FOREIGN FIGHTER

FOREIGN FIGHTER

 

STESSA GUERRA, STESSO FINE?- QUALI SONO LE MOTIVAZIONI CHE SPINGONO DEI GIOVANI ANTAGONISTI IN ITALIA AD ARRUOLARSI IN UNA GUERRA LONTANA?- DAL CENTRO SOCIALE ALLA SIRIA PER FARE POLITICA CON ALTRI MEZZI? COSI’ LA PENSA GEPPETTO.

 

 

E’ passata in silenzio domenica 24 marzo la puntata di In mezz’ora, condotta da Lucia Annunziata.

In sala erano presenti Alessandro Orsetti, padre di Lorenzo, il foreign fighter, morto di recente in Siria.

Lorenzo Orsetti, a destra, con un compagno d’armi

La Annunziata è sembrata impacciata, ha imbastito a fatica un discorso di presentazione, e poi ha data la parola all’Orsetti che, con accenti commossi e ciglio un poco umido, ha restituito alla trasmissione il suo giusto afflato. 

Insieme a lui, quattro italiani da poco rientrati in Italia, dopo essere stati per qualche tempo arruolati nelle file curde nella guerra contro l’Isis. Facce serie, quasi cupe, sguardo duro, volto chino sulla tavola. Eddi Marcucci, una giovane sulla trentina, lunghi capelli scuri su un viso affilato, inespressivo, ha un tono di voce secco, quasi atono: in sintesi il suo gesto aveva un obiettivo: dimostrare che alla violenza e alla sopraffazione una possibilità diversa c’è, oltre a quella di stare inerti a guardare. Fabrizio Maniero che le sta accanto, quando è il suo turno sembra ridestarsi da mesti pensieri: racconta che è stato arruolato in una unità di difesa del popolo, che ha partecipato a cinque azioni di guerra, è molto contrariato per l’accoglienza avuta al suo ritorno da parte della polizia e della giustizia italiana. Davide Grasso è di Cuneo, laureato, aspetto serio, asciutto nell’eloquio. E’ incredulo di come possa essere stato considerato socialmente pericoloso dalla autorità italiane solo per essere stato a combattere dalla parte giusta, senza infrangere nessuna legge.

Jacopo Bindi di professione fa il fisico, non ha combattuto sul campo, in prima linea, anzi non ha abbracciato proprio le armi. Pare di comprendere dalle poche parole che dice che la sua sia stata una funzione di supporto, logistica e organizzativa. La molla che lo ha spinto ad arruolarsi è stata la strage del novembre del 2015 al Bataclan di Parigi.

Verso la conclusione, è la stessa Annunciata a fornire alle rimostranze dei ragazzi una matrice comune: tutti e quattro sono provenienti dai centri sociali. Le loro scelte hanno trovato nell’ estrema sinistra antagonista il terreno sul quale crescere. La Annunziata non ha però chiesto loro da quali centri sociali provenivano. Perché non tutti i centri sono come quelli che Luce Rocca definiva in un articolo apparso sul Tempo di Roma:

Anacronistici ma violenti. Devastano le città, le vetrine dei negozi e quelle delle banche. Picchiano duro, infieriscono sui “nemici”, impediscono di parlare. Scendono in piazza rabbiosi, lanciano molotov e bombe-carta. Imbracciano mazze e danno fuoco alle auto. Picchiano i poliziotti nascondendo il volto dietro il passamontagna. Finiscono spesso sotto processo, ma non mollano. Riscendendo per le vie con la loro brutalità. Sono i “centri sociali” più pericolosi sparsi in tutta Italia che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di inaudite violenze.

Fino a che punto la qualifica di soggetti socialmente pericolosi, secondo le attuali norme di pubblica sicurezza, può convivere con quella di combattente?  Può un combattente, spinto da nobili propositi, essere considerato in patria soggetto socialmente pericoloso? Sono perché sa usare le armi?, si chiede uno dei quattro.Trovarsi a combattere dalla parte, considerata giusta dai paesi occidentali e, quindi, dall’Italia vuole dire qualcosa? 

Nello studio l’imbarazzo è stato ad un certo punto palpabile, ma la Annunziata non ha avuto il coraggio di affondare l’analisi, ponendosi e ponendo l’unico interrogativo possibile: la guerra in Siria (quella giusta) è stata per loro la prosecuzione in grande di quella (sbagliata) dei centri sociali antagonisti e violenti in Italia? Oppure no, in Italia come in Siria, fatte le debite e profonde differenze, il fine è per loro lo stesso, riportare giustizia e umanità dove non c’è?

