USCIRE DALLA GABBIA

USCIRE DALLA GABBIA

 

E’ successo che una banale giornata si è trasformata, per insospettate coincidenze, nel preannuncio della serenità. Camminavo sotto il portico, qualche svogliato fiocco di neve scendeva del cielo grigio, quando alcuni bambini mi sono venuti incontro, gli occhi spalancati di curiosità, il viso aperto e sorridente. E’ seguito un breve dialogo, fatto più di sguardi che di parole. Non serve il buon giorno, che pure qualcuno di loro mormora, non serve quando l’incontro diventa subito confidente attesa. I ragazzi e io siamo a nostro agio, come se ci conoscessimo da sempre. Sono una scolaresca in gita nella città, 6 o 8 anni d’età.  “Dov’è il museo…?”, mi chiede una bambina, il visetto incorniciato da un berretto di lana. Ma non sembra nemmeno una domanda, meglio, ho il sospetto che sia solo un pretesto per parlare, per stare lì in compagnia, serenamente, curiosi gli uni dell’altro. Anche la maestra che si soffia il naso vicino a noi ha nello sguardo una pacata soddisfazione, mentre guarda i suoi alunni. “Complimenti”, le dico. Non aggiungo per che cosa, non serve, mostra di avere capito che parlo dell’atteggiamento di apertura dei piccoli, frutto evidentemente di un lavoro paziente, in cui l’educazione, più che al lessico che disciplina al gruppo o all’abitudine gregaria, ha puntato a suscitare nei piccoli quella attitudine, insolita e preziosa, quella abilità che consiste nel sapere guardare il mondo con uno sguardo semplice, diretto, privo di preconcetti o paure, e perciò nuovo, almeno per noi adulti. Sguardo che sempre noi definiamo puerile, inconsapevole e inesperto, quando è l’esatto contrario.

I bimbi proseguono, mi lasciano, e solo ora mi rendo conto che, per qualche secondo, ho avuto a fianco, in quelle figure diventate una sola immagine, animate insieme di vita e di fervore, l’apparizione di cosa potremmo diventare se solo riuscissimo a liberare la nostra mente dalla gabbia in cui la richiudiamo, dato che siamo ciò che pensiamo.

Quel breve dialogo era stata poesia, emersa del caos indeterminato che è la nostra vita, per illuminare di bellezza il mondo e ordinare il tutto. Mi torna in mente Platone, il suo ammonimento che la bellezza non è un fatto estetico, ma spirituale. E che dove c’è bellezza lì c’è la Verità.

Ma per capirlo veramente, per ritrovare pungente il desiderio di emancipazione, ho dovuto incontrare quei bambini, inconsapevoli di potere risvegliare un bagliore di libertà anche in un’anima impigrita com’è la mia.

Le immagini sono opere di Friedensreich Hundertwasser, pittore austriaco (1928-2000)

COMANDARE IN CASA PROPRIA! MA QUALE?

COMANDARE IN CASA PROPRIA! MA QUALE?

LA VERA SOVRANITA? E’QUELLA EUROPEA- SECONDO MARIO DRAGHI INDIPENDENZA NON EQUIVALE A SOVRANITA’. ANZI, A VOLTE, E’ L’ESATTO CONTRARIO. MEGLIO UNA SOVRANITA’ CONDIVISA CHE UNA SOVRANITA’ INESISTENTE-  SOLO INSIEME SI VINCONO LE SFIDE GEOPOLITICHE DELLA GLOBALIZZAZIONE, CON UN CORAGGIOSO E RADICALE CAMBIAMENTO DELLA UE. COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

 

Alcuni giorni ero a Bologna. Caso ha voluto che quella mattina Mario Draghi venisse insignito di laurea ad onorem dall’ateneo bolognese. La cerimonia era riservata ai soli accademici, ma sono riuscito ad entrare.

