archivio per chi vuole arrancare tra i detriti del passato».

Oggi uno dei temi più delicati in Europa è la gestione dei migranti dall’Africa. Come va affrontato?

«L’Europa progetta di trasformare il continente africano in un gigantesco Bantustan (i territori della Repubblica Sudafricana assegnati alle etnie nere nell’epoca dell’apartheid, ndr). Ora sta legando il cosiddetto “aiuto allo sviluppo” a condizioni inaccettabili. Corrompe i despoti africani. Li incoraggia a trattenere i migranti in campi improvvisati prima che siano deportati o abbandonati nel deserto. È come se i confini europei si fossero spostati in territorio africano: nel deserto del Sahara; in Marocco, Libia e Algeria, dove si è riattivato un secolare razzismo contro i neri; in Niger dove il governo francese ha istituito centri di smistamento per separare quei corpi che vale la pena considerare rifugiati e quelli che appartengono alla categoria criminalizzata dei migranti economici. La guardia costiera spagnola è sull’isola di Gorée in Senegal e pattuglia le coste. Questo “spostamento” del confine nei luoghi di origine della migrazione è politicamente e moralmente inaccettabile».

Perché prevale questa linea?

«In Europa assistiamo a una forte svolta isolazionista accompagnata da bugie e discorsi di paura. In parte hanno a che fare con l’ignoranza, in parte con il puro razzismo. Ancora più decisiva è l’annessione di categorie come la sicurezza, i rischi, le minacce e l’incertezza nel discorso della finanza e dell’economia, come fossero beni che possono essere scambiati. La paura fa parte di questa nuova economia speculativa, viene comprata e venduta. Questo suo incorporamento sia nei linguaggi culturali pubblici sia nell’economia produce quel tipo di politica viscerale che molti chiamano populismo. Forse abbiamo raggiunto il punto in cui la più grande minaccia alla democrazia è il capitalismo senza regole. L’Europa non può continuare a fomentare il caos in Africa e sperare di essere risparmiata dalle conseguenze. Ciò che viene chiamato “migrazione” o “crisi dei rifugiati” è in parte conseguenza delle politiche europee in Africa».

Lei è molto critico con la Francia: sostiene che non si è mai liberata delle categorie coloniali.

«Ci sono innumerevoli esempi, a cominciare dal sostegno che offre ad alcuni tra i tiranni più brutali, cinici e corrotti d’Africa. A questo si aggiunge la presenza di basi militari in numerose ex colonie. Potrei menzionare anche il franco Cfa (la valuta utilizzata da 14 Paesi africani, in passato legata al franco francese e oggi all’euro, ndr): uno strumento di stupro economico ed estorsione finanziaria. La politica africana francese ha, sin dai tempi coloniali, una combinazione di mercantilismo, militarismo e paternalismo razzista. Non cambierà fino a quando gli africani non si ribelleranno».

Theresa May ha compiuto un viaggio nell’Africa subsahariana per rinnovare le partnership dopo la Brexit. Il referendum ha cambiato i rapporti?

«La Gran Bretagna è stata una potenza imperiale. Grazie a Dio non ha più le risorse per colonizzare nessuno. E mentre acquisisce lo status di un nano, di una piccola e disorientata nazione insulare che soffre di sbornia coloniale, il resto del mondo non si ferma ad aspettare. La storia è piena di ex potenze diventate insignificanti, consumate dalla meschinità e dal bigottismo».

La Cina è invece il primo partner commerciale dell’Africa e ha assicurato anche collaborazione militare. Si rischia una forma di «neocolonialismo»?

«Il razzismo verso la popolazione nera ingolfa diverse parti del mondo, dunque l’Africa deve trovare in sé le risorse per sollevarsi. La più grande sfida è aprirsi a sé stessa, trasformarsi in uno spazio di scambio e circolazione, eliminando i vecchi confini coloniali. Per farlo è importante costruire le infrastrutture. La Cina è l’unico Paese al mondo disposto a contribuire con massicci investimenti in strade, autostrade, ferrovie. E questo ovviamente è vantaggioso per il nostro continente. La Cina ha capito che, a medio e lungo termine, la sua ascesa verso l’egemonia mondiale dipenderà dall’accesso alla ricchezza dell’Africa. Da un punto di vista geopolitico, uno dei cambiamenti chiave del XXI secolo sarà che l’Africa diventerà gradualmente una questione cinese, proprio come la Cina diventerà una questione africana».

Donald Trump ha annunciato una riduzione delle truppe nel vostro continente. Le relazioni Africa-Stati Uniti sono cambiate sotto la sua presidenza?

«C’è una diaspora africana potenzialmente influente negli Usa ma, sia durante la guerra fredda sia con Obama, l’America è stata un giocatore insignificante nel nostro continente. Ne ha un’idea antiquata e distorta».

A proposito di diaspora, lei propone la nozione di «afropolitismo» al posto di quella di «afrocentrismo». Che cosa vuol dire in termini pratici?

«Ci sono varie rappresentazioni dell’Africa. Alcune, forgiate nel crogiolo della schiavitù, della conquista coloniale, del brutale sfruttamento, hanno cancellato l’Africa: un continente fuori dalla storia. Ecco, abbiamo perso troppo tempo a confutare questi punti di vista. Non c’è un angolo del mondo che non abbia la sua parte di presenza africana e, allo stesso tempo, non c’è un angolo di Africa in cui il mondo e l’eredità dei non africani non sia presente. Il nostro è un continente mondiale piuttosto che tagliato fuori, è la quintessenza del movimento e della circolazione. Questo è ciò che ho chiamato afropolitismo. Ed è dal nuovo punto di vista del pianeta che dobbiamo riprogettare il discorso sull’Africa».

Non è utopistico oggi che si rialzano i muri?

«Non abbiamo altra scelta che creare un contro immaginario. Eravamo abituati a pensare in termini di locale, nazione-stato, regione. Ma, nonostante l’ attuale spinta a risorgere, alla fine lo Stato nazionale diventerà inadeguato a risolvere i problemi. Un numero senza precedenti di esseri umani è sempre più coinvolto all’interno di tecnologie complesse, su scala planetaria. La questione chiave sarà piuttosto se la nostra civiltà tecnologica, energetica e ad alta intensità di carbonio sarà la migliore garanzia per la sopravvivenza. In questo contesto, è il futuro stesso della vita, della Terra, dell’uomo e di altre specie a diventare il centro di ogni re-immaginazione delle relazioni internazionali, della democrazia, dell’umano nei nostri tempi».

Articolo di Alessia RASTRELLI, apparso su La Lettura del 18 novembre 2018 

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