TULLIO E LA TERRA

TULLIO E LA TERRA

Il volto della terra nei disegni di Pericoli

Ancora pochi giorni poi chiude la riuscita mostra dedicata all’opera di Tullio Pericoli “Forme del paesaggio 1970-2018”. In mostra ad Ascoli Piceno 165 opere del celebre pittore e disegnatore marchigiano

Il volto della terra nei disegni di Pericoli

Focolaio sismico (1971), particolare

Anche per chi ha familiarità col suo universo visivo disseminato di figure, paesaggi, oggetti, e disegni dentro disegni, lo sguardo di Tullio Pericoli (Colli del Tronto, 1936) non è mai facile da ricostruire. Questo, almeno, fino al momento in cui non si coglie un dato essenziale e singolarissimo, e cioè che a guidare quello sguardo non è soltanto l’occhio, ma un organo più irrequieto e nervoso che si lascia dirigere solo fino a un certo punto per poi assecondare – prima di tutto – i propri imprevedibili talenti: la (sua) mano. Lo spiegava lui stesso in “Pensieri della mano”, uno dei tanti libri che il grande disegnatore, illustratore e scenografo italiano ha pubblicato con la Adelphi, la casa editrice che meglio si presta a rappresentare le sue opere d’arte dai colori che riprendono e ricordano quelle celebri copertine.


Tullio Pericoli 


In tutti questi anni Pericoli, adottato oramai da Milano, ci ha abituato a ritratti di personaggi poco o molto noti, comunque sempre suoi amici, e soprattutto a paesaggi che sono dei veri e propri stati d’animo che completano il suo lavoro. Essi sono un flusso che ci circonda in qualunque luogo ci troviamo che lui ha dipinto e continua a dipingere con la stessa precisione di cinquant’anni fa, necessaria per afferrarne ogni dettaglio. Li ha ritratti per tutta la vita, secondo una maniera più astratta agli inizi e una invece molto più fisica negli ultimi tempi. A volte li ha raccolti in un libro (Paesaggi, Adelphi 2013), altre volte solo raccontati o disegnati su tele in olio o acrilico, esposte e ammirate in piccoli musei come in grandi (tra i tanti, il Moma di New York), sempre però col fine di mostrare in maniera evidente cosa abbia cercato o cosa abbia trovato negli stessi. Da sfondo di un quadro, almeno all’inizio della sua carriera, essi sono diventati i protagonisti di molte tele e potrete rendervene conto di persona guardando dal vivo le 165 esposte per più di un anno (fino al 3 maggio del 2020) al Palazzo dei Capitani, praticamente nel cuore di Ascoli Piceno, nelle “sue” Marche.

La mostra – dal titolo “Forme del Paesaggio: 1970-2018” e curata da Claudio Cerritelli – parte dalla frattura fisica e sentimentale rappresentata dagli ultimi eventi sismici per condurci poi in un (in)comprensibile percorso a ritroso nel tempo vissuto dall’artista che, così facendo, attraverso l’evoluzione della sua arte, dal presente risale alle attuali frammentazioni visionarie delle originarie esplorazioni geologiche.


Combinazioni (2012)


Da quelle forme dissestate e da quei movimenti tellurici del segno come del colore si passa all’esplorazione di nuove morfologie paesaggistiche – le opere del periodo 1998-2009 – che, dopo aver rappresentato lo scenario dei colli marchigiani, esplorano i dettagli della natura, i segni e i solchi delle terre. Proseguendo nel percorso, troverete la fase 1976-1983, quella che pone in evidenza un diverso trattamento del tema paesaggistico attraverso vedute luminose e lievi rese attraverso la delicatezza degli acquerelli, chine e matite su carta, spazi aerei che l’artista concepisce come orizzonti immaginari, memorie di alfabeti e tracce di antiche scritture. Determinante è poi quel ritorno alle origini della sua opera artistica compiuto con il ciclo delle geologie (1970-1973), costituito da immagini stratificate e sezioni materiche. I più belli, non solo per noi, sono soprattutto quelli che rappresentano lo scenario dei colli marchigiani, opere dalle atmosfere quasi oniriche ma dove la sua immaginazione, legata indissolubilmente alla realtà, ha dato il suo meglio esplorando i dettagli della natura, i segni e i solchi di quelle terre.


Triassico (1971)


Se le varie forme del paesaggio che ha esplorato nel corso della sua ricerca pittorica sono diversificate, possiamo dire che altrettanto diramato è il percorso di lettura proposto in questa mostra dedicata a svelare i lineamenti interni, le stratificazioni e le mutazioni che l’immagine della natura ha assunto nel corso del tempo agli occhi e alla mente dell’artista, dai primi anni Settanta ad oggi. Le vedute – scrive Salvatore Settis nel catalogo ufficiale pubblicato da Quodlibet – sono ritratte da Pericoli come segmenti rivelatori di un volto, quello di una terra, le Marche, segnata dalla fatica ma anche dall’incuria dell’uomo”. I suoi, precisa, sono paesaggi “altamente soggettivizzati”, dei luoghi senza uomini che però riportano i segni dell’umanità, dei paesaggi desertici fatti di campi coltivati, di percorsi come di sentieri interrotti dove la ricerca di nuove convenzioni rappresentative, di matrice geologica, archeologica o cartografica, si sposa a una marcata intensità emotiva che attraverso il suo gesto “evoca una grammatica del vivere”, il modo d’intendere il paesaggio di chi lo andò lentamente forgiando per secoli.

Articolo di Giuseppe Fantasia per Il Foglio.it

PSICOPOLITICA DIGITALE

PSICOPOLITICA DIGITALE

LA DEMOCRAZIA DELL’ALGORITMO – DALL’ELEZIONE DI OBAMA ALLE FAKE NEWS, LA TECNOLOGIA HA CAMBIATO E CONTINUA A CAMBIARE LE REGOLE DEMOCRATICHE – LA PROFILAZIONE DEGLI ELETTORI SI È TRASFORMATA IN PROPAGANDA DISPIEGATA DA TROLL E PROFILI FALSI, CON LA COMPIACENZA DELLA SILICON VALLEY – E CON L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE SI POTRÀ PREDIRE IL COMPORTAMENTO DEI CITTADINI: BENVENUTI NELL’ERA DELLA PSICOPOLITICA DIGITALE

l algoritmo che legge i comportamenti umani

I social network e i social media – e, più in generale, le tecnologie digitali – stanno ridefinendo le forme della politica. Quelle, direttamente, del fare e praticare la politica, e non esclusivamente del comunicarla o del promuoverne i messaggi a fini di costruzione del consenso. Un processo (autenticamente) rivoluzionario, che va osservato e indagato secondo tre dimensioni: l’ aspetto teorico, quello pratico dell’ efficacia elettorale e, last but non least (anzi!), quello dell’ analisi della disinformazione e dei problemi per la sicurezza collettiva che ne derivano.