Accolto fra le navate della sala di Santa Lucia con una standing ovation, Draghi ha magistralmente spiegato come «la tensione tra i benefici dell’integrazione e i costi associati con la perdita di sovranità nazionale è per molti aspetti e specialmente nel caso dei Paesi europei, solo apparente». In realtà in molte aree l’Unione europea restituisce ai suoi Paesi la sovranità nazionale che avrebbero oggi altrimenti perso, ha dichiarato. «Porsi al di fuori dell’Ue può sì condurre a maggior indipendenza nelle politiche economiche, ma non necessariamente a una maggiore sovranità. Lo stesso argomento vale per l’appartenenza alla moneta unica».

«Nel complesso», ha dichiarato il governatore della Bce, «i cittadini europei apprezzano i benefici dell’integrazione economica che l’Unione europea ha prodotto e da anni considerano come il suo maggior successo la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi, cioè il mercato unico». «Il 75% dei cittadini è a favore dell’euro», ha sottolineato Draghi. Mentre, ha avvertito, è calata «dal 57% nel 2007 al 42% di oggi la considerazione che i cittadini europei hanno delle istituzioni dell’Unione». Il banchiere ha fatto notare che «questo declino è parte di un fenomeno più generale che vede diminuire la fiducia in tutte le istituzioni pubbliche». E «quella verso i governi e i parlamenti nazionali oggi si attesta appena al 35%», ha sottolineato Draghi.

Quello che serve, secondo Draghi, è «unità, equità e soprattutto un metodo di far politica in Europa» per «recuperare quell’unità di visione e di azione che può tenere insieme Stati così diversi». «In un mondo in cui tra le grandi potenze ogni punto di contatto è sempre più un punto di frizione, le sfide esterne all’esistenza dell’Unione europea si fanno sempre più minacciose».

«Si riscoprono antiche idee che hanno plasmato gran parte della storia», ha detto Draghi, «per cui la prosperità degli uni non può essere raggiunta senza la miseria di altri; organizzazioni internazionali o sovranazionali perdono di interesse come luoghi di negoziato e di indirizzo per soluzioni di compromesso; l’affermazione dell’io, dell’identità, diviene il primo requisito di ogni politica». «In questo mondo la libertà e la pace divengono accessori dispensabili all’occorrenza».

Il presidente della Bce Draghi ha spiegato: «La discrezionalità e la flessibilità nell’uso degli strumenti hanno contribuito ad accrescere la credibilità della Bce. Flessibilità e credibilità sono state complementari». «Pochi avrebbero potuto prevedere le sfide che la Bce avrebbe dovuto affrontare nella sua breve esistenza. Ma la discrezionalità di azione prevista dal Trattato ha permesso l’utilizzo di strumenti prima mai impiegati al fine di mantenere il tasso di inflazione in linea con il nostro obbiettivo nel medio termine. Né una politica monetaria basata su una regola fissa, né l’utilizzo dei soli strumenti utilizzati in passato, sarebbero stati sufficienti». Tra le sfide future che deve affrontare la Ue vi è quella di «rispondere alla percezione che manchi di equità: tra Paesi e classi sociali. Occorre sentire, prima di tutto, poi agire e spiegare».

«Un adattamento a cui si è finora opposta resistenza perché le inevitabili difficoltà politiche nazionali sembravano sempre essere superiori alla sua necessità», ha sottolineato Draghi, spiegando che si tratta di «una riluttanza che ha generato incertezza sulle capacità delle istituzioni di rispondere agli eventi e ha nutrito la voce di coloro che queste istituzioni vogliono abbattere». Per cui «non ci devono essere equivoci: questo adattamento dovrà essere profondo, quanto lo sono i fenomeni che hanno rivelato la fragilità dell’ordine esistente e vasto quanto lo sono le dimensioni di un ordine geopolitico che va cambiando in senso non favorevole allEuropa»

Fin qui il presidente della BCE, che ha concluso: “Vorrei ringraziare per il calore di questo applauso, per le bellissime parole che mi sono state rivolte, per l’onore che mi viene fatto oggi con questa laurea, ma anche per aver raccolto qui oggi, in questa aula magna così tanti amici di una vita: guardando, scorrendo volti, li vedo e li riconosco, sorrido, mi sorridono… vi ringrazio”, così Draghi si è rivolto alla platea di Santa Lucia. Presenti l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi; il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli; il presidente di Confindustria Emilia, Alberto Vacchi; l’ex presidente di Borsa Italiana, Angelo Tantazzi e il presidente di Unipol, Pierluigi Stefanini”.