 

SCARAFFIA

SCARAFFIA

 

 

Lucetta Scaraffia, la scrittrice: «Le donne per il Vaticano non esistono. La pedofilia? La Chiesa non ha mai affrontato la rivoluzione sessuale

Dopo il summit sulla pedofilia in Vaticano del febbraio scorso, le polemiche sul congresso mondiale sulla famiglia di domenica a Verona, ecco un’altra notizia che agita il mondo cattolico: la fondatrice della rivista femminile vaticana, l’inserto mensile dell’Osservatore Romano “Donne Chiesa Mondo”, Lucetta Scaraffia e il suo staff si sono dimessi dopo quella che dicono essere una campagna vaticana per screditarli e metterli “sotto il controllo diretto degli uomini”. In questo clima è interessante riproporre questa intervista a Lucetta Scaraffia, apparsa pochi mesi fa sul Corriere della Sera.

Al cancello della casa di vacanza, a Todi, è murata una piastrella che le ha regalato il regista Pupi Avati: «Vocatus atque non vocatus Deus aderit». Sono le parole dell’oracolo di Delfi — «Chiamato o non chiamato Dio verrà» — che Carl Gustav Jung fece scolpire sull’architrave della sua dimora di Küsnacht, leggibili anche sulla tomba dello psichiatra svizzero.

Nella vita di Lucetta Scaraffia, storica e scrittrice, Dio venne una domenica di marzo. «Vidi una folla radunata davanti a Santa Maria in Trastevere per il ritorno di un’icona della Madonna. Entrai. All’udire l’akathistos bizantino, l’antico inno dedicato alla Madre dell’altissimo, fui invasa dalla luce. Capii che Lui c’era». Benché non credente dal 1965 al 1985, non si può dire che quello sia stato il primo incontro con Dio: a 12 anni Scaraffia recitava dieci avemarie al giorno per non diventare suora e pregava Gesù per la conversione della zia Angela, una comunista che era stata l’amante di Gaetano Salvemini.

Ex atea, ex marxista, ex sessantottina, oggi è l’editorialista di punta dell’osservatore Romano e ne dirige il mensile Donne Chiesa Mondo. Si sussurra che papa Francesco presti molta attenzione alle opinioni della studiosa, spesso riprese da New York Times, Monde, Figaro, Libération. Elizabeth Barber, inviata del New Yorker, ha trascorso una settimana a casa sua per dedicarle un ritratto.Sposata con lo storico Ernesto Galli della Loggia, è fra le poche italiane che la Francia ha insignito del titolo di ufficiale della Legion d’onore

Chi è? Lucia Scaraffia è nata a Torino il 23 giugno 1948. Madre cattolica, padre massone. A 2 anni pretese di farsi chiamare Lucetta. Al liceo Parini di Milano era in classe con Claudia Beltramo Ceppi (caso «La Zanzara»). Nel 1969 diventò femminista. Ha insegnato storia contemporanea alla Sapienza di Roma. Dirige il mensile «Donne Chiesa Mondo» che esce con «L’osservatore Romano». Dal 2007 nel Comitato nazionale di bioetica. Autrice di una trentina di saggi, fra cui «Due in una carne» (Laterza), con Margherita Pelaja, su Chiesa e sessualità, e «Per una storia dell’eugenetica» (Morcelliana)

«La Croix» l’ha definita «la “féministe” du Vatican». Si riconosce?

«Non mi risulta che ce ne siano altre».

È ancora femminista?

«Certo, specie frequentando la Chiesa».

Luci e ombre del femminismo?

«Ha fatto sentire forti le donne. Ha sottovalutato la maternità».

Chi l’ha introdotta in Vaticano?

«Il direttore dell’osservatore Romano, Giovanni Maria Vian. Ci conosciamo da quasi trent’anni. Eravamo fra i pochi docenti cattolici dell’allora facoltà di Lettere della Sapienza».

Vian la assunse di testa sua?

«Seguì un’indicazione datagli da Benedetto XVI nel 2007, all’atto di nominarlo: “Vorrei più firme femminili”».

Chi vigila sull’ortodossia del mensile «Donne Chiesa Mondo»?

«Eeeh!». (Sospiro). «Tutti e nessuno. In Vaticano ci sono persino alcuni che fingono di non leggerlo. Non figuro nell’annuario pontificio. Il mio confessore, un gesuita, mi ha rincuorato: “Meglio così. Se fosse una carica istituzionale, brigherebbero per fregartela”».