Tecnologie per il potere - Giovanni Ziccardi

Col suo Tecnologie per il potere , Giovanni Ziccardi – esperto di Ict e professore di Informatica giuridica all’ Università di Milano – ha realizzato un compendio dettagliato di tutte le principali questioni relative alla politica digitale e delle poste in palio per la tenuta e i principi della democrazia liberalrappresentativa. Aprendo in questo libro una serie di squarci – assai inquietanti – sulla cybersecurity (di cui è uno specialista) e sulla manipolazione a fini politici dei dati personali privati.

Esiste un evento che fa da spartiacque e da punto di cesura nella storia delle relazioni tra le Information and communications technologies e la politica, e che funziona da momento inaugurale della stagione in cui viviamo.

fake news

Si tratta delle campagne elettorali del 2008 e 2012 di Barack Obama, nel corso delle quali si è arrivati a un livello mai raggiunto in precedenza di tecnologizzazione del campaigning e della comunicazione politica a opera di staff organizzativi e consulenti portatori di elevatissime competenze specifiche.

il discorso di addio di barack obama

Questa coppia di appuntamenti elettorali ha mostrato, de facto per la prima volta nella storia della politica, come l’ utilizzo di un enorme e «certosino» database, la sua lavorazione attraverso le metodologie dei Big data, un’ attività scientifica e meticolosissima di profilazione dei possibili elettori e l’ impiego imponente e coordinato dei social network possano fare delle tecnologie digitali una strategia elettorale a tutti gli effetti.

obama big data

E, giustappunto, dopo quelle due esperienze seminali di campaigning informatizzato, nulla è stato davvero più come in precedenza. Dallo stadio dei database elettorali come (colossali) archivi sostanzialmente statici si è quindi passati a uno profondamente diverso, imperniato sui social quali strumenti di consensus-building ; da cui una progressiva accelerazione dell’ azione elettorale (la fast politics) e una micro-targetizzazione dell’ obiettivo e del messaggio (sempre più «ritagliato» sul destinatario potenziale), con la possibilità di un aggiornamento costante e in tempo reale dell’ attività propagandistica grazie ai feed e alle informazioni raccolte dagli utenti delle piattaforme.

salvini di maio

Ossia il paesaggio politico odierno, dall’ America trumpiana all’ Italia legastellata, poiché dopo le pionieristiche campagne obamiane sono stati i partiti e movimenti neopopulisti a riscrivere le regole del gioco elettorale in Occidente, traendone in maniera schiacciante i maggiori benefici dal punto di vista dei voti. La polarizzazione e la frammentazione del consenso e del discorso pubblico (come, inevitabilmente, dell’ opinione e della sfera pubbliche) vanno, pertanto, considerate alla stregua di una diretta conseguenza dell’ ambiente tecnologico che si è ibridato con la politica nel primo decennio degli anni Duemila – ragion per cui potremmo, probabilmente, parlare di una campagna elettorale fattasi post-postmoderna.

La politica smart, mediante app, open data e social, ha anche – come stiamo sperimentando in questi ultimissimi anni, dalle presidenziali Usa alla Brexit britannica, passando per l’ Italia e l’ attuale Francia messa a ferro e fuoco dei gilet gialli – un «lato oscuro della forza», che viene veicolato, sempre via social, dalle fabbriche dei troll e dei falsi profili, dalle catene dei chatbot e dalla propaganda «paramilitare» dispiegata dagli imprenditori politici delle fake news e della post-verità.

Uno scenario drammatico, ampiamente scandagliato dal volume, che ha trovato una rappresentazione molto concreta nello scandaloso affaire Cambridge Analytica. Siamo definitivamente entrati, dunque, nell’ era della «dittatura dell’ algoritmo» e dell’ applicazione alla politica di elementi sempre più sofisticati di intelligenza artificiale, in grado di consentire il «pedinamento digitale» dei cittadini-elettori e quell’ analisi predittiva che si propone di individuare i futuri comportamenti di voto con un significativo margine di certezza.

algoritmo

E che, nel caso della sua versione dark side, oltre ai problemi di fondo riguardanti la mancata tutela della privacy dei dati dei singoli, va a sconfinare direttamente nei lidi illeciti della violazione della sicurezza informatica e della manipolazione integrale. La psicopolitica digitale, come la chiama il filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han, responsabile delle distorsioni a cui stiamo assistendo nella vita democratica contemporanea.

Articolo di Massimiliano Panarari per “la Stampa”

 

CERONETTI

CERONETTI

CERONETTI vero e inusitato saggio moderno, capace di offrire piccole o grandi illuminazioni, sempre comunque emancipate dalla stolida tirannia dell’opinione corrente.

Nato a Torino il 24 agosto 1927, morto il 13 settembre del 2018, Guido Ceronetti da molti anni si era ritirato in Toscana dove aveva una casa, a Cetona, per dedicarsi soprattutto alla scrittura. Nel 2008 aveva avuto il vitalizio della legge Bachelli per i “cittadini illustri”. Esemplare il suo ‘Viaggio in Italia’, uscito in volume nel 1983, compiuto a piedi, con treni locali e corriere da Nord a Sud, dal Po avvelenato a ”uno dei peggiori luoghi” del paese, Napoli. Intellettuale contro, grande amico di Cioran, che aveva introdotto in Italia, e appassionato di Celine, era traduttore dal latino (Marziale, Catullo e Giovenale) e dall’antico ebraico (cinque libri della Bibbia).