Vecchi amici, i soliti, che certo non dovevano essere convinti da Draghi sui mali del sovranismo. Seguono cerimoniosi saluti, qualche tono frivolo, inevitabile in queste cerimonie. Ci sono anche le signore. Intorno a me vedo i personaggi di un museo delle cere, con i visi sciupati, le occhiaie, la calvizie incipiente. I segni inesorabili del tempo. Anche Draghi, veterano commis d’etat, porta i segni rugosi di un peso che viene da lontano. Viso che diventa un emblema, esposto come una medaglia. Chi gli sta attorno sono uomini di potere, ora al tramonto, ma pervicaci presenzialisti, seppure ancora scossi, anzi indignati dalla presa di potere dello steward campano e del trucido milanese. Le belle parole di Draghi non usciranno da quest’aula. Non ne convinceranno uno di più, non sposteranno un voto. Peccato, i twitter sono assai più efficaci, si voglia o meno. E la differenza conta in un mondo in cui uno vale uno. Almeno nella “gabina” elettorale. Un mondo in cui non serve ragionare, ma farsi un selfie. Poi i laureati (peggio che peggio onoris causa), gli esperti, gli specialisti, i “professoroni” non valgono più niente. Anzi, “ci vogliono fregare”.  

Mentre esco, una zingara, con la sua lunga gonna e un corpetto sgargianti, mi chiede l’elemosina. Poco lontano vedo l’insegna di una banca tunisina, e sotto il portico un ristorante giapponese promette un sushi insuperabile. Nel bus che porta verso la stazione sono in netta minoranza etnica. Penso alle parole di Draghi. E mi dico che dobbiamo affrettarci, nel costruire la nuova Europa, ad insegnare a costoro che la democrazia non è il potere della maggioranza, ma il rispetto delle minoranze.

PRETI E PEDOFILIA

PRETI E PEDOFILIA

IL PAPA APRE IL SINODO DEDICATO ALLA PURIFICAZIONE DALLA PEDOFILIA: CURARE QUESTA GRAVE FERITA. VERITA’, CORAGGIO E CONCRETEZZA PER DEBELLARE QUESTO MALE CHE AFFLIGGE LA CHIESA E L’UMANITA’

 

BERGOGLIO

(ANSA) – “Chiedo allo Spirito Santo di sostenerci in questi giorni e di aiutarci a trasformare questo male in un’opportunità di consapevolezza e di purificazione”. Così il Papa nel suo intervento introduttivo ai lavori dell’Incontro su “La Protezione dei Minori nella Chiesa”, apertosi stamane in Vaticano. “La Vergine Maria ci illumini per cercare di curare le gravi ferite che lo scandalo della pedofilia ha causato sia nei piccoli sia nei credenti”, ha aggiunto il Pontefice, invitando ad “ascoltare il grido dei piccoli che chiedono giustizia”.

“Dinanzi alla piaga degli abusi sessuali perpetrati da uomini di Chiesa a danno dei minori, ho pensato di interpellare voi, patriarchi, cardinali, arcivescovi, vescovi, superiori religiosi e responsabili, affinché tutti insieme ci mettiamo in ascolto dello Spirito Santo e con docilità alla Sua guida ascoltiamo il grido dei piccoli che chiedono giustizia”, ha detto papa Francesco. “Grava sul nostro incontro il peso della responsabilità pastorale ed ecclesiale che ci obbliga a discutere insieme, in maniera sinodale, sincera e approfondita su come affrontare questo male che affligge la Chiesa e l’umanità”, ha proseguito.