La pagano, almeno?

«Solo per gli articoli che scrivo».

Ma le donne come sono viste al di là delle Mura leonine?

«Non sono viste. Non esistono».

Con le suore ridotte a colf per i preti?

«Già. Devono persino difendere le loro case generalizie dai vescovi, che vorrebbero portargliele via. Spesso si fanno aiutare dalle consorelle al servizio di alti prelati. La Chiesa funziona per protettorati. Vale anche per i sacerdoti».

È favorevole al sacerdozio femminile?

«No. L’uguaglianza si rivela nella differenza. E l’unica istituzione che può testimoniarlo è la Chiesa, perché siamo tutti figli di Dio e per questo tutti uguali».

Si sente una Giovanna d’arco, come la dipinse «Il Foglio»?

«Preferisco Caterina da Siena. A Roma prego sulla sua tomba, in Santa Maria della Minerva. Aiutami tu, la supplico».

Ha avuto occasione di confrontarsi con papa Bergoglio, qualche volta?

«Non mi pare corretto parlarne».

Mi sa che le tocca farlo, invece.

«Gli avevo mandato l’edizione spagnola del saggio Dall’ultimo banco, che ho scritto per Marsilio. Un giorno sono a un convegno della Congregazione per la dottrina della fede. Squilla il cellulare. Mi ordinano di spegnerlo, ma io rispondo lo stesso. “Sono papa Francesco. Volevo ringraziarla per il libro. Mi è piaciuto molto”. Balbetto: Santità, sono troppo emozionata… “Stia tranquilla. Dov’è in questo momento?”. Gli spiego dove mi trovo. E lui: “Porti a tutti i miei auguri di buon lavoro e dica loro di comprare e leggere il suo libro”».

Ma davvero al sinodo sulla famiglia l’hanno confinata nell’ultimo banco?

«Altroché. L’ultimo di una trentina di file. Accanto a me, alcuni coniugi invitati dal Vaticano. Poveri, con 12 figli, felici. Ma quando mai? Nella vita reale non è così! Alzano gli occhi al cielo… Buoni e finti. Coppie ammaestrate, con il marito a comandare. Non le sopporto».

Perché l’«amoris laetitia» di papa Francesco scaturita da due sinodi sulla famiglia ha suscitato i dubbi di quattro cardinali e 45 studiosi cattolici?

«Perché applica la misericordia alla realtà. Brandire la morale come una legge inflessibile significa non tenere conto di quanta sofferenza c’è dietro i divorzi e le separazioni. Al sinodo tutti parlavano esclusivamente di padri, madri e figli. Non sanno che milioni di donne sono costrette ad allevarsi da sole la prole».

Nell’esortazione apostolica Francesco denuncia il «rifiuto ideologico delle differenze tra i sessi». Lei che cosa pensa delle teorie gender?

«Penso che sia arrivato il tempo profetizzato da Gilbert Keith Chesterton: “Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”. La Chiesa è costretta a difendere verità lapalissiane».

Amore coniugale e amore omosessuale a suo avviso sono equiparabili?

«No. Il secondo non prevede la procreazione, se non trafficando con uteri e gameti, e spezza la catena fra generazioni».

Ma la Chiesa non avrà un problema irrisolto con la corporeità?

«Io la vedo soffocata dalla teologia, che le impedisce di conoscere la vita. Come può parlare del corpo se ignora l’altra metà del genere umano?».

Nel clero allignano molti pedofili?

«Purtroppo. La Chiesa non ha mai affrontato la rivoluzione sessuale infiltratasi al suo interno. Tanti preti si sono convinti che la castità sia una repressione apportatrice di nevrosi, per guarire le quali tutto è ammesso».

Contro questa deriva, Francesco propone preghiera e digiuno. Non è poco?

«Legga bene la sua “Lettera al popolo di Dio”. Invoca anche “tolleranza zero” contro chi compie o copre questi delitti».

Lei ha scritto che le denunce dei mass media aiutano a far luce sugli abusi.

«Siamo arrivati a questo punto. Mi spiace moltissimo dirlo, ma per vie interne non si riesce a stroncare il fenomeno».

Le gerarchie coprono gli scandali.

«Ma anche i laici, intimiditi, spesso tacciono anziché rivolgersi alla polizia».

L’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico a Washington, ha invitato Francesco a dimettersi per aver coperto dal 2013 gli abusi sessuali su seminaristi compiuti dal cardinale Theodore Mccarrick, che a luglio il Papa ha privato della porpora.