Poeta oltre che scrittore e drammaturgo, aveva una grande passione per il teatro nata con le marionette, fatte anche con le sue stesse mani, e condivisa con la moglie Erica Tedeschi con la quale nel 1970 aveva dato vita al Teatro dei Sensibili. Spettacoli a cui assisterono Eugenio Montale, Guido Piovene, Natalia Ginzburg, Luis Bunuel e Federico Fellini. Famose le sue interviste impossibili, dialoghi immaginari tra un intellettuale contemporaneo e un personaggio storico, andate in onda nel 1974 sul secondo programma di Radio Rai.

Ceronetti ha partecipato alla Resistenza occupandosi di stampa clandestina e nel dopoguerra ha vissuto scrivendo su vari giornali e riviste. Ha cominciato a pubblicare libri a partire dagli anni ’70 e ha pubblicato con Einaudi e Adelphi. Nel 2017 gli era stato dedicato il documentario ‘Il filosofo ignoto’.

Da www.cinquantamila.it

• «Ho scritto sui giornali per avere da vivere, ma il meglio di Ceronetti viene fuori dai versi».

• «Ha scritto di sé: “Torinese per foglietto anagrafico, l’accento incorreggibile, i ricordi”. Dai quali estrarre “i parenti ossessivi, il fascismo martellato e chiesa chiesa chiesa”. Poi ci sono stati i lampi dell’Antigone di Sofocle, le cattive traduzioni della Bibbia, il senso di colpa e il lampioncino davanti alle case di tolleranza. Della sua gioventù “la cosa più spensierata era il tram. Il cinema era col contagocce, per molti anni puro e semplice miraggio”» (Pino Corrias).

CERONETTI• «Sono sempre stato anticomunista, sempre… Forse, subito dopo la guerra ho avuto una certa simpatia, però non mi sono iscritto al partito il giorno dopo aver visto La corazzata Potëmkin, come innumerevoli giovani. Antifascista non è neanche da dire, da quando ci si è risvegliati, l’8 settembre. I miei non erano fascisti né antifascisti, erano bravi cittadini come tanti. Mio padre ha fatto tutta la Grande Guerra, ha vissuto Caporetto e il Piave, detestava Cadorna. Incontrò mia madre, che era cassiera in un cinemino, andando a vedere i film muti» (a Paolo Di Stefano) [Cds 8/5/2011].

• «Il “pestigrafo” armato di basco nero sulla testa, che le cronache riescono malissimo a inquadrare: è infatti saggista, poeta, scrittore, traduttore, regista, impresario teatrale; e poi instancabile flagellatore dei pericoli del progresso e della tecnologia. Infine, giornalista: ha cominciato durante la guerra, con racconti umoristici e pezzi culturali, e non ha mai smesso. Come regista e produttore teatrale, ha cominciato nel 1970 insieme a Erica Tedeschi, con il Teatro dei Sensibili, fatto di marionette e di ombre cinesi» (Alessandro Riva).

«Al teatro, mi ci sono dedicato tardi. A 40 anni. Ero un biblista, ma con mia moglie volevamo adottare dei bambini e pensavamo che sarebbe stato bello intrattenerli facendo per loro un teatro di marionette, consapevoli che quando avremmo detto alle assistenti sociali che ai nostri figli avremmo fatto vedere le marionette invece che la tv ci avrebbero chiesto chissà quante carte. Invece ci bocciarono direttamente la richiesta: dissero che io ero vecchio perché avevo 40 anni, anche se mia moglie ne aveva solo 25. A quel punto il teatro di marionette l’abbiamo fatto per i vicini di casa. Poi sono arrivati gli intellettuali, e ora eccomi qui» (ad Anna Bandettini) [Rep 8/10/2010].

CERONETTI• «Ha il dono di sapere tutto prima di saperlo, la conoscenza delle cose e delle parole avviene nel suo minuscolo ventre vuoto di asceta vampiro, di flâneur diurno, di pellegrino italico. (…) La sua prosa è in perenne ebollizione, manda lampi, rombi, sciabolate di fuoco, risate luciferine commiste a lievi sorrisi dolci e funebri» (Goffredo Parise).

• «Immagine lieve e perentoria, ha la grazia smarrita dell’antico Viandante, la magrezza dello Sciamano, l’andare segreto del Mago, la nativa indipendenza degli animali, l’acume visibile del Mestatore, l’unicità del Marionettista» (Giosetta Fioroni).

• «Un nemico giurato della folla. Un misantropo mancato (mancato, dichiara, forse per troppo amore delle donne). Un avversario giurato della tecnologia. Un laico con venature di tradizionalismo, sgorgate dal mondo classico, dai Salmi o dall’Ecclesiaste. Un letterato colto e poliglotta. Un pessimista ai limiti del catastrofismo» (Nello Ajello).

• Sostanzialmente misoneista: ama la stilografica, la macchina da scrivere, il telegrafo e il cinema; disdegna biro, computer, cellulare e televisione. Nel febbraio 2009 è però apparso nella trasmissione televisiva Che tempo che fa (Rai Tre), dove ha presentato il suo ultimo libro Le ballate dell’angelo ferito (Il Notes magico ed.). «Ci sono momenti in cui bisogna rassegnarsi all’inconoscibile, all’indecifrabile. È così, non ci si può fare nulla, meglio limitare i commenti. Ho amato (e amo) tantissimo Ceronetti. Vederlo in tv mi ha creato sconcerto. Ma è un problema mio, non suo» (Aldo Grasso) [Cds 12/2/2009].

• Ha tradotto e commentato alcuni tra i libri biblici più ostici (Qohélet o l’ Ecclesiaste nel 1970,Il Libro di Giobbe nell’82) o più famosi (Il libro dei Salmi uscito in prima edizione nel 1955, ilCantico dei Cantici vent’anni dopo), oltre a diversi classici della letteratura latina come gliEpigrammi di Marziale (1964), Le poesie di Catullo (1969), Le satire di Giovenale (1971). InCome un talismano (1986), che deve il titolo a un verso di Eugenio Montale, ha raccolto le sue traduzioni di singole poesie dei grandi poeti moderni: da Konstantinos Kavafis a Thomas S. Eliot, da Antonio Machado ad Arthur Rimbaud.

CERONETTI COVER• «Il Ceronetti saggista ha uno stile inconfondibile, “apocalittico” e satirico, molto polemico nei confronti di ogni conformismo e di ogni forma di consumismo e particolarmente sensibile alla distruzione del paesaggio. I suoi brevi saggi, prevalentemente pubblicati sul quotidiano La Stampa, sono raccolti in diversi volumi (Difesa della luna del 1971, La carta è stanca del 1976, La musa ulcerosa del 1978, La vita apparente dell’82, Albergo Italia dell’85).Nel Silenzio del corpo del 1979, Ceronetti espone la sua poetica rivendicando il carattere terapeutico della verità: “Faccio il medico cercandola”.