INCHIESTA SUI PRETI PEDOFILI ALL ISTITUTO ANTONIO PROVOLO“Il santo Popolo di Dio ci guarda e attende da noi non semplici e scontate condanne, ma misure concrete ed efficaci da predisporre – ha aggiunto -. Iniziamo, dunque, il nostro percorso armati della fede e dello spirito di massima parresia, di coraggio e concretezza. Ci vuole concretezza”. “Come sussidio – ha detto ancora -, mi permetto di condividere con voi alcuni importanti criteri, formulati dalle diverse Commissioni e Conferenze Episcopali. Sono delle linee-guida per aiutare la nostra riflessione che vi verranno consegnate. Sono un semplice punto di partenza”.

II summit ha fatto affiorare il grande bisogno di trasparenza, coerenza e rispettabilità. Sotto esame c’ è l’ intera classe dirigente dai vescovi ai cardinali che dovrà adeguarsi ai nuovi standard: di sicuro non sono più quelli elastici e possibilisti di un tempo, dove il concetto della misericordia finiva per coprire corresponsabilità e insabbiamenti. Stavolta il passaggio è rigoroso e totale. Bisogna solo capire quante altre teste dovrà far saltare il Papa.

(Tratto dall’articolo di Franca Giansoldati per il Messaggero)

Il Papa ha quindi ringraziato la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, la Congregazione per la Dottrina della Fede e i membri del Comitato organizzativo “per l’eccellente lavoro svolto con grande impegno nel preparare questo incontro. Grazie tante!”. Infine, ha concluso, “chiedo allo Spirito Santo di sostenerci in questi giorni e di aiutarci a trasformare questo male in un’opportunità di consapevolezza e di purificazione. La Vergine Maria ci illumini per cercare di curare le gravi ferite che lo scandalo della pedofilia ha causato sia nei piccoli sia nei credenti”.

 

Il tema continua a suscitare apre critiche e divisioni nella Chiesa, e non sarà faciIe ricomporre le diverse posizioni. I cardinali Walter Brandmüller e Raymond Leo Burke  in una lettera aperta ai presidenti delle Conferenze episcopali non usano mezze misure per affermare che il summit sugli abusi non basta. “Il mondo cattolico – scrivono i due cardinali – è disorientato e si pone una domanda angosciante: dove sta andando la Chiesa? Di fronte alla deriva in atto, sembra che il problema si riduca a quello degli abusi dei minori, un orribile crimine, specialmente quando perpetrato da un sacerdote, che però è solo parte di una crisi ben più vasta. La piaga dell’agenda omosessuale è diffusa all’interno della Chiesa, promossa da reti organizzate e protetta da un clima di complicità e omertà. Le radici di questo fenomeno evidentemente stanno in quell’atmosfera di materialismo, di relativismo e di edonismo, in cui l’esistenza di una legge morale assoluta, cioè senza eccezioni, è messa apertamente in discussione”.

 

UOVO

UOVO

LEZIONE SU COME FUNZIONA L’OBBEDIENZA DELLE MASSE SU INTERNET PARTENDO DA UN UOVO CRUDO DA 40 MILIONI DI LIKE

 

Un uovo. Semplice, crudo, su sfondo bianco, senza una ragione o un perché, ha ottenuto nei giorni scorsi quaranta milioni e rotti di like su Instagram. E’ “piaciuto” a gente in ogni latitudine e longitudine del globo, persone che hanno speso una parte, piccola per la verità, della loro vita, per esprimere il loro “mi piace”, a un uovo. Il tutto per battere il vecchio record detenuto, con diciotto milioni di “like” da una foto di una certa Kylie Jenner e della neonata figlia Stormi. Devo confessare che non so bene chi siano né l’una né l’altra. Ma questo, me ne rendo conto, è un problema mio che sono di mezz’età, direbbero i miei figli adolescenti. Acqua passata, comunque, visto che ormai la nuova star di Instgram è un uovo. 
E questa cosa a dire il vero è piuttosto interessante per motivi diversi: innanzitutto, perché ci aiuta a capire il peso vero di un “like” su Instagram (o qualsiasi altro social, Twitter, Facebook, etc.) come misura affidabile della popolarità, del valore, della rilevanza, dell’importanza, etc. di qualunque cosa venga postata e “likata” sui social. Sappiatelo, idoli del calcio, della musica, influencer o ministri della Repubblica, voi, che con queste modalità effimere e volubili ci imponete la vostra macchina di propaganda e così misurate e ostentate il vostro valore, che niente, proprio niente potete contro un uovo, semplice, crudo, su sfondo bianco.