«Provo un dolore profondo di fronte a simili vicende e mi chiedo perché monsignor Viganò si sia rivolto alla stampa soltanto dopo cinque anni».

Non ha la sensazione che il numero dei sacerdoti omosessuali sia elevato?

«Nettissima. Troppi diventano preti per paura di confrontarsi con le donne».

Ai gay che diritti riconosce?

«Accetto le unioni civili, ma non i matrimoni, le maternità surrogate e le adozioni».

Mi risulta che un cardinale volesse stilare un documento vaticano sui vestiti discinti delle ragazze di oggi.

«È vero. Parliamo di un fine giurista. Pensava che l’abito dovesse connotare la donna cattolica».

Tanti preti si sono convinti che la castità sia una repressione che genera nevrosi, per guarire le quali tutto diventa ammissibile

Anche lei vede in giro troppe nudità?

«Più che altro siamo stati anestetizzati dalla pornografia soft della pubblicità».

A 50 anni di distanza ha ancora un senso l’«humanae vitae» di Paolo VI?

«Eccome. La pillola rovina la salute. Tant’è che oggi le ragazze usano più volentieri i metodi naturali, senza sapere che obbediscono a un’enciclica papale».

Vi ricorrono anche prima di sposarsi.

«Le coppie arrivano ai corsi prematrimoniali già con figli, c’è poco da fare. La Chiesa non riesce a convincere i giovani delle sue buone ragioni. Infatti la migliore l’ho letta in un libro di Erri De Luca».

E quale sarebbe?

«La fedeltà coniugale richiede allenamento. Un po’ sportiva però efficace».

Il ministro Lorenzo Fontana vuole ridiscutere la legge 194. Ha torto?

«Penso che dopo 40 anni una revisione occorra. Ma l’equazione peccato uguale reato è antistorica. L’aborto entrò nei codici penali con Napoleone. E non per ragioni morali: per la coscrizione obbligatoria. Alla Francia servivano soldati».

In Italia si arriverà all’eutanasia?

«Temo di sì. È la conseguenza dell’accanimento terapeutico dettato dalla medicina difensiva per evitare le denunce presentate dai parenti dei malati».

E la Chiesa a quel punto si adeguerà?

«Mai! Però l’alimentazione artificiale è sbagliata, perché può prolungare vite senza speranza. Al contrario l’idratazione va garantita per evitare la sofferenza».

Come mai sull’«osservatore» criticò i trapianti di organo a cuore battente?

«Non accetto i criteri di morte cerebrale introdotti mezzo secolo fa dall’harvard Medical School, una convenzione medica bisognosa di verifica, che ha a che fare con i soldi. Esiste un mercato clandestino degli organi, lo sanno tutti. È giusta una pratica che lo incentiva?».

Lei accetterebbe di morire piuttosto che subire un trapianto?

«Sì. Ma per vigliaccheria: la vita dei trapiantati, imbottiti di farmaci immunosoppressori antirigetto, è un inferno».

E se l’organo servisse a un suo caro?

(Lungo silenzio). «Non so rispondere»

Articolo di Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera

VIA DELLA MERCEDE

VIA DELLA MERCEDE

DOPO 30 ANNI TORNA IN LIBRERIA  A VIA DELLA MERCEDE C’ERA UN RAZZISTA, IL DIROMPENTE LIBRO DI MUGHINI SUL DIRETTORE DE “LA DIFESA DELLA RAZZA” TELESIO INTERLANDI – ‘PANORAMA’, IL SETTIMANALE PER CUI GIAMPIERO LAVORAVA, LO ACCUSÒ DI AVER “SFUMATO LE RAGIONI DEL FERVORE ARIANO E ANTISEMITA DI INTERLANDI”  – GLI ANTIFASCISTI DI PROFESSIONE GLIELO METTERANNO ANCORA IN CONTO?

 

giampiero mughini

Uscito una trentina di anni fa per la Rizzoli, A via della Mercede c’era un razzista, di Giampiero Mughini, torna ora in una più elegante veste grafica per Marsilio (253 pagine, 18 euro), accompagnata da una lunga nota introduttiva dell’autore stesso il cui titolo dice tutto: «Storia di un libro poco piacione».