In Un viaggio in Italia. 1981-1983dell’83, l’autore parte da una nuova “passione per l’Italia… più severa, più dolorosa”, mentreL’occhiale malinconico dell’88 riprende l’amore per il viaggio, nel tempo e nello spazio, e dalla guerra di Spagna passa alla tragedia della Valtellina nel 1987» (l’Espresso).

• «Cultore della lettera come irrinunciabile testimonianza vitale e amicale (“Le anime morte non scrivono né ricevono lettere”), egli vi dispensa pensieri e giudizi sugli argomenti più vari (l’antichità, la medicina, l’ambiente, la morte, il Papa), che emanano non tanto da uno spirito intelligente (del quale alla fine non sapremmo che cosa farcene) quanto da un vero e inusitato saggio moderno, capace di offrire piccole o grandi illuminazioni, sempre comunque emancipate dalla stolida tirannia dell’opinione corrente».

• «Mi piacque molto la sfida del ministro dell’Ambiente, Willer Bordon, alla potenza vaticana, per le antenne radio di Cesano, pericolose per la salute della gente della zona, ma venne deplorato e perfino ridicolizzato nel suo stesso governo». Nel 2006 scrisse che avrebbe votato «per il margine in penombra del chiattone, del Narrenschiff unionista, che si presenta come Rosa-nel-Pugno».

CERONETTI 1• «Ripeto spesso un verso di Miguel Hernández: “Me duele a España”. A me duole l’Italia: è un destino dell’Italia il dolere, perché dell’Italia importa l’anima, l’Italia è metafisicamente importante, e qui lo sfregio lo risenti visceralmente. Mi considero un patriota del Risorgimento anche se non espongo la bandiera: la verità è che bisogna soffrire per l’Italia e con l’Italia anche se si è stranieri. Il mio Viaggio in Italia è una testimonianza per l’Italia di un italista. Posso dirmi un italista» (a Paolo Di Stefano) [cit.].

• «Una guerra atipica, incruentissima – eppure guerra vera, senza quartiere, senza infingimenti – è da fare, con mobilitazione generale includente giovani leve e vecchie, donne, uomini e ragazzini rigorosamente privi di kalashnikov: la guerra all’Inglese, all’anglofonia d’occupazione, all’americofonia tecnologica, all’angloegemonia che implacabilmente va stritolando le lingue dell’Europa continentale e seppellendo in sabbie mobili senza ritorno la meno reattiva di tutte: questo italiano nostro di penuria, analfabetizzato, stupidamente arreso all’angloamericano.

La diseducazione linguistica conduce dritto all’indifferenza a tutto: valori etici, culturali, religiosi. (…) Cittadini, una lingua così vaiolosa è un danger serio per tutti! Una lingua materna non è surrogabile da una sussidiaria, imposta con prepotenza. È in vista una diffusa confusione mentale. Alzate senza paura barriere linguistiche. Difendendo l’italiano proteggete voi stessi» [Cds 14/1/2010].

• «Il libro al computer è la fine di un modo di pensare, e probabilmente del pensare stesso. Non è più la mano ma la macchina a guidare, ispirare, uniformare gli stili. Del resto i tanti romanzi che escono in questi anni, nel loro realismo arcipiatto figlio dell’elettronica, non appartengono più alla scrittura» (a Mario Baudino) [Sta 30/12/2009].

CERONETTI• «L’arte è sempre trascendente anche per chi la pratica. Viene, chissà, dall’anima del mondo, da Dio, dagli angeli. Il mistero letterario è sempre stato insondabile. È ancora così» (a Nello Ajello) [Rep 6/7/2011].

• «L’arte è finita da quando gli artisti non hanno più malattie veneree» [Il silenzio del corpo, Adelphi 2001].

• «Quando si parla di uomini pubblici, di uomini di Stato, non bisogna negargli una certa misura di piaceri privati, perché il bene pubblico dipende anche da questo. (…) Mai le donne (e neppure i ragazzi) sono da rinfacciare a un capo o a un ministro, purché ne godano entro limiti che non prendano a modello Tiberio o Nerone. Tutto quel che scarica in privato l’uomo pubblico dalle tensioni spaventose, di cui s’intumorisce tra la folla, nei colloqui, nei viaggi continui, nelle assemblee, è frescura per il bene pubblico; senza piaceri privati, l’uomo che governa o legifera perde, specialmente oggi, la dimensione umana» [ibidem].

guido ceronetti EUROPA• «L’ottimismo è come l’ossido di carbonio: uccide lasciando sui cadaveri un’impronta di rosa» [ibidem].

• «Ero, in gioventù, un lacrimoso filantropo e sono, in vecchiaia, un asciutto filantropo. Pulito, ma filantropo. Darmi del misantropo è quasi ferirmi. Non so da quali pozzi mi venga, ancora, tanta passione umana. Certo non spreco le adulazioni, se sta lì tutta la misantropia…» [Pensieri del tè, Adelphi].

• «Un elementare senso del pericolo (territoriale, identitario, genericamente nazionale, e in questo caso anche religioso) dovrebbe suggerire la semplice idea che, quando gli sbarchi sulle coste italiane diventano di migliaia, si pone un problema di difesa militare. Quello che è strano, in questo dramma dell’assurdo, è che si invochino aiuti e scatti di alleanze per prenderne sempre di più, per predisporre modi di accoglienza e non per stabilire e proteggere – umanamente ma fermamente – un confine militarmente invarcabile. Un paragone classicissimo è la faccenda del cavallo di legno che sorprese l’eccessiva credulità dei poveri Troiani, che per metterselo in casa avevano addirittura squarciato le mura» [Sta 5/4/2011].

• «La verità, nelle predicazioni unanimemente buoniste, è certamente impossibile trovarla» [ibidem].

guido ceronetti x• «Diffido delle proclamazioni di amore universale: siamo sette miliardi di àntropi su questa nave di pazzi, e amarli, tutti in blocco, è non amare nessuno» [Rep 18/9/2013].