Lui è, secondo questa metrica, meglio di voi, quarantacinque milioni di volte meglio di voi, di qualunque cosa facciate, diciate, postiate. Se questa questione non vi sembrasse abbastanza seria, ce n’è un’altra più seria ancora. Questa ha a che fare con la ragione per cui quarantacinque milioni di persone, ora che leggete saranno anche di più, hanno sentito la necessità di mettere il loro “like” all’uovo. La risposta è tanto semplice quanto disarmante: perché qualcuno, non si sa bene chi, glielo ha chiesto. Mettete un “like” su questa immagine così cerchiamo di battere il record mondiale di “like” di Kylie Jenner e della figlia Stormi. E la gente ha ubbidito, perché la gente obbedisce. Facciamo tutti, molto più spesso di quanto ci piace credere, ciò che gli altri ci

dicono di fare.

Con alcuni miei colleghi abbiamo recentemente condotto un esperimento a riguardo. Abbiamo arruolato novanta volontari e a ciascuno di essi abbiamo assegnato cinquanta palline. Ogni partecipante poteva mettere le palline in due contenitori, uno blu e uno giallo. Per ogni pallina messa nel contenitore blu ogni partecipante avrebbe ottenuto 2 punti, mentre per ogni pallina messa nel contenitore giallo ne avrebbe guadagnato 4. I punti sarebbero poi stati convertiti in denaro, denaro vero, sonante; più punti più denaro. Ogni partecipante poteva distribuire le palline a suo piacimento, senza vincoli di sorta. Semplicemente le istruzioni dell’esperimento divano ad un certo punto: “la regola è quella di mettere le palline nel contenitore blu”. Una regola senza nessun senso particolare, che nessuno avrebbe fatto rispettare o la cui violazione nessuno avrebbe né verificato, né tantomeno sanzionato. Niente di più.

L’esperimento, svolto in condizione di totale anonimato, ha mostrato in maniera inequivocabile la nostra naturale e inquietante tendenza a seguire le norme, anche quelle senza nessun senso, perfino quando queste sono costose. Ciò che abbiamo visto è che se ti dico di mettere le palline nel contenitore blu, anche se ci perdi, tu lo fai, senza discutere, e basta. Di tutte le palline messe a disposizione dei partecipanti al nostro esperimento, infatti, il 67% sono state messe nel contenitore blu. Tutte persone, queste, che pur di seguire un suggerimento uscito da non si sa dove e non si sa perché, hanno rinunciato a metà dei loro potenziali guadagni.

In realtà questo risultato ce lo aspettavamo. La psicologia sociale ha documentato una moltitudine di casi simili. Il più famoso, tristemente famoso, è certamente il cosiddetto Milgram experiment (Milgram, S. 1963. “Behavioral Study of Obedience”. Journal of Abnormal and Social Psychology. 67(4), pp. 371–8). Attraverso una serie di prove, all’inizio degli anni Sessanta lo psicologo dell’università di Yale, Stanley Milgram, si prefisse l’obiettivo di misurare oggettivamente le determinanti della disponibilità all’obbedienza. Arruolò diversi volontari e li mise nelle condizioni di infliggere scosse elettriche a quelli che loro pensavano essere altri partecipanti allo studio.