Si trattava e si tratta- di un volume matrioska, più libri nascosti all’interno di ciò che formalmente li conteneva, la biografia di Telesio Interlandi, il più dimenticato e il più maledetto dei giornalisti italiani del Ventennio, il direttore di La difesa della razza, il quindicinale corifeo delle leggi razziali del 1938, il portavoce dell’antisemitismo più infame. Interlandi però era stato fra le due guerre anche il direttore di Tevere e di Quadrivio, quotidiano il primo, settimanale di arte e cultura il secondo, dove avevano collaborato le firme più brillanti dell’epoca, da Brancati a Moravia, da Pirandello a Soldati, da Cardarelli ad Alvaro, a Delfini.

RENZO DE FELICE

Lo storico Renzo De Felice

Interlandi però era stato anche un intellettuale appassionato di arte e di letteratura, amante di ogni avanguardia, difensore dell’architettura razionalista, traduttore dal russo di AleKsandr Blok e i suoi giornali, i libri da lui scritti (Pane bigio aveva inaugurato la carriera di editore di Leo Longanesi), la sua stessa persona erano stati parte viva di quella Roma che fra il caffè Aragno, cenacolo dell’intellighentia del tempo, il Teatro degli Indipendenti di Anton giulio Bragaglia dove ogni rappresentazione diventava un avvenimento, le grandi gallerie d’arte che proponevano e esponevano opere fatte apposta per turbare il sonno dei placidi borghesi, si era rivelata un terreno fertile di idee, progetti, esperimenti che la inserivano a pieno titolo nella cultura europea del tempo.

mughini cover

Una volta letto il libro, insomma, ciò che ne emergeva ne emerge- non è tanto o solo la vita di un uomo condannato in seguito al ludibrio perpetuo per il suo razzismo, sorta di sepolto vivo a cinquant’anni per le sue idee nefaste, ma una specie di continente sommerso, di Atlantide sconosciuta eppure esistita e ben diversa da quella raccontata dalla retorica antifascista che, a fascismo caduto, aveva preso il posto della retorica fascista, e per la quale tutto era stato solo conformismo, gusti provinciali, nessuna cultura, nessuna fede, se non un opportunismo più o meno mascherato, un doppiogiochismo più o meno virtuoso all’insegna di un antifascismo integerrimo, ma così ben nascosto che, è il caso di dire, pressoché nessuno al tempo se n’era accorto.

malaparte

Curzio Malaparte

Stava e sta- qui «lo strano caso di Telesio Interlandi» che fa da sottotitolo al libro. Come e perché un intellettuale del genere aveva potuto immergersi sino al collo nella fogna del razzismo biologico? Davvero tutti quelli che solo in seguito lo avrebbero maledetto potevano dichiararsi puri e senza colpa? Bastava l’abiura, sia pure contorta, in stile Guido Piovene, la scusante della giovane età, in stile Vitaliano Brancati, il negare, in stile Il Mondo di Panunzio, il diritto di parola a Interlandi perché lui l’aveva negata agli ebrei, per considerare il caso chiuso?

 

Nel 1991, l’anno di uscita di A via della Mercede c’era un razzista, i saggi sul fascismo di Renzo De Felice avevano ormai fatto scuola, nonostante un iniziale fuoco di sbarramento e tutta una storiografia revisionista aveva in seguito provveduto a dare un’immagine più giusta della cultura fascista fra le due guerre: la riconsiderazione del futurismo; l’avventura novecentesca delle riviste, le arti figurative e l’architettura; gli sbandamenti e i ripensamenti ideologici, fecondi e a volte drammatici, di scrittori quali Felice Chilanti, Fidia Gambetti, Elio Vittorini, Massimo Bontempelli, Curzio Malaparte, Alberto Savinio. Un libro del genere, quindi, sarebbe dovuto cadere in un terreno propizio, l’occasione per un sereno esame di coscienza, per un’analisi senza pregiudizi di cosa fosse stata veramente l’Italia fascista.

alfredo ambrosi aeroritratto di mussolini

Alfredo Ambrosi: aereoritratto di Mussolini

Scrive Mughini nella sua introduzione ad hoc per questa nuova edizione, che Panorama, il settimanale per cui lavorava, lo accusò di aver «sfumato le ragioni del fervore ariano e antisemita di Interlandi» e gli suggerì di trovare in futuro protagonisti che «moralmente e stilisticamente ne valessero davvero la pena». Sul Sole 24 ore e su Repubblica Andrea Casalegno e Nicola Tranfaglia scrissero in sostanza che Interlandi era stato solo «un opportunista cinico» e che, nel «salvarlo», l’autore non rendeva una buona causa all’antifascismo e all’antirazzismo… Tirato in 12mila copie, il libro ne vendette intorno alle 8mila, cifra più che ragguardevole e che dimostra come spesso i lettori siano più intelligenti dei critici chiamati a illuminarli.