• «Mi affascina indagare il male e la condanna dell’uomo al male. Mi sembra che sia un inevitabile cuore di pensiero. In un certo senso mi ritengo un criminologo. Ho perfino un vasto archivio artigianale di casi importanti: dai delitti di Villarbasse a quelli efferati della banda Manson» (ad Antonio Gnoli) [Rep 17/3/2013].

• «La vita rimescola dati e dadi; l’ultima parola, su tutto, la dirà il silenzio».

• «L’oratorio mi fece anche aborrire la Juventus: c’erano dei manigoldi che mi sbattevano contro il muro con minaccia di strozzarmi se non gridavo con loro viva la juve. M’impuntavo e le prendevo; per rivalsa, nella torva cretinità puerile, cercai riparo nelle coglie, a quel tempo formidabili, del Torino. Durò pochi anni: ma capirai c’era gente come Guglielmo Gabetto, Valentino Mazzola, Eusebio Castigliano, tutti i morti di Superga…».

• Animalista e vegetariano dal 1957. «Per quanta giustizia possa esserci in una città, basterà la presenza del mattatoio a farne una figlia della maledizione. Per quanto nobile possa essere una ricerca della medicina, la sperimentazione su esseri viventi ne farà sempre una figlia della maledizione» [Il silenzio del corpocit.].

• Nel 2011 ha pubblicato il suo primo romanzo, In un amore felice (Adelphi ed.). «Vi è contenuta l’umanità del vecchio Aris, che si innamora, ricambiato, della trentenne Ada, una sensitiva che talvolta vede prima quel che accadrà. Siamo nel ’57, in una città portuale, mentre nel grande mondo si verificano apparizioni di Ufo. Perché l’idea di scrivere un romanzo?

“Il romanzo è nato da ore di noia passate in clinica per una riabilitazione. Mi trovavo a Novaggio, in Svizzera, mi annoiavo, si avvicinava l’autunno e mi sono detto: mi metto a scrivere qualcosa che mi salvi dalla depressione. Il romanzo è venuto così, in modo rapsodico. Sono partito per scrivere la storia di un amore felice, perché mi causava un vero disagio il pensiero che gli amori siano quasi tutti infelici”» (a Paolo Di Stefano) [cit.].

È morto all’età di 91 anni lo scrittore e poeta torinese Guido Ceronetti. L’artista si è spento nella sua casa di Cetona, nel senese, dove era rientrato dopo un ricovero per un’ischemia. Da una trentina d’anni aveva scelto di ritirarsi in Toscana per dedicarsi soprattutto alla scrittura.

L’ultimo libro, «Messia», scritto a Cetona, era stato pubblicato nel 2017. Ceronetti è stato scrittore e giornalista, ma anche filosofo, poeta, drammaturgo, traduttore e attore. Nel 1970 diede vita al Teatro dei Sensibili allestendo insieme alla moglie Erica Tedeschi spettacoli di marionette. Nel corso degli anni vi assisterono personalità quali Eugenio Montale, Guido Piovene, Natalia Ginzburg, Luis Bunuel, Federico Fellini. A partire dal 1985, con la rappresentazione de «La iena di San Giorgio», il Teatro dei Sensibili è diventato pubblico e itinerante.

GUIDO CERONETTI LANCIA UNA MODESTA PROPOSTA EROTICA CHE FAREBBE FELICE IL SULTANO DI HARDCORE

Guido Ceronetti per il “Fatto quotidiano” –articolo del 1 aprile 2014

Si può mettere in questo “desolato stillicidio” una goccia di miele che cambi qualcosa? Il sesso, forse, l’Eros che pareggia e trascende la forza della morte? A patto, prima, di aprire gli occhi. Vassilij Rozanov dice che il sesso è l’unica immagine dell’altro mondo ad apparirci in questo; nel citarlo, parlando dei ministri egiziani, Dmitrij Merÿkovskij precisa così: “Il sesso è l’unico contatto della nostra carne e del nostro sangue con l’Aldilà”.

Ci hanno prolungato in mille modi la durata della vita, negando scelleratamente, vigliaccamente, ferocemente, che in tutto questo durare il sesso, la passione, il desiderio sessuale possano, debbano legittimamente avere una parte, senza doversene vergognare.

Ma inevitabilmente la negazione del sesso, al limite temporale dell’esistenza, è legato alla negazione assoluta, perfino rabbiosa, isterica, di ogni possibile oltrepassamento della morte, razionale o visionario, perché “morte di Dio” e amputazione psicologica del pene sono la stessa privazione di essere.

Dunque l’età vera, non retorica, dell’amore è la vecchiaia, quando ci colpiscono di più i mali fisici e “la cavalletta non salta più”, come Qohélet 12 dice. Nell’orgasmo senile non c’è sfogo sessuale o voglia di procreare: prevale il volo della visione, l’incantesimo dell’oltrepassamento della morte a cui si è più vicini. È amore allo stato puro, la carne, pur logorata e malconcia, scopre, in una sequenza d’attimo, di non essersi nutrita con tanto triviale sforzo esclusivamente per lucrare un supplemento d’anni a una vita bestiale e priva di scopo. (I figli non sono uno scopo: guardatevi dai cecchini d’ideale, sono dappertutto).

Un aforisma del Filosofo Ignoto fa questa distinzione: I volgari comprano le carezze, i nobili le mendicano. Tutti, con poche eccezioni, vorrebbero essere nobili, almeno nella ricerca di carezze. Allora, vecchioni in cui la speranza non è estinta, scendiamo in strada e mendichiamole… Allunghiamo la mano e il piattino: vuoi scommettere che non ci cadrà una sola moneta? Che tornerai a casa verso sera perfettamente digiuno? Che invece di una goccia di mele la tua nobile richiesta riceverà un metaforico sputo?

L’Egitto, nell’apologia di Merezÿkovskij, ha compreso che il fine dell’amore non è la propagazione della vita, ma la resurrezione dei morti. E che cosa siamo, noi vecchi maschi superstiti di dissolti branchi, moltitudine superflua di schiene deformate, di vertebre dolenti, pelago di deambulanti con attrezzi e assistenti, se non morti da far risorgere, poveri mendicanti di carezze, rifiutate perché troppo rigeneratrici?