In una stanza attigua venivano situati degli attori che rispondevano attraverso un microfono a una serie di domande fatte dai partecipanti all’esperimento; questi, dopo ogni risposta errata, erano stati istruiti dallo sperimentatore, uno scienziato in camice bianco, a infliggere una scossa elettrica di intensità crescente ai partecipanti situati nell’altra stanza. Le domande si susseguivano, così come le scosse, via via più potenti, fino al punto in cui alcuni degli attori, debitamente istruiti, emettevano grida di dolore, chiedevano che l’esperimento venisse interrotto e a un certo punto smettevano di dare segni vitali. Ma niente, i partecipanti, su indicazione dello sperimentatore in camice bianco, continuavano a impartire loro la punizione. Anche quando dall’altra parte del vetro, ormai non giungeva più nessun lamento, solo silenzio, segno di uno svenimento o peggio. Alcuni dei partecipanti continuavano a fare il loro dovere e somministravano la scossa elettrica, nonostante la preoccupante mancanza di qualunque reazione proveniente dalla stanza accanto.

Milgram descrisse, dieci anni dopo, la genesi del suo studio, direttamente ispirato dalla vicenda del criminale nazista Adolf Eichmann, in un libro diventato famoso, intitolato “Obedience to Authority; An Experimental View”, nel quale metteva in evidenza i vari fattori scatenanti di una tale disponibilità alla cieca obbedienza: tra questi la legittimazione attribuita al ruolo dello sperimentatore, la voce stentorea dello scienziato, l’autorità promanante dalla sua figura, la sua divisa, segno di autorevolezza e potere.

Quarantacinque milioni di like alla foto di un uovo, solo perché qualcuno lo ha chiesto. Attenzione, perché la gente è disposta a fare e a credere ciò che gli viene chiesto di fare e di credere, molto più facilmente e frequentemente di quanto siamo disposti ad ammettere. Cinicamente, senza retorica, la scienza ci dice che siamo dei creduloni. Mettere un “like” e molto altro, come la storia ci insegna, siamo disposti a fare se qualcuno ce lo chiede, soprattutto se lo fa con toni perentori e magari vestendo una, o più divise.

Articolo di Vittorio Pelligra per Il Sole 24 Ore

PER L’ANTICA SCALA

PER L’ANTICA SCALA

 

UNA MOSTRA ALLA SCALA DI MILANO RACCONTA I 241 ANNI DEL PIU’ PRESTIGIOSO TEATRO ITALIANO, INTRECCIATI CON  LA STORIA DELLA CITTA’ E DELL’ITALIA- MUTAMENTI SOCIALI E SVILUPPO DELLA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELLA  MACCHINA TEATRALE. ORAMAI PROSSIMO L’AMPLIAMENTO IN VIA VERDI.

Alcuni anni fa, con un amico, ho visto la Scala dal di dentro, ancora ne conservo l’emozione. E’ stato un tuffo nel passato. La mastodontica macchina scenica che sprofondava nel buio, sotto il palco, con i suoi misteriosi meccanismi per il sollevamento di interi allestimenti scenici.Questa sera, magari, I Puritani, domani, via la scena che rimaneva intatta per un’altra rappresentazione, per far posto, magari, all’Aida o alla Carmen. Nelle tenebrose profondità sotto il palco, forse ancora restano i ruderi della anticha chiesa di S. Maria alla Scala, che venne appunto demolita nel 1776 per far posto al teatro. Ho immaginato la platea, ora vuota, gremita da una chiassosa schiera di cortigiani e melomani, in piedi e in piena luce perchè allora la platea era destinata a pista da ballo. Solo le famiglie nobili, i palchettisti, avevano posti riservati. Mentre ci aggiriamo nella penombra dei corridoi che portano ai palchi, e mentre mi sporgo verso la platea, l’amico mi trascina per un braccio verso un angusto localino adiacente: è un cucinotto, mi dice. Perchè una volta i signori ricevevano gli amici e, fra un atto e l’altro, mangiavano e bevevano, spensierati. La prima opera fu quella di Antonio Salieri, compositore allora in voga. Si chiamava L’Europa riconosciuta. Titolo che oggi molti cambierebbero in Europa disconosciuta, o no?