Trent’anni dopo, mi sbaglierò, ma sarà come trent’anni prima, nel senso che non è cambiato culturalmente niente, pur se in superficie, politicamente, sembra essere cambiato tutto. Il libro si venderà, ma la classe dei colti farà come lo struzzo nel migliore dei casi, darà il calcio dell’asino nel peggiore, l’accusa di fascista che chiude la questione.

benito mussolini telesio interlandi

Benito Mussolini con Telesio Interlandi

Scrive Mughini che a lui «fare l’Avvocato delle Cause Vinte» non l’ha mai appassionato: «Ti trascini dietro un grande pubblico osannante, un pubblico cui paiono sublimi le affermazioni degne della terza elementare. Il fascismo era un’ignobile dittatura. La mafia fa veramente schifo. È molto meglio essere onesti che corrotti. Sono delle ovvietà a leggere le quali di solito mi appisolo».

Ho l’impressione tuttavia che il punto sia un altro e ha a che fare con l’assenza di una memoria condivisa della storia d’Italia, l’abiura, è il caso di dire, della propria memoria come atto fondante della nuova Italia nata dalle rovine di quella che c’era stata prima, il fascismo visto come un pozzo nero da coprire perché infetto e la cui acqua però infettò solo i fascisti e non gli italiani che la bevvero… Al suo posto ci siamo inventati un’Italia antifascista sentimental-consolatoria, quella che già nel 1946 Italo Calvino tratteggiò da par suo sull’Unità trasformando l’Otto settembre nell’Odissea, ovvero «il mito del ritorno a casa: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici. È la storia degli Otto settembre, la storia di tutti gli Otto settembre della Storia».

la difesa della razza 1

Un’interpretazione suggestiva, non fosse che Ulisse e i suoi intraprendono il loro viaggio verso casa al termine di una guerra vittoriosa in terra altrui, il solo Ulisse si salva e di Otto settembre, purtroppo, la Storia conosce solo il nostro. Anni dopo, Luigi Comencini la codificherà nel suo magistrale Tutti a casa: «Colonnello, è successa una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci stanno sparando addosso» diceva concitato al telefono il tenente Innocenzi, con la faccia di Sordi. Per esorcizzare il dramma ci andavamo specializzando nella farsa. Nel tempo è diventata una seconda pelle.

Così, da settant’anni ormai viviamo in un’Italia tarantolata dall’ansia politico-ideologica di negare il fascismo e dalla realtà effettuale delle cose che ogni due per tre la costringe a ricordarlo, una negazione trasformatasi in seguito in giudizio etico, una rilettura manichea che ha di fatto reso monco quanto incomprensibile un percorso nazionale e l’idea stessa dell’Italia come nazione, trasformandoci in un Paese che sputava su se stesso e sempre e comunque si assolveva di ogni colpa e di ogni responsabilità. Solo che senza la pietas per le ragioni dei vinti e senza un reale esame di coscienza quanto a quelle dei vincitori non si costruisce un Paese, ma solo la sua caricatura.

 

Che sia quest’ultima ad aver trionfato, trasformando l’Italia in un Paese senza -senza dignità, senza un progetto, senza una comunità d’intenti, senza un’identità storica lo testimonia il paradosso di un neofascismo di ritorno, o di risulta, fate voi, -crani rasati e caccia grossa all’immigrato- i cui rappresentanti un giovane neofascista dei miei tempi avrebbe preso a calci nel sedere. Specularmente, anche l’antifascismo si è trasformato nella sua caricatura. È divenuto un puro fonema, la testa di turco buona per ogni occasione, il randello con cui il politicamente corretto colpisce tutto ciò che non gli piace, dal populismo alle regole grammaticali.

È l’estrema deriva del de-pensamento, l’illusione nominalistica di chi pensa che agitando un fantasma metta in mora la realtà. Dice Mughini che, a trent’anni di distanza, non cambierebbe una virgola di ciò che allora scrisse. Ha ragione, e del resto è scritto benissimo. Ma non si illuda. Glielo metteranno di nuovo in conto.