Tutti questi corpi contro cui si è accanita la vita, in misure diverse, sono costretti a nascondere e a reprimere il bisogno di sesso, e a mendicare silenziosamente carezze per soddisfarlo, non per trabocchi di libido ma perché la prossimità della morte li ha resi bisognosi di scorgere, attraverso orgasmi impalliditi e calore penetrante di creatura giovane, la verità ultima dell’Anàstasis, della morte oltrepassata. Veramente, dentro ogni vecchio, c’è un Urlo di Munch che non cessa mai, eppure niente ne trapela, se non vedono l’Oltre, se non vengono aiutati a intravederlo.

Tra i frantumi di Luce dispersa, le donne chiamate a comprendere la sessualità della resurrezione si contano come le Pleiadi, e analogamente si contano i mendicanti di carezze così fortunati da incontrarne una. Eppure la loro esistenza è incontestabile! Le incontrano i grandi disabili, le incontrano i grandi assassini. Ti ricordi un film giapponese dei Sessanta, dove una donna si sforza, con dedizione sconfinata, di ridare a un amante reso impotente dalle radiazioni di Hiroshima lo spasimo dell’erezione? E ci riesce, alla fine, semplicemente per aver risuscitato, con l’assiduo contratto, l’anima in catalessi dell’uomo?

Apprendo, approvando, da “La Lettura” del Corriere di domenica 23 giugno, che in paesi nordici come Germania, Olanda, Scandinavia un servizio sociale erotico (nulla a che fare con i centri di prostituzione) provvede a dare sollievo alle pene di astinenza dei disabili – assistiti sì, ma di una carezza intima – lasciati orfani. L’opinione canagliesca corrente è che tali “bisogni” non riguardano la loro condizione!

Non è comprare né mendicare… Immagino si tratti di una forma di volontariato, in cui questi benemeriti vengono chiamati toccatori, toccatrici, presumendo che un contatto (berührung) possa bastare. Nulla certo può tamponare il vuoto di amore-amore, di cui il rimedio resta affidato al miracolo, ma è sperabile che il servizio non escluda i moti di simpatia e il dono creativo dall’amicizia, e la sua pratica sia senza peccati di professionalità,

Pensarci non costa nulla, ma la sessuofobia cattolica italiana, madre d’infelicità senza nome, mi pare qui da noi insormontabile, qualora si trattasse d’istituire qualcosa di simile, con l’estensione del servizio sessuale all’intera popolazione maschile del paese, tra i sessantacinque e i cent’anni.

E bisognerebbe estendere l’accesso all’Eros sociale alla coppia monogamica, dove la regola è l’intolleranza fisica affettuosamente condivisa dei propri corpi oppressi dal “desolato stillicidio della vecchiaia che avanza” ben presentito da Kerouac, morto giovane, e riconoscere costituzionalmente il sesso come un diritto, senza escludere altri che asceti e refrattari, perché è un crimine negare un salvagente ai naufraghi più naufraghi della vita, un crimine di una civiltà che da qualche millennio ha sbagliato strade su strade.

Guido Ceronetti per il “Fatto quotidiano” –articolo del 1 aprile 2014

CARTOLINE DA PARIGI/2: Le intermittenze del cuore

CARTOLINE DA PARIGI/2: Le intermittenze del cuore

 

Nel vivere e trasformarsi, Parigi ha avuto in passato, su molti artisti e intellettuali che vi hanno vissuto, il potere magico di trasformarli, restituendo loro gli slanci perduti della giovinezza. Per parecchi si è trattato anche di uscire del gretto provincialismo, dal cerchio di un’aridità morale soffocante, per spingersi verso qualcosa di nobile. E’ il caso di Ernest Hemingway. 

Oramai anziano, riordinando alcune carte trovate per caso in un baule dimenticato all’hotel Ritz, Hemingway sente la voglia di raccontare i suoi anni a Parigi all’inizio del ‘900. Ma è oramai fuori tempo massimo. Nonostante il realismo eroico, in Festa mobile, lo scrittore americano scade in alcune sdolcinature romantiche, che trovano la loro sintesi nella rapinosa chiusa del libro: “Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”.

Il libro è privo di poesia e quando prende ad evocare i sentimenti scade in un ironico, efficace, ma freddo resoconto. Ha scritto Piero Citati:” nei ricordi della sua stagione felice, lo scrittore cercò le ragioni della sua decadenza”.

Hemingway a Parigi, mentre scrive Festa Mobile

Al centro di Festa mobile, fra le tante figure di artisti e intellettuali, spicca Gertrude Stein, nume tutelare degli scrittori di lingua inglese (e non solo) del 1902 in poi, anno in cui apre con la sua amante il suo salotto al 27 di rue de Fleures. Su Geltrude e il suo ruolo, Hemingway è oscillante fra l’acritica ricerca di appoggi e un legame di più sincera e solida amicizia. 

Gertrude Stein e compagna

A proposito di Parigi, Hemingway confessa l’attrazione verso la città: ” Si finiva sempre per tornarci a Parigi, chiunque fossimo, comunque essa fosse cambiata… Però ne valeva sempre la pena e qualunque dono tu le portassi ne ricevevi qualcosa in cambio”.

E’ vero, Parigi riesce sempre in questa corrisposta magia, purché si sia disposti ad una vera e propria caccia al tesoro, dove il tesoro è il tempo e il nascondoglio il passato. Parlare di tempo e di passato ci porta difilato in braccia a Marcel Proust, forse lo scrittore che più ha indagato il rapporto fra bellezza, conoscenza e verità.  

Marcel Proust

Per capire Parigi dobbiamo essere pronti a subire una profonda metamorfosi, che accordi il nostro animo, quale “strumento” percettivo ed emozionale, con la storia, il tempo e la memoria; dobbiamo cioè percepire quelle che Proust chiamava le “intermittenze del cuore”. Per fare questo non è necessario essere personaggi alla maniera della Comédie Humaine di Balzac, come il giovane Eugène de Rastignac, che sfida Parigi dicendo: “Parigi, a noi due!”   

E’ sufficiente aprire i sensi alle tante sensazioni che Parigi ci comunica, essere disposti a far parte del mistero che la città conserva. Come un persona, Parigi ha una personalità che appare e dispare, un suo ego sottoposto a infinite e misteriose metamorfosi. Il gioco è quello di montare e smontare la realtà intorno a noi, percependola sempre come provvisoria, molteplice, instabile.