   

 

 

Il 3 agosto 1778 si inaugurava a Milano il Teatro La Scala. L’aveva disegnato in poco meno di due anni Giuseppe Piermarini, il promettente allievo di Luigi Vanvitelli, autore dell’ambiziosa reggia dei Borbone a Caserta. In scena L’Europa riconosciuta di Antonio Salieri, non a caso ripresentata nel 2004 per la riapertura del teatro dopo due anni di lavori di rinnovamento (quanti ne aveva impiegati lo stesso Piermarini) per mano dell’architetto ticinese Mario Botta. 
Ora una mostra allestita ai piani superiori del Museo della Scala racconta i primi 240 anni della storia dell’edificio, che – pur essendo sotto gli occhi di tutti – è paradossalmente meno conosciuta della storia delle imprese canore (e mondane) dei tantissimi artisti e direttori d’orchestra che ne hanno costruito il prestigio musicale nel mondo. Basta dire Scala e, ad esempio, il pensiero va subito a Maria Callas. Pochi sanno però che «il primo Teatro del Mondo», come lo definì in un impeto di entusiasmo lo scrittore francese Stendhal, doveva il suo nome a un’altra “Maria”, ovvero la chiesa di Santa Maria della Scala, di cui prese il posto dopo una rapida demolizione. 
Quando occupò il suo posto nel centro della città, l’impressione fu grande e non solo per i milanesi. Colpita dalla magia della sala con la caratteristica corona di palchi, la pittrice francese Élisabeth-Louise Vigée Le Brun esclamò: «È immensa, non credo ne esista una più grande». Nasceva così il mito della “magnifica fabbrica”, divulgato anche dal moltiplicarsi delle incisioni dell’esterno e della sala: un prestigioso “fardello” che ha pesato per due secoli sulle sue sorti costringendo il teatro a rincorre la costante ambizione di rimanere «il primo teatro del mondo». 