 

Articolo di Stenio Solinas per il Giornale

 

ALL’ALBERO PIU’ IN ALTO

ALL’ALBERO PIU’ IN ALTO

                                       Marcello De Vito, presidente pentastellato dell’assemblea del Campidoglio

Non è più nemmeno una questione di garantismo (partita persa e strapersa), ma di salute mentale. Ieri è finito dentro per corruzione Marcello De Vito, presidente a cinque stelle dell’ Assemblea capitolina, e il capo Luigi Di Maio l’ ha scaricato in dodici secondi: «Si difenderà ma lontano da noi».

A quelli del Pd non gli pareva vero, e in una mezza dozzina hanno assicurato di non essere giustizialisti, ma coi grillini, hanno detto, la corruzione è arrivata fin sul pennone del Campidoglio. Tutti mossi da altissima moralità, naturalmente, e si giocano la loro partitella del consenso sulla gola di un innocente secondo Costituzione (la presunzione d’ innocenza, che noia). Non poteva che andare così, quando si trasforma la lotta alla corruzione in una psicosi millenaristica.

Sono anni che si sentono stupidaggini secondo cui la corruzione è il cancro, la metastasi, la malattia mortale, e dovremmo essere sepolti da secoli, visto che già lo diceva Giovenale («il torrente di vizi… la follia del denaro… tutto ha un prezzo»). E così questo partito della scatoletta di tonno era venuto al mondo – parole dello stesso De Vito – proprio «per spazzare via la corruzione». Nemmeno gli viene in mente che il medesimo vasto programma albergava nella testa di Robespierre, e poi la testa gli finì staccata dal collo.

Non li viene in mente che la corruzione non è il cancro o la metastasi, è da millenni un effetto collaterale del potere, insomma un reato e come tale lo si dovrebbe affrontare, senza isterie. Fatti loro. Noi staremo qui a vederli impiccarsi l’ un l’ altro ad alberi sempre più alti, a maggior gloria della loro etica.

Articolo di Mattia Feltri per “la Stampa”

LA LUNA DI ORIANA

LA LUNA DI ORIANA

LA LUNA DI ORIANA, DALLA NASA PARTE LA MISSIONE APOLLO 12, SOTTO LA TUTA DI UN ASTRONAUTA, SUL CUORE, UN CIONDOLO DI ORIANA E TANTI PORTAFORTUNA

 

“Ho detto al dottore che non posso permettermi il lusso di stare a casa, a riposo, né quello di rivelare che sono incinta”. E non può permetterselo perché è una donna orgogliosa, che lavora duro, fa l’inviata, e si chiama Oriana Fallaci. Il padre del suo bambino non c’è perché Oriana non glielo dice che è incinta, vuole crescere quel figlio da sola, e poi con quest’uomo non ha una storia, non ce l’ha mai avuta, ma non è tutto, la verità è che lui è sposato, e per il suo lavoro è famoso in tutto il mondo. Perché questo ‘lui’… mi sa che ha camminato sulla Luna.

È stato un colpo di testa, la passione di una notte, forse qualcuna in più, e la Fallaci ci ha fatto l’amore senza precauzioni perché convinta di non poter avere bambini. Ne è convinta da quando ha perso quel primo figlio il cui padre non voleva né lui, né la madre. Il figlio mai nato di Alfredo Pieroni, nome che oggi non vi dice niente, ma è stato un giornalista del Corriere della Sera, e autore di libri. Alfredo era figo e dongiovanni, non voleva Oriana né altri legami, e quando lei rimane incinta, lui le dà i soldi per abortire.

ORIANA FALLACI ALEKOS PANAGULIS

ORIANA FALLAC I CON ALEKOS PANAGULIS

Sono soldi mai spesi, Oriana perde il bambino per un aborto spontaneo, si sente male per strada, a Parigi, ed è sola. Superata una lunga depressione, dimenticato Pieroni, Oriana mette su i mattoni per diventare la Fallaci, ed è una donna che vive da sola per scelta, ama gli uomini che vuole, senza dare né aspettarsi impegni.

JIM LOVELL

Jim Lowell

 

Negli anni ’60 Oriana è spesso in Texas, alla NASA, con gli astronauti che si stanno preparando a conquistare la Luna, e che fuori e dentro l’America sono i nuovi eroi, le star che rubano attenzione ai divi del cinema e dello sport. Sono i protagonisti de Il sole muore, e di Quel giorno sulla Luna, i due libri che Oriana Fallaci dedica al viaggio lunare, ma pure del postumo La Luna di Oriana, uscito da poco, che raccoglie suoi inediti scritti per L’Europeo: articoli che si avvicinano, vivono quegli allunaggi, per poi allontanarsene maledicendoli.