Accettare questa dimensione inconscia e quanto di essa risulta inesplorabile, trasforma Parigi ai nostri occhi nella città dove esercitare una continua Recherche. Il nostro tempo perduto potrà confondersi con quello di Parigi e farne parte, diventando, come per Proust, la via verso la sua conoscenza,la via per trovare noi stessi.

 Cartoline da Parigi/1 (qui)

 

 

 

MAESTRO JACOPO, DEPENTOR IN SAN CASSIAN

MAESTRO JACOPO, DEPENTOR IN SAN CASSIAN

    LE DUE VITE DI TINTORETTO

Tra Vasari e il Manierismo, l’ascesa di un artista visionario. Uno guardo alle mostre veneziane, mentre dal 24 marzo si è aperta quella di Washington- I ritratti dei vecchi e quella rivincita sul grande Tiziano- L’uso della prospettiva e della luce ne fanno un precursore.

Tintoretto, autoritratto

A 500 anni dalla nascita, Venezia celebra Tintoretto con una coproduzione internazionale che unisce la Fondazione Musei Civici di Venezia (che, nella persona della sua direttrice Gabriella Belli, ha fortemente voluto il progetto) e la National Gallery of Art di Washington. A Venezia, fino al 6 gennaio, due le mostre portanti: a Palazzo Ducale con «Tintoretto 1519-1594» e alle Gallerie dell’accademia con «Il giovane Tintoretto». A Washington invece un’ampia retrospettiva sarà presentata nella primavera del 2019 alla National Gallery of Art. A curare la mostra di Palazzo Ducale così come quella di Washington (cataloghi Marsilio), sono gli studiosi americani, Robert Echols e Frederick Ilchman; la mostra alle Gallerie dell’accademia è curata da Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani (catalogo Marsilio Electa). Collegata alla mostra del Palazzo dei Dogi è l’iniziativa di Palazzo Mocenigo «La Venezia di Tintoretto». Orari e biglietti: www.visitmuve.it

Jacopo Robusti detto il Tintoretto nasce nel 1519. Un anno prima della morte di Raffaello. Primo indizio importante per addentrarsi in questo mondo fatto di pennellate intense e atmosfere che sembrano un preludio del romanticismo: nella sua lunga carriera l’artista assorbirà e reinterpreterà la grande rivoluzione di Michelangelo e del Sanzio come un dato di fatto, come una cosa naturale, senza subirne gli effetti al pari di uno choc.

Cosa che, invece, era accaduta a Tiziano, l’«imperatore» della pittura veneziana dell’epoca, di trent’anni più vecchio. Se dovessimo fare un paragone, potremmo immaginare un giovane artista «nativo digitale» che nelle sue opere utilizza con disinvoltura video o file musicali, a confronto con uno più anziano, che invece si è dovuto abituare alle nuove tecnologie.

Casa del Tintoretto in rio della Sensa a Venezia

La mostra alle Gallerie dell’accademia documenta gli inizi di Tintoretto ma soprattutto illustra il tessuto culturale nel quale si è formato, le influenze che ha assorbito per arrivare a concepire il suo capolavoro, l’opera che chiude la rassegna, Il miracolo dello schiavo, realizzato nel 1548 per Sala Capitolare nella Scuola Grande di San Marco.

Un dipinto che sa davvero di prodigio: la figura scorciata di San Marco che irrompe in verticale dentro la scena, come l’invenzione di un grande regista; la forma allungata dello schiavo, scorciata in lungo, come se dovesse fare da eco al santo che sta arrivando in soccorso; e poi i gruppi degli astanti disposti secondo un disordine quasi magico, mai visto prima.

Washington celebra il genio di Jacopo Tintoretto con una serie di grandi eventi legati all’artista veneziano a seguito degli eventi dedicati all’artista nel 2018 nel capoluogo veneto. La National Gallery of Arts, una delle massime istituzioni museali degli Stati Uniti che vanta un rapporto di collaborazione unico con le maggiori istituzioni italiane, presenterà alla stampa americana e italiana tre mostre su Jacopo Tintoretto (1518/1519–1594), organizzate nel cinquecentesimo anniversario della nascita ed aperte al pubblico a partire dal 24 marzo. La prima, “Tintoretto: artist of Renaissance Venice”, in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e le Gallerie dell’Accademia di Venezia, è la prima retrospettiva dell’artista in Nord America e ospiterà circa 50 dipinti e più di una dozzina di opere su carta, inclusi molti importanti prestiti internazionali che viaggiano per la prima volta negli Stati Uniti. Ad essa si affiancano due mostre intitolate, “Drawing in Tintoretto’s Venice” in arrivo dalla Morgan Library & Museum di New York e “Venetian Prints in the Time of Tintoretto”.

L’impressione che fece sui veneziani fu probabilmente simile, nella portata, a quella che aveva fatto, nel 1516, l’assunta di Tiziano, una delle composizioni più originali della pittura dell’epoca. Ma come aveva fatto un ragazzo di bottega come Tintoretto ad arrivare a concepire un’invenzione così forte?

Certo, aveva assorbito con naturalezza i nuovi linguaggi che venivano da Roma e che si diramavano, poco alla volta, nelle città del centro nord (come Mantova). Certo, frequentava coetanei talentuosi come Bassano o vecchie star come Sansovino. Però c’è un aspetto che i curatori mettono in evidenza e che innesca un racconto suggestivo: proprio perché «schiacciato» da Tiziano, come molti altri giovani dell’epoca, Tintoretto non sceglie di copiare questa figura così ingombrante ma fa un dribbling e guarda al grande rivale del Vecellio negli anni Trenta, cioè al Pordenone.

Uno che si ispirava a Michelangelo e che aveva, a suo modo, interpretato il manierismo del centro Italia. Così Tintoretto può inserirsi in quella linea originale e coraggiosa che sfidava il «tizianesimo», poteva insomma contrapporsi alla corrente dominante e trovare una originalità attraverso una «maniera» tutta nuova. Teatralità, gusto per il magniloquente ma mai eccessivo, una certa inclinazione agli «effetti speciali». Si arriva così al Miracolo dello Schiavo: scegliendo una via traversa che passa per le linee michelangiolesche del Vasari, per la pittura coraggiosa e quasi rapita del dalmata Schiavone, per i toni fiabeschi di Francesco Salviati.