Perché La Scala è un grande camaleonte, che in 240 anni ha cambiato spesso la sua pelle: sia quella con cui si presenta alla città, sia quella interna che offre agli spettatori. Nell’immaginario della città, rimane sempre il Teatro del Piermarini, l’austera espressione neoclassica di una società di nobili e imperatori che credeva nella “magnificenza civile” delle sue istituzioni collettive. Eppure oggi la “magnifica fabbrica” non è più solo quella esaltata da Stendhal, anche se rimane la sua ambizione di rimanere “il primo teatro del mondo”.
Ma per far questo ha avuto bisogno di crescere, di stare al passo dei tempi, di aggiornare le sue strutture ai cambiamenti delle tecniche, anche a costo di nascondere dietro la continuità del ricordo una serie continua e infinita di piccoli, grandi e anche radicali rimaneggiamenti, quasi fosse essa stessa una scenografia collettiva alla quale ogni generazione ha dato il proprio contributo per adeguarsi alle mutazioni dei costumi, delle sensibilità e del gusto di un pubblico ormai globale. 
Sì, perché, da subito, molti furono i cambiamenti adottati dal teatro, sia all’interno che all’esterno, a partire da quando nel 1813 Innocenzo Domenico Giusti e Luigi Canonica costruirono il fronte del teatro lungo via Verdi, e ampliarono di 16 metri la profondità del palcoscenico. Ma soprattutto quando nel 1856 l’imperatore Francesco Giuseppe decretò l’abbattimento degli edifici per dare vita a una piazza che, con le demolizioni del quartiere addossato a Palazzo Marino, e la costruzione nel 1911 della Banca Commerciale, sarebbe diventata l’attuale piazza della Scala. 
Come scrisse Luigi Lorenzo Secchi, ingegnere capo della Scala per metà del XX secolo, «nel periodo di tempo che corre tra il 1821 ed il 1830, per opera diretta e per ideazione o ispirazione di Alessandro Sanquirico, architetto e scenografo, la grande sala del Piermarini subì consistenti rinnovamenti tanto che fu cambiato lo stile e l’aspetto di tutta la sala [che da azzurra divenne rossa], anche nell’illuminazione, che si era basata dapprima sull’uso di candele e poi di lampade ad olio». Dal 1932 il Secchi rinnovò tutti gli interni: ideò la distribuzione verticale del teatro realizzando le scale degli specchi, il primo palcoscenico a pannelli mobili, il foyer di ingresso e i ridotti dei palchi e delle gallerie, che fecero assumere alla Scala quell’ambientazione stile Nuovo Impero che ancor oggi rimane il suo carattere distintivo. 
Ma già prima di lui, un altro ingegnere, Cesare Albertini, in occasione della trasformazione del teatro in Ente autonomo, aveva rivoluzionato il palcoscenico – il vero cuore di tutta la macchina scenica – al punto di poter dire: «del vecchio edificio può dirsi che non sia sopravvissuta che la sala». 
È stato più rispettoso Mario Botta quando nel 2000 si è applicato con l’ingegner Franco Malgrande a ripensare ancora una volta la macchina delle scene, realizzando quella torre di 38 metri che assieme al volume ovale della sala con i camerini proiettava per la prima volta all’esterno il continuo lavorìo di modifiche sino ad allora mantenuto nel “segreto” dell’interno. Per quanto paradossale, bisogna infatti immaginare il teatro come un iceberg di cui solo un terzo – la parte emergente – è visibile da tutti, mentre il resto della sua massa oscura “galleggia” sotto il livello dell’acqua passando inosservata. Ma è proprio qui, in questa parte misteriosa e celata dietro la cortina del sipario che le modifiche sono state più radicali, per rendere più esteso il palcoscenico, più performanti macchine e attrezzature, più sicuri gli spazi di lavoro e più confortevoli le sale di prova. 
Come ogni boîte à merveilles, La Scala è una macchina per incantesimi che ha bisogno di adeguare e potenziare i suoi meccanismi per poter perpetuare l’incanto e lo stupore dello spettacolo. Dunque la sfida non è finita, anzi è stata rilanciata come vuole annunciare questa mostra, il cui scopo è proprio raccontare le trasformazioni passate e future. Con le immagini e i testi che scorrono sulle pareti del Museo teatrale, e con un video curato da Francesca Molteni dove i fili della storia e delle cronache si intrecciano in una pièce di grande effetto.
La mostra si chiude sul futuro e la storia si fa scommessa perché oggi, sul fianco di via Verdi, si è aperto un nuovo cantiere: anche in questo caso si tratta di dare una risposta architettonica al potenziamento ingegneristico dei servizi e delle attrezzature sceniche. Anche in questo caso, Mario Botta ha sviluppato il tema della torre, evocativo di un’erta immagine di Milano medievale e moderna al tempo stesso, come ricorda quell’autentico monumento alla contemporaneità che è la Torre Velasca. Come per la Torre scenica del 2004, si scaverà diciotto metri al di sotto del suolo per raggiungere poi un’altezza complessiva di circa 36 metri fuori terra. Mentre il palcoscenico diventerà ancora più profondo raggiungendo la misura record di 70 metri, la Torre ospiterà la sala prove alta 14 metri per la musica, gli spogliatoi e gli uffici, in modo da far rientrare in sede le funzioni attualmente dislocate altrove. Sulla sommità ci sarà la sala prova per il balletto: questa sarà la turbo-Scala del 2020.

Le foto che illustrano l’articolo sono di Andrea Martiradonna

La magnifica fabbrica: 240 anni del Teatro alla Scala da Piermarini a Botta a cura di Fulvio Irace e Pierluigi PanzaDal 04 Dicembre 2018 al 30 Aprile 2019 Milano, Museo Teatrale alla Scala
Biglietti: L’accesso alla mostra è compreso nel biglietto d’ingresso al Museo
Info: +39 02 88797473
museoscala@fondazionelascala.itwww.museoscala.org

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