Il richiamo di quella notte, 20 luglio 1969: chi c’era stava con gli occhi fissi alla tv, ma a Houston c’era anche lei, la Fallaci. Neil Armstrong, Buzz Aldrin, Mike Collins, i primi ad aprire le porte del cielo, Oriana li ha conosciuti, ma questi dell’Apollo 11 sono i tre astronauti a lei più antipatici, Armstrong soprattutto, un robot freddo, incapace di emozioni, e forse proprio per questo scelto dalla NASA come comandante di un viaggio in rotta verso l’ignoto. Ma a Oriana sta antipatico per un motivo personale, Armstrong ha rubato il posto e la gloria a chi le sta a cuore, quel Pete Conrad che sulla Luna ci va nella missione successiva, l’Apollo 12, e sotto la tuta ha una foto e un ciondolo di Oriana.

JIM LOVELL APOLLO

JIM LOVELL con l’equipaggio dell’Apollo

È Conrad il padre del bambino? L’ho creduto a lungo, dopo aver letto La Luna di Oriana non so più, vi è una Oriana così amica della moglie di lui, sembra impossibile che le abbia fatto un torto simile. Eppure…l’intesa con Pete è massima, palpita tra le righe, nelle parole della Fallaci si sente che Conrad non è come gli altri: la loro è un’amicizia che supera l’affetto, va oltre la stima, è forte come è forte la loro rottura: litigano per la politica, Conrad è un repubblicano, Oriana un’apolitica innamorata della politica, e lui si arrabbia così tanto da cacciarla di casa, e quando Oriana gli telefona e gli chiede se davvero pensava quanto urlatole la sera prima, litigano ancora, e lei gli scrive una lettera che lui fa a pezzi. Non si vedranno mai più. Nel 1999 Conrad muore in un incidente stradale: Oriana non va al suo funerale, né scrive, parla alla vedova.

PETE CONRAD

Pete Conrad

Forse il padre del bambino di Oriana non è Conrad, la verità non lo sa nessuno, si procede per ipotesi come fa Cristina De Stefano, bravissima nel suo Oriana. Una donna, la biografia della Fallaci più completa, e va detto che De Stefano ha avuto libero e ghiotto accesso ai diari, le lettere, le foto più intime della Fallaci. E tra queste foto ce n’è una che a Oriana fa male al cuore, è nel libro postumo, è quella di Jim Lovell con lei, in Toscana, a Greve in Chianti. Non mi dite che non sapete chi è Jim Lovell, non avete mai visto il film Apollo 13? È lui, cioè Tom Hanks, quello di “Houston, abbiamo un problema”, l’astronauta che è riuscito a rientrare sulla Terra dopo che i comandi della sua astronave erano andati a farsi benedire.

Anche quello tra Lovell e Oriana è un rapporto speciale, lui porta nello Spazio, sotto la tuta, 13 amuleti comprati in Italia, in vacanza con lei, 13 talismani contro la malasorte, contro quel 13 della sua missione che teme infausta. Anche Lovell è sposato e padre, tutte le mogli degli astronauti sono gelose di Oriana, e temono la sua vicinanza ai mariti: il suo fascino, la sua esoticità non sta nel fatto che sia una straniera, ma che sia una donna non sposata che vive a New York, vista dal Sud degli Stati Uniti come la città del vizio e della perdizione. Oriana parla agli astronauti di argomenti che quelle mogli – quasi tutte casalinghe – non sanno capire, né discutere. Quegli uomini che dalla personalità di Oriana sono attratti e intimoriti.

Il secondo bambino di Oriana vive nel suo grembo cinque mesi: lo perde la sera di Natale 1965. Questo bambino mai nato sarà il protagonista della Lettera, scritta in prima versione, di getto, nel gennaio 1966, e rimasta chiusa a chiave in un cassetto fino al 1974. L’amicizia tra Oriana e gli astronauti finisce molto male. Ottenuta la Luna, essi tornano sulla Terra insuperbiti, ubriachi di gloria. Oriana non li riconosce più, e per la delusione guarderà alla Luna con rabbia, e rimpianto. La sua passione per lo Spazio rimarrà in sonno per quasi 15 anni, fino a che arriverà un altro astronauta a tentarla, a farla innamorare. Ma questa è tutt’altra storia, di un’altra Oriana, racchiusa in altri libri.

jim lovell di apollo 8 fotografa la terra

Jim Lowell fotografa la terra da Apollo 8

Articolo di Barbara Costa per www.pangea.news

Sempre su Oriana in questo sito (qui)

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