Quando Il miracolo dello schiavo venne svelato, non tutto andò benissimo: una parte della committenza ebbe da ridire, tanto che Tintoretto si arrabbiò moltissimo e minacciò di riprendersi l’opera. Però qualcosa si era sbloccato e Robusti poteva finalmente far parlare di sé non solo e non più come un «pittore veneziano» ma come un artista dalle grandi ambizioni.

Ebbe quindi numerose commissioni, compresi alcuni incarichi delicati come un dipinto storico per la Sala del Maggior Consiglio nel Palazzo Ducale. Ma la vendetta di Tiziano stava arrivando. E non da sola: presto giungerà in città un rivale molto più temibile, Paolo Veronese. Nuovo, coraggioso, bene introdotto negli ambienti. Ma questa è la maturità di Tintoretto, dunque, un’altra storia. Che si srotola a Palazzo Ducale.

Cinquanta dipinti e venti disegni sintetizzano a Palazzo Ducale la produzione della maturità che passa attraverso la ritrattistica, tappa fondamentale dell’attività di Tintoretto. Se infatti Tiziano immortalò l’establishment internazionale, il talentuoso figlio del tintore ritagliò per sé il ruolo di pittore ufficiale della gerontocrazia veneziana.

E c’è un motivo preciso: a partire dagli anni Cinquanta Tintoretto subentrò a Tiziano nell’incarico di ritrattista dei dogi, tutti uomini che conquistavano la carica nella maturità. Ma mentre il pittore di corte degli Asburgo si manteneva fedele alle convenzioni che imponevano di conferire al modello una dignità aulica, enfatizzata da abiti lussuosi, gioielli, tendaggi, Tintoretto lavorava invece per sottrazione, finendo per togliere anche la minima ombra retorica e ogni riempitivo dell’immagine. Concentrava la luce su viso e mani e da lì traeva tutti gli elementi realistici che gli servivano a svelare l’anima dei suoi modelli.

Non si limitava a guardarli con oggettività, ma li metteva in posa con lo sguardo direttamente rivolto al riguardante producendo così una scossa emotiva, un rapporto diretto e coinvolgente. Ma per conquistare il ruolo di pittore di Stato, Tintoretto non si era semplicemente affidato al talento.

Come suo costume, aveva studiato una strategia. Ambizioso, venuto dal nulla, senza maestri né appoggi, ma molto determinato a sfondare nell’iper competitivo ambiente artistico veneziano, si era fatto notare esponendo alla Merceria — vetrina per i giovani — due ritratti: il proprio e quello di suo fratello «finti di notte, con si terribile maniera, che fece stupire ognun’uno», racconta il biografo Claudio Ridolfi. Quel quadro non doveva essere dissimile dall’autoritratto che apre la mostra di Palazzo Ducale, arrivato dal Philadelphia Museum of Art: gli stessi occhi «di brace», arroganti e affamati di gloria e di soldi con cui si presenterà anche il giovane Caravaggio. La tattica di conquista del mercato resterà identica per tutta la vita: attuare una spietata «concorrenza cinese» consistente nell’abbassare i prezzi e «tirar via di pratica», come disse Vasari che disapprovava la sua velocità. Tintoretto si mise a offrire ritratti di piccole dimensioni, limitati alla testa e alle spalle, eseguiti rapidamente e a costo ridotto e il successo fu facile. Approfittando delle assenze di Tiziano, nel 1551 il figlio del tintore risultava già pittore di Stato e tutta l’élite politica e intellettuale sedeva davanti al suo cavalletto.

Tranne le donne. Tintoretto ne dipingerà poche e non riuscirà mai a rubare al rivale La vecchiaia Jacopo Tintoretto, Autoritratto, 1588 ca, Parigi, Musée du Louvre, in mostra a Palazzo Ducale l’impareggiabile dono di restituirne la sensualità. I vecchi, al contrario, furono il suo cavallo di battaglia. Negli anni ‘70 e ‘80 i ritratti dei venerandi che conquistavano le più alte cariche della Serenissima costituirono la parte preponderante della sua produzione: una parata di dogi, magistrati, vecchi combattenti, restituiti senza alcun intento idealizzante, ma anzi con il volto affaticato dall’esperienza e dal peso delle responsabilità.

Non eroi; non potenti ambiziosi; ma uomini provati, intenti a contemplare, con gli occhi cerchiati di nero, le palpebre gonfie e le guance scavate, la melanconia della vicenda umana. Una carrellata di anziani in cui Tintoretto infilò i soggetti. Una parata di dogi o magistrati restituiti con il volto affaticato dalla lunga esperienza. Non faceva le vedute ma colse il carattere della sua città nei volti dei suoi abitanti anche se stesso, nel magnifico autoritratto che chiude la mostra, arrivato dal Louvre.

A fine percorso ci troviamo così di nuovo faccia a faccia con le sembianze dell’artista, ma il giovanile sguardo di sfida è diventato di un’intensità emotiva così intima che ora sembra cercare la confessione. A settant’anni, ricco di gloria, Tintoretto è triste. Nessun dettaglio allude alla sua attività di pittore. Quell’estremo autoritratto appare come un legato tragico della propria esperienza di vita e arte: sic transit gloria mundi.

Il racconto Tintoretto dipinge Venezia perché prende il contenuto, non il contenitore. La città viva, non la città vuota, da cartolina. Tintoretto, più di tutto, dipinge i veneziani, l’energia e l’astuzia di quella potenza. Fa ritratti, più di un centinaio con la sua bottega; passano da lui i dogi e i patrizi di secondo piano, i membri delle Scuole e i mercanti. Ma poi ruba i loro piedi, le loro barbe, i loro seni, anche per fare i santi, i personaggi della mitologia antica, le figure di contorno. Prende i volti, la furbizia e la gloria. Prende i vecchi e i giovani. I vestiti, la ricchezza, i tappeti e gli specchi, i pizzi e le gorgiere. Non è sua, la rivoluzione del Rinascimento, della verità dei tratti, ma lui la amplifica. La porta verso il destino, attraverso la luce. Per questo, Venezia non è solo negli uomini, negli interni. Venezia c’è nelle grandi scene, perché c’è il suo cielo, ci sono le nubi scure come coperchi di rame, i colori, e l’impeto con cui cambiano.

Articolo di Roberta Scorranese ( rscorranese@corriere.it)

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